Gino Rago, Vicissitudini della gallina Nanin e Don Chisciotte, poetry kitchen, La critica che si fa oggi alle opere d’arte è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio, Commenti di Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

Il Mangiaparole Gino Ragocaro Giorgio,

ma se le strade verso la verità sono sentieri interrotti, dove stanno andando le 4 galline che attraversano la strada sulle strisce?
Penso che adesso Gino Rago avrà un motivo in più per occuparsi della gallina Nanin la quale è scappata dalla cover di Lucio Tosi e ha raggiunto le altre galline del pollaio sotto l’abitazione di Mauro Pierno, ma le galline non sanno che ad aspettarle c’è un molosso della vecchia ontologia estetica, un cane da guardia della collana bianca dell’Einaudi capitanata da un noto sciovinista minimalista armato di forchettone e di coltello da cucina pronto a metterle nel forno e farne galline kitchen!
Bene, penso che Gino Rago non si farà sfuggire l’occasione per rispondere pan per focaccia, in fin dei conti ha ancora la rivoltella a tamburo con sei colpi 7,65 e non vede l’ora di scaricare l’intero caricatore sul groppone del minimalista di turno!
Non permetteremo mai che ignobili rappresentanti della vecchia ontologia estetica possano cucinare impunemente la gallina Nanin e rimpinzarsi lo stomaco!
Caro Gino Rago, intervieni per favore prima che sia troppo tardi!

(Marie Laure Colasson)

Sotto la spinta catalitica di Marie Laure Colasson, per effetto della sua esortazione, propongo un mio inedito nel quale, più di altre volte, ho guardato al pensiero di Roland Barthes sulla morte dell’autore allorché scrive:
«Per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può essere che la morte dell’Autore.» (Gino Rago)

Gino Rago
Vicissitudini della gallina Nanin e Don Chisciotte

Nanin, la gallina della cover Antologia Poetry kitchen:
«Non ce la faccio più, prima che diventi matta
devo evadere da questa copertina,
ho bisogno di spazio, qui dentro mi manca l’aria!».

Nanin lancia segnali Morse.
Accorre la sua guardia del corpo al completo:
lupo, gatto, agnello, gallo, mosca, geco, albatros,
e la fanno evadere.

La gallina in bilico su una scala di alluminio
al centro della strada:
«Andiamo a liberare tre mie amiche,
sono nel pollaio sotto l’abitazione di Dino Buzzati,
il quale non sa come chiudere il romanzo Il deserto dei Tartari
e non si accorgerà di nulla, la morte del tenente Drogo
lo ha sconvolto!».

Com’è come non è, le quattro galline si ritrovano a Londra.
La Nanin alle altre tre galline:
«Un semplice gesto estetico, l’attraversamento
delle strisce pedonali di Abbey Road
può diventare un luogo di culto, una icona culturale,
un monumento pop.
Andiamo ad Abbey Road!».

La prima gallina, la Nanin, in testa,
capelli fluenti, barba lunga, il vestito completamente bianco,
scarpe da tennis e un bastone da passeggio;
segue, in stile dandy con un elegantissimo abito scuro,
la gallina bianca; la terza gallina, in completo blu,
camicia bianca e piedi scalzi;
la quarta, con un semplice jeans e una giacca in tinta unita.

Il comandante della polizia locale sanziona le quattro galline
perché non portano le mascherine
e sono prive di autocertificazione.

In quel mentre, Sancho Panza e Don Chisciotte
escono da un cinema parrocchiale
dove hanno visto un film di Orson Welles,
incontrano il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte
e il segretario di Italia Viva, Matteo Renzi,
i quali dichiarano che la gallina Nanin è autorizzata
e quindi può attraversare sulle strisce pedonali,
narrano che lo stato di polizia
non è un ordinamento giuridico democratico etc. etc..

Ed ecco qui il capo dei sovranisti, il bandito Matteo Salvini
il quale dichiara la gallina Nanin una immigrata,
ne chiede la restituzione al mittente,
cioè all’Ufficio Informazioni Riservate
di via Pietro Giordani, il quale spedisce le 4 galline al Signor Magritte
e così le galline entrano nel famoso quadro con gli omini
che salgono al cielo per farsi benedire…

Ma ecco che Don Chisciotte scambia la Nanin per la Dulcinea,
sguaina la sua spada, e ammolla un fendente
sulla capa del bandito Salvini.
E così tutto è bene quel che finisce bene,
il bandito con la capa rotta e vissero tutti felici e contenti.

«Grazie Don Chisciotte, le offro il mio lecca lecca al miele»,
dice la Nanin…

.

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”.
.

Come aveva già stabilito Adorno, la critica della cultura è spazzatura non meno della cultura di cui si tratta. Non c’è soluzione, non c’è una via di fuga dalla spazzatura e dall’immondezzaio che non sia spazzatura e immondezzaio.
La critica che si fa oggi alle opere d’arte è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio.

(Giorgio Linguaglossa)

Sempre più Jep Gambardella, poeta della romanità e felliniano oltre misura. / Ma l’autore ha da scomparire? Certo non riguarderà la “voce”, che è unica come ciascuna foglia dell’albero; né la Musa, che mentre scrive parla ma senza voce propria, ché non ne ha. / Solo, le parole hanno voce, siano esse dette pensate o scritte. Quindi ogni autore ha la propria impronta vocale, a prescindere. / Se vogliamo fare a meno dell’autore, abbiamo secondo me due possibilità. La prima: farlo scomparire nella Lingua (lo sanno quelli bravi, che giunti all’esattezza ci si somiglia); la seconda: mentire su tutti i fronti (occultare il cadavere, poi farla franca). Ma tanto spesso un poeta lo ami per la voce (fuori dal coro)…

(Lucio Mayoor Tosi)

caro Lucio,

è che viviamo in un Paese spaventosamente mediocre; guardiamoci attorno, lo spettacolo è terribile, non c’è una sola oasi di decenza e di intelligenza, le persone per bene e intelligenti vengono emarginate e ormai non contano più nulla. Il Paese versa in una gravissima crisi di identità. Trenta anni di Berlusconi hanno fatto marcire le fondamenta del Paese: la Lega e i fascisti della meloni ne sono degli epifenomeni, ne sono il risultato, la coscienza civile dei pochi democratici si è annebbiata… L’arte che si fa in Italia è accompagnamento musicale alla tomba, nemmeno più decorativa ma funzionale alla tomba, al paese di morti che siamo diventati…

(Giorgio Linguaglossa)

Sì, in futuro diranno che da noi cominciò il declino dell’umanesimo sul finire degli anni ’80, quando smerciarono Socrat& nei talk show all’americana. Ma era prevedibile, che a tanto pensiero complesso potesse seguire un lungo periodo di semplificazione. La pop poetry Kitchen, con gallina Nanin, appunto, ne prendono atto.

(Lucio Mayoor Tosi)

Scrive Ilya Prigogine:

«Non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni».

La nuova ontologia estetica segue il medesimo principio coniato dal grande chimico russo. Parafrasando lo scienziato potremmo dire che «la forma-poesia è un sistema instabile, infatti, non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni».

È fondamentale indagare la dimensione caosmotica e caosferica in ossequio a quella filosofia pratica, a quella prassi tipica della poiesis kitchen a cui si è accennato con la citazione di Prigogine: fabbricare una zona di indeterminazione, un sistema altamente instabile e infiammabile da connettersi con un fuori, con un immaginario verso cui tendere per camminare fuori dalla nostra zona di comfort normografico e normologico, una zona di indeterminazione e di indifferenziazione entro la quale costruire un crocevia fortuito d’incontri, un assemblaggio, un patchwork, una story telling, un puzzle dinamico e instabile, instabile perché se c’è la stabilità c’è la normologia.
Mi sembra che la poesia kitchen di Gino Rago sia sufficientemente instabile e infiammabile.

(Giorgio Linguaglossa)

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24 risposte a “Gino Rago, Vicissitudini della gallina Nanin e Don Chisciotte, poetry kitchen, La critica che si fa oggi alle opere d’arte è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio, Commenti di Marie Laure Colasson, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa

  1. L’ha ripubblicato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Com’è come non è, le quattro galline si ritrovano a Londra.
    La Nanin alle altre tre galline:
    «Un semplice gesto estetico, l’attraversamento
    delle strisce pedonali di Abbey Road
    può diventare un luogo di culto, una icona culturale,
    un monumento pop.
    Andiamo ad Abbey Road!».
    GINO RAGO

    • Desidero complimentarmi con Mauro Pierno per l’acutezza con la quale ha colto il punto vivo, Barthes direbbe il “punctum”, della mia composizione, e lo ringrazio per avere ri-proposto sul suo blog RIDONDANZE le Vicissitudini della gallina Nanin e Don Chisciotte,

      Infine, lo ammiro per avere superato con il suo libro poetico Compostaggi (Edizioni Progetto Cultura, 2020, Roma), di cui ho curato la Prefazione, (pungente, lucida, pertinente la meditazione sullo stesso libro in forma di retro di copertina di Giorgio Linguaglossa), quelle che per me sono e continuano ad essere le strettoie, i colli di bottiglia di tutta quella che ho inteso chiamare, sulla eco barthesiana, “poesia leggibile” o “poesia realistica” in cui la stra-presenza dell’autore/autrice strozza già sul nascere l’empatia e la partecipazione osmotica della Lettrice, del lettore.

  2. Intorno ad una nuova ontologia delle parole

    Marie Laure Colasson mi ha confessato che non riesce a leggere la poesia contemporanea perché si sente minacciata da «quelle parole» che piombano sulla pagina con la forza posticcia dell’io, come magnetizzate. Quell’io che, nella sua strategia auto organizzatoria, si pone sempre in posizione di primazia. Non v’è mai stato, mi diceva, un canto sepolto e originario di cui sarebbe da trovare il bandolo di una matassa misteriosa. Sarebbe occorsa, invece, mi disse, una diversa pratica della poesia, una pratica che fosse una distanziazione, un prendere le distanze, un allontanamento da quelle pratiche totalizzanti e totalitarie che vogliono assoggettare la parola al governo autoritario della linearità sintattica oggi ritenuta insindacabile e invece inaccettabile perché presuppone una concezione totalitaria e plenipotenziaria dell’io. E che al contrario occorreva sindacare, interrompere, ripudiare, porre tra parentesi quel tipo di costruzione plenipotenziaria in quanto posticcia, prodotto del lavoro auto organizzatorio dell’io, superfetazione dell’io, epifenomeno dell’io posticciamente posto…

    Occorrerebbe, al contrario, mi diceva la Colasson, lavorare sull’io per interromperne il collegamento al segno linguistico referenziale e referenziato che una certa tradizione ci ha consegnato in eredità. Ma, come fare? Come fare per uscire da questo circolo vizioso che ci riporta inevitabilmente al «canto sepolto e originario»?, seduttivo sì, ma fittizio in quanto facente parte della strategia difensiva e auto organizzatoria dell’io?
    Occorre allora introdurre nella costruzione una de-costruzione, nella letteralizzazione una trans-letteralizzazione, nella contestualizzazione una trans-contestualizazione che interrompa lo scorrere frastico del tempo sintattico unilineare, che lo ostacoli e ne mini l’ordine prestabilito dal logos autoritario con il quale la «nuova poesia» non ha nulla da spartire né condividere. In questa diversa pratica delle parole è indispensabile introdurre una distanziazione da esse e tra di esse allo scopo di giungere ad una «altra» fisicità delle parole, a una più vera fisicità delle parole. In fin dei conti la letteralità è una convinzione e una convenzione che può essere accerchiata, destituita e rimossa.

    Improvvisamente, ciò che ci appariva nella sua enorme pesantezza, si rivela invece liberatoria; le parole possono venire alla luce libere e leggere, senza dover attraversare quelle paratie difensive, quei muraglioni intimidatori che le vorrebbero respinte e respingenti. E allora scopriamo che quella «pesantezza», come diceva Nietzsche, si è convertita in «alleggerimento», il peso più grande è diventato il peso più piccolo, l’arroganza di certe parole è diventata mitezza, abitabilità. È il peso del linguaggio che qui è in questione, quel peso che è diventato insopportabile e produce afasia… Ed è inevitabile che quando un universo di parole collassa, sorgano le nuove parole di un altro universo… Così, non resta altro da fare che operare un ripiegamento, una ritirata ad un’altra posizione posta più indietro, ad una distanza di sicurezza, dietro l’io che ci sorveglia e incute pesantezza; indietro, molto più indietro, prossimi alle parole più fragili; rinunciare a tutte le posizioni acquisite, alle posizioni di comodo, rinunciare alle rendite parassitarie… dirigersi verso una ontologia meta stabile delle parole.

  3. “How to stop time: kiss.
    How to travel in time: read.
    How to escape time: music.
    How to feel time: write.
    How to release time: breathe.”

    (Matt Haig, Reasons to Stay Alive)

    Poetry kitchen improvvisata

    «Voglio una vita, spericolata, come quella di Steve McQueen!»
    Disse la Ladyboy Fremzy Bill al sacerdote Prescott
    che imperversava dal pulpito…

    «E poi ci troveremo come le stars
    A bere del whisky al Roxy bar»

    «Voglio una vita che non è mai tardi», capisci?

    How to stop time: kiss.
    How to stop time: love.
    How to stop time: kiss.

    «Di quelle che non dormono mai
    Voglio una vita di quelle che non si sa mai…»

    How to escape time: bliss
    How to escape time: bliss

  4. L’ESSERE-PER-LA-MORTE

    “Benché la rinascita della ‘metafisica’ sia considerata una conquista del nostro tempo, tuttavia il problema dell’essere è purtroppo dimenticato”. Così inizia l’opera più famosa di Heidegger, Essere e tempo (1927). Heidegger imposta la questione del problema dell’essere – che considera “oscura e aggrovigliata” -, indagando e analizzando “quell’ente che noi che cerchiamo, già siamo”. La metafisica si presenta nel primo Heidegger come analisi dell’Esserci, cioè di quell’essere, appunto, “che noi stessi già siamo, e che ha, fra le altre possibilità, quella del cercare”.
    l’Esserci è indirizzato, nel suo essere-nel-mondo, dall’essere-per-la-morte. Se l’Esserci è definito dalla possibilità di essere-per-la-morte, la morte gli si presenta come il limite e la negazione di questa possibilità e gli chiede di accettare l’essere per la morte come “orizzonte in cui si iscrive la sua vita”. Il “Si muore” cerca di esorcizzare l’angoscia davanti alla morte, di tranquillizzare gli uomini, ma Heidegger considera inautentico questo approccio all’essere-per-la-morte, che, invece, richiede all’uomo di progettarsi sapendo quale è la possibilità estrema che gli appartiene.

    Testo di Heidegger

    La morte sovrasta l’esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta. Ma all’esserci, come essere-nel-mondo, sovrastano molte cose. Il carattere d’imminenza sovrastante non è esclusivo della morte. Un’interpretazione del genere potrebbe far credere che la morte sia un evento che s’incontra nel mondo, minaccioso nella sua imminenza. Un temporale può sovrastare come imminente; la riparazione d’una casa, l’arrivo d’un amico, possono essere imminenti; tutte cose, queste, che sono semplici-presenze o utilizzabili o compresenze.

    Il sovrastare della morte non ha un essere di questo genere. […] La morte è una possibilità di essere che l’esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’esserci puramente e semplicemente del suo essere-nel-mondo. La morte è per l’esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa possibilità l’esserci sovrasta se stesso, esso viene completamente rimandato al proprio poter-essere più proprio. In questo sovrastare dell’esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’esserci non può superare la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un’imminenza sovrastante specifica. […]

    Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l’esserci non se la crea accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l’esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. […]. L’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia. Un’angoscia davanti alla morte è angoscia davanti al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. […] L’angoscia non dev’essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di ‘depressione’, contingente, casuale, alla mercé dell’individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’esserci, essa costituisce l’apertura dell’esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine. Si fa così chiaro il concetto esistenziale dei morire come esser-gettato nel poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si approfondisce la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e all’esperienza vissuta dei decesso. […] Un’interpretazione pubblica dell’esserci dice: “Si muore”; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma dei Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. […]

    Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Questo tipico discorso parla della morte come di un “caso” che ha luogo continuamente. Esso fa passare la morte come qualcosa che è sempre già “accaduto”, coprendone il carattere di possibilità e quindi le caratteristiche di incondizionatezza e di insuperabilità. Con quest’equivoco l’esserci si pone nella condizione di perdersi nel Si proprio rispetto al poter-essere che più di ogni altro costituisce il suo se-Stesso più proprio. Il Si fonda e approfondisce la tentazione di coprire a se stesso l’essere-per-la-morte più proprio. Questo movimento di diversione dalla morte coprendola domina a tal punto la quotidianità che, nell’essere-assieme, “i parenti più prossimi” vanno sovente ripetendo al “morente” che egli sfuggirà certamente alla morte e potrà far ritorno alla tranquilla quotidianità del mondo di cui si prendeva cura. Questo “aver cura” vuol così “consolare il morente”. Ci si preoccupa di riportarlo nell’esserci, aiutandolo a nascondersi la possibilità del suo essere più propria, incondizionata e insuperabile. Il Si si prende cura di una costante tranquillizzazione nei confronti della morte. In realtà ciò non vale solo per il “morente” ma altrettanto per i consolanti. […]

    Il Si non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte. […] Nell’angoscia davanti alla morte, l’esserci è condotto davanti a se stesso in quanto rimesso alla sua possibilità insuperabile. Il Si si prende cura di trasformare quest’angoscia in paura di fronte a un evento che sopravverrà. Un’angoscia, banalizzata equivocamente in paura, è presentata come una debolezza che un esserci sicuro di sé non deve conoscere. […] Un essere-per-la-morte è l’anticipazione di un poter-essere di quell’ente il cui modo dì essere è l’anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l’esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter essere più proprio significa poter comprendere se stesso entro l’essere dell’ente così svelato: l’anticipazione dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte.

    • Guido Galdini

      Mi permetto di riportare un mio breve componimento dagli Appunti Precolombiani riferito a questo concetto di Heidegger.

      i supremi tessuti che avvolgevano le mummie
      ritrovate nelle tombe di Paracas Necropolis
      si presume siano stati eseguiti
      espressamente per la sepoltura;
      erano indegni, i vivi,
      d’indossarli come loro indumenti

      vivere era tessere per la morte.
      ___________
      NB: Paracas Necorpolis è una regione della costa meridionale del Perù in cui vennero rinvenute, data l’aridità del clima, tombe intatte contenenti mummie avvolte in tessuti di fascino incomparabile.

      • caro Guido,

        I tuoi Appunti precolombiani segnano un distacco dalle poetiche personalistiche e posiziocentriche delle ultime decadi della poesia italiana, in particolare mi colpì l’anacronismo della tematica da te adottata. Ti chiedo: come ti è venuta in mente l’idea di un libro così anacronistico?

        • Guido Galdini

          Una decina di anni fa mi è capitato di leggere “Alla scoperta dei Maya” di Victor Von Hagen, un esploratore e divulgatore serio, che in quest’opera ha raccontato le vicende dei viaggiatori ottocenteschi che hanno scoperto le rovine dei Maya e che, dopo ipotesi le più varie (popoli provenienti dall’India, dalla Cina, dall’Europa), alla fine si sono convinti, con un po’ di rammarico, che gli ideatori erano autoctoni, che architetture raffinatissime (che hanno ispirato anche Frank Lloyd Wright) erano state realizzate senza nessun contatto con una civiltà superiore.
          Ho preso interesse per questo argomento e ho iniziato a documentarmi più in profondità, oltre che sui Maya, su tutte le altre civiltà precolombiane. Mi è capitato di scrivere qualche breve testo e man mano mi sono reso conto che potevo procedere in modo più organico. Così, durante la lettura, mi sono tenuto accanto un taccuino dove appuntavo (da qui il titolo) qualche spunto meritevole di riflessione. In seguito veniva la spolverata dei versi (sempre molto parca e stringata). Dopo un paio d’anni di intense letture mi sono trovato ad avere qualche centinaio di testi. Ho iniziato ad operare una cernita, qualche aggiustamento, ed alla fine ne è venuto fuori il libro.
          Ho il convincimento che talvolta si possono trattare argomenti di qualche pesantezza (la violenza, la sopraffazione, il rapporto con il potere e la religione, il confronto tra civiltà), senza l’intralcio della quotidianità di seconda mano, che talvolta mi mette in guardia (le decine di poesie sul crollo del ponte di Genova saranno tutte ispiratissime, ma l’ombra dell’ombra di un sospetto non riesco a cancellarlo).
          In gioventù ho scritto una poesia (bruttissima) sulla strage di Brescia del 1974, ma quel giorno mi trovavo in Università a due chilometri dall’esplosione, sentivo le ambulanze che facevano la spola verso l’ospedale, le prime notizie confuse dei bidelli, i parenti che ingorgavano in centralino con le loro telefonate ansiose. In quell’occasione non ho fatto che descrivere la mia esperienza.
          Negli altri casi forse è meglio partire da lontano per arrivare più vicino.

          Buone feste (si fa per dire) a tutti.

  5. Poesie per il Natale di
    Antonio Sagredo

    La sfinge ha tinto di belletto l’aurora,
    Crudelia, la città, aveva ciglia violette.

    *

    Di mattino, finestre e corvi segreti
    danzavano… uscimmo nel cortile arrossato,
    sottovoce parlammo dei labirinti del cuore,
    ma la rugiada invecchiava di notte,
    vanità delle lune era un antico proverbio.

    *

    Libertà è un inverno e non vi puoi indugiare,
    ma la rinuncia innocente è come un giallo dolore
    e il futuro è una vergine muta.
    Così la parola è distinta dal corpo.

    *

    Il sentiero granato stimolava le orme:
    ah, gli alberi di natale sulle tombe!
    “Ed ecco apparire ad un fischio Dio in persona:
    – Come, anche tu? Và, datti da fare per me,
    il tuo paradiso è per i bisognosi di quiete! ”

    *

    Cosmeta e Crudelius seduti nel parco fissavano
    l’occhio e l’orecchio vicino al delitto:
    allora la vita è spenta, è lieve, è lieve…
    Ranavàlo, la nera regina, così declamava:
    la farsa è un falso poema d’amore…

    *

    Quando i nostri sogni ameranno i morti,
    Aleph sarà funesto alla vita,
    Azoth e Nzame avranno il pallido Schinn.
    Evestrum, Evestrum! – grideranno i corvi.
    Aleph, Aleph! – cani e amorini
    e nell’affanno si scioglieranno.

    *

    Queste strane parole staccate dal corpo
    l’attore barocco – Tarò si chiamava
    e masticava tabacco – seriamente inventava
    fra un pianto corvino e un riso rubino.

    *

    Ma riprendere ora è un sano discorso,
    la sera messapica già sussurra epitaffi
    – la mia terra, il Salento, è già calce di sangue! –
    Poeta, bevi il vino onnisciente, Evestrum
    è il suo nome… ignoto ed oscuro il suo canto!

    *

    Uscimmo e danzeremo nel cortile arrossato,
    e sottovoce parliamo dei labirinti del cuore.
    Crudelia era una triste baccante:
    guardava con occhio di mago e suo
    desiderio era il delirio e l’oblio, un festino
    la giullare illusione, ramarro il suo amante.

    *

    Ah, per me “flores apparuerunt in terra nostra”!
    e l’universo sarà il nostro cibo, la luna
    la nostra cena, e il sole – coronato di donne
    e di veloci cavalli – la nostra pazzia.
    “Mazdà, Mithra, come, anche tu? Và, datti da fare per me,
    il tuo paradiso è per i violenti di quiete”!

    *

    E con le mani di rospo, Cosmeta, che puoi
    se vuoi scoprire la vita, giullare
    illusione il dolore, cornamusa, vino,
    miele, pane e aceto è quotidiana tragedia!
    E ancora, se vuoi, disperata corona è leggenda
    ignorata, vecchiaia è notte canuta!

    *

    Cosmeta, entrerai nella vita, di notte!
    Come inutili sono i rimorsi, come futili le colpe,
    come allegra è l’ignoranza infelice, come ossuto
    è il silenzio e come fatale gioco è la noia!
    Entrerai di nuovo, calpestando la tenerezza
    del passato, udrai il presente dell’estate,
    pazza se amerai il futuro!

    *

    Invano danzeremo nel cortile arrossato,
    parleremo sottovoce tra fiocchi di neve
    – uva epica un antico poeta cantò –
    udrai cristalli franare per il peso dei sogni:
    perle… pietre e ancora pietre… perle!
    ma è lieve
    lieve…

    a. s.
    Praga, 28 febbraio 1977

    *

    Il Natale di Osip Mandel’štam

    Sull’insegna luminosa d’ una bettola c’era scritto:
    Contrada Mandel’štam

    Recitavi da tetrarca a Vladivostok…
    davanti ai falò Laura danzava sul secolo XX°
    ti offriva veleno per farla finita col verso classico
    ti donava una carriola di zucchero e cavoli.

    Indossava per fame i rifiuti di una pelliccia piumata,
    ma restava il principe dei Barboni questo usignolo – non lupo!
    La scopolamina, al poeta, per farlo cantare!
    Petrarca, il suo duca, gli offriva un passaggio svitato.

    A nord-est, gridava, c’è un esotico sogno – a fumetti!
    Ma il barbuto spauracchio recitava sonetti.
    Fu gettato svestito senza la corteccia d’un cencio,
    festeggiò il Natale con Mozart in una fossa comune.

    Ma Laura s’invaghì dei suoi capelli nostalgici
    che ricordavano una gravida Tauride veneziana,
    come se il suo collo, per uno spostamento degli occhi,
    la sua testa di cammello piegasse anche il tiranno.

    Sul fondo d’una fossa luminosa c’era scritto:
    Contrada Mandel’štam!

    27 dicembre 1938
    (trad. di Antonio Sagredo)

    [dal Corso monografico di A. M. Ripellino 1974-1975]

    Mandel’štam aveva anche paura di misteriose iniezioni che privano della volontà (e questa gli era rimasta dal periodo del primo arresto quando gli iniettavano la scopolamina per farlo parlare).
    Ora, nei campi di transito non era necessario lavorare, come nei campi dove si era assegnati definitivamente, ma pur di sfuggire all’ebetudine dell’inerzia, tutti cercavano di far qualcosa, e Mandel’štam portava pietre su una carriola. I medici gli avevano dato un giaccone di pelliccia che egli aveva ceduto per un po’ di zucchero, ma lo zucchero gli era stato rubato. Qualcuno dice che Mandel’štam recitava versi agli internati e segnatamente sonetti di Petrarca, davanti a un falò.
    Nadežda Mandel’štam riuscì a spedire un unico pacco al marito, pacco che le fu respinto dopo qualche tempo con la dicitura: “morte del destinatario” Nel giugno 1940 il fratello di Mandel’štam, Aleksandr Emilevič, ricevette la comunicazione che il poeta era morto il 27 dicembre del 1938, a 47 anni, per paralisi cardiaca. Ora, ci sono diversissime leggende: c’è chi dice che fu ucciso da delinquenti comuni che stavano con lui; un’altra dice che morì su una nave diretta verso la Kolyma, che fu gettato nell’oceano.
    Semplicemente morì nel campo di smistamento: una mattina non si era alzato più dal letto, lo avevano portato in ospedale e dove morì. Seppellivano allora senza vestiti, senza bara, in una fossa; comunque dice la moglie, la sua morte non fu peggiore di quella del compagno di acmeismo, Narbut, il quale fu addetto come vuotacessi, a pulire i pozzi neri e fu fatto saltare in aria con altri malati, quando si ammalò, in un barcone..

  6. Queste Poesie per il Natale, davvero mi convincono. Antonio Sagredo ha abbandonato il senso, e se ne ride. Del resto a Lui importano quegli accenti sulle ultime parole, e peccato non potere assistere allo sguardo che conclude. Magnifico!
    Poi la brevità, il frammento. Basta con quelle mezze lunghezze, che hanno sempre inizio e fine! (Resta inteso che il frammento moderno lo ha inventato Lui, ai primi del novecento).
    Poetry kitchen di gran livello.

  7. antonio sagredo

    [Voglio una vita, spericolata, come quella di Steve McQueen!]
    G. Linguaglossa

    —————————————————————————
    Voglio una vita aperta senza convergenze,
    la pace di una bestia che non sa il mattatoio,
    dove un giorno le zampe ritte al cielo
    accuseranno un mattino l’aurora decollata.
    [1980]
    ————————————————————————
    E non voglio rattristare
    la bellezza,
    ma i nostri occhi
    sprovvisti di visione!
    [1983]
    ——————————————————-
    AUGURI A TUTTI DELL’OMBRA PER UN SERENO FUTURO DELLA NOSTRA VITA
    A. S.

  8. Desidero, da un lato, complimentarmi con Giorgio Linguaglossa per l’allestimento magnifico della pagina odierna de L’Ombra delle Parole con un mio inedito recentissimo e, dall’altro, dare un mio contributo al dibattito in corso anticipando la rubrica La post@ de Il Mangiaparole
    *
    La post@ de Il Mangiaparole n. 12
    di Gino Rago

    Domanda di Rodolfo S., frequentatore de L’Ombra delle Parole e lettore della Rivista trimestrale Il Mangiaparole

    “Leggo ne lombradelleparole.wordpress.com che «nella poetry kitchen si verifica un continuum non discontinuo, non oppositivo. Ciò accade in quanto ogni dimensione diventa un altro da sé in uno svolgimento, senza scambio né attraversamento di soglie o discontinuità. Nel nastro di Möbius ogni dimensione spaziale precipita nel suo opposto senza andare oltre la soglia del continuum.

    Così nella poesia kitchen di Gino Rago o di Marie Laure Colasson tutto accade in virtù del continuum, per via dello statuto non oppositivo del Reale, dove si passa da un personaggio all’altro attraversando i secoli (Antonio e Cleopatra), oppure mettendo in comunicazione telepatica e geografica, oltreché storica, gli autori della nuova poesia (Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Francesco Paolo Intini, Mauro Pierno, Ewa Tagher), facendo interagire oggetti disparati come la pallottola, la gallina Nanin e la giacca di Magritte. Sono questi oggetti a costituire l’orditura del Reale. O meglio, è per il tramite della ribellione degli oggetti che possiamo gettare uno sguardo all’interno del Reale. Nella poesia di Marie Laure Colasson abbiamo un gioco di maschere e di sosia che si scambiano il posto e le identità (Eredia, la bianca geisha, Francis Bacon etc.) in una fantasmagoria che segue le leggi dell’inconscio e, in particolare, quel vuoto causativo del Reale che si rivela essere la soglia più intima (ed estranea) della soggettività.

    Gli oggetti e i personaggi della nuova poesia kitchen sono come situati su un tappeto volante o nastro magico che, scorrendo, ci mette in scena la coreografia e la scenografia di un Reale che non conoscevamo, gli scenari di un retro-Reale o sopra-Reale.

    La configurazione topologica di questo nastro magico è dunque tale per cui in esso non c’è una cosa che si rovesci nel suo altro, perché prima non c’è alcuna cosa, ma solo un piano assoluto di un continuum senza opposti, senza contrari, senza discontinuità.»
    Confesso che ho le idee confuse. Potete spiegarmi la poetry kitchen con altre parole?”.

    (Rodolfo S.)
    *
    Risposta di Gino Rago

    Gentile Rodolfo S.,

    – L’unità vera di un testo non risiede nella sua origine (l’autore/ l’autrice) ma nella sua destinazione finale (il lettore/ la lettrice).
    – Non si dà testo se non c’è un lettore/ una lettrice che l’attraversi.
    – Il vero nucleo di interesse dunque non può essere più l’autore/ l’autrice del testo ma colui/ colei che lo legge.

    Non è un caso che, anche sull’orma de La morte dell’autore (1968) di Roland Barthes, Samuel Beckett abbia scritto: «Che importa chi parla, qualcuno ha detto, che importa chi parla».

    La poesia adagiata sulla ontologia del novecento contempla il lettore nel ruolo di «consumatore-di-un-significato-fisso».
    Secondo Roland Barthes* i testi come quello della Achmatova (come i testi di tutta la poesia modernista italiana, ed europea, di tutte le scuole), sono esempi di testi da definire «a significato fisso». Al contrario, la poesia kitchen rende il lettore non più soltanto «consumatore» di un significato, ma soprattutto un «produttore di significati»; il testo diventa policentrico, eccentrico.

    Prendiamo un testo classico di poesia modernista incensata su un «significato» fisso:

    Anna Achmatova

    Vivo come il cucù dell’orologio,
    non invidio gli uccelli dei boschi tuttavia.
    Mi danno carica e io faccio cucù.
    Però, lo sai che a un nemico soltanto
    un tale destino augurerei.
    (1911)

    E adesso prendiamo in considerazione un testo della poetry kitchen di

    Marie Laure Colasson

    Scendendo le scale l’allegria si rompe la gamba
    strappa le sua calze retinate la sua veste molto corta
    resta allungata sul marmo

    Eredia la cura la mette nella sua borsetta coccodrillo
    con il colore della collera e un libro di Max Jacob

    La bianca geisha infila la mano nella borsetta coccodrillo
    prende il libro di Max Jakob per conoscere il suo oroscopo

    Il colore della collera avviluppa l’allegria
    stinge su di lei la borsetta si trasforma in leopardo
    corsa sfrenata verso la savana africana

    Il coccodrillo abbandona allora la sua vecchia pelle
    ormai inutile e la corica lungo il Gange

    Eredia e la bianca geisha vanno al Central Park
    per il gusto della derisione
    leggono l’oroscopo a rovescio

    Come si vede, la poetry kitchen si basa sulla ricusazione della poesia a «significato fisso», in favore della adozione di una poesia con una «pluralità di significati».
    Roland Barthes, nel suo breve ma denso saggio La mort de l’auteur, sancisce, riconoscendola nella sua pienezza, la libertà del lettore di fronte al testo.

    Anch’io penso che l’autorità autoriale non esista. L’autore non è altro che un luogo di incontro di linguaggi, citazioni, stratificazioni, ripetizioni, echi, referenze, interferenze. Ne consegue che il testo si sposta sul lettore, il quale esercita pienamente la sua libertà di «aprire» i significati.

    Nella parte più importante del saggio Roland Barthes si concentra sulla distinzione fra i testi e li distingue tra:
    – testi realistici (questi, a lungo e ancor oggi dominanti, si limitano a offrire al lettore «significati chiusi»;
    – testi (fra cui quelli della poetry kitchen) che, al contrario dei testi realistici, sono in grado di incoraggiare, di invitare il lettore ad entrare nel testo in modo che lo stesso sia capace di produrre significati, ricorrendo anche al «parlato», ai salti spazio temporali, alle interferenze del discorso, alla parallasse etc. cioè a tutti quegli espedienti retorici che consentono una struttura quadri dimensionale del testo.

    Il testo di tipo «realistico», quasi esclude il lettore perché gli permette unicamente di essere il «consumatore» di un significato fisso, come accade per la poesia citata della Achmatova. Il secondo tipo di testi invece mira a trasformare il lettore da «consumatore» a «produttore». Il testo è così aperto a una «pluralità di significati». Più si accentua la «mort de l’auteur» più il lettore entra nel testo per scrivere egli stesso la poesia.

    *Roland Barthes, La mort de l’auteur (1968) in Id. Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984

    (Gino Rago)

  9. Condivido il pensiero di Lucio Mayoor Tosi, in queste poesie per il Natale datate 1977 Antonio Sagredo si impegna in uno «pseudo-racconto» senza bisogno di avere alcun concetto di rappresentazione, è un racconto che non vuole raccontare, e quindi non ha bisogno di un «Io» cui doverosamente aggrapparsi per giustificare un racconto che non è un racconto.

    La voce narrante è un fuori-campo. È una rete di comunicazione e di scambi sonori, contenente i rumori, i suoni, le assonanze, gli atti di parola riflessivi o interattivi, la musica (che viene presupposta), e che penetra l’immagine visiva dall’esterno e dall’interno rendendola tanto più «leggibile», intensa e dinamica.

    Le poesie segnano un buon risultato perché sanno fermarsi al punto giusto, sono, come nota Lucio, dei frammenti, e il frammento non ha né inizio né fine. Peccato che poi il Sagredo successivo degli ultimi decenni sembra aver smarrito questa strada, quella del frammento, e abbia profuso le sue forze a «chiudere» il suo discorso ad ogni composizione… e, se c’è «chiusura» c’è un «Io» plenipotenziario che gira la serratura.

    Ecco, nel frammento non si dà mai alcuna «chiusura» perché non c’è alcun «Io». La nuova fenomenologia del poetico non sa che farsene dell’«Io».
    Infatti, in queste poesie del 2006, Sagredo ritorna alla impostazione degli esordi, abbandona «Sua Maestà l’io» alle ortiche e riesce nel suo intento.

    • L’Ospizio delle Libertà in San Giovanni
      di Antonio Sagredo

      (Vermicino, 6/11 dicembre 2006)

      Quando il Fato giunge di soppiatto a conteggiare noi
      e gioca a nascondino come un cieco delatore,
      celebrare il tradimento è un dono razionale.
      Le falene non s’addicono alla luce di fari già dimessi,
      quando i morituri non prestano alle maschere le ossa.

      *

      Mirava dei patiboli i decubiti stellari, esangui,
      e di una tortura i rigurgiti di traiettorie senza fine.
      Gli insensati strofinìi delle comete su muraglie inesistenti
      e dei ratti la peluria di sfolgoranti squittinìi – mirava…
      e su di te, davvero, non sai se sfacelo o rovina!

      *

      Quando giungerà il terribile Natale di scintille e di tragedie
      assetate i commensali con fiumare di acque feniche!
      Gli zoccoli s’appestano in un silenzio di galoppo,
      i sentieri hanno un volto equino come i quattro candelabri.
      Leviteranno tumuli di anatemi in tumulti di calunnie,
      ma noi brinderemo ai miti che hanno scavato un vuoto oblio!

  10. INDOSSA DA DIO

    Aironi migrano intorno ai nidi.
    Capo Giuseppe apre negozi sul Lungomare.

    Da quando è iniziato il film?
    Sulle antenne staziona un passeggio di ragni

    Il mercato di stalle e forche
    Ha trovato un buco per sistemarsi.

    Pulci cavalcano ratti nel rodeo.
    L’Afghanistan partorisce vie francigene.

    Il produttore di Persona
    cerca Salce per concludere nel 2020.

    Anche il muro di Berlino ha frequenza d’onda
    e dunque: perché non parla signora Vogler?

    Bibi invece sbatte creste sulla testa
    Percorre un tratto con tre sorelle

    Tutte assieme sulle strisce
    ma nella chiusa del Sigillo

    Gorgheggia di quella spiaggia
    In un happening organizzato da Filini.

    Uova schiuse allora o un colpo di piccone?
    Aborto raccontato da Leon Trotskij.

    Don Giovanni si arrampica sul muro.
    Adora il miele della torta.

    Indossa da Dio le otto zampe.

    (Francesco Paolo Intini)

  11. per il santo ed ecumenico Natale

    [Una mia vecchia poesia che ho modificato, da Stanza n. 23 Risposte del Signor Cogito]

    Il Signor K. è ancora là

    Davanti alla finestra. Dopo l’attaccapanni. La porta.
    Uno spazio bianco.

    Disse: «Oggi il miglior modo per concludere una poesia è:
    “Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.”

    Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi.
    Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso:

    “Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.”»*

    […]

    La linea dei cespugli… tinnivano le posate dei corvi,
    l’argenteria degli uccelli garriva.

    Rumore di forbici di barbiere. Afrore di rancido.
    Annuii con il capo.

    […]

    K. è seduto sulla sedia girevole.
    Conversa amabilmente con il nano Azazello.

    «Aggiungi un posto a tavola, a capo tavola.
    C’è la Signora Morte in libera uscita».

    Il parrucchiere François con la faccia di Dalì
    taglia la zazzera al Signor K..

    Il critico Bezdomnij, gilet giallo
    sotto la giacca scozzese, parla di Yeshua.

    Yeshua risponde a Pilato, gli dice cos’è la verità,
    ma il Procuratore ha mal di testa, non ascolta, è distratto…

    […]

    Sul divano rosso. La nera custodia semiaperta.
    Lo Stradivari brillava nella bara il suo sonno incomprensibile.

    «Ma io non sono un violinista – obiettò mio padre –
    non ho mai suonato questo strumento».

    Il corvo prestò questo pensiero al musicista.
    Il quale lo dimentica, imbraccia il violino, lo porta in spalla,

    Sotto il mento. Si mette in posa…

    * Un verso di Tomas Tranströmer

    • risvolto di copertina del mio libro nel 2011, La nuova poesia modernista italiana (1980-2010):

      «Se il linguaggio della post-avanguardia entrava in rotta di collisione con i linguaggi della scienza e della modernità, la Nuova Poesia Modernista prende atto della crisi irreversibile di ogni linguaggio fondato sulla “differenza”, sullo “scarto”, sullo “statuto ambiguo”; e prende atto della mancanza di un fondamento su cui sia possibile poggiare la costruzione poematica. La Nuova Poesia Modernista è il tipico e più maturo esempio di una poesia sopravvissuta dopo la bancarotta dell’ontologia, tra Heidegger e Wittgenstein. L’ontologia negativa di Heidegger, per il quale «Essere è ciò che non si dice», tendeva a spostare l’asse del logos poetico novecentesco più sul non-detto, sui silenzi tra le parole, ed infine, sul silenzio tout court. Il nichilismo era il precipizio entro il quale precipitava e periclitava tutta l’ontologia heideggeriana. Per contro, il linguaggio poetico novecentesco minacciava di periclitare, sull’orlo del nichilismo, nel compiuto silenzio della poesia post-celaniana. L’impossibilità di approdare ad una conclusione, in Heidegger, è totale: il pensatore è poeta, il silenzio è l’essenza del linguaggio, esso è il luogo atto a esprimere l’essenziale come non-dire».

  12. antonio sagredo

    ‘dove la fascinazione acustica si compatta al significato man mano che progredisci nella lettura’.

    letizia leone
    —————————————————————————————-
    questo di Letizia è uno dei pochissimi giudizi azzeccati nei riguardi dei miei versi…e per questo Le invio sereni auguri antipandemici
    —————————————–
    lungotevere

    Sotto i platani:
    musica pazza
    un ratto
    un’alcova.

    a.s.

    Roma, 1968

  13. milaure colasson

    Desidero complimentarmi con Gino Rago, ormai le sue “Vicissitudini” della gallina Nanin possono ambire a essere un vero romanzo in versi della attualità italiana, una sorta di cronaca rovesciata del gran teatro della politica italiana dove ci sono maschere a profusione, baldanzosi soldatacci di provincia e professori.
    Sono quindi curiosa di conoscere le prossime peripezie di Madame Nanin… E che ci dice Gino Rago degli amori sconvenienti della gallina Nanin? Io la vedrei bene accanto a Brigitte Bardot, o a Jane Birkin! Ha uno stile e una classe impeccabili in specie quando saltabecca con i tacchi a spillo.
    Complimenti anche per le poesie di Francesco Paolo Intini e di Mauro Pierno. Tutti molto kitchen. Bravi.

  14. milaure colasson

    per Gino Rago, la mia ultima poesia.
    da Les choses de la vie

    39

    Le silence se referme comme un verrou grinçant
    Eredia entre dans l’ombre de la blanche geisha
    leurs ombres prennent un train pur
    un “voyage au bout de la nuit”

    Bruit d’une respiration sifflante
    un serpent au sourire à l’envers fume
    un énorme cigare électronique

    Les ombres tirent le signal d’allarme
    hurlent des slogans pour arrêter bruit et tabagie

    Un jet de lumière dorée dans une flaque d’urine
    à l’hotel “Los Escargoles” de Madrid
    sur fond noir d’une toile de Caravaggio

    Sombre secret bercé d’illusions suicidaires
    un caillou se transforme en citrouille
    rue des Hauts Platanes

    Les ombres voyagent dans les rayonnages du labyrinthe
    abandonnent leurs vêtements sur le portemanteau
    se réfugient dans la caravane abandonnée
    de la proprieté du fakir Boris Vian

    La grille se verrouille au plus profond du silence grinçant

    *

    Il silenzio si richiude come un chiavistello cigolante
    Eredia entra nell’ombra della bianca geisha
    le loro ombre salgono su un treno per
    un “Viaggio al termine della notte”

    Brusio di una respirazione sibilante
    un serpente dal sorriso a rovescio fuma
    un enorme sigaro elettronico

    Le ombre tirano il segnale d’allarme
    urlano degli slogans per arrestare rumore e tabagia

    Un jet di luce dorata in una pozza d’urina
    all’hotel “Los Escargoles” di Madrid
    sul fondo nero di una tela del Caravaggio

    Oscuro segreto cullato da illusioni suicidarie
    un ciottolo si trasforma in zucca
    rue des Hauts Platanes

    Le ombre viaggiano nelle scaffalature del labirinto
    abbandonano i loro vestiti sull’attaccapanni
    si rifugiano nel caravan abbandonato
    di proprietà del fachiro Boris Vian

    L’inferriata s’inchiavarda nel profondo del silenzio stridente

    • Due riflessioni brevi su l’ultima poesia di Milaure Colasson
      da Les choses de la vie

      1- Le parole-chiave ombre-silenzio-labirinto-allarme che Milaure Colasson colloca con viva coscienza linguistica in posizione per me dominante nella sua recentissima composizione in Le choses de la vie riconducono a Giorgio Agamben del Diario Italiano.

      Giorgio Agamben scrive (In questo esilio, Diario Italiano 1992-’94):

      « Si dice che i sopravvissuti che tornavano – e tornano -dai campi, non avevano nulla da raccontare, che quanto più la loro testimonianza era autentica, tanto meno essi provavano a comunicare ciò che avevano vissuto. Come se essi stessi per primi fossero assaliti da un dubbio sulla realtà di ciò che era loro capitato – se non avessero, per caso, scambiato un incubo per un evento reale. Essi sapevano – e sanno – che ad Auschwitz o a Omarska non erano diventati «più saggi, o più profondi, né migliori, più umani o più benevoli nei confronti dell’uomo», ne erano usciti, invece, denudati, svuotati, disorientati. E parlarne, non ne avevano voglia. Fatte le debite distanze, questa sensazione di sospetto nei confronti della propria testimonianza vale, in qualche modo, anche per noi. Sembra che nulla, in ciò che abbiamo vissuto in questi anni, ci autorizzi a parlare».

      2- “[…]ombre salgono su un treno per
      un “Viaggio al termine della notte”

      Il distico di Milaure Colasson spinge il lettore inevitabilmente in quella sorta di anarchismo morale che Louis Ferdinand Céline ha immesso nel capolavoro della narrativa del ‘900 europeo Viaggio al centro della notte,
      più precisamente nel punto esatto in cui Céline, attraverso la voce del suo alter ego Ferdinand Bardamu (che osserva la vita in un miscuglio di cinismo-rabbia-disincanto), scrive:«La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte».
      E dopo la notte ci sarà un’altra notte e dopo un’altra ancora…

      Per questa coscienza dello spirito del nostro tempo parlerei per la scrittura di Milaure Colasson di umanesimo resiliente.

  15. cara Marie Laure,

    la nuova ontologia estetica è passata attraverso vari gradi, dapprima la formulazione di un grande Progetto, dell’uscita definitiva dal novecento, poi siamo passati al frammento e, susseguentemente, al distico e al polittico, infine abbiamo sorpassato il distico in vista di una scrittura che fosse una forma di forze divergenti e contraddittorie. Mi fa piacere quindi trovare nella tua scrittura questo percorso, evidentemente certe cose erano nell’aria, le strutture semantiche vivono nella storia di tutti i giorni, e si modificano, si evolvono.

    Le strutture semantiche sono il prodotto di un lavoro di singoli e di collettività che entrano in relazione con la tradizione semantica. Possiamo rispettarla, sacralizzarla, volerla migliorare,o, al contrario, possiamo contestarla, deriderla, volerla distruggere; e il tutto passa per un campionario vasto di altri stili di relazione. In tutti i casi, il lavoro sulla tradizione semantica e stilistica provoca mutamenti, alterazioni e deformazioni di quello che è considerato lo sfondo semantico e stilistico sul quale si lavora.
    Per fugare ogni equivoco,lavorare sulle strutture semantiche della tradizione significa modellarle, cambiarle, modificarle. La costruzione di una struttura semantica non può essere il lavoro di una singolarità, ma è frutto di un lavoro collettivo che si inserisce in un contesto storico-stilistico e semantico di un determinato genere in relazione dialettica con le sollecitazioni e le esigenze dell’ambiente sociale e culturale.
    Le strutture semantiche si configurano, cioè, come un ibrido che mischia i segni del passato e la possibilità di vari futuri compossibili.
    In parole povere: una struttura semantica è il prodotto di un lavoro, di una pratica, di una praxix.

  16. milaure colasson

    caro Giorgio,

    ciò che tu intendi nell’opera d’arte è il prodotto di un doppio movimento: da una parte essa riconcilia in modo ideale, trasfigurato, ciò che nella realtà sociale resta diviso, irriconciliato; dall’altra però la stessa opera denuncia come finzione tale conciliazione; è proprio questa, allora, la funzione implicitamente critica che deve caratterizzare le opere d’arte, la cui forma è così negazione determinata del loro stesso contenuto sociale. Se tu, Gino Rago, Mario Gabriele, Intini e altri della poetry kitchen, oggi, rinunciate alla forma, intesa come “bella forma” – e dunque come espressione di un mondo riconciliato –, è perché afferente alla dimensione auratica l’opera finisce col cedere alla regressione, a prodotto kitsch dell’industria culturale. Questo problema è, sicuramente, al centro della poetry kitchen, la quale deve trovare il giusto bilanciamento tra la forma (lo spettro della conciliazione) e la non-forma (l’irrisolto, l’inconciliato, la contraddizione). In particolare, se oggi a venir meno è la funzione rappresentativa dell’arte, allora l’opera kitchen non rappresenta soltanto il mondo frammentario e disgregato, in quanto la disgregazione è penetrata nella sua stessa forma, sì che quest’ultima non si offre più a noi come rappresentazione. Di qui, la dimensione etica dell’arte del postmoderno che, proprio in quanto impegnata nella salvazione degli elementi formali dell’opera, è strettamente coinvolta nella conflittualità estetica.
    L’aspetto eminentemente scenico e scenografico della dimensione kitchen è, da questo punto di vista, ineliminabile, costituisce lo spettro dell’apparenza e della fiction cui è condannata (comandata) l’arte che voglia sottrarsi al giogo del dominio.

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