Lucio Mayoor Tosi, Covid garden, Inverno, 2020
Giorgio Linguaglossa: un bel ritratto della Assenza. In realtà lì non c’è niente, niente di significativo… c’è un pointillisme di luci e corpuscoli diffusi…e della neve c’è l’Assenza… voglio dire che non c’è rappresentazione. Forse qui siamo veramente nella rappresentazione di una non rappresentazione, di un inconscio an-Edipico. L’inconscio an-Edipico ignora la significazione così come ignora le leggi, le immagini, le strutture e i simboli. È un inconscio orfano, poiché precede il nome del Padre che inietta nelle sue produzioni l’assenza costitutiva del sé
Lucio Mayoor Tosi: E’ così, oltre al gesto pittorico non c’è nulla. Resta da considerare il paesaggio della pianura Padana: linea dell’orizzonte, un sopra e un sotto. Impaginazione elementare, in regola con la sezione aurea. Della pittura mi resta la pittura stessa, il segno che non ammette ripensamenti. L’ho capito anni fa esaminando un dipinto di Caravaggio, mi pare la Cena di Emmaus: nel dettaglio di un panneggio, la preziosità del suo segno pittorico. L’insieme, o il grande significato, erano spariti alla mia vista. Ma così è la pittura astratta, specie quella giapponese. Per l’estetica ho appreso anche da artisti italiani, cito solo Enzo Cucchi. Ma anche Schifano, ai suoi esordi. E il mio preferito, Osvaldo Licini.
Lucio Mayoor Tosi: In altri dipinti il soggetto c’è, come La gallina Nanin. Ma è chiaramente una provocazione.
Marie Laure Colasson: Lucio è veramente un pezzo notevole, una semplicità difficile da raggiungere di grande attrazione. Io in questo periodo non mi so fermare a tempo, e non va bene. Almeno ne sono cosciente.
Lucio Mayoor Tosi, Segni, 2020
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Giorgio Linguaglossa
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Nella poetry kitchen ci sono mille piccole percezioni inconsce, una sorta di pointillisme diffuso; esse sono le condizioni per l’esistenza delle nostre rappresentazioni, ed hanno il compito di non confondersi mai con le rappresentazioni chiare e distinte proprie del logos rationale ma di convivere con esse in un mistilinguismo insondabile.
La «materia» micrologica dell’inconscio, ciò che sta «al di sotto della coscienza», corrisponde a queste piccole percezioni che a noi e alla nostra esperienza restano del tutto oscure e impenetrabili.
Il carattere distinto-oscuro dell’inconscio del pensiero esprime qui la sua natura intensiva, la sua realtà non-empirica come oggetto fantasmatico che coincide con il suo coglimento problematico. La verità è che quell’oggetto problematico che sta al di fuori dell’empirico, il fantasmatico, è la realtà non-empirica come fenditura o taglio nel caos del Reale. Il carattere indeterminato (distinto-oscuro) del fantasma che costituisce la struttura segreta dell’inconscio, non è una carenza, ma una mancanza, mancanza di Reale che ritorna nel Reale come parola combusta, lapsus, clinamen, scarto, e riciclo dello scarto.
È l’orizzonte problematico del discorso poetico come discorso dell’Altro che qui si pone.
L’inconscio del linguaggio, la dimensione inconscia e pre-rappresentativa della lingua, mero segno che emerge nel metalinguaggio della parola poetica.
La parola poetica così come l’inconscio, non è mai né chiara-e-distinta, né chiaro-confusa come se la dà la rappresentazione apollinea delle estetiche del Bello, bensì distinta-oscura, chiaro-oscura, macchiata dall’ombra dell’inconscio. In sé è perfettamente distinta e differenziata in ogni sua singola parte, è una possibilità interna al linguaggio che è anche una spia della sua differenzialità costitutiva.
La rappresentazione dell’inconscio e di ogni sua produzione è un errore prospettico generato dalla volontà di padroneggiare il divenire. La verità appartiene al divenire, il cui carattere non è rappresentabile: ogni conoscenza si sporge su una differenza originaria, e tale conoscenza è possibile, come organizzazione a posteriori del materiale sensibile, solo quando il divenire si è definito in una serie di rapporti tali per noi da poterlo vedere, conoscere e simbolizzare.
L’ipotesi di un inconscio strutturato come un linguaggio concepisce lo stesso inconscio su quel modello linguistico che prevede l’organizzazione strutturale dei significanti, in se stessi mancanti, in una dipendenza da un significante dispotico che agisce e su di essi opera distribuendo il Valore-significazione. L’inconscio an-Edipico ignora la significazione così come ignora le leggi, le immagini, le strutture e i simboli. È un inconscio orfano, poiché precede il nome del Padre che inietta nelle sue produzioni l’assenza costitutiva del sé.
Quando si parla di “sintomo” della nevrosi, dice Lacan, si ha ache fare con un particolare significante connesso ad un significato che è stato rimosso dalla coscienza del soggetto. Si tratta, ancora una volta, di una testimonianza di come un malfunzionamento nella struttura del linguaggio, nella catena significante determini una alterazione della parola nei confronti della cosa che vorrebbe designare.
Analogamente il linguaggio poetico ha a che fare con un significante connesso ad un significato rimosso dalla coscienza del soggetto che si sposta su un altro significante imprevisto e imprevedibile… Qui, in questa linea di confine si situa la poetry kitchen.
La parola, divenuta incomunicabile e incomprensibile, perde la sua stessa essenza e la possibilità di ottenere una risposta. Diviene una parola vuota. La parola diun soggetto che crede di parlare di se stesso, ma che in realtà parla soltanto di qualcuno che gli assomiglia, ma che non coincide con il soggetto dell’inconscio, con il soggetto del suo desiderio. E’ la parola del soggetto che si crede un Io, del moi, di chi cede alla “follia più grande”. Come ricorda Recalcati, “più la parola si riempie di Io, più risulta vuota di desiderio”.1
Nell’uomo c’è qualcuno che parla, un Ça parle. Ma si tratta di uno sconosciuto.
1 M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, 2012,Milano, pag. 102
Tre poesie di Francesco Paolo Intini
Francesco Paolo Intini (1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016) e Natomale (LetteralmenteBook, 2017). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e “Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie”. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017). Nel 2020 esce per Progetto Cultura Faust chiama Mefistofele per una metastasi. Una raccolta dei suoi scritti: NATOMALEDUE” è in preparazione.
Fondi di bottiglie e citazione sul campo
Alba primordiale organizzata da Filini
Messidor à Paris, Autumn in Bari
Con la vasca di Marat piena fino all’orlo
senza più spazio nemmeno per un picchetto
forche da ninfee, braghe appese
Match in un angolo del Murat.
Nella stanza accanto la ghigliottina del 2020.
Cos’altro attendersi dopo una birretta?
Dalle fogne c’è da aspettarsi turchesi
E coccarde al petto di mignatte.
E invece piombano Charlotte
e torri fumano toscano.
I Tempi saltano da un ratto all’altro.
Pulci nubili contro ammogliate
Covid e Plutonio nell’altra semifinale.
Dove ammuffì Simonide la curva di Serse
Cobra con la bocca spalancata a seguire la palla
Aspettano un autogoal per poterla ingoiare.
Code di coccodrilli alle 8 e 1\2 sul Fortino
Di un tanto più intelligente il caso,
biglietto vincente senza spendere un cent
monetina in pozzanghera
come per il Nobel e Cro-Magnon.
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“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two…”*
caro Francesco,
le tue poesie sono dirette in rotta di collisione contro il muro del rumore delle parole, eretto dall’homo sapiens per chissà quale maledizione o veredizione… È che immessi in questa condizione ontologica il poeta di oggi non ha altro scampo che inoltrarsi oltre quel muro del rumore delle parole per provare a vedere cosa c’è là dietro… Scrive Le Clézio:
«Abbiamo voluto dimenticare il fatto che il mondo linguistico è un mondo totale, totalmente chiuso; non ammette compromessi, non ammette condivisione. Dal momento in cui vi siamo penetrati, non ci è più possibile tornare indietro, verso quell’altro mondo, quello del silenzio».1 Siamo condannati ad andare avanti, verso il rumore delle parole. Quelle assurde, insignificanti, plurisignificanti, impostore, fasulle, nauseabonde…
1 J.M.G. Le Clézio, La torre di Blabele , in P. Barbetta, E. Valtellina (a cura di), Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale, Manifestolibri, Roma 2014, p. 101»
(Giorgio Linguaglossa)
Caro Mauro,
leggendo una tua poesia come qualunque altra nello stile Kitchen\Noe si ha sempre la sensazione di essere di fronte ad una specie di stile Fosbury che surclassa il ventrale eternamente fermo ai 2 m e 30 cm scarsi.
Questa sera piove su Bari e muovo i miei passi su Via dei Mille, ma la libreria che mi hai indicato era chiusa. Peccato, riproverò nei giorni buoni che mi sono appuntato su un palmo di mano.
Si ha un bel dire di una pioggerellina ma che dire dell’ ossigeno liquido che piove dai tetti? Ecco, leggendo queste tue sull’Ombra, in attesa di avere tra le mani l’opera completa, ti vien voglia di scrivere e dunque trasmetti una malattia contagiosissima
(F.P. Intini)
La strada mostrò le rughe in subbuglio.
Da quale emisfero migravano?
Angoli e corvi in lotta per un regno.
I porti uniti in un unico cartello e le streghe.
– Macbeth?
-San Pasquale.
Non si vedeva piovere ossigeno
Da quando convertimmo l’alta marea
Che epoca poteva ospitare una pioggia su Bari?
Un pioggerellina senza richiesta di permesso edilizio
L’ostilità delle code dinnanzi a castagne
Quella dei serafini con il termometro a infrarossi
Ma non c’ era l’anima nascosta tra i capelli?
Il cuoio è tana di lupi. Perché aggiungere tormento?
Questi uomini che piangono olio non sanno nulla
Dell’assassino sulla porta d’ingresso
C’è un incubo in ogni pacco che arriva
Perché non si sa la differenza tra un pollo e il cianuro
PICCHIATA
Arrivò l’aereo.
Un sigillo ritraeva Venere su Iceberg.
Occorreva un mappamondo per Charlot
Alla scrittura assegnare un gene nel DNA del fuoco.
Morse di ferro e bicipiti possenti
per scrivere alla lavagna.
Con la plancia aperta non si scherza
e nemmeno sui francobolli del Dittatore.
Spade accese e occhio di Rommel
All’ingresso della notte.
Scorreva senza paragone, squalo a segnalare
La presenza di Sant’Elena.
L’ Atlantico spalancava fauci
Ma vomitava barzellette su Pigafetta.
Per questo la battuta indurì i muscoli.
Divenne spruzzo e fu trafitto da balenieri.
Dov’è ferito Moby Dick
Saltella un femore.
Una crosta nelle carni d’ulivo
Si scosse come una coda di coccodrillo.
Non ne poteva più di crotali
Re di bastoni e acqua nei polmoni
Ma chi bussa?
Magellano?
Emergere e mangiare un incrociatore
far perdere il vizio di abortire rivoluzioni.
I pesciolini d’argento mangiarono
un leopardo sul Rio Faust.
Lucio Mayoor Tosi, Composizione, 2018
Parallasse
È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»
[The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *
* Slavoj Žižek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.
lombradelleparole.wordpress.com
Democrazia a rischio?
Venerdì Il Fatto quotidiano ha dedicato due pagine, richiamate in prima, a una serie di querele ricevute da tre soggetti – ENI, Maria Elisabetta Casellati e Matteo Renzi – con richieste di risarcimenti molto alti. Dagli articoli del Fatto naturalmente non si ricavano le eventuali ragioni dei querelanti, e si ripetono le accuse che hanno portato alle querele stesse rivendicandone la legittimità e accusando i querelanti di voler intimidire la libera informazione.
Alla diffusione della querela nel mondo dell’informazione (esempio tipico le dozzine e dozzine di querele ricevute da Report di RAI3) a scopo intimidatorio, fa da contraltare la diffusione della omertà e del silenzio verso le pratiche artistiche non ortodosse e non acquiscenti verso i gruppi di potere letterario, anche essa a scopo intimidatorio e liquidatorio.
La ovvia deduzione è che viviamo in un ambiente omertoso-mafioso che impiega l’ufficio pubblico come ufficio privato e l’interesse pubblico come emanazione dell’interesse privato.
Viviamo in un momento molto delicato della democrazia signorile di massa, che tende a chiudere gli spazi per le voci diverse e dissonanti e comunque non acquiescenti al potere della oligarchia.
Inutile dire che il nostro lavoro è a rischio, e che è a rischio la tenuta stessa della democrazia delle intelligenze derubricata a democrazia delle opinioni acquiescenti.
Da dove viene l’inconscio?
«Con concetti come quello di traccia o di differenza, si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa essere il padrone… La differenza è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto, incessantemente differito nel movimento del discorso rispetto a quello originario. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena senza fine di significanti, in una rete che lo dispiega e nello stesso tempo lo allontana. Cosa dirà dunque Lacan, se non precisamente che “il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante”, espressione celebre che consacra il fossato e la scissione del soggetto da se stesso… Come potrà il soggetto intercalarsi fra l’”io” del suo discorso e se-stesso? Come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo porta-voce e non autore in senso teologico, Lacan fa del soggetto questa presenza assente, questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più che segno, con una significanza che si libera dal rapporto fisso al significato, e si sposta al suo luogo. Dovrà così sorgere l’ermeneutica. Il soggetto, altro da sé, avanzerà solo mascherato, stabilendo la sua identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. La sua identità si realizza a questo prezzo, e questo prezzo è dunque l’inconscio. In tal modo risulta rimosso lo scarto retorico rispetto a sé, retorico perché l’identità non è più che figurata e non letterale».1]
1] Michel Meyer Problematologia. Pratiche editrice, 1991, p. 183
Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
Giorgio Linguaglossa
12 ottobre 2012 alle 11.52
caro Alfonso Cataldi,
100 anni sono trascorsi dalla stesura del 3° Manifesto dell’acmeismo di Osip Mandel’štam e la nuova ontologia estetica. 100 anni è un tragitto lunghissimo durante i quali abbiamo visto il mondo sconvolto da tre guerre mondiali, crisi economiche, crollo di imperi, dissoluzione del cristianesimo, la nascita dei fondamentalismi, l’islamizzazione dell’Occidente… la Cina quale potenza mondiale… La nascita della consapevolezza del quadridimensionalismo è un «portato» di questi avvenimenti macro storici… senza il concetto del quadri dimensionalismo ogni ricerca artistica rischia di rimanere sul piano del kitsch, sul piano di una figuratività di stampo mimetico del reale… Oggi, e ce lo ha insegnato Tranströmer con quei due versi mirabili che hanno cambiato la poesia europea:
le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero…
oggi, dicevo, non si dà poesia moderna senza la consapevolezza della quadri dimensionalità dell’inconscio e che tutta la poesia di qualità di questi ultimi decenni è soltanto quella che pesca in queste abissali profondità…
Secondo l’algebra lacaniana, il fantasma risponde alla formula: $ a, e cioè: soggetto barrato in rapporto all’oggetto a. Sta di fatto che il fantasma, ed è questo l’orizzonte della nostra analisi, accoglie in una sola scena le due facce del linguaggio, la tensione tra dicibile e indicibile.
Il soggetto barrato è nel linguaggio lacaniano il soggetto tout court, il soggetto così come si profila all’interno dell’articolazione del desiderio.
L’oggetto a, è invece il nome che Lacan destina alla Cosa in quanto all’oggetto perduto; rappresenta, ma sarebbe il caso di dire “indica”, allude, al venir meno stesso, alla mancanza costituente e al vuoto lasciato dall’intervento del significante ai danni della Cosa, in ragione cioè dell’azione letale del significante.
Ecco così che il fantasma annuncia una sorta di schibboleth del linguaggio, la scena in cui la rappresentazione viene a toccare la mancanza, «la beanza aperta dall’effetto dei significanti».
È così che il fantasma introduce nel discorso filosofico la questione dell’inconsistenza del soggetto parlante; denuncia che parlare è mancare. Ed è questa è la tesi di fondo della «nuova ontologia estetica». La poesia della nuova fenomenologia poetica si volge in questa direzione. A mio avviso, non c’è dubbio.
Scrive Freud nella Metapsicologia (1915):
«I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali».
Quindi, sono i «residui» «delle percezioni verbali» quelli che consentono che una parte dell’inconscio e delle sue rappresentazioni «cieche» affiorino alla superficie del sistema Conscio. Non c’è dubbio che la forma-poesia sia la più idonea a recepire i messaggi «ciechi» provenienti dall’inconscio organizzandoli entro le strutture del discorso pubblico qual è una tradizione letteraria, una petizione di poetica, e, in fin dei conti, una soggettività creatrice.
A questo punto sorge la domanda: che cos’è l’Io?
Nella seconda topica Freud affronta il problema e si chiede se l’io sia veramente solo un nucleo facente parte del sistema percezione-coscienza:
«Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona un nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale Io era legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli eccitamenti nel mondo esterno; l’Io è quell’istanza psichica che esercita un controllo su tutti i processi parziali, è l’istanza psichica che di notte va a dormire e che anche allora esercita la censura onirica».
La forma-poesia sarebbe una modalità o modo, la più elitaria, che consente la trascrizione di un contenuto inconscio che dormiva nelle abissali profondità («le posate d’argento» transtromeriane) in un linguaggio evoluto al massimo grado di sublimazione e sofisticazione culturale qual è la poesia.
La forma-poesia è un progetto come orizzonte di eventi e di intenzioni che si realizza anche contro e a lato delle aspirazioni e intenzioni umane; il progetto è una apertura dinanzi alla insondabile profondità del linguaggio. Ciò che sta oltre il linguaggio non appartiene al linguaggio. Voglio dire che l’essere che sta al di là del linguaggio è quello stesso essere che condivide il linguaggio al suo interno, per ciò non mi convince l’idea di una separazione netta e assoluta tre essere e linguaggio, la separazione c’è, ma c’è anche un «ponte» che unisce le due sponde (lontanissime), ma questo ponte non potrà essere mai percorso…
La questione è di cruciale importanza. Qual è il rapporto tra essere e linguaggio? Lacan direbbe «nessuno», per Heidegger, basterebbe citare la celebre affermazione secondo cui «il linguaggio è la dimora dell’essere». Eppure, il senso dell’essere, nonostante l’Heidegger della Khere ne abbia accentuato la vicinanza, non passa per il linguaggio, non si definisce per un rapporto interno al linguaggio, bensì per la sua condizione di «trascendens puro e semplice».2] Anzi, sottoposto aristotelicamente alla logica della predicazione, l’essere è quella parola il cui senso resta indeterminato e che non trova collocazione all’interno del linguaggio se non come suo presupposto. Non dunque l’essere presuppone il linguaggio ma il linguaggio presuppone se stesso.
L’essere cioè, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non rientra nel linguaggio nel quale sembra tuttavia risiedere, in qualche modo. Eppure, una simile condizione di fuggevolezza rappresenta allo stesso tempo la sua centralità. È in questo senso che Derrida può dire: «Lo si consideri come essenza o esistenza […] lo si consideri come copula o posizione di esistenza […], l’essere dell’essente non appartiene al campo della predicazione, perché è già implicato in ogni predicazione in generale e la rende possibile».3]
«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di tale dimora», scrive Heidegger nella Lettera sull’umanismo. Sempre Heidegger: La poesia è «il linguaggio originario di un popolo», «il fondamento che regge la storia».
Se ci soffermiamo sul nesso tra essere e linguaggio, l’ontologia diventa ermeneutica, esercizio di interpretazione di enunciati verbali. Ma se l’interpretazione
rappresenta l’unica via per pensare l’essere — e se la storia dei significati di una parola coincide con la storia dell’essere — ne segue che l’etimologia diventa una componente necessaria dell’ontologia. Di qui l’etimologismo heideggeriano, che si sviluppa di preferenza su parole greche e tedesche. L’ermeneutica dell’ascolto di Heidegger si configura come un’ermeneutica «in cammino», che scorge, nell’essere, un appello inesauribile e mai totalmente esplicitabile. Infatti, il filosofo pensa l’interpretazione come Erörterung, come un esercizio di «localizzazione», cioè di porre in un luogo il discorso che, invece di limitarsi a prendere atto di ciò che è stato detto, colloca il detto nel «luogo» (Ort) che gli è proprio, ossia in quel non-detto che lo nutre e lo regge.
1] Freud, L’io e l’es (1920) trad it. Boringhieri, Torino, 1976 p. 476
2] M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tubingen 1927; trad. it. a cura di Volpi F., Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1990 (2005), p. 69.
3] J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 172
Giorgio Linguaglossa
12 ottobre 2017
Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici.
L’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute nella tradizione italiana degli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica», da una nuova economia del discorso poetico. Non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza più tradizionale, anche quella più ingenua e sussiegosa che rifugge da ogni petizione di poetica che si basa implicitamente su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune. È del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.
Oggi finalmente in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive.
Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo.
Una poesia basata sulla coscienza immediata, sulla immediatezza del senso comune, può essere un bisogno corporale legittimo, un anelito, un desiderio di espressione personalistica che è destinato a rimanere sul piano della espressione comune.
Dovremmo chiederci perché mai sorga soltanto oggi nella poesia italiana un nuovo bisogno ontologico, il bisogno di ancorare la «nuova poesia» ad una «nuova ontologia». Il bisogno di una «nuova ontologia» del poetico è oggi diventato una necessità.
*
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.
(da Tomas Tranströmer 17 Poesie, 1954, prima poesia che ha titolo: Preludium)
“In questo periodo non mi so fermare a tempo,
e non va bene. Almeno ne sono cosciente.”
Un pensiero quello della Colasson sulla sua presunta assenza
nei commenti sulle parole, opere, e omissioni
che tutti quanti nell’Ombra pratichiamo con efficacia e testardaggine millimetrata. E’ verissimo cara, Marie Laure!
Lettore sappi allora a chiare lettere,
che essere un praticante dell’Ombra comporta questa stupenda consapevolezza.
Se ti sei perduto un concetto, un verso, un approfondimento,
un’opera grafica sappi bene che nel post successivo,
in un verso, in una esternazione, in un concetto, in quella particolare opera grafica, ti e ci ritroverai appieno. Nulla è perduto.
(Forse dovremo pensare a interporre in questa antologia Nanin, poetry kitchen, anche delle opere pittoriche.)
Grazie OMBRA.
Devo fare una precisazione: la seconda immagine, qui intitolata “segni”, non è mia ma di Mark Rothko. Io l’ho semplicemente ruotata ponendo gli elementi in verticale. E’ bastato fare questo per renderla irriconoscibile? Forse sì, perché tra verticale e orizzontale cambiano, non solo certezze e equilibrio, ma anche l’ordine del mondo. Un gioco concettuale, creato per fugaci attenzioni su Fb.
Io la procedura semi automatica di Francesco Paolo Intini la spiego così:
la procedura consiste nell’allestimento di una macchina-per-scucire, un meccanismo che inceppa il flusso delle macchine comnicazionali del discorso comune e di ogni discorso, compreso quello poetico. Inceppamento del flusso, della produzione, dell’energia. Un flusso assolutamente impersonale contaminato dall’intervento di un meccanismo semi automatico, che in Deleuze viene ridotto ad un residuato della produzione desiderante. Quello di Intini è un meccanismo anti-desiderante come metonimia della mancanza a essere, come desiderio d’autre Chose (Lacan). Il meccanismo di inceppamento del desiderio messo a punto da Intini come residuato interno alla domanda è in realtà un formidabile strumento per far brillare, far saltare come sulla dinamite il linguaggio poetico, le sue consuetudini e le sue compromissioni. Una specie di macchina celibe, impersonale, semi automatica su cui il soggetto non può avanzare alcuna pretesa di controllo e direzione verso quell’energia produttiva che scorre sul suo stesso corpo e nel corpo sociale.
da Parole Beate [2015-2016]
………………………………………………………………………………………
Macchine fanno mite la sofferenza, ma è un inganno!
E questa offesa ci canta uno scabroso madrigale,
Come se lontanasse da noi uno specchio offuscato che è la tenera rovina
Di un trucco, e dietro la scena ignora il canto di un sospeso gesto…
fra le quinte la maschera che io ho scelto mi travolge come una novella
storia senza fine
E io ritorno in una pozza nera di periferia
Per un groviglio di dettagli nel mio volto
E celebrare fra me e gli Universi
Infine un armistizio…
E siamo insieme…
E insieme è questo vincolo…
È la vera comunione come nell’infanzia la carezza inesauribile di una Madre…
E di un padre tollerato.
E la risposta sono gli occhi che con le mani cercano uno simbiotico Sguardo.
a.s.
Anche Francesco Paolo Intini, come i due poeti esemplari della poetry buffet e/o della poetry kitchen, Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa, non guarda più a quella sala da ballo affollata da Luchino Visconti, Burt Lancaster, Alain Delon e Claudia Cardinale nel Sala degli Specchi dell’Antica Dimora di Palazzo Rovitti, ma ai resti di scarpe a spillo, costumi di scena, trucchi, parrucche e lampadari e ai segni sulle pareti del Salone che in esso rimangono dopo l’ incendio del Palazzo per un colpo partito dal fucile di un garibaldino geloso del Principe di Salina e di Angelica.
Dall’analisi con Carbonio 12 di un frammento di resti combusti possiamo risalire a una intera civiltà.
Forse anche per queste ragioni Francesco Paolo Intini scrive questo distico :
“Che epoca poteva ospitare una pioggia su Bari?
Un pioggerellina senza richiesta di permesso edilizio”
Né devono passare sotto traccia sia l’ allestimento di una macchina-per-scucire del precedente commento di Giorgio Linguaglossa, sia l’osservazione
acuta di Lucio Mayoor Tosi sull’opera di Mark Rothko che se da orizzontale ruota o vien fatta ruotare in verticale si passa da un’opera a un’altra opera…
Vale esattamente per la scrittura poetica, la poiesis in orizzontale è un conto,
la poiesis in verticale è invece altra cosa.
caro Gino,
in fin dei conti, che cosa significa «poesia buffet»? Significa che sul tavolo, in soggiorno, c’è una gran quantità di pasticcini, di salatini, sandwich, salamini, formaggini, crosticini, salse piccanti e bibite, vini, acqua gassata in profusione, e che ciascuno degli «invitati» al buffet può consumarli a piacimento. Il «buffet» è dato gratis. Il «buffet» è la festa della pancia e dello spirito.
Analogamente, la «poesia buffet» sa che ci sono delle parole sul tavolo, in soggiorno, in gran quantità, le parole sante e quelle laiche, quelle piene e quelle vuote, brutte e belle etc.e ciascun poeta può cibarsene, cioè usarle a proprio piacimento.
Ma questo è appunto la poesia dei parassiti delle parole! Loro si impegnano con tutte le proprie forze a fare questa poesia del cioccolato e dei pasticcini, magari condita con un po’ di angoscia ad effetto, della suspence, della salsa alla disperazione (finta) per rendere l’eloquio più coinvolgente e convincente.
Ultimamente un autore mi diceva più o meno così: Prendiamo un verso di Intini:
Angoli e corvi in lotta per un regno.
Che cosa significa? E si rispondeva: niente! E così continuava: se anche si volesse sostituire «regno» con «ragno», lo si potrebbe fare, tanto il sintagma non significherebbe niente egualmente!
Angoli e corvi in lotta per un ragno.
A questa dotta esposizione dell’autore in questione io ho risposto così. Che la sua concezione della poiesis è appunto quella della «poesia buffet» di corriva memoria oggi molto di moda, dove un salamino equivale all’altro e che basta sostituire un salamino (parola) con un crosticino (altra parola) tanto il risultato non cambia.
Questa concezione della poiesis è fondata su un valore convinzione: che essa sia un gioco nel quale a ciascuno è dato cambiare gli addendi e l’ordine degli addendi tanto niente cambierebbe nell’ordine della significazione.
Ebbene, la «poesia buffet» di Intini è invece fondata su un valore convinzione del tutto diverso: che una parola non sia sostituibile con un’altra, e che chi lo fa compie un misfatto, un atto gratuito e arbitrario. Intini la pensa così: che la parola «regno» non sia sostituibile con la parola «ragno», che lui voleva dire proprio «regno», che il sintagma non è insensato, come crede la ingenua pubblica opinio, ma che è un «fuori-senso» e un «fuori-significato», cioè che la poesia non abita più il «senso», che la sua abitazione, la sua ubicazione è invece il «fuori-senso» e il «fuori-significato».
Questo, propriamente, è la poetry kitchen o poesia buffet. È un discorso che rivela l’esser fuori senso e fuori significato di tutti i discorsi comunicazionali che si fanno oggi più o meno con buona creanza e con profonda ipocrisia. Quello di Intini è un discorso che sta fuori-del-discorso.
«Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori»
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)
«Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio».
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)
A. Emo, la voce incomparabile del silenzio, Gallucci, 2013, p. 110
Aspettando un cormorano arriva in aereo. Atterra e saluta.
Il sole ha la testa nella biacca e di tanto in tanto scosta una nuvola completamente ciucco.
La luna volteggia sul Club di esclusivi. Una gran signora si tiene lontano dalle masse perchè questa usa come unità di misura la propria lingua per regolare le distanze.
Quante papille per arrivare a Lei?
Nemmeno Zenone saprebbe rispondere ma i Baresi sì (ognuno ha i propri attorno). Per molti di loro è tutto chiaro, la risposta è semplice. Il metro è un’invenzione inutile, della Scienza, questa sconosciuta. E dunque i cormorani non esistono ma solo pinguini sui trespoli del porto a cui fanno da cornice i monti dell’Albania.
Gargano? E’ un cognome tipico di queste parti?
Figuriamoci se poi insisti a dire che il Virus è cosa seria, che popola i polmoni e mangia l’ossigeno tuffandosi tra i sospiri.
Ah l’ossigeno!
Se piove è segno che tutto va bene e fuori metafora vuol dire che si potrà ancora lavorare come si è sempre fatto in questi anni di razionalità profusa a far girare molecola su molecola, crearne nuove e leggerle al freddo di una cantina di pochi kelvin tra condense d’aria liquida e granchi sempre in agguato.
Ma questo è il mio io, ancora attivo, la parte dedita alla ricerca della pietra filosofale e scrive le azioni su coordinate cartesiane, non l’autore di poesia.
Ne è permesso un altro?
Questo è certo ma gira on senso opposto, fondamentalmente insoddisfatto della grandezza cui aspira la misura, la precisione, il calcolo, occupandosi invece di bottiglie e tappi, di spazi che s’intravvedono oltre il frigo come mancasse il fondo dell’universo e fosse sospesa ogni legge termodinamica e dunque non vorrebbe fare alcuna teoria ma lasciare che le cose vadano per loro conto e in maniera quasi automatica, come osserva Giorgio acutamente, crescano e si mutino in altro, sotto l’ influsso di forze che non nascono dalle bacchette di maga Magò e la saggia Ermione per cui impunemente un “crosticino” vale “un salamino”. Per stanchezza forse o pigrizia o nell’estremo consumo di un piacere sconosciuto o per mancanza di esso ed eccesso di desiderio e insufficienza di strumenti per valutare il vuoto lasciato dal Prima.
C’è un telos da dare agli eventi che mutano sembiante nella cucina tra melanzane che adesso sono e tra poco non saranno e buste per il riciclabile?
Le parole per dirlo e non dirlo sono onde. Basta buttarne una in un prisma per vederla disperdere sette lunghezze d’onda. Come è possibile metterle sotto un microscopio e trarne un significato solo? C’è sempre qualcos’altro che va perso, un lato, una finestra da sostituire senza rinunciare a voler ridurre i margini di errore su quella lanciata sul tavolo della cucina, tra coltelli e residui di ragù. La completezza non è mai dietro l’angolo e ciò che ne vien fuori sa di tutti i mondi che nel frattempo ha attraversato presagendone altri, compreso il nostro in cui un Virus si espande in ogni direzione esattamente come un’onda.
Il sole atterra, scende blu di Picasso
Il pilota inciampa in una perla
Racconti d’agave girati a donna
E tigre su malva:-Che ci sto a fare qui?
Grazie Ombra, Ciao
È negli anni settanta che inizia a profilarsi in Europa un nuovo paradigma scientifico:
le teorie della complessità si rifanno al pensiero di Ilya Prigogine che ebbe il Nobel per la Chimica nel 1977, per la rimodulazione della teoria dell’entropia e di Erich Jantsch, astrofisico che rielaborò la teoria dell’evoluzione nel 1979, nel suo libro l’Universo che si autoorganizza.
Oggi, nel bel mezzo della crisi della pandemia Covid e della crisi economica parallela, inizia a profilarsi la comparsa di un nuovo paradigma scientifico, con la concezione di un super universo immobile di Erik Peter Verlinde e con il superamento del modello spazio-temporale di Einstein. Per il fisico olandese il cosmo può essere descritto come un enorme ologramma, cioè una rappresentazione in due dimensioni di un oggetto 3D. Verlinde, infatti, esprime l’universo e le relazioni tra le particelle che lo compongono in termini di qubit disposti su un piano: in pratica, è come dire che il cosmo può essere trascritto in un enorme foglio di carta…
Non è un caso che la poetry kitchen sia nata nel corso di questo grande rivolgimento, che presenta tutti i caratteri di una «emergenza» vera e propria, in cui tutti i modelli e i paradigmi della tradizione scientifica e letteraria vengono esautorati per una nuova visione della poiesis.
Non a caso due dei componenti di questo movimento: Francesco Paolo Intini e Gino Rago provengono da studi scientifici, in particolare hanno entrambi una formazione scientifica essendo dei chimici ed esercitando la professione di ricercatori nel campo della chimica.
Rifacimento pop di alcuni versi di Intini:
Il sole atterra sulla punta di uno spillo
il blu di Picasso ottiene udienza dal Papa
il pilota automatico inciampa in una perla
atterra su una luna di Giove e si fa la barba
Concordo con la tesi di un nuovo paradigma che sorgerebbe in concomitanza con una emergenza antropologica e economica. In ballo c’è il paradigma del capitalismo, di un modello di sviluppo… ma di tutto ciò i poeti italiani non sembrano accorgersene.
Penso anch’io che in poesia come in pittura oggi si richiede ai pittori e ai poeti e agli scrittori di scrivere qualcosa di nuovo.
E’ un pensiero elementare, ma forse ribadire i pensieri elementari non è inutile.