[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 30×30, acrilico, 2020]
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Giorgio Linguaglossa
Gli azzeccagarbugli parlano il linguaggio del Principe di Salina
«Il linguaggio è un gioco di rimpatri nella lettera… non è meno importante per noi riconoscere la doppia e contraddittoria identificazione: il tentativo di assumere la dimensione soggettiva del rimpatrio, il nostro incessante voler tornare a casa, giocandolo contro se stesso nello scarto delusorio che il linguaggio ci permette. Simbolizzare l’immaginario e immaginare il simbolico, ha detto una vota Lacan: continuo rimpatrio nel “simbolo” che la parola è, continuo rimpatrio nell’immaginario da parte del soggetto…
L’illusione che si ripresenta a ogni frase è che il nome e la cosa coincidano e che il soggetto parlante sparisca: sparisca come enunciante della frase ma perché vi ha preso completamente dimora. L’unico modo che abbiamo di maneggiare questa illusione non è farla sparire, ma – al contrario – riconoscerla, farla pesare sulla frase: attraverso il margine di paradossalità che resta praticabile, in un gioco inevitabilmente in perdita e che deve sapere di esserlo».
La poesia di Ewa Tagher è questo «mancare» di continuo il «rimpatrio», l’essere la sua parola fuori luogo, sconsiderata e inopportuna, con la consapevolezza che si tratta di instaurare un «gioco» con il linguaggio paradossalmente sempre in perdita. Una parola s-tonata, mal sbobinata, sortita fuori per errore da un registratore difettoso.
Ecco, questa parola difettosa direi che è il miglior viatico per la poesia di Ewa Tagher. Il sapere che voler far concidere la parola e la cosa è il crimine che commettono i poeti elegiaci, le «canaglie» di cui parlava la Colasson citando Baudelaire.
Per venire poi alla domanda della Colasson «se l’Italia abbia ancora un futuro davanti a sé», vorrei rispondere che il nostro Paese viene da circa un trentennio di lessico berlusconiano rifornito e addobbato di paralogismi semplici ma efficaci (il pericolo del comunismo, il pericolo della sinistra, la neocolonizzazione dell’Immaginario telemediatico, il pensare per scorciatoie, la messa al bando dei nemici, la retorica della congiura della sinistra, il markettificio ginecologico del Paese, l’abolizione del reato per falso in bilancio, le sanatorie fiscali, l’uso privato delle leggi del Paese, l’uso privato delle Istituzioni Pubbliche, etc.).
Non mi meraviglia che questo regime parolaio e propagandistico dopo 30 anni abbia deteritorializzato l’antropogenesi degli italiani e non mi meraviglia che il populismo demagogico e nazionalista della Lega di Salvini e della destra ex fascista, preceduti dalla retorica personalistica di un Renzi abbia desertificato la residua debole capacità di cognizione residuale del bene comune degli italiani. Gli azzeccagarbugli parlano il linguaggio del Principe di Salina. I cialtroni e gli scavezzacolli hanno preso il posto delle poche persone serie, il risultato è stata la distruzione e la neocolonizzazione del Paese da parte delle TV private e del becerume dilagante.
La poesia era ininfluente già trenta anni fa. Adesso, figuriamoci, dopo la deforestazione attuata da combriccole di piccoli e mediocri letterati, siamo arrivati alla Lichtung, alla radura. Se si aprono gli indici di poesia delle collane Einaudi, Mondadori, Garzanti ci troviamo una sfilza interminabile di nomi di autentiche nullità che non si sa bene per qual motivo siano approdate in quelle collane. È stata la desertificazione e la deforestazione antropologica del Paese che ha determinato tutto ciò.
Adesso il Paese è da ricostruire.
1 P.A. Rovatti, Abitare la distanza, Introduzione p. XXIX, Raffaello Cortina Editore, 2007.
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 19×28,50, acrilico, 2020]
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Ewa Tagher
Ewa Tagher abita a Roma ed è un poeta inedito.
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Prove per una scenografia
“C’è vita nelle copie in gesso?”
Forse una possibilità di luce.
La periferia si arma, alza la voce,
poi la perde, nell’arco di un solstizio.
Gli sfondi da cortile non vanno più di moda
ha vinto l’improvvisazione e la vendita al dettaglio.
L’allestimento per la prossima scena
ha a che fare con un tic senza imbarazzo
a seguire una catena di torce , borborigmi,
mani in preghiera e tracce di nicotina.
Villa Borghese ha una nuova acconciatura
ai cancelli approcci di ruggine e corde di chitarra:
solo il Galoppatoio ha speranza
di entrare nel circuito dei benpensanti.
Il tema di Paolo e Francesca
contrasta con l’atmosfera sinistra dell’Inferno
hanno sbagliato luogo e ora
“Fermi qui, sull’orlo di un diario intimo.”
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“L’aperto riconoscimento che la scienza fisica si occupa di un mondo fatto di ombre è uno dei progressi più significativi della scienza stessa” scrive Sir Arthur Stanley Eddington ne La natura del mondo fisico (1928). “Nel mondo della fisica noi assistiamo al dramma della vita quotidiana, proiettato in un gioco d’ombre. L’ombra del mio gomito è poggiata sul tavolo-ombra mentre l’inchiostro-ombra scorre sulla carta-ombra. Tutto è simbolico e per i fisici rimane tale. Poi interviene la mente alchimistica che trasforma i simboli… In parole povere la sostanza di cui è fatto il mondo è di natura mentale.” Dopo un secolo esatto, è ora che anche la poesia faccia i conti con una maniera diversa di elaborare la realtà, in linea peraltro con le teorie della fisica quantistica sulla radiazione e sulla materia avente natura ondulatoria e particellare. Linguaglossa scrive: la «parola» quindi è una entità per sua essenza mutagena che può essere rappresentata come una entità corpuscolare o ondulatoria a frequenza variabile. Ecco l’ontologia estetica ha preso atto del post-newtonismo sposando appieno la contemporaneità della visione del mondo, allontanandosi dalla convenzionalità seppur con il rischio, calcolato, di risultare incompresa, fredda, sfuggente, senza sfondo. (e.t.)
[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 20×50, acrilico, 2020]
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frasi di Slavoj Žižek
“Benvenuti in tempi interessanti”
Sembrerebbe che adesso si promuovano modi di vivere che “non toccano” la vita, come viene indicato da questa straordinaria riflessione: È come se vivessimo, sempre di più, una vita sprovvista di sostanza su tutti i livelli. Si beve la birra senza alcol, il caffè senza caffeina, si mangia la carne senza grasso e, eventualmente, si fa del sesso virtuale… senza sesso”.
“Non agire non è privo di significato, bensì vuol dire: accettare le esistenti relazioni di dominazione”.
“L’amore si sperimenta come una grande disgrazia, un parassita mostruoso, uno stato di emergenza permanente che rovina i piccoli piaceri”.
“Dopo aver fallito è possibile andare avanti e fallire meglio; invece, l’indifferenza ci fa affondare sempre di più nella palude dell’essere stupido”.
“Nemmeno in politica non dobbiamo più aspirare a dei sistemi che spieghino tutto e a dei progetti di emancipazione mondiale; l’imposizione violenta delle grandi soluzioni deve lasciare il posto a specifici modi di intervento e resistenza”.
“Siamo intrappolati in una malsana competizione, in una assurda rete di paragoni con gli altri. Non prestiamo sufficiente attenzione a ciò che ci fa sentire bene davvero, perché siamo ossessionati dal valutare se il nostro piacere sia maggiore o minore rispetto a quello degli altri”.
“La filosofia non trova soluzioni, ma pone delle domande. Il suo compito principale è quello di correggere le domande“.
Giuseppe Gallo
Carissimo Giorgio, vorrei capire meglio queste affermazioni:
“Una stagione si è conclusa, quella del postmoderno troppo spesso complice del populismo, della realtà svaporata nel reality, e si apre una fase nuova, in cui “realtà” e “oggettività” non sono più brutte parole, ma anzi diventano strumenti di comprensione, emancipazione e trasformazione. Otto tra i maggiori filosofi contemporanei, protagonisti della svolta, ci forniscono la cartografia di questo nuovo mondo.”
Constatare che la realtà è “svaporata nel reality”, bere “la birra senza alcol, il caffè senza caffeina”, mangiare “la carne senza grasso e, eventualmente,” fare “del sesso virtuale… senza sesso”, e altre cose consimili, è sinonimo “di una vita sprovvista di sostanza su tutti i livelli”? Cos’è questa sostanza? E a chi dobbiamo ritornare? A Platone, ad Aristotele, a Kant?
Giorgio Linguaglossa
carissimo Giuseppe,
la prima frase da te riportata è di Maurizio Ferraris, ed è estrapolata dal suo libro sul realismo o nuovo realismo. La seconda frase è del marxista Slavoj Žižek. Penso che la «sostanza» di cui ci parla Žižek non abbia nulla in comune con quella di Platone, penso che con «sostanza» il filosofo di Lubiana intenda la struttura interna dell’homo sapiens, la struttura psicologica che guida l’uomo moderno.
Il moderno è quell’epoca per la quale l’esser moderno diventa un valore, anzi il valore fondamentale a cui tutti gli altri vengono riferiti.
L’epoca della Diesseitigkeit, dell’“Al di qua”.
La modernità è l’età della secolarizzazione, sorretta e diretta dalla «fede nel progresso» e nel «nuovo come valore fondamentale». Vattimo sostiene che «questa essenza del moderno diviene davvero visibile solo a partire dal momento in cui […] il meccanismo della modernità si distanzia da noi», cioè è quella cosa da cui prendiamo le distanze. Oggi, in epoca di Covid, siamo storicamente costretti a prendere le distanze dalla ideologia del moderno e a pensare possibile e imminente un nuovo modello di sviluppo del capitalismo, e questo avviene perché il valore dominante il moderno, il «nuovo», è entrato in crisi, si è dissolto. In questo consiste – in breve – il post-moderno: in virtù della crisi del valore del «nuovo», della dissoluzione della credenza nel «progresso» – il cui carattere normativo è stato sottolineato da tutte le forme di modernismo artistico e culturale –, non v’è più un fine, una direzione della storia, perché la storia si trova davanti ad un bivio: può prendere svariate direzioni, spetta solo a noi decidere in quale direzione avviare la storia.
Giuseppe Gallo
Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (Cz) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni ottanta, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, di Roma. Delle varie Egofonie, elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma.
Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, tra cui Alla luce di una candela, in riva all’oceano, a cura di Letizia Leone (2018.); Di fossato in fossato, Roma (1983); Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Ha pubblicato Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018). È redattore della rivista di poesia “Il Mangiaparole”. È pittore ed ha esposto in varie gallerie italiane.
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Zona gaming 30
Trentatré piaghe al giorno.
Una per occhio, un’altra sulla lingua.
Anche sopra i muri del tuo corpo.
Le altre sugli schermi.
Utilizza l’offerta oppure cambia idea.
Cos’è una mano chiusa?
8 ore alla partenza. Solo a spenti sorrisi
avvengono identità.
Lucy: -Più inumana mi sento a non riprodurmi!
E cosa c’è dentro una bocca senza chiave?
Zona gaming:
Strategia estetica da XXI° secolo.
Neanche i giovani giocano a cercare se stessi.
Il vuoto è acqua di lago notturno.
E il nulla non tracima.
Sparviero chiuso dentro il chiuso di un pugno.
Ormai esili automi, cristalli a riduzione semantica,
per una esplosione sonica interna al cariotipo.
Si dilunga la scena. E Lilly nella crepa
a fondere la polvere dell’ocra e la saliva.
Nei meandri della roccia qualche linea
qualche curva, qualche secante.
Zona gaming
Noi non avevamo… E tu?
Ewa Tagher scrive:
“C’è vita nelle copie in gesso?”
Giuseppe Gallo scrive:
Noi non avevamo… E tu?
Marie Laure Colasson commenta:
«Il linguaggio poetico è simile al Pubblico Ministero, ti costringe in un atto di accusa, ti rinvia a giudizio… ma il fatto è che si tratta di un atto costrittivo, devi scrivere come e dove vuole il linguaggio del Pubblico Ministero. Di solito gli scriventi non se ne accorgono nemmeno, pensano in buona fede di scrivere in risposta ad un Appello, alla sacertà della Ispirazione, alle virtù civiche di una poesia civile etc… e invece rispondono all’appello della santa Inquisizione con un linguaggio già dato e confezionato.
[…]La poesia migliore è fatta da un procedimento di spostamento e di condensazione delle parole, è fatta, proviene da un vuoto. La poesia è come una scala a chiocciola: ad ogni gradino senti che corri il rischio di mettere il piede nel vuoto… e di scivolare nel baratro. Se non fa questo, non è poesia. Il lettore deve avvertire che la parola non sa dove andare. La parola poetica è un rischio, si corre il rischio di scivolare nel vuoto ad ogni istante.»
È vero, qui si tratta di sfuggire alla trappola o alla ingenuità cognitiviste che vorrebbero scrivere nel linguaggio della ragione utilizzando le parole della ragione, nel linguaggio poliziesco e costrittivo della ragione poetica istitutiva di significati consolidati. La volontà di evitare questa trappola del linguaggio del sensorio e della ragione è costante in Ewa Tagher e in Giuseppe Gallo, è ciò che determina la costante tensione con la quale il loro linguaggio si snoda, ma è anche un gioco, il gioco del trapezista (per riprendere la metafora di Marie Laure Colasson) che cammina sul filo. Questa volontà di evitare la trappola del significato consolidato è una costante nella poesia della poetry kitchen, non si tratta di un gioco fine a se stesso, ma di una sfida drammatica alle certezze offerte dalla ragione classica e del suo progetto onniavvolgente di irrogare decreti su ciò che si può dire e su ciò che non si può dire in poesia. La poesia di Ewa Tagher, quella di Giuseppe Gallo e degli altri poeti che qui appaiono illustra con precisione che esiste un’altra scrittura poetica che non obbedisce più alla poesia del significato consolidato. Ewa Tagher e Giuseppe Gallo scoprono che c’è una dis-ragione nella ragione, ed optano per la prima a scapito della seconda.
La dis-ragione si nutre di atti sospensivi, di parentesi, di incisi, di epoché, di interruzioni e di punti interrogativi, di interrogazioni, di domande, di interferenze. È la stessa struttura sintattica ad esserne disarticolata e polverizzata, è questa la ragione profonda del frammento: il frammento è il risultato, il prodotto del collasso della Ragione e del collasso dell’Ordine Simbolico.
C’è un ponte di corda che ci può condurre dal linguaggio patente al linguaggio latente. Siamo pronti ad attraversarlo? Ci accingiamo all’impresa? Allora bisogna abbandonare le certezze e le ovvietà del linguaggio della Ragione, ben tenendo presente che è soltanto dal linguaggio patente che si può scendere al linguaggio latente, non il contrario, come pensavano i surrealisti. Bisogna scendere ad una parola senza linguaggio, senza un soggetto parlante e senza un interlocutore, al mormorio di un sotto-linguaggio che sorregge l’edificio del linguaggio di relazione. Allora, la poesia diventa una archeologia del linguaggio, il viaggio dal linguaggio patente al linguaggio latente, che separa il mosso dal rimosso, che si muove tra il rimosso e il latente, in quella zona oscura e indeterminata in cui tutti i significati vengono inghiottiti dal buio della Ragione asburgica.
Quando scrivo mi chiedo: quanto lontano devo andare per racimolare le parole giuste? Come posso comunicare al meglio la dissociazione che sento con il resto del mondo? L’impoverimento di senso, di linguaggio, le sgrammaticature, i disvalori, le aponie, l’abbandono del sacro, lo scempio della storia, della politica, della cultura, il distacco con un mondo che è stato, lo slancio incerto verso uno aperto a tutto, ma non a tutti? Poi ritrovo i pezzi del puzzle davanti agli occhi: passeggiando in una villa, passando davanti ai cartelloni delle pubblicità, ascoltando il voice over di un documentario sugli aborigeni, leggendo il Qoelet, o le vite degli antichi yogi indiani, svegliandomi di soprassalto dopo un incubo. Le spezie e gli ingredienti li abbiamo tutti lì davanti, la Poetry Kitchen è l’unica via possibile di poesia io credo. Almeno oggi. Il mestolo che poi da forma a tutto è la consapevolezza di vivere in una società in lotta con sè stessa, di essere trapezisti e fachiri, inquisitori e inquisiti. E’ da questa lacerazione che nascita la perdita della ragione e del senso. A Giuseppe Gallo mi lega un’affinità nel vivere il passato e il presente, oltre che una viva e continua ammirazione per il suo lavoro e il suo sentire.
SCENA 46
Al bivio tra la poesia e la sciarada
le risponde solo l’Eco.
Incapace di fare follie, Ewa
stanotte ha perso versi.
Per riparare telefonerà a sè stessa:
il ricevitore intasato dal traffico del rientro.
“Avevi promesso di scrivere.”
“Ho preso appunti. Ma li ho mangiati.”
L’ eroica coppia del gatto e il topo
anche stasera ha fatto cartoon.
In preda a allucinazioni da latte fresco,
Ewa, si autocensura:
“Come pensi di poter usare
Occorrenze, significanti e mestoli,
continuando a prostituirti su carta?”
Chi vanta di avere crediti in poesia,
lo sa che solo i santi vivono al di sopra delle proprie possibilità?
Ewa ha urgente bisogno di parlare a se stessa:
in un bar di fine ottocento a Villa Ada alta.
“Sei in ritardo. Il tre verticale mi fa tremare”.
Maschile Femminile
Non Maschile Non Femminile
Ognuno prende posto nel quadrato del senso.
Ewa gira l’angolo e lascia a terra i propri stracci.
cara Ewa,
benvenuta in tempi interessanti, come dice Slavoj Zizek.
benvenuta in tempi di nuovo realismo.
la nostra poesia, la poetry kitchen, è un genere di poiesis che può sorgere e proliferare soltanto in concomitanza con una emergenza, infatti essa emerge in contemporanea con la Sars Cov2 o Covid19, quando il mondo sembra saltato come da un fungo atomico, il nuovo reale emerge dall’oscurità del precedente reale e pone nuovi problemi filosofici, politici, etici e poietici. È il reale che preme, emerge, viene alla ribalta e decide del tramonto di una vecchia metafisica e della vecchia patria linguistica delle parole.
È il reale che decide della decadenza di interi generi letterari tradizionali, compreso il genere della antologia. È il reale che ha derubricato la tradizionale critica letteraria in pourparler, è il reale che ci spinge alla ricerca di nuovi strumenti e metodi di fronte allo strapotere dell’industria dell’intrattenimento culturale. Decostruzionismo, critica reader oriented, teoria della ricezione, neoermeneutica, new historicism, cultural studies, hanno indirettamente posto in evidenza un problema divenuto palese: quello della perdita di funzione della tradizionale critica letteraria, di avere cioè l’esclusiva nel giudicare e promuovere le nuove opere, giudicate e promosse, piuttosto, dal mercato e dalle Istituzioni deputate.
Eugenio Montale
Dora Markus
Fu dove il ponte di legno
mette a porto Corsini sul mare
alto
e rari uomini,
quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi
all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale
fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte,
senza memoria.
E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano
come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine
mi fa pensare
agli uccelli di passo
che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche
la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il
tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima:
un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!
2
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino…
Ma è tardi, sempre più tardi.
(Eugenio Montale, Le Occasioni; Parte prima)
Eugenio Montale: Commento a “Dora Markus”
La lirica consta di due parti distinte, scritte a molti anni di distanza l’una dall’altra: la prima parte risale infatti al 1928, o al 1926, mentre la seconda è del 1939. Per comprendere la complessa origine della poesia, è necessario richiamare alcuni dati biografi ci dell’autore. Montale non conosceva, né conobbe mai, Dora Markus: aveva solo visto una fotografi a delle sue gambe, inviatagli dall’amíco Bobi Bazlen col seguente biglietto datato 25 settembre 1928: «Gerti e Carlo: bene. A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus».
La data del biglietto spingerebbe ad ascrivere al 1928 la prima parte della lirica, ma Montale sosteneva di averla scritta due anni prima, nel 1926, senza riuscire a concluderla («è l’inizio di una poesia che non fu mai né finita né pubblicata e non lo sarà maí»). La Gerti nominata da Bazlen è Gerti Fránkel Tolazzi, una signora di Graz che Montale conosceva bene e che nel 1928 gli ispirò la poesia Carnevale di Gerti, compresa anch’essa nelle Occasíoni. Nell’immaginario del poeta la sconosciuta Dora finí con l’assimilarsi a Gerti, tanto è vero che quando nel 1939 Montale decise di ritornare su Dora Markus («Alla distanza di 13 anni (e si sente) le ho dato una conclusione, se non un centro») il personaggio femminile non è piú la fantomatica Dora, ma proprio Gerti: a lei che occupa la seconda parte di Dora M. lo Dora non l’ho mai conosciuta; feci quel primo pezzo di poesia per invito di Bobi Bazlen che mi mandò le gambe di lei in fotografia» (lettera a Silvio Guarnieri del 1964).
Il complicato intrecciarsi di proiezioni fantastiche e psichiche che presiede all’accidentata gestazione della lirica fa di Dora Markus uno dei componimenti piú misteriosi e segreti, ma anche piú ricchi di oggetti-simbolo e di «occasioni» taciute e infine risolte in una disperata e buia visione della realtà del 1939, con gli orrori che la storia stava preparando – dell’intera produzione montaliana.
Inedito di Mario M. Gabriele
Barista: Oggi è venuto a trovarci Berry Stone.
Mary: Sembrava un acchiappafantasmi
dopo il film Gosth.
Barista: Non è che lui abbia visto
la luce del faro sparire e luccicare
ai bordi di Terranova
fino a trovarsi un lavoro in città
con pochi dollari al giorno,
perdendo tempo
con la metafisica dell’Essere?
Mary: Non ti rispondo. E’ un problema
così ostico da restare muti.
Barista: Provò a resettare la caldaia.
Fuori faceva freddo e non c’erano alcove.
Mary: Buona norma è passare il tempo
bevendo Apple jack.
Barista: Il buffet è pieno di pop corn e Kitch
puoi prendere ciò che vuoi!
Mary: Berry dice che il vero paradigma
è ciò che resta nella mente.
Barista: Certe volte mi chiedo
come abbia fatto Mister H
ad aprirti il cuore?
Mary: Sono cose che accadono.
Come già ti ho detto,
il Signor H significava tutto per me:
amore, HI FI, Count Basie e Eagles
e Hotel California.
Barista: Devi sapere, secondo quanto dicono
quelli della King Dome House,
che egli aveva uno strano rapporto
con le camicie Paul Smith
e con Sara Zucker quando riprese
il programma Next Gen della Nba.
Mary: Me ne parlava sempre
tutte le volte sotto il Ghetto di Varsavia.
Barista: Lei sa come vanno a finire certe cose.
Dimmi solo da che parte si va nel bosco
a cercare gli Elfi.
Mary: Hai sette colpi per il Winchester,
una tazza di tequila,
e una donna per coprirti
lungo il viaggio inutile.
Barista: Forse sarebbe meglio dilatare i tempi,
mettere a fuoco chi va e chi viene
con un nuovo plot, tanto da finire
Beat Beat Gasoline di Gregory Corso
con un fiuto verso l’anima
e il cimitero degli inglesi accanto a Shelley.
Mary: Il paesaggio è quello onirico
ma di un blu di microtesti
con approdi nell’ignoto.
Barista: A volte penso a Isea, donna di musica e polvere,
un Nulla con le sue ottave genesi,
come nuvole di fumo
spinte in futuro dal fiato del vento.
Mary: Con il Signor H abbiamo parlato
di galassie in espansione,
di mondi finiti in trucioli e frammenti
come in una story-board.
Barista: Dico ciò che vedo e sento.
Guardo lo spazio antistante il negozio
dove sostano le matrioscke.
Ho tanti conflitti da sub-plots
da non portare mai la pace sul sagrato.
Mary: Si stacca dal cane Chaney,
apre scatolette di Arcaplanet,
tiene in mente la Lambada,
il ballo di Al Pacino nel remake
“Profumo di donna”.
Giorgio Linguaglossa
caro Mario,
la tua poesia dialogata o dialogica dimostra che non è possibile liberarsi totalmente dalla signoria del linguaggio storico, liberarsene per scrivere, magari, l’archeologia del silenzio, o del rumore. La tua poesia è in egual misura, archeologia del silenzio e del rumore, perché quel silenzio è nient’altro che rumore indifferenziato, al pari dei rifiuti indifferenziati che produciamo ogni giorno. Al contrario di certa poesia da trivio che non si accorge di utilizzare un linguaggio contaminato dal mutismo, tu hai compreso che il miglior modo di indicare il silenzio è enunciare gli enunciati del silenzio, il bric à brac del rumore indifferenziato che dà luogo al silenzio indifferenziato. La tua poesia è, se così possiamo dire, rumore contenuto nel silenzio indifferenziato, o silenzio indifferenziato contenuto nel rumore. «Non c’è cavallo di Troia di cui la Ragione non abbia ragione», dice Derrida, ed è vero, contro di essa non si può combattere che con le armi della Ragione, il suo spazio è totale e onniavvolgente, e allora non resta che dichiarare davanti al Tribunale della Ragione il silenzio indifferenziato del rumore, o il rumore indifferenziato del silenzio. Niente sfugge al collasso dell’ordine Simbolico se non frammenti insignificanti e lacerti strappati dai manifesti, ed è di essi che la tua poesia si nutre. E poi: il silenzio ha una sua storia? E il rumore? Il rumore ha una sua storia? Ha senso una archeolgia se tanto trovi tutto in superficie, rottami e rifiuti che galleggiano sul mare dell’essere? Allora, non resta che fare una archeologia della superficie, di ciò che si trova in superficie.
Lucio Mayoor Tosi
Perfettamente d’accordo con il commento di Giorgio. Le tue poesie disseminate in depositi culturali a cielo aperto. E’ questa la direzione, verso l’emerso. Ma ci sostiene l’inconscio, non più segregato negli abissi.
Giorgio Linguaglossa
La petizione per una archeologia del silenzio è una pretesa purista, intransigentemente reazionaria, apparentemente non-violenta, a-dialettica, questa petizione è contro bilanciata e messa in sordina dall’altra petizione, quella di una archeologia del rumore messa in atto da Mario Mario M. Gabriele, l’unica in grado di rappresentare oggi l’irrappresentabile, di parteggiare attivamente per la demistificazione della ideologia del silenzio che si sposa con nozze curiali con lo status quo del presente, con le trombe di Trump.
Lucio Mayoor Tosi
Come può un poeta sposare l’ideologia del silenzio, supposto che si tratti di ideologia? Cosa può demistificare, oggi, un poeta che non sappia avvalersi della mediocrità?
Mario M. Gabriele
Il testo qui riportato da Giorgio Linguaglossa e apparso su Altervista è il proseguimento della poesia con due soggetti il Signor H, e una Signorina i cui dialoghi si intersecano nei fatti, negli eventi, nelle esposizioni delle dicotomie personali, tra asserzioni, stati d’animo che si offrono al lettore come spazialità poetica. Sulla traccia di questo ultimo testo si intersecano, tra passato e presente in una bifocalizzazione e correlazione fra individuo e ambiente, fattori microindividuali e personali, che stanno a rivelare lo scatto psicologico del poeta su due soggetti principali: il Barista e la Signorina Mary. Fare il poeta è un mestiere difficile perché bisogna rinnovarsi sempre per poter trasferire al’esterno il fondo in cui si depositano le storie aggiornandole con la realtà dei nostri tempi. Ciò non vuol dire abbandonare i distici, conclusivi e autonomi, preferendo una esposizione estetica da manuale di sceneggiatura, ma di concepire un sistema di investimenti poetici e linguistici onde evitare la stagnazione creativa che rimane il vero Keep out della poesia.I due commenti di Giorgio e Lucio si integrano perfettamente con le loro esposizioni e di tutto ciò li ringrazio vivamente.
Mi domando se non sia proprio la dissociazione che sentiamo nei confronti del mondo a innescare il processo creativo, dissociazione che non sempre va intesa come alienazione, ma anche come il risultato di un processo di ri-definizione di noi stessi nella e dalla moltitudine. Stiamo vivendo senza dubbio un periodo di emergenza, ma è davvero nuovo il reale che ne emerge? A me pare che si siano riprodotti i soliti rapporti di potere, le consuete prevaricazioni, i ben noti tentativi di disinformare, mistificare, di aggirare gli strumenti democratici di cui siamo ancora dotati. Che il linguaggio debba cambiare è fuor di dubbio, se non altro per svelare l’ingiustizia e comunicare l’utopia.
Una sorta di riscoperta.
Il ventre molle, la nascita di arance sottopeso,
nella sporta inutile, senza sopravvivenza,
la tonalità che imperversa dalle candeline elettriche
sulla torta riposta ad una età confortevole.
(Si fa cosa gradita
a ricomporre la genesi di un compost, gli interlinea allentati di Ewa Tagher e di M. M. Gabriele, le incursioni di Tosy e Linguaglossa, gli enunciati di Gallo,… si fa cosa gradita leggere Intini,
“una ragazza copre un buco nel petto”
e scoprire che da tanto ondeggiare nel vuoto, cara Colasson,
qualcosa, qualcosa, rimane.)
in altri termini Grazie OMBRA.
(dedicata a Montale)
complimenti a Mauro Pierno per averci fatto ascoltare una canzone degli anni in cui fu composta la poesia Dora Markus, uno dei capolavori della poesia europea dell’epoca.
da Dora Markus alla poesia di Ewa Tagher e di Giuseppe Gallo si interpone una eternità, il linguaggio poetico italiano è cambiato, non poteva accadere diversamente.
Il capolavoro di Montale è lo specchio simbolico della sua epoca, ma la sua epoca non poteva riconoscervisi.
Anche la poetry kitchen è lo specchio simbolico della nostra epoca, soltanto che oggi non abbiamo più i simboli a cui aggrapparci, allora, che fare? Semplice: abbiamo tanti frammenti, tanti… tutto sta a comporre i frammenti in polittici, lì c’è la sapienza del poeta che è il fattore decisivo.
La differenza è palese.