Quando si sale su un podio, qualsiasi podio, la Musa fugge a gambe levate. Questo principio lo vorrei scolpito nel marmo.
Ormai per fare poesia ci dobbiamo rivolgere al rigattiere, al robivecchi e, possibilmente, alle discariche abusive che spuntano come funghi dal territorio disastrato di questo paese. Penso che dobbiamo falcidiare tutti i cippi, funerari o meno, tutti i podi, tutte le stele e le colonne di marmo, la poesia la dobbiamo fare con gli stracci sporchi, togliere tutte le superfetazioni, tutte le lucidature, tutti i detersivi… «Ciò che rimane lo fondano i poeti» diceva Hölderlin, appunto, prendiamolo in parola: ciò che rimane dalle discariche delle parole è poesia…
La poesia la trovi nelle discariche delle parole, nelle parole abbandonate perché non più utili, che non servono più a niente… tutto il resto, quello che si legge oggidì, sono superfetazioni letterarie… la Musa la trovi tra il rancido delle discariche piuttosto che nei salotti del dolore manifesto…
La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive, nella terra dei fuochi, negli incendi di parole appiccati dai piromani e dagli imbroglioni di parole, dagli imbonitori di parole…
(g.l.)
Giuseppe Gallo
17 novembre 2018 alle 14:11
Caro Giorgio Linguaglossa, generalmente non sono solito dilungarmi in questi interventi. Questa volta sarò meno laconico.
La notte del 28 giugno 1938 Benjamin fece un sogno che in seguito così descrisse: «Mi trovavo in un labirinto di scale. Questo labirinto non era coperto dappertutto. Salivo; altre scale conducevano giù nella profondità. Su un pianerottolo mi accorsi che ero arrivato su una vetta. Mi si aprì un’ampia vista su tutto il paesaggio. Vidi altri ritti su altre vette. Uno di loro fu preso improvvisamente dalla vertigine e precipitò. Questa vertigine di estese; altri precipitarono da altre vette nell’abisso. Quando fui afferrato anch’io da questa sensazione, mi svegliai». ( W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione; Einaudi, To. 1973, pg. 227) Un’altra volta scrisse che “Il labirinto è la via giusta per chi arriverà, in ogni caso, sempre troppo presto alla meta.”
Sanguineti parlando dell’avanguardia, in un saggio del 1963, affermava: «per tutto l’arco romantico e borghese, tutta la verità occulta dell’arte sta nell’avanguardia, che ne confessa indiscretamente il meccanismo nascosto, e in cui, finalmente, tutto il movimento della cultura romantica e borghese precipita come forma logica».
Tra il sogno di Benjamin e questo giudizio di Sanguineti sull’avanguardia c’è più di un legame. Tra questi due elementi vedo una relazione profonda e implicazioni ragguardevoli.
Le caratteristiche oniriche assumono in Sanguineti un carattere logico-operativo che supera le forme espressive, ma lascia inalterata la “struttura mitica” di riferimento. L’avanguardia di Sanguineti altro non è che quel “labirinto di scale” presente nel sogno di Benjamin; la “verità occulta” di cui è portavoce ogni avanguardia non è altro che la “vetta” da cui si precipita nella voragine.
Oggi, a distanza di anni, dici bene Caro Giorgio, ” …io ho questo vantaggio, di essere testimone di una decadenza che soltanto chi vive a Roma e ha un po’ di corti circuiti mentali se ne può accorgere…”. E in questa decadenza mettiamoci tante altre cose: la letteratura, l’arte, la civiltà dei costumi, la civiltà politica, il ruolo degli intellettuali, e via di seguito. Che dobbiamo fare? Dobbiamo tentare di svegliarci e liberarci dall’enigma del labirinto? Lo fanno tutti. Lo fanno in tanti. Si risvegliano, si programmano, si ristrutturano e l’esistenza continua. Il nostro destino è, invece un altro! Noi non possiamo far altro che precipitare, cadere dalle vette e spiaccicarci nel nulla e nell’insignificanza. Ma questo nulla deve considerarsi anche autodistruzione? No! Io, personalmente, di fronte al labirinto ho sempre brividi di paura, sono portato all’esitazione, a un moto spirituale che mi crea tensione, ma so anche che il labirinto è un luogo in cui si giunge per perdersi, per denudarsi e per svelare se stessi. Quando Sanguineti incontrò il Laborintus era appena ventunenne. Eppure l’affrontò con il disegno di semplificare i percorsi tortuosi, di ridurre ed estirparne la “complicazione”, di risolvere l’inganno e il mistero in un “chiaro globo”, in una “estensione chiara”, in “chiaro odore di funghi”. I vuoti e i pieni, le vette e le voragini, con la loro presenza-assenza, materializzata da un linguaggio “sperimentale” mai sperimentato prima, intrecciano intorno al suo giovanissimo fantasma poetico un altro universo di tensioni e tranelli, di ambiguità e ambivalenze. Così a nuove domande si affiancano nuove risposte:
“…: o tutti ( a mia moglie) non preparano ( dissi) i BUONI
CITTADINI? (e noi prepariamo, noi, i rivoluzionari…);
Ecco l’ingenuità… storica! Il mondo cambiava radicalmente. Giorno per giorno. Dalla sera alla mattina. Tutto precipitava. Tutto tracimava. Non c’era più distinzione fra il “piangere” e il “ridere”, tra la morte e la vita, tra la delusione e l’illusione, tra la speranza e la disperazione:
“piangi piangi, che ti compero una lunga spada blu di plastica, un frigorifero
Bosch in miniatura, un salvadanaio di terra cotta, un quaderno
con tredici righe, un’azione della Montecatini:
piangi piangi, che ti compero
una piccola maschera antigas, un flacone di sciroppo ricostituente,
un robot…”
È poco tutto questo per un poeta al suo primo impatto con il sistema? A me non sembra. Dopo Laborintus Sanguineti è finito come poeta? Potrebbe anche darsi.
Ma se oggi noi possiamo citare tranquillamente Barthes, Foucault, De Saussure, Lacan, Derrida, Lévi-Strauss e così via, lo dobbiamo all’impatto che lo sperimentalismo avanguardistico di Sanguineti ha provocato nel piattissimo panorama culturale italiano del periodo. Ma come ogni operazione culturale, borghese, perché non c’è altra cultura se non quella cosiddetta borghese, ha svecchiato… il mondo non si fa trasformare dai rivoluzionari di professione, figurarsi dagli intellettuali!
Diceva Zanzotto che la parola poetica è la “figura che rimane sui muri dopo la deflagrazione atomica”. Sono d’accordo, e quindi sono anche d’accordo con ciò che affermate contemporaneamente sia tu che Gino Rago rispetto alla poetica della Noe e in duplice direzione; sia rispetto al fatto che
«La poesia la trovi nelle discariche delle parole, nelle parole abbandonate perché non più utili, che non servono più a niente… tutto il resto, quello che si legge oggidì, sono superfetazioni letterarie… la Musa la trovi tra il rancido delle discariche piuttosto che nei salotti del dolore manifesto…
La «patria metafisica delle parole» la trovi nelle discariche abusive, nella terra dei fuochi, negli incendi di parole appiccati dai piromani e dagli imbroglioni di parole, dagli imbonitori di parole…».
sia sul fatto che – riassumo – l’io, la coscienza, la pura e semplice soggettività non abbiano più alcuna possibilità di ordinare la realtà e di sovraintendere alla legislazione del mondo.
Allora? C’è un problema? E quale sarebbe?
Credo che sia sempre lo stesso.
Ogni Avanguardia è un tentativo. È un’esperienza. E quella della Noe ha la sua ragion d’essere, come la possedeva il Gruppo ’63, tanto per rimanere nello stesso paesaggio. Tanto più oggi, quando la poesia è determinata dal mercato delle maggiori case editoriali. Ogni istanza innovativa obbedisce all’esigenza di “rintracciare un modello” per sviluppare percorsi alternativi, per rintracciare autori esemplari che ci sorreggano durante il viaggio. E questo è un bene. A ciò ci spinge quella vis poetica che vive dentro ognuno di noi. La forma-poesia persiste sempre e comunque. E non in termini fideistici. Piuttosto porrei un’altra domanda. Come mai si comincia a produrre poesia con le caratteristiche della Noe, mentre la forma-romanzo non germina ancora?
Giuseppe Gallo
12 novembre 2021 alle 11:15
Caro Giorgio,
sono passati tre anni da quel mio intervento che tu hai osato riproporre all’attenzione dei lettori de L’Ombra. Tre anni! Un nulla. Eppure il mondo interno a noi e quello intorno alle nostre esistenze sembra essere completamente diverso. Il Covid-19, la Cina, gli Stati Uniti, le trasmigrazioni dei popoli, le continue catastrofi ambientali, l’economia, l’ingegneria tecnologica, quella biologica, quella farmacologica, il controllo sempre più autoritario della società, ecc., ecc., ci spingono verso baratri esistenziali ancora più abissali. Hai ragione quando affermi che “la Musa fugge a gambe levate” di fronte alla pretesa di chi vuole ancora proporre una poesia di contenuti. Purtroppo sembra che questi permangano sul terreno nonostante i molti poeti che leggiamo su l’Ombra si rivolgano “ai rigattieri… alle discariche abusive che spuntano come funghi dal territorio disastrato di questo paese”. Ok! Falcidiamo tutti i cippi, funerari o meno, tutti i podi, tutte le stele e le colonne di marmo”, facciamo il deserto… ma sai cosa mi sembra di scorgere sui profili delle dune? Eserciti di soldatesca che hanno sulle carni nude trionfi di scorticature medievali, sulle teste caschi di punzoni metallici e corni vichinghi. Negli occhi la febbre dei lebbrosari e sui palmi delle mani i geroglifici delle millenarie tribolazioni mistiche e antiscientifiche.
E la realtà nella quale siamo infissi che fine ha fatto? Noi possiamo vederla a nostra immagine e somiglianza, come tutti. Ma poi? La Noe e le sue appendici hanno il merito di aver demistificato ciò che bisognava demistificare: l’illusione di una poesia aulica, retorica, dell’io e dei sentimenti, della rappresentazione di un mondo a industrializzazione avanzata, di un inconscio come pozzo e discarica dei sogni e dei desideri, di un linguaggio ancora agricolo-pastorale-preindustriale-mitologico, ecc. Ed ora? E adesso?
Il mio richiamo alla necessità di affrontare la forma romanzo era portato avanti proprio da queste considerazioni di base. Fra tutti gli approcci al linguaggio nuovo quello di Intini mi sembra il più appropriato
a “significare” in forma metaforica la disgregazione logica esistenziale dell’oggi… anche se i suoi versi poggiano su un montaggio determinato dalla volontà. Ma ci resta forse altro? Sembra di no! L’Avanguardia è sempre agita da atti di volizione.
Sperando di essere stato sufficientemente provocatorio auguro a tutti buon lavoro.
Giuseppe Gallo
Zona gaming 48
Ecco, avvicinati!
Le ragnatele sugli occhi.
Per intenderci ancora…
Disoccupiamo le zucche. Dolcetto o viaggetto?
Marisa si benedice da sola
e prega giocando a chi prega più forte.
Laura e Beatrice su Via del Corso a comprare Gucci
e la pulzella d’Orléans a limare le unghie.
Gabriele si è innamorato di Maria
e va e viene da un mondo all’altro.
Zona gaming
…dolcetto o scherzetto?…
Per nostalgia del caprino di Nazareth
si tuffa nei suoi seni.
Non c’è ragione per pensare!
Scherzetto o viaggetto?
Ecco, avvicinati! Hai un angelo negli occhi.
Ti va di strapparlo?
Anche se squarci una notte
le altre attendono in fila.
Zona gaming
…scherzetto o dolcetto?…
Francesco Paolo Intini
“Eserciti di soldatesca che hanno sulle carni nude trionfi di scorticature medievali, sulle teste caschi di punzoni metallici e corni vichinghi. Negli occhi la febbre dei lebbrosari e sui palmi delle mani i geroglifici delle millenarie tribolazioni mistiche e antiscientifiche”. (Giuseppe Gallo)
Da sempre mi sarebbe piaciuta una poesia che facesse da vettrice nell’ignoto. Qualcosa di lucreziano per intenderci capace di penetrare le cose, ragionando su di esse ed esplorandole.
Ricerca infatti è stare al confine, sperimentare il margine tra nulla e nulla e riferire a chi sta attorno le creazioni, la possibilità concreta e praticamente infinita che ciò che è noto si mescoli efficacemente all’ignoto. Non è davvero un bel vivere in questo contesto dove rischiare di cadere nell’errore, nell’abbaglio è all’ordine del giorno e nell’ordine delle cose.
Ma è proprio qui, fuori da questo rischio, che affonda la barca la poesia da salotto televisivo, che non osa nulla, proprio nel cantiere che doveva vararla dimostra la sua natura di carta. Non perché la potenzialità del linguaggio poetico sia da meno di quello scientifico come dimostra il grande latino, ma perché porta in sé una malattia mortale, virale e pandemica: il narcisismo.
Il problema è se valga la pena, una volta portato alla luce, tenerlo in vita e continuare a farle fingere ipotesi a tutti i livelli del significare. Il dubbio nasce spontaneo ogni volta che un verso porti alla sua sorgente e quel tono inconsunto ci rivela il vate in possesso di verità indiscutibili che sparge i suoi odori e insaporisce ogni minestra, come se di fronte si avesse solo podi da conquistare, un mercato in cui concorrere efficacemente con un’offerta di versi che richiami la tradizione e ignori qualsiasi idea di contraddizione.
Ecco, personalmente ho preferito dire di no, conservando nel contempo lo strumento dello scavatore, la pala meccanica della radiazione che interferisce con tutto ciò che attraversa e della stanza buia rivela, se ci sono, il pulviscolo e le ragnatele.
E’ netta la mia sensazione che qualcosa sia scoppiata al largo e ciò che vediamo, il risultato di una deflagrazione stellare. Personalmente parto da qui, dal tentativo di raccogliere e addomesticare un raggio curvo sul nostro tempo.
Hypotheses non Bingo
L’inseguimento finì alle prime luci dell’alba.
Decidere se iena o leone e poi il colpo definitivo.
La trappola lasciava trapelare il cucciolo
ma bestemmiava un cinghialese di luce e gas,
come se nell’ anticipo d’istante
ci fosse la bolletta del ritardo
Vengo alle cifre.
Il Percento assunse un aspetto austero.
E dunque cosa vorresti a discapito?
Una scorta per le Barbados?
Sai? La porta scorrevole si tagliò le vene ai polsi
E giunse alle stesse conclusioni dello sportello.
Non vedi come duole il trend!
L’inverno è insopportabile
senza adeguare il cielo alle fabbriche.
Bastò un morso al collo
con i denti a sciabola di un ippocastano.
Batteva la campana su corso Cavour
E una calza a rete abbracciò i tronchi.
Ricordi il prodigio?
Gli uomini secchi cadevano dai rami
E noi a riscaldare il logaritmo.
Fu all’ora che la scimmia pazza
adescò un pettirosso.
Alle liane. Tutti alle liane dopo il cartellino
e pausa di un milligrammo per una banana.
Giuseppe Gallo
16 novembre 2021 alle 11:25
Caro Francesco,
la tua decisione di affrontare l’ignoto linguistico rappresenta il bisogno di penetrare quella Zona opaca del nostro esistere dove il “nulla” si appoggia sul “nulla”. Cos’altro si può fare se non “raccogliere e addomesticare un raggio curvo sul nostro tempo”? Cos’altro se non riversare gli occhi su quella “radiazione che interferisce con tutto ciò che attraversa e della stanza buia rivela, se ci sono, il pulviscolo e le ragnatele”? E ci sono il pulviscolo e le ragnatele? Io direi di sì. E sotto duplice forma. Come delusione perché continuiamo a constatare che siamo sommersi dai cumuli della polvere di una poesia governata e diretta dalla realpolitik dei centri di potere e delle case editrici, ma anche come speranza ( “L’inseguimento finì alle prime luci dell’alba”) perché il tuo lavoro, quello di Linguaglossa e degli altri amici, continua a demistificare la poeticheria nostrana del nuovo millennio. La logica che sorregge il tuo usus scribendi, come avrai avuto modo di constatare tu stesso un’infinità di volte, è opposto e alternativo al nostro usus loquendi. La scrittura, cioè, può confondere, ingannare, fare le smorfie a se stessa; può costringerci a rendere “illeggibile” ciò che è contenuto nella versificazione dei periodi e delle frasi, quasi a nascondere il peso liberatorio della nostra forzata schiavitù. Il montaggio che tu porti avanti è un “eroico furore” direbbe l’eretico di nolano anche perché il linguaggio che tu sperimenti tenta di sfondare il “finito” della lingua e dei suoi limiti e così facendo rompi gli argini di quel mondo che quel linguaggio ha generato. In poesia si può osare ciò che nel parlato non è possibile. Ecco perché ritengo che la tua “poetica” sia attuale, non solo per il “plurilinguismo” caro al nostro Gino Rago, ma soprattutto perché demolisce, tutto in una volta, la insipienza di chi vuole sollecitarci a defluire nel mare magnum dell’indistinzione e dell’anonimia contemporanea.
Giorgio Linguaglossa
Il lavoro radicale di sfrondamento di tutte le pellicole dell’io e delle fraseologie poetiche da «salotto» che ha fatto Francesco Intini ha qualcosa di inimitabile, il factum scribendi non è mai uguale al factum loquendi, anche se sono in qualche modo imparentati… Intini è arrivato al nodo scorsoio: ha sciolto tutti i legami e i lacciuoli che lo tenevano legato alla poesia tuttofare e prendi tre paghi uno del post-minimalismo (roba da far rimpiangere il minimalismo romano-milanese!), il risultato è un drastico taglio del significante e del significato: il non voler significare più nulla è un proposito salutarmente etico, ed offre nuove inusitate possibilità al linguaggio poetico e a chi sappia procedere con il dovuto bagaglio di coraggio intellettuale.
Vincenzo Petronelli
23 novembre 2021 alle 3:46
«La necessità di un nuovo paradigma culturale che ripensi il rapporto Natura-Cultura, è il pensiero guida della poetry kitchen». Mi piace riprendere liberamente quest’affermazione di Giorgio, per impostare questo mio intervento. È un postulato che da solo evidenzia l’ubi consistam del progetto Noe, la sua scansione antropologica. La capacità della poesia di scavalcare sé stessa, vale a dire i limiti della visione che tradizionalmentesi si è stratificata attorno alla poesia da circolo di notabili di questi ultimi decenni, Al contrario, con la Poetry kitchen siamo di fronte alla poesia che ritrova sé stessa, la sua intelaiatura profonda, capace di interrogarsi sulla dimensione sincronica come su quella diacronica, di farsi riflessione storica e filosofica, di intepretare l’uomo ed il cosmo. E’ la poesia redenta dal bavaglio del potere e dell’ideologia che sono poi due risvolti della stessa medaglia, L’ideologia, con il suo carico di devastazione, è stata la calamità del XX Sec. la corruzione dell’ideale che si fa sistema, ma con una capacità di aggregazione persuasiva delle masse, come vediamo anche drammaticamente in questi giorni. La poesia dell’idioletto, come giustamente la definisce Giorgio, è proprio questo, cioè la poesia ridotta ad un simulacro di sé stessa, ad un ruolo ancillare ai meccanismi di regime, dalla quale la Nuova Ontologia Estetica si svincola, adoperando – riprendendo la felicissima metafora di Francesco Intini – lo strumento dello scavatore, per erodere la patina superficiale, su cui si basa la visione convenzionale, esteriorizzante, della realtà, per svellere la materia e ritrovarne l’essenza, la trama sottile dietro la corteccia.
In conclusione, devo dire che mi piace molto l’accostamento delle poesie di Francesco Paolo Intini e di Mimmo Pugliese, per una sorta di complementarità che intravedo nel loro usus scribendi; entrambi riferimenti importanti, emblematici di Poetry kitchen, essendo riusciti a raggiungere uno straordinario livello di efficacia icastica di precisione scultorea nella loro versificazione, giungendo al nocciolo della loro poetica senza fronzoli, con una scrittura di incredibile asciuttezza ed essenzialità in Francesco Intini e leggermente più “rotondo” – come piccoli haiku – e di grande evocatività immaginifica in Mimmo Pugliese; due tecniche integranti di “dipingere” il polittico.