Scampia, scantinato occupato
*
Inedito di Mario M. Gabriele
(da mariomgabriele.altervista.org)
Inverno con Black Friday
tra eventi a sorpresa e Ie foto di Marlene.
Al Max Hotel c’era un’asta di cucine LUBE,
un album di 50 Rockstar
e una macchina da scrivere ERIKA
come quella che usava Brecht
in Madre Courage e i suoi figli.
Nessuno sa quanti ricambi d’aria
ci porterà la stagione,
Lei senza più ricami, con cappotto e guanti cashmer,
si lasciò andare ai Sette Peccati Capitali.
Ci fu un accordo sui found poems e il cut-up
senza impasse.
Guten Morgen Mein Herr,
Guten Morgen, disse Albert.
Qui restiamo ad attendere il Die Welt
con i capitoli a puntate su Birkenau.
Condizione primaria per il Dichtung
è il linguaggio ontogenetico.
Non si confonda, Signorina Ellen,
la tristezza è dentro e fuori casa.
Non vorrà mica un’altra Genesi
a quella che già conosce?
Non importa ciò che dice Ruth,
è un passerotto su Airways.
Clara si portò dietro un disappunto
per come se ne andò la giovinezza.
Portnoy è nei Meridiani Mondadori
dopo aver girato come un cane nei cimiteri.
La seconda volta che incontrammo Marianne
aveva tra le mani uno chiffon.
il ghostwriter di triller
si aggrappò alla plafoniera per non farla spegnere.
Abbiamo una shance in Cyberpunk
ed è lo stesso mondo solo un po’ diverso.
Howard Hughes girò il mondo in tre giorni,
meno di Lindbergh con lo Spirit of St. Louis
e la mosca ballerina.
“Ci siamo, darling, ci siamo baby….
No, bébé, à Paris. Thanks – no, merci –
Amica mia….ma come
Ti chiami? …. Laggiù! Laggiù!
é Le Bourget, bébé !” (1)
Ti lamenti se rimani a casa.
Non rimarrà una briciola dei tuoi ricordi:
solo i vestiti outdoor stile Mountain Kaban.
per le feste che non verranno.
Nota n. 1. Sono i versi di Alberto Mario Moriconi da:Il dente di Wells.
Svuota poesia? o Svuota cantina?
E’ la raccolta più organolettica che si propone oggi al lettore di fronte all’uso lessicale di provenienza psicopatogena, disarticolata, ed embrionale, emporio del disordine, e outlet, Zibaldone di pensieri, e oggettività a tutto spiano di carica virale, messi in atto da chi fa uso di differenze accumulative, e che forse considera l’infinito una particella minima dell’ultrainfinito, rimettendo in gioco teorie e pratiche scientifiche tali da considerare a favore o contro il principio antropico finale, quello per intenderci di Barrow e Tipler, catalogando cifre e significati policentrici ed espansivi dell’universo, tra teleologia e modello standard del Bing Bang, scendendo alle piccole cose terrene da utilizzare nella struttura del verso.
Le misture, tra parole semplici e additivi surreali, rivelano un disordine psicogeno. L’ES è in rotta con la sfera volitiva. C’è chi predilige forme e oggetti di varia natura, tra cui si annotano materassi, letti, tavoli, armadi, cassettiere, scaffali, divani, poltrone, sedie, carrozzine, girelli, culle, televisori, videoregistratori, lavatrici, frigoriferi, elettrodomestici da incasso, condizionatori, stufe e mascherine Covid, assieme a materiale chimico ed edile, come amianto, colori, vernici, bombole di gas e ossigeno, provette con idrogeno, elio, litio, boro, azoto, antimonio, argon, bismuto, cobalto, cripto, per creare un polittico? Una pala sacra? O una scuola primaria per poeti del futuro? Ciò significa mettere in scena figure e oggetti apocrifi nel tentativo di creare un camaleontismo linguistico di elevazione così bassa in cui il lettore si perde nel gioco smaliziato di significati e feuilleton. E chi lo pratica non abiura i propri solipsismi, e grovigli letterari e scientifici, che in molti casi si autodistruggono da soli, bloccando la poesia dalla sua funzione d’Arte. Svuota poesia? Sì! Ma anche svuota cantina!
(Mario M. Gabriele)
Giorgio Linguaglossa
La de-colonizzazione della poiesis dall’apparato metafisico
Poetry kitchen è scrittura di scarti simbolici, di scarti dell’Immaginario, di scarti della produzione, di scarti dello scarto. Appunto perché «Ciò che resta lo fondano i poeti» (Hölderlin). Con buona pace del poeta tedesco, oggi la poesia è divenuta discarica abusiva di materiali inerti, ipoveritativi, iperveritativi, ipodesiderativi, iporadioattivi. Se c’è una attività per eccellenza ipoveritativa nel ciclo della produzione e del consumo è l’attività di prodotti deiettati dal consumo. Oggi, caro Claudio Borghi, chi voglia essere un poeta innocente cade irreversibilmente nell’ipoveritativo e nel pensiero pacificato della parola che salva; il meccanismo della reversibilità di ogni produzione, anche di quella ipo o iperveritativa che oggi viene scambiata per poesia, è rigurgito della reversibilità a costo zero del kitsch.
La tesi di Baudrillard è che per poter superare il dispositivo del codice sia necessario rendere il ‘simbolico’ autonomo rispetto alle nozioni di lavoro, di produzione, di bisogno e di desiderio attraverso un processo di de-colonizzazione del pensiero dall’apparato metafisico. Solo infrangendo lo
specchio della produzione in cui tutta la metafisica occidentale è riflessa è possibile individuare quell’al di là del valore proprio del simbolico.
Il simbolico non è un concetto né una istanza o una categoria, tantomeno una ‘struttura’. Esso è ciò che mette fine al codice disgiuntivo proprio del principio di realtà.
Da qui l’idea di ‘scambio’ simbolico specificata da Baudrillard come processo di reversibilità. Sebbene infatti il sistema produttivo possa «legare e slegare le energie», essendo alla base di ogni distinzione, «ciò che non può fare e a cui non può nemmeno sfuggire, è di essere reversibile». La reversibilità è la morte per il sistema, «non lo slegamento, né la deriva».1
La circolazione simbolica è «primordiale», nel senso di ciò che viene sottratto: il residuo che risulta dallo scambio economico per la sussistenza viene rimesso in circolo per alimentare la produzione di nuovo valore. Il surplus esiste soltanto nella produzione, la contingenza dei beni scambiati rimanda al principio di realtà. Questo sì, vigente e ottimistico.
L’accumulazione di valori e dis-valori, di valore e di plusvalore è un fatto interno al capitale, è una finzione immaginaria pensare di potersi disfare del plusvalore attraverso il dono: «nulla è mai senza contropartita […] nel senso che il processo dello scambio è inesorabilmente reversibile». Il processo di scambio simbolico non conosce la gratuità del dono, quanto piuttosto «la sfida e la reversione degli scambi».2
La figura dell’Edipo, del grande significante dispotico, è il padre autoritario dell’io panottico e legislatore che presiede alla Musa. È un arcaismo e un solecismo.
Žižek, preseguendo sulle tracce di Baudrillard e Lyotard, ammette che la pulsione di morte (Todestrieb) non possa essere intesa che come metafora che racconta il Teatro e il suo doppio, ovvero il suo sdoppiamento in una controfinalità radicale: «la (pulsione di) morte è al di là dell’inconscio – dev’essere strappata alla psicoanalisi e rivolta controdi essa».3 scrive Baudrillard. E Žižek la considera una «disfunzionalità» radicale che agisce all’interno dei tre registri: Reale Immaginario e Simbolico e che proviene, diremmo, dal registro bio-genetico dell’homo sapiens.
1 J. Baudrillard, Lo specchio della produzione, cit., pp. 145-6.
2 Ivi, p. 15n.
3 J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, p. 165-166: «La pulsione di morte è imbarazzante, perché non permette più nessuna ricostruzione dialettica. In questo consiste la sua radicalità. Ma il panico che essa provoca non le conferisce uno statuto di verità: ci si deve chiedere se non sia essa stessa, in ultima istanza, una razionalizzazione della morte.»
Il residuo è ciò che resta, ciò che si sottrae al consumo
Che cos’è che rende la parola letteraria non consumata e non consumabile? Che significa una parola letteraria e poetica non consumabile? Quale è la funzione di questa specifica non consumabilità? Facciamo un passo indietro e tentiamo di tratteggiare il fondamentale contributo che Georges Bataille diede alla comprensione e alla critica della poesia e del poetico in relazione all’utile. Una posizione di cui tener conto in relazione alla costruzione di una storia dell’idea di utile e, al contempo, del fare poetico in età contemporanea. Ne La notion de dépense , Bataille esordisce col dichiarare l’inesistenza di un metodo corretto che consenta di definire ciò che è utile agli uomini. E prosegue indicando una dépense incondizionata, ovvero il principio della perdita, che riconosce come principio razionale.
Dépense simbolica è specificamente quella riguardante un certo tipo di produzioni artistiche: letteratura, teatro e poesia. Aquest’ultima Bataille dedica uno spazio più ampio rispetto alle altre produzioni; la ragione poggia sulla adesione che il termine poesia ha con la dépense.
Per Bataille il termine poesia può essere considerato come un sinonimo di dépense (perdita).
Per la poetry kitchen ritengo di dover impiegare il concetto di repêchage de la dépence. Soltanto ciò che viene reimpiegato di ciò che è stato deiettato dal ciclo della produzione e del consumo può rientrare a pieno titolo nel concetto di dépence (perdita). Vi è perdita soltanto per ciò che viene trafugato dalla discarica a cielo aperto delle parole deiettate come bottiglie dismesse, si diceva una volta di «vuoto a perdere». Soltanto ciò che è destinato alla perdita e alla fuoriuscita dal ciclo della produzione e del consumo può essere ascritto al concetto di dépense (perdita). Soltanto allora la perdita è veramente perdita.
Cfr.G. Bataille, La notion de dépense , in “La Critique sociale”, 1933, n. 7, ora in ID., Œuvres complètes, vol. I, Gallimard, Paris 1970,tr. it. La nozione di dépense, in ID., La parte maledetta, Bertani, Verona 1972, pp. 41-57
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Buongiorno e buona domenica a tutti amici della Noe. Trovo che leggere i versi di Mario Gabriele sia un antidoto, un atto catartico contro il piattume che caratterizza il panorama prevalente nella produzione poetica italiana odierna, che tranne rari casi (che ritroviamo racchiusi nell’alveo diretto della Noe o comunque nel novero delle voci poetiche proposteci dall’ “Ombra delle parole”) è ormai imbrigliata in una scrittura auto-referenziale, incapace di farsi testimonianza storica del nostro tempo e vettore di ricerca delle costanti antropologiche che caratterizzano il percorso umano. Nella poesia di Mario, traspaiono lacerti, brandelli sedimentatisi in anfratti ipogei del tempo, stratificazioni trans-fisiche e trans-storiche che l’intuizione del poeta ricuce in una ricostruzione che conferisce un senso ontogenetico, a sua volta contributo alla filogenesi. Come ribadito negli interventi di Mario stesso e di Giorgio, la poesia ritrova così il suo valore indagatore e rivelatore dell’umana essenza, proponendo un approccio di ricerca che ricalchi il metodo di indagine dell’archeologia e dell’antropologia, non a caso i due ambiti del sapere maggiormente abituati a maneggiare la cosiddetta “cultura materiale”, a ricostruire scenari di vita quotidiana partendo dall’individuazione di frammenti tramite i quali ricomporre organicamente trame storiche ed illuminando il “tutto” inquadrandolo dai bordi, in contrapposizione ad una poesia – quella odierna specie italiana – generalmente intrisa di eccessiva “centralità” egotica. Grazie per averci dispensato questo tuo componimento inedito.
caro Vincenzo Petronelli,
ti ringrazio sinceramente del tuo commento critico sul mio testo poetico, fatto di figure allegoriche, dove il passato diventa un presente costante nella mente e nell’anima, quali vettori speciali per una letteratura da non archiviare o lasciare nel cassonetto.
In questo caso mi ritrovo a estetizzare le piccole “trame private e storiche”che hanno dato vita alla mia esperienza umana da cui ho tratto le mie opere con citazioni di altri linguaggi nella loro continua mescolanza, per non dimenticare la fragilità del nostro essere da cui nascono e si frantumano combinazioni dinamiche con i traumi del nostro tempo.Con i più cordiali saluti e auguri di ogni bene. MMG.
Caro Mario,
sono io che ti ringrazio per la tua risposta e per la grandezza della tua poesia, la cui scoperta ha contribuito e sta contribuendo decisamente- insieme agli altri apporti della Noe – a rinnovare, rivitalizzare, il mio paradigma poetico. Grazie di cuore Mario.
Vincenzo Petronelli
Riposto una dichiarazione di intenti di Mario Gabriele di quattro anni fa.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/22/mario-m-gabriele-a-proposito-del-frammento-esemplificazione-e-racconto-della-propria-poesia-dal-punto-di-vista-del-frammento-con-poesie-da-in-viaggio-con-godot/
Caro Giorgio Linguaglossa,
accolgo volentieri l’invito a decriptare i miei testi dalla struttura base, per una maggiore esemplificazione della metafora e di altre figure retoriche. L’idea di una poesia per ”frammenti”, rimane per me un percorso obbligato e di grande interesse. Tu paragoni questo modo di poetare a tanti elementi disgiuntivi che si ricompongono poi in un unico corpo, ma anche a una fotografia, che alla fine riporta in superficie spazi e sottofondi celati. Immaginiamo per un istante uno specchio che si rompe in mille pezzi. Ognuno di questi è essenziale per tornare a ricostituire la forma originaria. Si tratta, in altre parole, di una specie di implantologia, per inserire elementi in grado di armonizzare il “trapianto”, restituendo al corpo poetico la sua funzione. Credo che un buon poeta debba agire rimuovendo la terra lessicale che sta al centro della germinazione, per riportare alla luce e in superficie il primo granello, ossia la materia stessa che è la sostanza originaria, necessaria ad essere l’Uno e il Tutto del linguaggio per riformularlo nel giro di un nuovo circuito dove il disvelamento, e l’identificazione della parola interagiscono fino ad annullarsi e a riprodursi ogni volta. Considerare questa rete di connessioni, e di interazioni, presupponendo per un istante che il frammento non è il transitorio elemento del dire linguistico, ma la particella essenziale, che è il mistero stesso della poesia, e della sua evoluzione, significa dare infusioni vitali per esistere al di là di ogni naufragio della parola. Sottoporre all’attenzione dei lettori, certi canoni estetici, non rientranti nella omologazione passata e presente, può destabilizzare gusti e coscienze, fino a produrre smarrimento. Da cosa partono le mie riflessioni sul rapporto tempo-spazio? Proprio dalla percezione della realtà che non è mai unica e monotematica, perché poggia su un nichilismo che non lascia aperte le porte all’illusione, ma crea altri universi frammentati, unicellulari, come soggetti-oggetti, e ologrammi riproducenti larve, fantasmi, tracce, segmenti di vita nella perdita del senso. Ciò che occorre non è la camera delle ibernazioni linguistiche di certa letteratura novecentesca, ma quella delle trasfusioni lessicali di diversa provenienza, in armonia con ciò che è il linguaggio contemporaneo, che si collega a varie fenomenologie artistiche, sociali, scientifiche, politiche, economiche ecc., tra ciò che è il “tempo interno” e il “tempo esterno”. E’ il mio modo di confrontarmi anche con altri poeti, nel comune bisogno di esternare la realtà con la poesia, secondo le proprie esperienze culturali e stilistiche in un comune Progetto di Rinnovamento e di Ossigenazione della parola. Il territorio letterario e poetico è così multiforme che non esiste un solo Paradigna adatto per tutti i tipi di poesia. Ciò che avvilisce la parola è il lirismo che ha una grande responsabilità nell’affossare i progetti linguistici contemporanei. Viviamo nel terzo millennio, tra parole e cose sempre in continua fibrillazione e attecchimento nell’ordinario linguaggio. Ci si abitua ad una terminologia consumistica, informatica, mediatica, i cui termini sono corrispondenti all’azione del nostro volere e della nostra capacità di accettare il clima culturale, in cui si vive. La poesia per frammenti ricorre a questi strumenti, per innestarli in un unico corpo, che si connette a molti elementi in(organici) che danno l’esatto valore all’espressionismo linguistico, senza alcuna connessione con l’elegia.Su questo tema, mi collego a una citazione di Mario Lunetta, tratta da una intervista rilasciata a Simone Gambacorta, in risposta alla domanda sul “fare” poesia, ed è questa: “Detesto il lirichese, oggi così di moda in questo nostro stupido paese. Mi ritengo un poeta dialettico, che non guarda solo il proprio ombelico e non celebra le proprie pulsioni individuali. Il mondo è vario, anche se sempre più omologato nella volgarità, e un poeta deve avere il coraggio e la consapevolezza di guardarlo e confrontarvisi. Per farlo, occorre rinunciare alle scorciatoie del lirismo e dell’elegia – Baudelaire diceva che “tutti i poeti elegiaci sono delle canaglie” – per misurarsi coi linguaggi complessi. Quindi, non emozionalità di primo grado, ma lucidità e straniamento“. Detto questo, non posso esentarmi dal riportare alcuni tratti del mio fare poetico da In viaggio con Godot di prossima pubblicazione:
(….)
Linda guardò l’Origine del mondo di William Blake.
-In principio era il Verbo.
Poi venne la luce divisa dalle tenebre.
Il mare si popolò di meduse e il cielo di volatili.
Nel Giardino maturò l’inganno,
la carne divenne cenere e la notte eterna-.
Così parlò padre Oddone da Larino.
Remember me!
La prima nota di eccezione è la mancanza di liricità. Si stravolgono qui gli assetti strumentali e formali: i cosiddetti canoni estetici di cui si è nutrita la poesia post-montaliana. Siamo di fronte ad una presa d’atto della coscienza che si fa avanti tenendo a confronto la riproduzione coloristica della Creazione del Mondo da parte di William Blake, di fronte a una visitatrice di nome Linda, facendo poi seguire, da parte mia, in forma più descrittiva, la Creazione del Mondo dell’Antico Testamento, fino al Peccato Originale e alla condanna del genere umano con la morte. Tutto questo è riportato da Padre Oddone da Larino nei suoi sermoni domenicali. La fine dell’uomo ha una sola preghiera con il Remember me, prima dell’oblio. Ritengo il tema non retorico e astratto, in quanto si tratta del destino dell’umanità esaminato dalla filosofia atea e dalla religione. Nella struttura del testo si notano ben sette punti di interruzioni, che non interrompono il concetto, ma lo integrano dandogli un senso compiuto. Ecco l’armonia del frammento!
(….)
Linda guardò l’Origine del mondo di William Blake.
-In principio era il Verbo.
Poi venne la luce divisa dalle tenebre.
Il mare si popolò di meduse e il cielo di volatili.
Nel Giardino maturò l’inganno,
la carne divenne cenere e la notte eterna-.
Così parlò padre Oddone da Larino.
Remember me!
La visita nel Museo Condè continua da parte di Linda ammirata dalle miniature dei Fratelli Limbourg. Vi è un dialogo, una sorta di avvertimento fra il guardiano o speaker e i turisti, per evitare che essi superino le transenne, che demarcano il luogo, dando la precedenza alle sofferenze passate e presenti, in particolare, a quelle citate in Esodo 3,1-12 e del dolore provocato nella guerra di Aleppo di oggi. Anche in questa struttura non retrocedono i frammenti. Diventano uniformi con quelli della prina strofa. Ne armonizzano il significato globale. Non c’è deriva di autocompiacimento o di esaltazione psicoestetica, nè di lirismo tout court. Siamo di fronte al linguaggio mentale?. A quello storico?. Al Modernismo citazionistico?. Alle luminarie del verso?. O ad una situazione culturale capace di creare nuove realtà dinamiche e di programmazione di una Voce che chiede ascolto? Queste domande sono in effetti pre-risposte circa la funzione del frammento.
(….)
Nel Museo Condè splendevano le miniature
dei Fratelli Limbourg.
Uno speaker avvisò i turisti
di non oltrepassare le transenne.
-Prima di voi- disse,
-ci sono le piaghe del mondo e di Aleppo-.
Citò i passi da Esodo 3,1-12,
i Vangeli Apocrifi e quelli di Luca e Giovanni.
Il dinamismo temporale ed esistenziale non trova pausa in questa strofa neanche con il ricorso al Kyrie Eleison. Siamo alla resa dei conti della solitudine esistenziale e al fenomeno delle immigrazioni, che qui rivestono un ruolo umanitario e sociale, dove sotto il “ponte di Londra / scorrono i corpi dei naufraghi o già di “fantasmi” che non hanno mai conosciuto una vita migliore.
(…..)
Odette si fermò a Walterplatz.
Scrisse appunti brevi come haiku
sulle pagine del Die Welt.
Lasciò ciclamini e primeroses
sulle tombe a Magdeburg
e in via San Giovanni,
dove anche la tua lampada,
mammy, era spenta.
La chiusa del testo, tranne qualche altro passaggio non inserito, è il significativo omaggio e ricordo dei vivi verso i morti, che rimangono così sempre nella memoria, anche se si spegne la lampada della vita. Questi sono i soggetti principali che diventano i miei frammenti, più vivi e attuali e traccia segreta e metaforica di un dire poetico sempre in assalto dentro la mia sensibilità.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/12/03/31557/comment-page-1/#comment-70671
Mario Gabriele non soltanto è un grande poeta, ma anche il più grande innovatore della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni. È sua l’intuizione di una poesia kitchen o poesia buffet quando anch’io, dopo una accanita ricerca più che trentacinquennale, barcollavo nel buio. Dal nostro incontro è nata la poetry kitchen. Poi, subito dopo, si sono aggiunti Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi e tutti gli altri poeti che hanno avuto la pazienza e la tenacia di partecipare al nostro lavoro collettivo, gli ultimi dei quali, in ordine cronologico sono Ewa Tagher, Francesco Paolo Intini e Mauro Pierno.
Abbiamo così inferto un colpo spero mortale ai cultori della poesia elegiaca. Le resistenze degli elegiaci e dei posiziocentrici sono e saranno fortissime. E ne hanno ben ragione i nostri detrattori, perché non ci può esser nessun punto di contatto tra la poesia buffet o poetry kitchen e la poesia elegiaca o post-elegiaca, sono (siamo) inconciliabili, ontologicamente diversi… penso che con il tempo una delle due entità genetiche verrà obliata e cancellata.
Bene ha fatto Mario Gabriele a ricordare Mario Lunetta, il poeta romano scomparso nel 2017 dagli anni settanta è stato un formidabile oppositore della vulgata elegiaca in vigore in Italia fino ai giorni nostri. Ma l’oppositore Lunetta era troppo scomodo, per di più si professava marxista e comunista, ed è stato confinato nel silenzio e nell’oblio.
La verità è che Lunetta con la sua pratica di una «scrittura materialistica» è stato l’unico poeta che si è posto in opposizione frontale alla poesia posiziocentrica in vigore in Italia dagli anni settanta ad oggi.
Ecco come lo racconta Francesco Muzzioli, nella prefazione a Magnificat, Ed. Tracce 2013:
“Nella sua fase recente, diciamo all’incirca nell’ultimo decennio, la scrittura di Mario Lunetta – questa formidabile “scrittura ininterrotta” che senza posa attraversa tutti i generi, dalla poesia alla narrativa, dal teatro all’aforisma, dal saggio critico all’antologia e via dicendo – si è attestata su di una visione assolutamente disincantata e sarcastica della degradazione economica, morale e culturale del nostro mondo odierno. Diagnosi senza speranza, è vero, però lucida e attiva, che non conduce nel vicolo cieco della rassegnazione, né tanto meno alla rinuncia del silenzio, ma insiste a percorrere in lungo e in largo il panorama dell’orrore contemporaneo esercitando ad ogni passo la sua “scherma fantastica” (la fantasque escrime di cui parlava Baudelaire) contro la moltitudine delle storture e delle stupidità sociali. Chi supponesse che questa poesia “virata al nero” diventi monotona, perché la lingua andrà sempre a battere per forza là dove il dente duole, sarebbe in errore. Non è affatto così, sia perché all’uniformità dell’omologazione imperante risponde una corrispettiva diffrazione e variazione stilistica; ma soprattutto perché il divenire abitudine dell’orrore (il fatto che ormai ne siamo anestetizzati e l’ennesimo scandalo provoca una sensazione di déjà vu), non essendo altro che l’ispessirsi dell’orrore medesimo, è proprio il bersaglio che s’intende colpire. Naturalmente, nessun palliativo è accetto e nessuna facile illusione di orizzonti luminosi o di carismatici messia in arrivo, né tanto meno di “luci in fondo al tunnel”. I margini di manovra sono assolutamente stretti – Lunetta lo sa bene, in un panorama dove i pochi compagni di lotta stanno scomparendo ad uno ad uno – e sono tutti nei termini di un minimo “tuttavia”, o “todavía” come ormai preferisce dire l’autore, al modo di un donchisciottesco hidalgo”.
Da aggiungere, come ovvio corollario, quanto Lunetta ha affermato in una intervista rilasciata a Simone Gambacorta, in risposta alla domanda sul “fare” poesia:
“Detesto il lirichese, oggi così di moda in questo nostro stupido paese. Mi ritengo un poeta dialettico, che non guarda solo il proprio ombelico e non celebra le proprie pulsioni individuali. Il mondo è vario, anche se sempre più omologato nella volgarità, e un poeta deve avere il coraggio e la consapevolezza di guardarlo e confrontarvisi. Per farlo, occorre rinunciare alle scorciatoie del lirismo e dell’elegia – Baudelaire diceva che “tutti i poeti elegiaci sono delle canaglie” – per misurarsi coi linguaggi complessi. Quindi, non emozionalità di primo grado, ma lucidità e straniamento”.
Stanza n. 21
Polittico con Marie Laure Colasson
In tutti questi anni mi sono esercitato per diventare un’ombra.
E così, mi sono scoperto un estraneo.
Non è stato affatto difficile come credevo.
È accaduto mentre affrancavo una lettera per mio padre
al fronte.
L’ombra indossa la divisa da aviatore.
Volo su Vienna. Lancio di manifestini colorati.
«Io non sono io, è un altro me stesso», dice il pilota.
Il monoplano tossisce, scalpita, e precipita.
Teatro. Marie Laure Colasson esegue 32 fouettés.
K. esamina con attenzione la punta delle sue scarpe.
Incespica, inciampa.
[…]
Il mio compagno di aviazione esegue un esercizio sul trapezio
Maire Laure cade al 32mo fouetté.
Apro la stanza n. 21.
C’è mio padre nella neve col cappotto dell’Armir.
L’angoscia indossa guanti di plastica.
Carnevale di Venezia.
Mia madre dà il braccio a Brodskij sul ponte di Rialto.
I suoi guanti di raso fin sopra il gomito illuminano il volto ovale.
La Regina di Cuori ama il Re di Coppe.
Cogito osserva col cannocchiale i crateri della luna.
La lettera è stata spedita dal fronte
ma non è mai arrivata a mia madre.
È accaduto che mia madre è diventata eterna.
Adesso si chiama Irina
Ed è entrata in un romanzo della Nemirovsky.
Ama, non ricambiata, un bellimbusto
dalle rime facili…
Questa poesia arriva a me come pagina di teatro: gioco di relazione tra tempo interno ed esterno. Esterno, visto da potentissimo binocolo. Il contrasto è forte e piacevole.
La lettura di questo brano poetico mi ha letteralmete travolto: sto scrivendo questo mio commento di getto, avendola riletto più volte nel giro di pochi minuti, sotto l’effetto immediato del trasalimento che ho avvertito d’impatto. Leggerla, è come essere proiettati in un dipinto del ‘700, scandito su più piani prospettici: restringendo l’inquadratura su ognuno di tali piani, ci si spalanca l’uscio di una stanza riproducente un momento storico preciso, condensandone l’intera trama delll’epoca con la capacità di scolpire fulmineamente i dettagli rivelatori, tipica della grande poesia. Trovo superbe infine, per la loro folgorazione icastica, i versi iniziale e conclusivo. Buona domenica a tutti.
Questa è una pagina esemplare, formattata da Giorgio Linguaglossa con i suoi “compostaggi”che assemblano tratti ermeneutici di ampia caratura, con sviluppi espositivi connessi ad una topografia strutturale che si dirama in vari settori. Sorprende questa critica costruttiva di Giorgio Linguaglossa. Di fronte a questa realtà mi chiedo, ma la critica ufficiale è veramente finita in Italia?
Nella nostra epoca post-moderna l’informazione non è più un ornamento, ma una necessità la cui assenza porterebbe inevitabilmente ad un declino della letteratura. Mi ha sorpreso il testo “Stanza n.21. Polittico con Marie Laure Colasson: una poesia Kitchen di assoluto ordinamento organico, una specie di presa di coscienza nel creare il verso trasmettendo al lettore un sottile piacere intellettuale.
Di tutto questo ti sono grato, caro Giorgio, e per ciò che porti avanti sulla Rivista grazie anche all’adesione di tutti i nomi da te sopra citati, e che si sono offerti a validare con i propri testi una struttura poetica tra le più significative e meno triviali nel momento in cui viviamo. Grazie.
Anche in queste composizioni direi dialogiche di Giorgio Linguaglossa e Mario Gabriele si registra il colloquio permanente tra parola filosofica, parola scientifica e parola poetica, un colloquio nel corso del quale filosofia, arti non verbali (musica e danza comprese) e poesia pongono e si pongono domande senza tentare di dare risposte come succede ai pensatori che parlano poeticamente e ai filosofi che attraversano le immagini create dai poeti.
Cosa hanno in comune le poesie di Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa presentate su questa pagina de L’Ombra?
Hanno in comune, alla mia lettura, l’inclinazione a trasformare l’immaginazione filosofica (non la fantasia, che è altra cosa rispetto alla «immaginazione») in immaginazione poetico-letteraria, uno stile di scrittura in cui coabitano arte della riflessione, forza della memoria, potenza della speculazione filosofica.
Tutto questo la chiamerei «Estetica della dis-trazione».
Il lungo lavoro sul logos (come insieme di retorica, lessico, fono- prosodia, stile, ecc.) dei due poeti ha spinto la loro poiesis verso la «Poetica dell’archeologo», ovvero, verso l’arte dello scavo da strati esterni verso strati interni alla ricerca del nucleo essenziale non già di una storia di personaggi, veri o inventati, ma del loro destino.
Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa custodiscono direi gelosamente quella che una volta si chiamava la «Wunderkammer»*, ovvero la «camera delle meraviglie» verso la quale spingono il lettore ma tenendolo sempre a distanza perché in essa custodiscono le loro intime collezioni….
Non è questione oziosa, ora, porsi e porre questa domanda:
– come accostarsi alla lettura dei versi di questi due poeti, Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa, sul piano del tempo delle clessidre e del tempo interno della poesia?
Lentamente?
Velocemente?
Riproporrei quel postulato di Milan Kundera che ci orienta benché non fornisca risposte, quel postulato secondo il quale è possibile stabilire un segreto legame fra
– memoria e lentezza,
– oblio e velocità.
Come poeti esemplari della poetry buffet e/o della poetry kitchen, Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa non guardano più alla sala da ballo affollata ma ai resti e ai segni che in essa rimane dopo un incendio…
*
Gino Rago
*Wunderkammer: in italiano suona come camera delle meraviglie o delle curiosità. E’ una espressione in lingua tedesca usata per indicare quegli ambienti particolari nei quali (dal secolo XVI° al XVIII° secolo) i collezionisti tendevano a conservare raccolte di “oggetti” straordinari sia per le loro caratteristiche intrinseche sia per quelle estrinseche per meravigliare gli ospiti.
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La Wunderkammer, caro Gino, è per me e Giorgio Linguaglossa, una specie di caveau che custodisce gli eventi del tempo, come mezzi necessari a creare testi poetici, non dimenticando i vivi nell’espressione dei morti, come diceva Eliot.
Si tratta di una operazione che marca una sacralità non necessariamente religiosa, ma memoriale e biopsicologica, che ci dà la possibilità di agire autonomamente, dando avvio ad una specie di Waste Land nella riesumazione di tempi ciclici e tempi lineari, diversamente separabili, ma tutti ricomposti in una poesia ampiamente decorosa e dinamica.
Grazie, dunque, di questo tuo intervento così analitico e perfettamente aderente allo spirito di questa pagina. Un cordiale saluto. MMG.
cari amici,
… l’effetto “traumatico” del linguaggio: l’atto soggettivo della parole trova modo di realizzarsi soltanto sullo sfondo di una mancanza di fondo. E questa mancanza è, appunto, la mancanza di una metafisica.
A pensarci bene, ci troviamo in un momento straordinario della storia umana, ci troviamo nel primo annunzio di un’epoca priva di metafisica, che fa a meno della metafisica. È un fatto che nella storia dell’homo sapiens non si era mai verificato almeno nelle dimensioni attuali. E questo pone un problema alla poiesis.
Innanzitutto, la prima domanda è:
è possibile una poesia senza metafisica?
Penso che la poetry kitchen sia la risposta più acuta e consapevole a questa domanda.
Allora non resta che ripensare il soggetto disinnestandolo da ogni orizzonte antropocentrico, metafisico, e rappresentativo. Se esso è produzione di Reale non dev’essere più subordinato alla finitezza e alla mancanza che costituiscono l’espressione più intima del negativo quale modello fondativo per l’esperienza dell’essere. Il soggetto va de-localizato. Là dove c’è la Legge – quella diEdipo e quella simbolica della castrazione (Significante) – in quanto espressione derivante della dialettica hegeliana del negativo, là non ci sono io, c’è un soggetto barrato, un vuoto di significazione. Edipo, infatti, è quel dispositivo che registra la mancanza ad essere nel desiderio, che lo iscrive nel segno del negativo. Esso è parte di quella rappresentazione metafisica che incontra l’esperienza e l’essere sul fondamento del nulla. L’imperialismo di Edipo cede il posto ad un vuoto di significazione. L’Edipo non significa più niente. Si volatilizza. Edipo è parte integrante di quella metafisica che è tramontata.
Nessuno sa quanti ricambi d’aria
ci porterà la stagione,
Questa è una pausa “alla Gabriele”. Elegante e garbata, per chiudere con un pensiero e iniziarne uno totalmente diverso. Il pensare che scende alla bocca si fa chiacchera, cerchiamo almeno di salvare le apparenze. Così trascorre una intera poesia, densa di piacevoli sorprese. Si tratta certo di un testo teatrale, con sotterranei sconfinamenti nel gramelot. Qui è modernissimo Beckett. Le scansioni tra versi, operate da Gianni Godi in video come Promenade in Zelia Nuttall… anche se io continuo a leggere le poesie di Mario Gabriele, come se in casa di Virginia Woolf.
Decriptare un testo poetico significa pervenire ad un centrum sotterraneo dove diversi sono Il linguaggio e l’arenaria che l’hanno ricoperto..Ciò che conta è arrivare all’asse principale dell’equilibrio estetico dove si configurano soggetti e cose sul set poetico.Tutto questo lo hai ben descritto nel tuo commento, caro Lucio, sempre in prima linea quando si tratta di dare un senso alla psicologia del poeta. Grazie, e un caro saluto. MMG:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/12/03/31557/comment-page-1/#comment-70710
cari amici e interlocutori,
devo confessare che leggendo la poesia di Mario Gabriele sono stato preso da una specie di furore: ho aperto il file di una raccolta inedita di poesie del 2012- 2013 (Il bacio è la tomba di Dio) ed ho iniziato a cancellare intere poesie, di altre poesie ho risparmiato alcuni versi qui e là. Ho fatto una vera strage di versi-zeppe. Mi chiedo: possibile che non me ne fossi accorto prima di tutte quelle «zeppe» presenti in quelle poesie? Incredibile, ci voleva un trauma per darmi la forza di cancellare tutto, o quasi. Così, devo ringraziare ancora una volta Mario Gabriele per avermi dato questa forza. Anche la poesia che ho postato sopra: Stanza n. 21 è stata passata al vaglio dello sterminatoio.
Ecco, dobbiamo munirci di una forza distruttiva micidiale, saper cancellare intere composizioni, soltanto così potremo migliorarci. È quello che auguro a me stesso e a voi tutti.
Penso che la poesia di Mario Gabriele sia indicativa della nostra epoca, della mancanza di una metafisica che la caratterizza.
Scrive Gabriele:
Al Max Hotel c’era un’asta di cucine LUBE,
un album di 50 Rockstar
e una macchina da scrivere ERIKA
come quella che usava Brecht
in Madre Courage e i suoi figli.
C’è un humour nero condito con salsa piccante e majonese. Le parole sono terribili per la loro a-significanza, sono uscite fuori dal significato: Max Hotel-LUBE-ERIKA-Brecht-Madre Courage…
Davvero, siamo in presenza di uno sterminio di significanti. Come dopo una battaglia, sul terreno restano i cadaveri dei combattenti. Così, del novecento restano delle parole vuote, vuote di significato che il poeta rimette insieme come può, le incolla in un puzzle pussolente e fragrante.
Qui davvero la poetry kitchen compie una vera e propria strage di tutti i significati possibili, li annienta. Dopo questa poesia non resterà più nulla. Quello che può fare un poeta è raccogliere questi spezzoni di nulla e con essi edificare un portale, una porta attraverso la quale ci si passa, si entra e si esce. Tanto non significa più niente.
C’è una frase del tuo commento sopra riportato, caro Giorgio, che riguarda la nostra professionalità e la nostra decisione nel ritenere un testo poetico degno di pubblicazione ed è questa:”Dobbiamo munirci di una forza distruttiva, micidiale, saper cancellare intere composizioni, soltanto così potremo migliorarci”.
Direi che non pochi sono i conglobati lessicali e culturali connessi o meno con la Storia e col nostro vivere quotidiano da cui estrapolare le occasioni poetiche.
Sono tutti momenti legati al nostro stato d’animo, l’unico in grado di revisionare o meno ciò che scriviamo. Le varianti linguistiche, con tutto il corredo di figure allegoriche, sono lo stato dinamico con cui ci confrontiamo con i versi, anche con la sperimentazione linguistica, come codice espressivo di un lavoro di ricerca, paziente e costante.
Per questo motivo essere giudici di se stessi è il migliore approccio non meccanico di trasferire al lettore il meglio delle composizioni, aggiornando i modi espressivi, fuori da ogni impostazione mimetica.Cerca di recuperare strofe e forme di evidente e inconsueta espressività. Ce ne saranno molte rimaste nel Remainder. Un abbraccio.MMG
«Leggo Faulkner per conoscere gli Stati Uniti – diceva Toni Morrison – in un modo che i libri di storia non permettono di fare»
In modo analogo, possiamo leggere Mario Gabriele per conoscere l’Italia in un modo che i libri di storia non permettono di fare.
Stanza n. 67
Dora Markus
Dora Markus traccia con un gessetto alla lavagna.
Una linea bianca, la chiama “Il perimetro del buio”.
È questa la sua estetica, ovvero, come lei ama
definirla: “Il perimetro del silenzio”.
Il ventaglio di Dora indugia tra il volto fiammingo
e il fermaglio di strass nei capelli purpurei.
Il volto per metà coperto dall’ombra
e l’altra metà svelato dalla luce lascia uno spazio bianco.
Inclina la Signora il busto nel corsetto
che si avvita sul seno liquoroso.
Madame Hanska invidia le caviglie di Dora:
«Buongiorno Dora». «È già tardi per gli indugi
E il congedo», risponde l’immagine di Dora
da una cornice sulla parete.
Carta da parati con rose cinabro e miosotis.
Il fermacarte posato sull’orlo della scrivania.
Gli ospiti del buio vanno e vengono.
Indugiano sulla soglia della locanda della felicità.
Acquistano un biglietto di sola andata.
Chiedono notizie sul… buio.
Woland ordina: «Musica!».
Un quartetto di archi, in sottofondo, risplende.
Sentiero di ghiaia tra le tamerici e gli acanti.
La coda di pavone della gonna scarlatta di Madame Sosostris.
Il lampadario di cristallo scintilla un attimo prima di spegnersi
e diventare un tassello della totale oscurità.*
* Nel 2011 ho scritto questa poesia, un contro canto a Dora Markus di Montale. Non saprei valutare la sua riuscita. Per tanti anni ho pensato che forse valesse la pena scrivere una antifrasi alla poesia di Montale…
caro Giorgio,
sì, condivido il pensiero di Mario Gabriele, forse la tua poesia potrebbe iniziare da qui:
Il ventaglio di Dora indugia tra il volto fiammingo
e il fermaglio di strass nei capelli purpurei.
subito in medias res, saltando i due distici iniziali. Così la poesia sarebbe ancora più essenziale.
Per il resto la poesia ha la statualità di una statua classica. Anche tu, caro Giorgio, sei un corpo estraneo nel corpo della poesia italiana. Ed è bene così.
caro Giorgio,questa poesia l’avevo già letta. Ora non so dirti se è quella che pubblicasti a suo tempo, o hai rifatto il testo con innesti vari. Mi sono soffermato sul verso Madame Hanska e su quelli a seguire,che mi hanno attratto molto.Qualche revisione andrebbe fatta riducendo la spazialità del testo e alcuni distici all’inizio..Non so se sei d’accordo. Provaci più volte fino a quando lo ritieni opportuno . Un saluto. MMG . .
caro Mario,
come valutare questa poesia? Io penso che è di tale altezza che tu rischi seriamente di non essere apprezzato dalla media poesia italiana, tu sei andato così in avanti nella innovazione che sei quasi un elemento estraneo al corpo della poesia italiana di oggi.
Per quello che conosco io della poesia italiana degli ultimi decenni, a parte Mario Lunetta, la tua poesia è, oggettivamente, di un altro pianeta. Io lo posso dire in quanto provengo dalla cultura letteraria francese e, in particolare, dal magistero del surrealismo, che voi in Italia non avete avuto.
Devi quindi continuare a restare sul tuo pianeta, foss’anche Nettuno, il più lontano del sistema solare, e devi andare per la tua poesia buffet più lontano possibile.
Nessuno in Italia ha la tua capacità di mixare i registri linguistici dai più remoti a quelli più recenti e prossimi, svariando dal linguaggio dei fumetti a quello dei twitter e degli sms, il tutto è di una carica esplosiva di tutto rispetto.
La tua ammiratrice.
M-L- Colasson