Piero Tevini, Gioco, collage e acrilico, 2012
Giorgio Linguaglossa
Dalla linea elegiaca alla poetry kitchen
Riprendo una poesia tratta dall’ultimo libro di Franco Fortini (1917-1994), Composita solvantur (1994). La prendo in esame perché trattasi di una elegia, una poesia, come si dice, testamentaria, di addio al mondo e alla vita. Come sappiamo da Contini la «linea elegiaca» è stata quella dominante nel novecento italiano ed europeo, di contro alla «linea innica» minoritaria in Italia e in Europa. Prendo in esame Fortini perché si tratta dell’ultimo poeta intellettuale, dopo il 1994, anno della sua morte, in Italia appariranno poeti non intellettuali, cioè che non facevano della ricerca intellettuale una questione primaria.
I poeti che verranno dopo non si porranno più il problema di fare una poesia non-elegiaca, saranno tutti, chi più chi meno, affiliati alla poesia post-elegiaca senza mai prendere atto della chiusura storica della «linea elegiaca» decretata non da noi ma dallo sviluppo del corso storico.
La nuova ontologia estetica, la poetry kitchen quale sua ultima diramazione invece ne prende atto. E non si tratta soltanto di un «cambio di passo» ma di un cambio di paradigma, del concetto stesso di «discorso poetico» che fuoriesce totalmente dal discorso poetico elegiaco e post-elegiaco che ha nell’epicentro dell’io la sua condizione d’essere. Nella poetry kitchen non si dà più alcun «io» stabile quale direttore d’orchestra, l’orchestra può suonare liberamente in modo disarticolato e con gli strumenti scordati. Per la poetry kitchen la poiesis non contempla alcuna «verità» (come valeva, in varia misura, per Fortini, Zanzotto, Sanguineti e per Pasolini) prestabilita ma soltanto «verità» provvisorie, desultorie e instabili da non considerarsi in maniera antagonista alla «non-verità». Piuttosto, penserei alla nozione di Evento quale momento dirimente e caratterizzante della poetry kitchen.
Cito da treccani:
Franco Fortini da Composita solvantur (1994)
Se volessi un’altra volta…
Se volessi un’altra volta queste minime parole
sulla carta allineare (sulla carta che non duole)
dolore che le ossa già comportano
si farebbe troppo acuto, troppo simile all’acuto
degli uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto
sull’altissima magnolia si contendono.
Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso
che non dica in nota acuta: “Più non posso”.
Grande fosforo imperiale, fanne cenere.
Commento di Gigi Cavalli
In questi versi di Composita solvantur (1994), l’ultimo testo lirico di Fortini, dedicato a una lucida contemplazione del dolore e della morte, risuonano le parole del Libro di Giobbe, di mesta accettazione della sofferenza, lucidamente denunciata (Ecco scrivo, ‘ut scribantur sermones mei’). Le tre terzine, di due doppi ottonari e un dodecasillabo sdrucciolo, ne riproducono mimeticamente la gravità oracolare. Cercando di evitare lo stridulo lamento dei passeri all’alba, e riconoscendo tuttavia che il male grida nei tendini e nelle ossa (‘Pelli meae … adhaesit os meum’), la voce s’identifica col mite e rassegnato lamento dantesco Più non posso (Purgatorio, chiusa del canto X). Il verso finale sembra invocare la dissoluzione del mondo (l’’ignis Dei’ che nel testo biblico cade dal cielo per incenerire gli armenti di Giobbe) in un disastro atomico propiziato dalle grandi potenze (Grande fosforo imperiale).
Piero Tevini, Topo di biblioteca, collage e acrilico, 2012
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Appare chiaro e lampante per chiunque che una poetry kitchen sia cosa ben distinta e diversa da una poesia elegiaca. All’uopo pubblico qui tre poesie esemplificative.
Gino Rago
Storia di una pallottola n.13
Burt Lancaster nella famosa scena de Il Gattopardo.
Sala degli specchi di Palazzo Rovitti.
Marie Laure Colasson esce da un quadro di Matisse
ed entra nel film Il Gattopardo.
Confessa ad Angelica che ama Tancredi.
«Il Logos è la questione fondamentale»
replica Angelica prima del famoso valzer.
«È colpa del regista, dopo quella scena non fui più la stessa.
I merletti, le sete, i pizzi, il guardinfante,
il bustino stretto alla vita…».
Una comparsa con la camicia rossa da garibaldino
irrompe nella sala.
È geloso di Angelica.
Uno sparo nella sala degli specchi.
La pallottola colpisce il lampadario di Murano,
vaga per il soffitto,
cade un candelabro con tutte le candele,
sfiora un comodino laccato con i fiori appena arrivati da San Remo,
manda in frantumi alcuni specchi,
e si infila in un guanto, in un tiretto rococò del salone da ballo
del Palazzo del Principe di Salina.
Dal balcone del Palazzo cadono reggicalze francesi, portafiori,
una giara, cannoli, frutta candita,
ricotte, cassate, biscotti di marzapane,
una granita di caffè,
e il libro di Filomena Rago, Immagine di una immagine.
Il Principe Fabrizio telefona all’Ufficio Informazioni Riservate.
«Arrestate Tomasi di Lampedusa. È lui l’assassino.
Bisogna fermare la storia,
altrimenti Antonioni ne farà un film
e lo scrittore ci scriverà un romanzo.
Se vogliamo che tutto rimanga com’è,
bisogna che tutto cambi».
Piero Tevini, Salotto buono, collage e acrilico, 2012
Piero Tevini, L’attore è un cane, collage e acrilico, 2012
Piero Tevini, Perle ai porci, collage e acrilico, 2012
Piero Tevini, Conversazione improbabile, collage e acrilico, 2012
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Inedito da HORCRUX
di Mario M. Gabriele
La sera del delivery
Miriam indossava foulard & pochette in seta.
Notte, profondo tunnel, nuovo buio
dopo le avances di luce nel quartiere
dove Banks aveva lasciato un viso afroamericano.
Di ritorno da Borgomanero
Kelly chiese una tazzina di caffè caldo
per stanare il freddo dalla gola.
Uno spaccato, tra prosa e poesia, mise in allarme
Il dottor Faust con le cronache borghesi.
Fuori dal trekking ci aspettava la storia
di Willy Monteiro Duarte.
Le luci brillavano nel borgo antico
dove i rischi per i topi erano all’apice della rappresaglia.
La stagione portò il battesimo alle Melinde
senza danneggiare i melograni.
Con lo slow dating abbiamo parlato con Clara,
la Signorina McClein,
fatto il giro del mondo
chiedendo alla ragazza del Boogie Woogie:
Will you be my Valentine?
C’era nella prima pagina di Vogue
quello che tutti chiamano Love.
Altrove, palline di coronavirus
sembravano aghi di Pop Art.
Avere coffee table è un momento di relax
quando capita di restare a casa
a guardare le opere di Giacomo Moor.
Il website raggiunge 10,000 click
tutte le volte che Clara scrive: Mio caro Nihil,
oggi ti sposo!
Mauro Pierno
Tutta colpa dei piedi e dei ridicoli resoconti,
nevvero.
Deposte poi tutti bottoni in un armadio
si tentò di scucirne un piccolo lembo. Esclamò,
“ma l’abito insomma?”…
Gli risposero da un camerino spoglio,
da un teatro abbandonato,
da un sottoscala senza titolo, con gli stessi versi di una cantante lirica:
abbasso, abbasso le pantofole!
L’Anello di Orvoloson Gaunt Horcrux (che contiene la pietra della resurrezione) è un oggetto magico appartenuto alla Famiglia Gaunt, discendenti di Salazar Serpeverde e di Cadmus Peverell. È un anello d’oro con una pietra incastonata sulla quale è inciso un simbolo che Orvoloson ha sempre pensato fosse lo stemma della Famiglia Peverell, ma che in realtà era il simbolo dei Doni della Morte. L’anello passò attraverso la linea maschile della Famiglia Gaunt, di generazione in generazione, fino a quando non fu rubato a Orfin Gaunt da suo nipote Tom Riddle, mentre quest’ultimo lo accusava dell’omicidio dei Riddle.
Fin qui il titolo. Il resto siamo noi. Siamo Horcrux, abitiamo un mondo magico dominato dal Signor Capitale, il quale non fa nulla per mitigare o sminuire questa verità, «Le roi c’est moi», dice il Capitale, e nessuno che interdica questo malato mentale in manicomio o in obitorio tranne qualche poeta kitchen o qualche critico marxista che ancora pensa che il Capitale abbia un termine. Ed invece Mario Gabriele scopre che il Capitale è kitchen, perché viviamo in un mondo dove il Capitalismo cognitivo1 ci dice che il capitale pensa, è un animale molto intelligente, che ha saputo accalappiare gli esseri umani come coniglietti e adesso li mena gli uni contro gli altri. Mario Gabriele, da buon poeta kitchen, ha scoperto questa verità: Ama il prossimo come te stesso, vuole dire come il capitale, il Nulla, che sta nelle tue tasche e nella tua mente come te stesso. Con le parole di Gabriele: «Mio caro Nihil,/ oggi ti sposo!» (g.l.)
Piero Tevini, Colloquio, acrilico, 12×18, 2012
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1 Si potrebbe dire che non è sufficiente affermare che il capitalismo di oggi è un capitalismo cognitivo, ovvero che valorizza e organizza la conoscenza e le informazioni prodotte dal lavoro di una moltitudine globale ovunque assoggettata ad almeno una catena di montaggio numerica e a un dispositivo digitale (tutti hanno almeno un telefono cellulare). Il capitalismo ha sviluppato forme di intelligenza autonoma e di scala superiore. Si deve dire:
il capitale stesso “pensa”. Un po’ come quando la prospettiva moderna di Leon Battista Alberti nacque portando a Firenze le tecniche di proiezione ottica e astrazione geometrica dei matematici di Baghdad, raddrizzando molti quadri sghembi, aggiungendo una dimensione di profondità all’estetica e aprendo dunque una visione nuova delle spazio collettivo e politico, così sarebbe oggi salutare importare una visione aliena nella filosofia politica (e in particolare nella cosiddetta Italian Theory), per potere vedere i network globali e l’orizzonte tecnologico globale con la profondità e la proiezione di un nuovo paradigma, che faccia emergere e dischiuda uno spazio collettivo e politico più complesso. Si dà oggi un salto di qualità, un passaggio di paradigma, una breccia epistemica che dovrebbe essere riconosciuta da qualunque forma di pensiero. Urge un Machiavelli del nomos tecnologico globale.
Il trontiano punto di vista “di parte” ha bisogno di un nuovo paio di occhiali per osservare la nuova profondità del “tutto” macchinico.
(Matteo Pasquinelli)
1 Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune.
https://www.academia.edu/7953140/Gli_algoritmi_del_capitale_Accelerazionismo_macchine_della_conoscenza_e_autonomia_del_comune?email_work_card=title
Non posso fare a meno di postarlo. Una bella scoperta.
Piero Fornai Tevini
Poetry kitchen è andare per funghi per imbattersi in
asparagi e castagni, la storia, la storia del capitale intellettuale.
Grazie OMBRA.
di Germano Celant
L’arte contemporanea in questo momento chiede di essere lasciata in pace, non vuole essere ridotta a parole o a letture critiche, non vuole intervenire o offrire una lettura del mondo, non si pone in chiave moralistica, non accetta di essere addomesticata secondo una visione univoca e unisensa, rifiuta le incrostazioni interpretative, solo preoccupata di verificare nuovamente la sua intenzionalità eco-bio-logica, e si offre solo nella sua naturalità magico-mentale. Commentarla significa modificarla, offrirla in chiave deformata e deformante, compiere un servizio repressivo e reazionario, che ne muta l’uso e la funzione. Che tipo di teoria o critica d’arte si può allora tentare oggi? Quali possono risultare gli strumenti di cui la critica d’arte contemporanea può servirsi senza compiere una violenza linguistica, per intervenire come complice, nel divenire del lavoro artistico contemporaneo? Esiste una possibilità di una critica acritica?
Su queste domande si stanno formulando diverse soluzioni critiche che però partono dal comune presupposto di un tentativo non più a giudicare o a criticare l’opera d’arte, ma a viverla od esperirla, a conservarla o raccoglierla. La ricerca critica sembra ora interessata a precisare, non tanto il suo potere giudicante, che la rende una «critica pettegola», quanto le sue possibilità in rapporto dialettico con il lavoro artistico, attraverso tutti gli strumenti in suo possesso.
La critica non vuole più offrire ricette rassicuranti, con cui levigare gradatamente le punte estreme dei movimenti contemporanei, non è tesa a compilare ricette «digestive» per il grande pubblico impreparato ed ignorante i fatti artistici, vuole piuttosto esporsi come azione storica o come evento, in divenire con il lavoro artistico.
Il critico, come l’artista, non sembra credere più nel moralismo del suo oggetto, sia esso fonico o scritto, ma credere nell’estrema moralità del proprio fare ed agire, giunge spesso ad annullarsi nel fattuale, per abilitare e sensibilizzare la ricettività dell’individuo (sia esso uno o cento non importa), concede sempre meno alla spiegazione e all’attenzione critica, si dimostra sprezzante per la marea di «cronachisti» d’arte, prezzolati da gallerie o giornali o strumenti di informazione, e tende a far parlare il suo lavoro così come si offre, come azione conservativo-storica dei documenti e come evento. Il lavoro critico acquista così una diversa dimensione operativa, più che giudicare o stabilire, stendere pettegolezzi o giudizi, diventa complice, si istituisce come vita parallela ed autonoma non artistica, rispetto alla produzione in arte.*
* https://www.quodlibet.it/letture/germano-celant-per-una-critica-acritica
Sul Kitsch
cari interlocutori,
mi è stato detto che la poetry kitchen assomiglia pericolosamente al kitsch perché ne riproduce gli stilemi e ne ricerca gli effetti.
Ebbene, rispondo di sì.
Se osservata con le tradizionali categorie del sublime, del bello, del buono, del brutto, dell’armonico, del dis-armonico etc., lo ammetto, la poetry kitchen si presenta come Kitsch, irrimediabilmente Kitsch. Ma, se capovolgiamo il punto di vista, se osserviamo la poetry kitchen dal punto di vista del fuori-sublime, del fuori-bello, del fuori-buono, del fuori-brutto del fuori-armonia, del fuori-dis-armonico etc., ecco che la poiesis kitchen ci appare come un nuovo modo del manifestarsi della poiesis. Ne viene fuori che il Kitsch è un’evidenza programmatica, programmata, una evidenza del derisorio e della decostruzione, e della decostruzione di ciò che è già passato al vaglio della decostruzione. Qui sta la sua forza dirompente. Il Kitsch è un ibrido plastificato di Hegel e Umberto Eco, è ciò che il postmoderno lascia in eredità alle generazioni a venire: un Moloch, una Torre di Babele che ha invaso i supermarket delle società post-democratiche ad indicizzazione di falso e similoro. Anche il concetto di «catastrofe» sembra esser stata attecchito da questo Ibrido, metà Avatar e metà Cyborg, indistruttibile e icorruttibile, essendo la vita quotidiana attecchita dalla rimozione della felicità, essa è già in sé catastrofica.
Da rivalutare e riconsiderare sono i concetti di «falso autentico» e, addirittura, di «falso inautentico» che vengono acquistando la priorità rispetto al concetto tradizionale di «originale autentico» legato ad una concezione di poiesis che aspira al pathos dell’autenticità dell’io lirico e dell’io pensante.
Non più quindi il Kitsch come evidenza problematica, ma come evidenza programmatica, evidenza della catastrofe annunciata.
La nozione di Kitsch che nasce con l’ascesa della borghesia come classe dominante, nel postmoderno segna la dissoluzione della medesima come classe egemone e diventa un concetto liquido, anzi, gassoso perché avvolge proprio come un gas l’ecosistema delle civiltà delle società signorili di massa, cioè a democrazia illimitata. Il Kitsch diventa così illimitato e la sua forza esplode, o implode, il che fa lo stesso, diventando il concetto centrale dell’estetica dei nostri giorni.
Sul Bello
Il Bello, concetto contraffatto e ingenuo, presuppone sempre la borsa della spesa, la sporta piena di delizie dolciarie da supermarket. Dà l’illusione del piacere dell’immediatezza, del piacere del palato. E invece è il piacere dell’immondizia. Il momento del piacere nella fruizione di un’opera d’arte, non può essere intuitivo né immediato se non nella forma rozza del realismo ingenuo, che ingenuo non è affatto perché sottoposto alla mimica e alla mimesi del «reale». Il problema si ripresenta sempre allo stesso modo. E risponde alla eterna domanda: Quest’arte è realistica? È rispondente ai criteri di ciò che intendiamo per realismo?
Il fatto è che nell’epoca del crescente impoverimento dello spirito oggettivo, di fronte al factum brutum dell’obiettività sociale, l’arte è costretta a dichiarare bancarotta e a recedere a ironizzazione dello stile floreale, a parodia dello stile.
*
«La nozione di Kitsch, nata con l’ascesa della cultura borghese e con l’ausilio dei media di massa, sembra aver perduto molta della sua ragion d’essere.
Il panorama, rispetto a quello studiato dai suoi grandi teorici (Broch e Benjamin, Greenberg e Dorfles, Moles e Eco, Sontag e Baudrillard, e tanti altri qui raccolti nel volume attraverso i loro saggi sul tema), è oggi assai diverso. Le arti e gli artisti sembrano sempre meno interessati alla fattura tecnica delle opere e all’eventuale piacere del pubblico. Si occupano piuttosto, in un mercato impazzito, e con una frequente ricerca della provocazione, di questioni etico-politiche e sociali: ricchezze mal distribuite, clima e ambiente, emigrazione, industria planetaria del cibo, diritti degli animali e così via. In tal modo la questione del gusto (e del cattivo gusto) s’è spostata dall’estetica filosofica all’analisi sociologica. Riaggregando i due sensi storicamente separati del termine (alimentare ed estetico), il gusto è divenuto, da Pierre Bourdieu in avanti, un segnalatore sociale e, di conseguenza, un settore strategico del marketing. Il gusto produce piccole comunità di consumatori che comprano gli stessi brand. Sia esso gusto per la musica o per la gastronomia, per il cinema e per il vino. A sua volta, la cultura di massa sembra essersi dissolta insieme alla centralità che, in essa, avevano i media per tutti: stampa, radio, cinema e tivù indietreggiano rispetto alla rete, ai new media, ai social network, contribuendo alla creazione di una società sempre più parcellizzata, targettizzata, priva di riferimenti valoriali, etici ed estetici, politici e antropologici di tipo unitario.»*
di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone
https://www.quodlibet.it/letture/marco-belpoliti-gianfranco-marrone-kitsch
La casa
di Michele De Lucchi
Il problema era sempre quello di riuscire a progettare qualcosa senza farlo sembrare un vero progetto, senza creare soggezione, senza intimorire. I progetti dovevano servire per attrarre e far pensare che progettare è facile, che lo possono fare tutti, che nella realtà tutti lo facciamo continuamente senza accorgercene. Progettare è lanciare l’immaginazione oltre, al di là di quello che abbiamo davanti.
Mi era venuta in mente l’idea di una casa che potesse essere trasportata in giro, senza radici e senza fondazioni. Una casa per una persona con tanti amici per portarla in giro. Non ha importanza perché. Non ha importanza dove. Non ha importanza con chi. È importante che sia una casa con le finestre, il tetto a falde spioventi, le tende (rosse), una sedia, un tavolo, un letto. Una casa simbolica con simboli di arredo, sufficientemente comprensibili, credibili. Non troppo reali.
Chiamiamola “Poetry Kitschen” così sono tutti contenti.
cari lettori,
noi non ci rendiamo conto, che la poesia Kitchen nata nel 2017, grazie alla pubblicazione dei testi sulla Rivista L’Ombra delle parole, e all’aiuto critico e poetico di Giorgio Linguaglossa, se essa è riuscita a porre le basi per fornire ai curatori della prossina Storia Generale della Letteratura Italiana, un carnet di linguaggio poetico nuovo, in sostituzione di tutto il deposito residuale e oggettivo della poesia di fine secolo e del fitto “cartame”. lessicale.
La poesia Kitchen o poesia buffet, non è che un modo legittimo di esporre una ideografia dinamica in sostituzione di ciò che è stato un replay costante degli eventi dopo i poeti dell’Avanguardia e del postmoderno.
Per questo motivo, credo sia utile impegnarci anche con le pubblicazioni se si voglia conferire ai futuri Antologisti, l’occasione per marcare tipograficamente in un volume storico, la nostra esperienza. Con questo augurio, vi saluto cordialmente. MMG.
caro Mario,
ci sono dei fenomeni sociali e culturali che operano a livello molecolare e molare, fenomeni imprevedibili e non concertabili, avvengono a basta. Come sia avvenuto che un indirizzo di ricerca della poesia buffet o poetry kitchen sia accaduto e si sia consolidato nessuno lo può dire, è accaduto e basta. I fenomeni sociali e culturali spesso non hanno una regia, sono il frutto di un numero indeterminato di forze, di contro forze e di spinte indipendenti e autonome. Non ci sono burattinai, ma solo burattini che spingono il teatrino, ognuno a suo modo, con più o meno forza, in una direzione o nell’altra, spesso a dispetto delle proprie intenzioni consapevoli. Forse, non è nemmeno un caso che la poesia buffet si sia affermata durante la pandemia. Forse tra i due fenomeni c’è una connessione. Quando l’epidemia sarà finita, ci sarà sicuramente un ritorno festoso alla socialità che nessun governo democratico si sognerà di proibire, i caffè saranno di nuovo popolati, i ristoranti anche, e così le discoteche… può anche darsi che allora la poesia buffet si esaurirà, perderà la sua spinta propulsiva ma è certo che tornare indietro non si può più, io ad esempio sono letteralmente incapace di scrivere la poesia elegiaca che si scrive oggi, e come critico sono letteralmente incapace di commentare una poesia tradizionale. È che sono cambiato e anche la mia poesia è cambiata. Penso semplicemente che chi avrà praticato per un po’ la poetry kitchen sarà incapace a tornare indietro, c’è in essa una forza che guida le cose…
da Le galline pensierose, Quodlibet, 2014
di Luigi Malerba
1.
Quando vennero a sapere che la terra è rotonda come una palla e gira velocissima nello spazio, le galline incominciarono a preoccuparsi e furono prese da forti capogiri. Andavano per i prati barcollando come se fossero ubriache e si tenevano in piedi reggendosi l’una all’altra. La più furba propose di andare a cercare un posto più tranquillo e possibilmente quadrato.
7.
Una gallina cercava di insegnare il teorema di Pitagora alle sue compagne, ma incontrava gravi difficoltà. Un giorno finalmente si mise al centro del pollaio e lo spiegò con parole nuove: «La gallina disegnata sulla ipotenusa di un triangolo rettangolo equivale alla somma delle galline disegnate sui due cateti». Da quel giorno il teorema di Pitagora entrò a far parte del patrimonio culturale del pollaio.
9.
Una gallina un po’ incerta andava in giro per l’aia brontolando: «Chi sono io? Chi sono io?». Le compagne si preoccuparono perché pensavano che fosse diventata matta, finché un giorno una le rispose: «Una cogliona». La gallina un po’ incerta da quel giorno smise di vaneggiare.
16.
Una gallina sventata che si era allontanata dal pollaio si trovò a tu per tu con un fagiano. Se ne innamorò pazzamente, ma fu un amore infelice perché il fagiano era miope e aveva scambiato la gallina per un coniglio. Sarebbe stato un amore infelice anche se il fagiano si fosse accorto che era una gallina.
17.
Una gallina incendiaria andava in giro con un fiammifero nel becco. «Potrei bruciare tutto», diceva, «e invece non brucio niente perché sono una gallina civile». Messa alle strette dalle altre galline confessò che non incendiava niente perché non era capace di accendere il fiammifero.
26.
Una gallina analfabeta desiderava molto imparare a fare la sua firma. Quando finalmente trovò una gallina che sapeva leggere e scrivere disposta a insegnarle, si batté una zampa sulla fronte ed esclamò: «Non so come mi chiamo!».
38.
Una gallina megalomane aveva deciso di scrivere un trattato. «Su che cosa?», domandarono le compagne. «Su tutto», rispose la gallina megalomane. Le compagne si mostrarono molto scettiche e le fecero notare che tutto era un po’ troppo. La gallina megalomane corresse il suo progetto e disse che avrebbe scritto un trattato su quasi tutto.
42.
Una gallina decadente una sera tardò a rientrare nel pollaio per assistere al tramonto, poi lo raccontò alle sue compagne. Fu in quella occasione che la gallina decadente pronunciò una frase che divenne celebre: «Bello il tramonto!».
53.
Le oche si vantavano con le galline perché le loro antenate avevano salvato Roma dando l’allarme dal Campidoglio quando i galli avevano tentato di entrare dalle mura. Una gallina disse che se al posto delle oche ci fossero state le galline forse li avrebbero fatti entrare e così Roma, conquistata dai galli, sarebbe diventata il più grande pollaio del mondo.
69.
Una gallina letterata annunciò trionfante che aveva scoperto in una storia della letteratura uno scrittore che si chiamava Giacinto Gallina. Il gallo intervenne per dire che non si montassero la testa per così poco.
Scrittori e corpo
di Matteo Marchesini
Dopo la dissoluzione degli ultimi robusti schemi ideologici, anche nella critica letteraria hanno vinto gli approcci tematici più brutali. Mentre i dipartimenti universitari pullulano di corsi su «l’isola nel romanzo del Novecento» o «gli appartamenti nella poesia moderna», l’editore Carocci sforna allegri tomi su animali, bicchieri o mutande «in letteratura». Ma a farla da padrone, in quasi tutti i generi, è un oggetto che non indica più soltanto un tema bensì un feticcio, una magica parola passepartout: il Corpo. Abbiamo filosofie del corpo (vedi Michela Marzano), antologie poetiche sul corpo (vedi Niva Lorenzini), e moltissimi pamphlet sulle membra dei capi politici o delle icone pop. Siamo sommersi da teorie che propongono pretestuosi collage di Bataille e Foucault, Artaud e Deleuze; ma anche da una lirica femminile, anzi femminea, che punta tutto su un miscuglio di spoglia ieraticità e di visceralità autoptica (da Mariangela Gualtieri a Elisa Biagini)…
A me sembra, la critica d’arte così intesa, che faccia un passo indietro rispetto a dove si era avventurata (da sé).
Arretra da posizioni ereditate, quasi a ridosso del “like”… ammette che l’opera sa parlare per conto suo; il che fa supporre che le opere in oggetto siano in grado di potersela cavare, perché semplici da capire, o percepire. ?
caro Lucio,
Germano Celant scrive:
«L’arte contemporanea in questo momento chiede di essere lasciata in pace, non vuole essere ridotta a parole o a letture critiche, non vuole intervenire o offrire una lettura del mondo, non si pone in chiave moralistica, non accetta di essere addomesticata secondo una visione univoca e unisensa, rifiuta le incrostazioni interpretative…».
Il problema non è lasciare l’opera da sola per difetto del supporto critico, la soluzione del problema non è così semplice, o, almeno, non è possibile liquidare il problema in modo così sbrigativo. Cosa è successo in questi uoltimi decenni?
È successo che la tradizionale critica d’arte e letteraria ha perduto la sua tradizionale funzione, perché parlava un linguaggio che era diventato specialistico, ristretto, non più esperibile dal pubblico.
È successo che la critica è diventata critica degli uffici stampa e critica delle gallerie, completamente legata agli interessi del datore di lavoro. Mi chiedo: perché non guardare con onestà e spregiudicatezza in faccia la situazione dell’arte oggi?
Ed è successo che anche gli artisti sono diventati malleabili, si adattano alle esigenze dell’editore e alle esigenze delle gallerie, si accontentano, si arrendono, fanno ciò che viene loro richiesto dai loro datori di lavoro. Altrimenti resti disoccupato, cioè senza pubblico e senza il supporto critico degli uffici stampa del tuo datore di lavoro.
È vero proprio il contrario di quello che asserisce Germano Celant, che un’arte priva del supporto critico, alla fine deperisce, muore. E infatti stiamo assistendo, progressivamente, giorno dopo giorno alla crescita esponenziale dell’arte ammaestrata e della critica ammaestrata. Questo lo dobbiamo dire per amore dell’onestà intellettuale.
Arte ammaestrata, dunque?. Critica ammaestrata, dunque?
Anzi, dirò di più: i migliori e più efferati nemici dell’arte e della critica dell’arte sono proprio gli artisti, i poeti e i narratori i quali richiedono soltanto una critica di accompagnamento alle loro lopere, una critica cerimoniale e cerimoniosa.
E allora, cosa resta da fare all’arte e alla critica, oggi?
Rispondo:
Riterritorializzare frammenti, tracce, orme, lessemi, impulsi, abreazioni, rammemorazioni, idiosincrasie, tic, vissuti, dimenticanze, obblivioni; attaccare post-it e segnalibri, segnali semaforici e somatizzazioni, pixel, trash, pseudo trash, codicilli… questo spetta all’arte, è compito dell’arte senza più voler sondare chissà quali profondità metafisiche; in fin dei conti tutte le tecniche sono parenti strette della Tecnica con la maiuscola che afferisce al Signor Capitale e ai suoi epifenomeni: gli esseri umani, gli acquirenti consumatori di merci. Il Capitale pensa, sa, ma l’arte ne è consapevole e dismette gli abiti di scena, adotta la strategia del camaleonte, si mimetizza tra gli oggetti, vuole essere un oggetto più oggetto di altri, da usare e gettare via; vuole essere un oggetto meno oggetto di altri, vuole essere un conglomerato di orme, di tracce di oggetti scomparsi, luminescenze, rifrazioni di oggetti sprofondati in chissà quale superficie…
Scrive Bernardo De Luca in un articolo su leparoleelecose di due giorni fa:
«…recensendo una plaquette del 1969,[8] Pasolini leggeva le immagini belliche come un tratto della volontà dell’autore di sentirsi in guerra:
Sono gli anni della contestazione del ’68. Ovviamente, questa recensione si inserisce nella nota polemica che divise i due. Ma qui interessa come Pasolini legge le immagini belliche che Fortini utilizza nella sua poesia, anche quando apparentemente queste immagini non riguardano una guerra reale, ma si presentano, secondo Pasolini, come metafore ingenue del presente. Senza dubbio, nelle fasi in cui più chiari si facevano i conflitti sociali, Fortini ricorreva alla metafora bellica per rappresentare, con versi scolpiti e assertivi, la necessità di una decisione. I versi a cui fa riferimento Pasolini fanno parte di componimenti inseriti successivamente in Questo muro. Il primo menzionato apre proprio la sezione iniziale del libro del 1973 (La posizione), e si intitola La linea del fuoco:
Sono due strofe simmetriche di cinque versi brevi; gli elementi sonori sono tutti affidati alla pronuncia percussiva dei versi-frase, di matrice brechtiana.»
[8] F. Fortini, Venticinque poesie 1961-1968, s. e. [1969]
[9] P.P. Pasolini, Le ossessioni di Fortini, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Luade, con un saggio di P. Bellocchio, Milano, Mondadori, pp. 1189-92.
Contenuto del libro, Preconistoria, scheda editoriale del libro di Germano Celant:
Il periodo tra il 1966 e il 1969 è segnato da sintomi di uno sconvolgimento artistico, risultato anticipatorio delle vicende linguistiche che, dopo la Pop Art, hanno dato corpo alla Minimal Art, alla Conceptual Art, alla Land Art, all’Arte povera e alla Body Art. Questa precronistoria, stesa da Germano Celant nel 1972 e pubblicata nel 1976 da Centro Di, Firenze, prende in esame gli avvenimenti collettivi – costituiti principalmente da mostre e da fonti scritte, quali saggi, pubblicazioni e dichiarazioni – che prefigurano questi movimenti, affermatisi anche per l’uso di media tecnologici o non tradizionali, quali fotografia, videotape, disco, libro e film. Il materiale raccolto è di tale importanza storica da spingere l’autore e l’editore a proporne, cinquant’anni dopo, una riproduzione fotografica con un nuovo saggio introduttivo. Il volume risulta fondamentale, ancora oggi, per la conoscenza e per lo studio, critico e teorico, degli avvenimenti artistici di quegli anni.
«Cercare la fonte storica per accedere alla logica di Precronistoria 1966-69 significa immergersi nel clima artistico e teorico da cui è scaturita. Implica affrontare il periodo in cui gli eventi dell’arte internazionale hanno costituito uno strappo linguistico rispetto alle avanguardie storiche, perché si sono affidate ad un processo non rappresentativo, in cui la materia si dona: appare nella sua concretezza e nella sua fisicità senza sottendere un soggetto o una figura.»
Filomena Rago, l’autrice di Immagine di una immagine, Ed. Progetto Cultura, Roma, 2019, ringrazia Giorgio Linguaglossa per l’attenzione che dedica al testo della pallottola n.13 che la nomina e segnala il suo gradimento pieno delle opere di Tevini. Anche a me sono piaciuti i lavori d’arte di tavole e collage di Piero Tevini e condivido
La post@ de Il Mangiaparole n.13
di Gino Rago
Domanda di Tiziana Antonilli
Gentile Redazione, caro Gino Rago,
tra l’autore autoreferenziale e onnipresente e l’autore scomparso si situa, a mio parere, l’autore-testimone: Ungaretti della Grande Guerra, Anna Achmatova della dittatura staliniana, ad esempio.
Cosa sarebbe The Great Gatsby senza Nick Carraway /F.Scott Fitzgerald testimone/autore?
Altra considerazione: quando Salman Rushdie scrisse The Satanic Verses e ricevette una fatwa dai fondamentalisti islamici che considerarono la sua opera blasfema, la scomparsa dell’autore sarebbe risultata paradossale. In altre parole, se si scrive qualcosa che va contro le regole religiose o morali di una società, che l’autore sia presente è segno di resistenza e di lotta in nome della libertà di espressione. Concludo con una domanda alla quale non so dare risposta : oggi, nella realtà liquida di Internet, tra i milioni di testi anonimi di varia natura, a volte anche discutibile, cosa direbbe Barthes catapultato dagli anni sessanta del secolo scorso?
Tiziana Antonilli
Risposta di Gino Rago
Cara Tiziana Antonilli,
io credo che Roland Barthes subito comprenderebbe che siamo in emergenza e che solo in emergenza, come abbiamo scritto a più riprese con Giorgio Linguaglossa, poteva nascere una poesia dell’emergenza. La quale però non è la poesia della guerra o la poesia delle grandi catastrofi naturali, ma è per noi la poetry kitchen, poesia della cucina.
E perché la cucina? Perché nella cucina si avverano i più grandi prodigi per il palato, è vero, ma anche per l’economia, per le finanze, per la cultura. Ovvero, la cucina mette assieme ogni volta ingredienti diversi e ogni volta riesce ad amalgamarli. Magari le operazioni sociali e politiche riuscissero a fare quello che fa la cucina.
Certo, la cucina non è la scienza galileiana che tende a ripetere l’esperimento con gli stessi elementi per ottenere sempre lo stesso risultato. La poesia dell’emergenza diventa in questo senso cucina, ovvero, riesce a cucinare la varietà e la diversità degli ingredienti. È il reale che ci spinge in questa direzione.
Lo spiega così Giorgio Linguaglossa: «La nostra poesia, la poetry kitchen, è un genere di poiesis che può sorgere e proliferare soltanto in concomitanza con una emergenza, infatti essa emerge in contemporanea con la Sars Cov2 o Covid19, quando il mondo sembra saltato come da un fungo atomico, il nuovo reale emerge dall’oscurità del precedente reale e pone nuovi problemi filosofici, politici, etici, estetici e poietici».
Ne deriva che è il reale che preme, emerge, viene alla ribalta e decide del tramonto della vecchia metafisica e della vecchia patria linguistica delle parole. È il reale che decide della decadenza di interi generi letterari tradizionali, compreso il genere della antologia. È il reale che ha derubricato la tradizionale critica letteraria in pour parler, è il reale che ci spinge alla ricerca di nuovi strumenti e metodi di fronte allo strapotere dell’industria dell’intrattenimento culturale.
Decostruzionismo, critica reader oriented, teoria della ricezione, neoermeneutica, new historicism, cultural studies, hanno indirettamente posto in evidenza un problema divenuto palese: quello della perdita di funzione della tradizionale critica letteraria di detenere l’esclusiva nel giudicare e promuovere le nuove opere, giudicate e promosse, piuttosto, dal mercato e dalle Istituzioni deputate.
Per le altre questioni sul rapporto testo-autore segnalo ciò che Michel Foucault scrisse in risposta a Roland Barthes in Che cos’è un autore?
( Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1984).
(Gino Rago)