
Marina Cvetaeva
Prefazione di Marilena Rea
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Nell’universo Cvetaeva il poema Zar-fanciulla (Car’-devica), una fiaba in versi (poėma-skazka, recita il sottotitolo), occupa un posto cardinale. Perché venne composto nel 1920, anno di enormi privazioni, di miseria, freddo e lutto: tra memorie tracciate febbrilmente nei diari e nelle lettere, guerra civile, mercato nero, un marito al fronte e la morte della piccola figlia Irina. Perché è l’espressione più complessa di quello che Cvetaeva chiama la sua «linea russa»1 , cioè l’immaginario folclorico, epico e fiabesco – «Voi sapete quanto io ami l’arte popolare (NB! Io stessa sono il popolo!)» . E soprattutto perché è sempre stato considerato da Cvetaeva la sua «cosa migliore». In un tempo astorico e ciclico, tipico della tradizione folclorica, ripartito in tre Notti e tre Incontri fondamentali (più una breve Notte ultima e una Fine), si consumano le vicende di quattro personaggi: lo Zar ubriacone, la Zarina di seconde nozze, lo Zarevič, e lei – la protagonista assoluta: Zar-fanciulla, la principessa guerriera, la gigantessa dal nome androgino, l’amazzone russa, insieme donna e re. Suo è il regno al di là dei mari, sua è la forza ignea, suo è il dominio sugli elementi del creato; di altezza smisurata e potenza da bogatyr’ (l’eroe epico delle byliny) , principio universale maschile, simboleggia la forza attiva del Sole: ha il volto tondo e radioso che ustiona chiunque si accosti, ha una folta chioma riccioluta di un rosso infuocato, vive in un rosso palazzo, guida un Vascello di Fuoco, siede in un rosso padiglione; e, infine, agisce sempre di giorno, durante gli Incontri.
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Cvetaeva iperbolizza la principessa guerriera della tradizione, protagonista delle due fiabe russe (la n. 232 e la n. 233) raccolte in Narodnye russkie skazki dell’illustre etnologo Aleksandr Afanas’ev, un libro di fiabe ricevuto in dono nel 1915 dagli amici pietroburghesi Jakov Saker e Sofija Čackina, un libro amato, probabilmente uno di quelli con cui «mi bruceranno», scrive Cvetaeva nel 1926. Guerriera, eretica, santa, pellegrina, strega – sono tante le maschere in cui Cvetaeva racconta il suo rifiuto nei confronti del ruolo convenzionale della donna, a partire dalla lirica Se ti chiamo caro – non ti annoiare (1916), fino ai poemi coevi di Zar-fanciulla (Il Prode, Sul cavallo rosso, Vicoletti); un popolo di donne leggendarie – Pentesilea, Brunilde, Giovanna d’Arco – marcia in filigrana con lo stesso passo militare di Zar-fanciulla, finendo per sovrapporsi alla stessa Cvetaeva. Di questo mondo guerriero femminile – intriso di epos ma anche di leggende popolari e superstizioni, narrato con un inconfondibile linguaggio che si muove, nota Karlynsky, tra registri incolti e colloquiali, registri della Bibbia, dello slavo ecclesiastico e del russo antico – Zar-fanciulla porta il vessillo, con un’ostinata volontà di salvare dall’oblio quell’autentica cultura moscovita, la «Mosca dell’ultima ora e dell’ultima volta» che, con tanto orgoglio, Cvetaeva aveva regalato a Osip Mandel’štam durante il soggiorno a Mosca nel 1916.
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Rovesciando il topos dell’eroe della fiaba che parte in cerca della sposa, la Vergine guerriera solca i mari per conquistare il suo giovane sposo, lo Zarevič, un fanciullo inerte, malinconico, riottoso all’amore, dedito solo alla musica; lui rappresenta il principio lunare, e dunque femminile e agli antipodi della principessa guerriera, conservando poco dell’eroe della fiaba originale (nella n. 232, è pronto a duellare con il pretendente pur di sposare la fanciulla-re; nella n. 233, peregrina per il mondo, incontra la baba-jaga nell’izba sulle zampe di gallina e affronta le tipiche prove iniziatiche, fino a trovare l’amata e convolare a nozze con lei). Se la sua natura celeste lo rende leggero, vaporoso, acquatico, il figlio dello Zar deve fare i conti, però, con un pesante principio terrestre: perché è di stoffa, tessile, filiforme, fruttoso, oltre che oppresso, incastrato, incatenato. Benché il suo status sia quello del son (sonno e sogno), di cui la musica non è altro che un prolungamento, lo Zarevič è l’unico personaggio che si evolve, cresce, s’invigorisce, da bambino diventa un uomo-eroe che ha superato le prove iniziatiche. Scrive Marina Cvetaeva nei diari del 1923: «Leggete Zar-fanciulla – insisto. Dov’è il senso della storia? In lei, la Guerriera, in lui, lo Zarevič, nella Matrigna, ma anche nella tragedia del mancarsi: l’amore è un passarsi accanto: Ein Jüngling liebt ein Mädchen. Ma il mio Jüngling non sa amare nessuno, sono questi gli uomini che io amo, lui ama solo la gusla, è fratello del giovane David e ancora di più di Ippolito».
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Nello Zarevič, un «figlio del Cielo», si riverberano dunque il David biblico che lenisce con la musica i tormenti di Saul, l’Orfeo che suona davanti al re degli inferi, ma anche l’Ippolito misogino che resiste crudele all’amore. Ma non a quello di Zar-fanciulla, bensì a quello della Matrigna, la Zarina. Una non-coppia incestuosa, destinata a un amore ferale come quello narrato nella Bibbia tra la moglie di Putifarre e Giuseppe, già elaborato da Cvetaeva nelle liriche Giuseppe (1917) e Sei scappato, una notte nera sei scappato (1920); oppure come la coppia mitologica di Fedra e Ippolito, immortalata nelle liriche Fedra (1923), Il sipario (1923) e nella tragedia Fedra (1927). La Matrigna, dilaniata dallo struggimento d’amore, è una donna tortuosa, sinuosa, sgusciante, è una novella Medusa simile alla principessa-serpe dell’omonima fiaba popolare. Lei è il personaggio più intenso del poema: il suo regno è la Notte, è dotata di un potere occulto misto di magia, fumo e sonno, è mezza strega e mezza ragazzina, moglie negletta e chiusa sotto chiave in un labirinto sotterraneo di sette stanze, come la bella principessa araba della Storia del visir Nur En-Din de Le Mille e una notte (ugualmente chiusa in un labirinto e circondata da un corteo di ricamatrici, acconciatrici, cantatrici).

rivoluzione d’ottobre manifestazione bolscevica
Ma c’è dell’altro: la Matrigna è il ribaltamento sia della Vergine guerriera sia della Vergine Maria (si veda la nota Foce, p. 274); ha i tratti delle più crudeli donne bibliche – strappa le vesti al suo amato come la moglie di Putifarre strappava il mantello a Giuseppe, si fa statua di sale come la moglie di Lot che, violando il divieto di Dio, si volta a guardare la fine di Sodoma e Gomorra, finisce per strapparsi le vesti dopo una folle danza per avere in cambio, come Salomè, la testa del suo Zarevič. E non è ancora tutto: nella Notte ultima, dopo aver visto tornare a riva la barca vuota dello Zarevič, intona un «pianto dei salici», inconsolabile Desdemona. Fa parte dello stesso mondo ctonio e infero, in cui è rinchiusa la Matrigna, anche lo Zar, inchiodato in un locus fisso, cioè la cantina; assomiglia a un re degli Inferi, circondato da coppe, bottiglie e botti che delimitano uno spazio ben organizzato, come si conviene al mondo infero di tutte le mitologie. Lui e il suo territorio sono dominati da umidità e villosità, indici della loro natura tetra, malefica, vendicativa (si veda la nota Davanti al mercante, p. 273); il vino-sangue di cui innaffia il regno, in un delirante inno allo sfacelo e alla disgregazione (Notte terza) reso dal martellante prefisso verbale raz-ras, scatena le forze cosmiche distruttrici che si riverseranno rovinosamente su di lui nella Fine: il popolo in rivolta, esasperato da fame e soprusi, decreta la condanna a morte del re.
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È il popolo della Russia Rossa, estraneo al corso della fiaba; e tuttavia non si tratta dell’unica anomalia, visto che tutti i personaggi muoiono, più alla maniera di una tragedia che non di una fiaba. Un finale politico, comunque, non è del tutto estraneo ai favolisti, anzi, poteva essere un modo per riportare l’attenzione al mondo di tutti i giorni, sottolineava Jakobson analizzando la formula conclusiva di una fiaba di Azadovskij («Vivevano alla giornata e accumulavano ricchezze, finché i soviet non vennero al potere»); Karlinsky, invece, interpreta la Fine come l’omaggio di Cvetaeva alla Rivoluzione comunista, pur conoscendo bene le sue posizioni reazionarie. L’insurrezione del popolo, però, sembra piuttosto una scena apocalittica simile a quelle che Cvetaeva aveva già tratteggiato altrove, per esempio nella lirica Notte. NordEst (1917), o nei diari del 1917, in cui ricorda le conversazioni con il poeta Maksimilian Vološin nella sua dacia a Koktebel’, in Crimea:
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«Visione di Maks Vološin che frigge cipolle su un gradino della torre, con Ten sulle ginocchia. E intanto che la cipolla cuoce, conferenza, a Sereža e a me, sui destini prossimi e futuri della Russia. – “E adesso, Sereža, accadrà questo e questo… Tienilo a mente”. E con voce insinuante, quasi allegro, come un buon mago a dei bambini, un quadretto dopo l’altro – tutta la rivoluzione russa per i prossimi cinque anni: terrore, guerra civile, fucilazioni, avamposti, Vandea, abbrutimento, perdita di fisionomia, gli spiriti delle forze naturali liberati dalla prigionia, sangue, sangue, sangue…».

rivoluzione d’ottobre i bolscevichi
Una fine molto simile alla rivolta del mondo delle tenebre – cioè della società dei miserabili e affamati – tipica di un certo filone satirico e burlesco del XVII secolo; l’ultima parola di tutto il poema, inoltre, non è konec (“fine”), ma šabaš (“pausa”, “basta” e, in senso traslato, “fine, morte”): a chiudersi non è solo un poema, ma un’epoca intera. E tuttavia il nucleo drammatico del poema non sta nella rivolta finale – lo è invece l’incontro mai realizzato tra Zar-fanciulla e Zarevič, il Sole e la Luna, i due elementi complementari dell’unità androgina.
«La tragedia del mancarsi» – il paradigma cvetaeviano per eccellenza dell’amore – travolge tutte le sue coppie, tutti «gli amanti in potenza, i separati-uniti la cui separazione amorosa è più forte di qualunque unione»: Achille e Pentesilea, Apollo e Sibilla, Arianna e Teseo, Fedra e Ippolito, Sigfrido e Brunilde, Onegin e Tat’jana: «Una panchina. Sulla panchina – Tat’jana. Poi arriva Onegin, ma non si siede, mentre lei si alza. Entrambi sono in piedi. E parla soltanto lui, per tutto il tempo, a lungo, mentre lei non dice una parola. […] Questa prima mia scena d’amore ha segnato tutte le successive, tutta la passione in me dell’amore infelice, non corrisposto, impossibile. Da quel preciso momento io non volli essere felice e con ciò mi votai – al non amore»19. E dunque, anche nella vita di Cvetaeva, tra i tanti incontri mai realizzati, c’è quello con Aleksandr Blok al termine della serata letteraria del 9 maggio 1920 al Museo Politecnico di Mosca; c’è quello con Boris Pasternak a Berlino nel 1923 (fallito a causa del passaporto sovietico di Cvetaeva, allora emigrata in Boemia), a Weimar nel 1925, a Parigi nel 1935 (in occasione del Congresso Internazionale degli Scrittori in difesa della Cultura20); quello con Rainer Maria Rilke nel 1926.
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A quest’ultimo scrive Cvetaeva il 22 agosto 1926: «L’amore vive di esclusione, di segregazione, di allontanamento. Vive nelle parole e muore nelle azioni». Zar-fanciulla non è una fiaba, non è paragonabile agli esperimenti ottocenteschi di Deržavin e Eršov di mettere in versi la storia tradizionale. È un’orchestrazione polifonica dei tanti personaggi interiori di Cvetaeva: lo skazitel’ (il cantastorie popolare), le voci dei protagonisti dietro cui agiscono personaggi-ombra, le voci della natura (squalo, balena, uccelli, mare, vento), il popolo da Corte dei Miracoli. Quando il poema uscì nel 1922 a Mosca (GIZ) e a Berlino (Epocha), fu accolto da numerose stroncature: troppo lungo e scritto in un russo eccessivamente pesante, barocco, noioso e sconveniente da far leggere ai bambini, inadeguato rispetto alla pregevolezza dell’editore e della carta, filozarista. Un solo elogio, timido tra l’altro, a un poema che, pur tra i ghiribizzi linguistici e gli evidenti scivoloni, era un piccolo evento nella poesia russa contemporanea28.
Di sicuro la disomogeneità metrica e stilistica del poema non concede tregua e crea un effetto di spaesamento continuo, alimentato anche dall’abbondanza di stilemi fiabeschi ed epici, dall’uso insistente del trattino e dei punti esclamativi; Cvetaeva non risparmia, inoltre, nessuno degli artifici per amplificare l’effetto sonoro – allitterazioni, homeoptoton (accumulazione di parole a radice diversa ma a suffisso identico), figure etimologiche (moltiplicazioni della radice verbale ma con suffissi diversi, come ad esempio nella scena dell’incontro tra la Matrigna e lo Zarevič nella Notte seconda: kačaet – pokačivaet – raskačivaet – ukačivaet – oboračivaet – razvoračivaet). Una sfida vertiginosa per il traduttore. Il poema è tutto questo, è tutta Cvetaeva, nella cui voce «risuonava qualcosa di poco familiare e di terrificante per l’orecchio russo: l’impossibilità di accettare il mondo», scriveva Iosif Brodskij.
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Marina Cvetaeva, Strofe da La principessa guerriera
Как у молодой змеи – да старый уж,
Как у молодой жены – да старый муж,
Морда тыквой, живот шаром, дышит – терем дрожит,
От усов-то перегаром за сто верст округ разит.
Как у мачехи у младенькой – сынок в потолок,
Не разбойничек, не всадничек, не силач, не стрелок,
Вместо щек – одни-то впадинки, губы крепко молчат.
Как в дворцовом палисадничке гусли за полночь бренчат…
Поведешь в его сторонку оком –
Смотрит в стену.
Дай-ка боком
Д’ ненароком
Да задену!
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Questa è la storia di un marito e di sua moglie –
lui vecchio, lei giovane – lei serpe, lui biscione:
faccia di zucca, pancia di lardo, quando russa – il palazzo
traballa, per mille miglia si spande dai baffi il suo puzzo.
Questa è la storia di una giovane Matrigna e del figlioletto,
che non sa cavalcare, né rubare, né ammazzare – è un inetto,
al posto delle guance – fossette, la bocca ostinatamente zitta.
Nei giardini del palazzo, in piena notte, la gusla* vibra…
Su, venite a guardare!
Il ragazzo giace
su un fianco.
Sono a un passo
dal toccarlo!
*
НОЧЬ ПЕРВАЯ
Спит Царевич, распростерся,
Спит, не слышит ничего.
Ровно палочкой уперся
Месяц в личико его.
Соврала, что палочкой:
Перстом светлым, пальчиком.
И стоит бабенка шалая
Над мальчиком.
«Скрытные твои ресницы, –
Без огня сожжена!
Отчего я не девица,
А чужая жена!
Отчего-то людям спится,
А мне плачется!
Отчего тебе не мать родная
Я, а мачеха?
На кроваточке одной,
Сынок с матушкой родной.
С головеночкой льняной
Ребеночек мой!
Молчи, пес цепной!
Не реви, царь морской!
Проходи, сон дурной!
Ребеночек – мой!
В кипяток положь яйцо –
Да как не сварится?
Как на личико твое цветочное
Не зариться?
Для одной твоей лежанки
Я на свет рождена.
Я царевичу служанка –
Не царёва жена.
Обдери меня на лыко,
Псам на ужин изжарь!
Хошь, диковинный с музыкой
Заведу – кубарь?
Гляжу в зеркальце, дивлюся:
Али грудь плоска?
Хочешь, дватебе – набусы –
Подарю глазка?
Не введу в расход, – задаром!»
А сынок в ответ:
– К взрослым пасынкам – нестарым
Мачехам ходить не след.
NOTTE PRIMA
Dorme lo Zarevi, supino.
Dorme, non sente più nulla.
Un trattino ha disegnato
sul suo visino la luna.
Anzi no, non un trattino:
un dito diafano, un mignolo.
Si avvicina al bambino,
in delirio, la sua Matrigna.
«Chiuse hai le tue ciglia,
senza fuoco riardo!
Perché non sono fanciulla,
ma moglie di quell’altro?
Perché la gente trova pace
invece lacrime io spargo?
Perché non sono tua madre,
ma matrigna soltanto?
In uno stesso letto
la madre insieme al figlio.
Che bei capelli di lino
ha questo bambino mio!
Cani, non abbaiate!
Taci, abisso del mare!
Via, incubi ossessivi!
Questo bambino è mio!
Finisce che si cuoce
l’uovo nell’acqua calda.
Come staccare gli occhi
dal bocciolo del tuo volto?
Per il tuo letto solamente
al mondo sono nata.
Ancella dello Zarevi,
non moglie dello Zar.
Scorticami pure viva!
Dammi in pasto ai cani!
O vuoi che ti meravigli
con una trottola a sonagli?
Allo specchio – un incanto:
lo vedi che ho il seno alto?
Forse vuoi le mie pupille
per farti un gioiello raro?
Non chiedo niente in cambio!».
Ma il figlio le dice:
– Dai figliastri già grandi
non si intrufolano le matrigne.
*
«Дай подушечку поправлю!»
– Я сам примощусь!
«Как же так тебя оставлю?»
– Я и сам обойдусь!
«Ай пониже? Ай повыше?»
– Мне твой вид постыл!
«Видно разум твой мальчиший
Звоном по морю уплыл.
Али ручки не белы?»
– В море пена белей!
«Али губки не алы?»
– В море зори алей!
«Али грудь не высока?»
– Мне что грудь – что доска!
«Можно рядушком прилечь?»
– Постеля узка!
«Коль и впрямь она узка – свернусь в трубочку!
Говорливые мои шелка? – скину юбочку!
Всё, что знала, позабыла нынче зá ночь я:
Я крестьяночка, твоей души служаночка»
А Царевич ей в ответ
Опять всё то же:
Всё: негоже, да не трожь,
Не трожь, негоже!
«Али личиком и впрямь не бела?»
– Не страми родство, да брось озорство!
«Ох, зачем тебя не я родила?»
– Мне не надо твоего – ничего!
*
«Ti riassetto il cuscino?».
– Lo sistemo da solo!
«Posso darti un aiuto?».
– Me la cavo da solo!
«Più a sinistra? Più a destra?».
– Solo a vederti, ti odio!
«Il tuo senno – con il suono
si sarà perso nel mare.
Lo vedi che ho candide braccia?».
– Più bianca è la spuma del mare!
«Lo vedi che ho labbra di corallo?».
– Più rossa è l’alba sul mare!
«Lo vedi che seni succosi?».
– Seni o assi, per me è lo stesso!
«Posso giacere insieme a te?».
– Il letto è troppo stretto!
«Se è stretto, mi sfino come un giunco!
Le vesti me le sfilo, se danno impiccio!
Tutto, tutto voglio scordare questa notte:
sono schiava della tua anima – tua suddita!».
Lo Zarevič le risponde
anche stavolta uguale:
non si fa, non mi toccare,
non mi toccare, non si fa!
«Lo vedi che ho un tenero viso?».
– Non violare i legami di sangue!
«Perché non ti ho partorito io?».
– Di te non so che farmene!
Anonimo dell’Urbe
versi osceni
Pubblico qui questi versi osceni di un Anonimo vissuto a Roma a metà degli anni ottanta. Li ricevetti nel 1993 per pubblicarli sul quadrimestrale di letteratura “Poiesis”. La pubblicazione poi non andò in porto per le resistenze di alcuni cattolici allora presenti nella redazione della rivista. Però, a distanza di 35 anni, la freschezza di questi versi osceni mi sembra sia rimasta intatta, anzi, forse essi hanno beneficiato della distanza enorme che ci separa oggi da quegli anni nei quali era in voga, a Roma, la «parola innamorata» e il ritorno ai vezzeggiativi e al primitivismo degli orti coltivati in proprio. Oggi, in tempi di Covid e di bestiale propaganda live, in tempi di cianuro e di potassio di una comunicazione infetta e parossistica ad opera delle Agenzie pubblicitarie della idiozia di massa, mi sembra che questo derisorio incitamento alla trasgressione e all’osceno abbia una sua attualità. Sono versi crudi, diretti, memorabili.
Negli anni ottanta a Roma esistevano ancora i memorabili “Vespasiani”, i pisciatoi costruiti dall’Imperatore Vespasiano per i bisogni della plebe dell’Urbe. Erano manufatti magnifici e puzzolenti. Poi venne un tal Rutelli, sindaco di Roma, e i gloriosi “Vespasiani” furono divelti e dismessi.
La poiesis è evento, l’aprirsi degli orizzonti storici entro cui gli enti vengono all’essere; essa non è nulla al di fuori del suo accadere come prospettiva del mondo. Dire che l’opera d’arte mette in opera la verità, significa che la verità si costituisce e si mostra nel mondo da essa fondato. Il rapporto tra opera e verità non è perciò estrinseco, ma interno, perché la verità non è se non il suo accadere secondo prospettive di mondo dischiuse dalla poiesis. L’accadere della verità nell’opera sfonda la verità, ne illumina il fondo di non-verità. Il reiterarsi dell’avverbio «oggi» di questi schizzi poetici enfatizza all’incontrario l’aprirsi degli orizzonti storico-destinali entro cui la verità diviene possibile. Ne viene illuminato, con luce frontale, lo sfondo di non-verità degli anni ottanta, del quadro politico riassunto nella formula Craxi-Forlani-Andreotti. Questi assiomi poetici illustrano bene l’«osceno», la impresentabilità di quegli anni di normalizzazione della vita sociale, politica e letteraria italiana. L’evento inaugurale in cui si istituiscono gli orizzonti storico-destinali dell’esperienza storica dell’Italia del welfare nutrito di inflazione e di corruzione viene smascherato da queste poesie che ricalcano, ribaltandolo in accezione «oscena» e derisoria, il modello penniano che in quegli anni conosce in Italia una notevole diffusione.
Queste poesie sono esperienze di shock tali da sovvertire l’ordine costituito della normalizzazione di quegli anni, sospendono l’ovvietà di quel mondo normalizzato dalla politica craxiana e democristiana, inducono in uno «stato di spaesamento» nei confronti di quella normalizzazione.
L’arte moderna è da intendersi alla luce della nozione di «ornamento» e di «decorazione», cosa che l’anonimo ben conosce, nella nostra epoca infatti ogni arte assume un carattere decorativo, ornamentale, da intrattenimento in quanto oggetto di una percezione distratta, non di un atteggiamento estetico disinteressato. Nella stagione del post-moderno, dell’estetizzazione del mondo, e della diffusione di massa del kitsch l’ornamento è la forma in cui l’opera viene fruita, apprezzata, vissuta.
Come scriveva un filosofo italiano in quegli anni, Gianni Vattimo, l’arte non è più al centro dell’attenzione del pubblico, ma, in quanto ornamento, decorazione e intrattenimento dell’esistenza umana, svolge un ruolo marginale e periferico. Poiché però l’esperienza postmoderna è quella della perdita del centro, il ruolo marginale e periferico dell’arte torna ad essere, paradossalmente, centrale. L’opera non è oggetto per un soggetto che in atteggiamento «disinteressato» trovi nella verità astratta dall’opera una verità più vera; ma ciò che decora, istituendole, le forme di vita che noi viviamo.
Che dire?, a distanza di 35 anni questi appunti poetici registrano l’invecchiamento come un evento positivo, che si inserisce attivamente nel determinare nuove e inusitate possibilità di senso dei testi.
(Giorgio Linguaglossa)
Versi osceni
Il vespasiano è un gran secchio di merda
ma io non ho nulla da ridire
ché anch’io sono uno stronzo
*
Il vespasiano è l’iconostasi,
il mio scrittoio…
ivi incontro il frocio, la checca, il guardone.
È la mia stasi, il mio purgatorio.
Il mattatoio.
*
Nel cesso alla turca del vespasiano
di Tor di Nona ho pisciato allegramente
sopra un nugolo di mosche verdi, azzurre
e dorate.
*
Nel lutulento vespasiano all’incrocio
di viale Manzoni e via Merulana…
anche là ci ho lasciato uno stronzo.
*
Voglio star con la più laida
voglio amar sol la più brutta.
Ahimè, che odor di faida
per l’onor della combutta.
*
Voglio star con le baldracche
tutte sizze tutte pacche,
voglio darmi un pò di lustro
ritto il sigaro, ritto il busto.
*
Un cancro disperatissimo mi rode:
la più laida, la più atroce.
*
Mi conquide la puttana
tra le latte e il pattume,
mi sorride l’africana
con le tette di bitume.
*
Vivon bene le puttane
senza fisco e senza grane,
vivon lievi e senza ambasce
intere frotte di bagasce.
*
Vado appresso alle puttane
bianche, gialle e africane,
vado mesto e poi ritorno.
Ahi, che già s’è fatto giorno.
*
Voglio star tra le mignatte
voglio amar sol le bagasce.
Ahi che gioia, ahi che ambasce!
giorno, notte, vespro e dì.
*
Una doccia fredda
è la tua carcassa di sozza bagascia,
di me la cui ambascia
mi ottunde, mi preme e mi sfascia.
*
Lo zinale della notte
sulla luna illuminata.
Senza ingiurie né offese,
preferisco la puttana
senza ambasce e senza grana.
*
Se mi sento un poco inglese
noleggio la cipriota
e corteggio la cinese.
*
Non mi odiate, capirete,
sono solo come un prete.
*
Odiatemi, capirete,
sono stronzo come un prete.
*
Sono stanco e senza grana,
oggi ho voglia di africana.
*
Sono stanco di poetare,
oggi voglio solo latrare.
*
Sono stanco di latrare,
oggi voglio solo spetazzare in faccia alle checche
e ai froci.
*
Sotto l’Arco de Costantino
ar Colosseo ce steva ‘na frotta de travestiti,
de checche, de froci, de paparazzi,
c’erano pure li pervertiti e li guardoni…
passaveno de là puro i piedipiatti.
Io puro ce stavo.
*
Alle Terme di Caracalla
in mezzo ai chioschi caracollava un centurione
con tanto di spadone sguainato…
un frocetto passava di lì
gli chiese: «passa di qui il bus 23?».
*
Al mercato di Traiano ce steva la mia amica Clodia
la lesbica bisessuale che si fa pure i frocetti…
io le ho chiesto:
«l’hai saputo della strage di Teutoburgo?»;
lei mi ha risposto che sì ma che non gliene fregava
un emerito cazzo.
*
Quando entro nella Suburra nascondo nella cintura
della tunica il pugnale col manico di avorio che mi ha donato Clodia
o dei narcotici in un sacchetto;
no, non per commettere un crimine, ma per gustare
il profumo che l’accompagna.
Secondo me questi versi sono stati scritti dal papa Ernesto, eretico, che ha abiurato la fede cattolica. Un apostata che ha abbracciato il paganesimo che passa le sue nottate a copulare con maschietti e zoccole africane e cinesi… che dire? Penso che l’Anonimo avesse una cognizione profonda dei preti e degli ibridi copulatori dei vespasiani di Roma.
Personalmente, mi sono molto divertita alla lettura di questi versi osceni che nulla hanno di osceno in quanto oscena era la realtà italiana di quegli anni. Ho apprezzato, in particolare, il rovesciamento stilistico delle quartine del Metastasio e di Sandro Penna in senso derisorio e osceno.
Finalmente un poeta italiano che sbeffeggia direttamente e indirettamente la poesia istituzionale di quegli anni.
Marina Ivanovna Cvetaeva (Zvetaeva), in russo: Мари́на Ива́новна Цвета́ева (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941). Scrive di lei Anna Achmatova: «Spesso Marina inizia una poesia con un do di petto». A 18 anni pubblica (1910) Album Serale, la sua prima raccolta di poesie. È l’esordio di un autentico talento: il libro viene recensito dai principali poeti dell’epoca. È bella, ricca, intelligente, anticonformista. Scriverà centinaia di poesie, diciassette poemi, otto drammi in versi, opere di narrativa e saggistica oltre ad uno scambio epistolare con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, suo grande platonico amore impossibile. Pasternak le scrive nella sua Autobiografia un commosso riconoscimento: «La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava… In breve non è un sacrilegio dire che ad eccezione di Annenskij, Blok e con qualche riserva Andrej Belyi, la Cvetaeva prima maniera era precisamente ciò che avrebbero voluto essere e non furono tutti gli altri simbolisti messi insieme».
Scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo «Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak». Nella sua poesia c’è una sorta di partitura musicale. Scrive Marina ai suoi lettori: «Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare». Nel 1911 sposa Sergej Efron a cui fa una promessa che manterrà nonostante i suoi amori collaterali etero e saffici: «Ti seguirò come un cagnolino».
Nel 1912 esce la seconda raccolta, Lanterna magica, e nel 1913 Da due libri. Nel 1917 inizia la rivoluzione, Efron si arruola tra le guardie bianche, e di lui non si saprà più nulla. Assiste ad ogni umiliazione fino ad elemosinare il cibo per sé e le due figlie Alja e Irina che morirà a due anni in un orfanatrofio per denutrizione. Nel 1922 fugge a Praga per raggiungere il marito. Nasce il terzo figlio, della cui paternità si dubita e al quale lei si lega morbosamente. A Praga scrive molte opere importanti: Dopo la Russia, L’accalappiatopi, Il poema della montagna e Il poema della fine. Nel ’25 la famiglia è a Parigi dove vivono di stenti grazie ai lavori domestici di Marina presso varie famiglie. Efron si arruola ai servizi segreti russi ed è accusato di aver partecipato ad un omicidio. Fugge a Mosca con la figlia Alja che condivideva i principi rivoluzionari. Marina resta fedele alla sua antica promessa: «Ti seguirò come un cagnolino». Nel 1939 Marina li raggiunge a Mosca con Mur. In tempo per salutarli poco prima che vengano arrestati.
Marina invia nei campi di concentramento dove si trovano il marito e la figlia lettere e pacchi con stivali, berretti, scialli, carote essiccate: «a immergerle nell’acqua bollente rinvengono, Alja ricordati che contengono vitamine». Inizia la guerra, i nazisti invadono la Russia, Marina con il figlio nel 1941 sono evacuati a Elabuga, nella Repubblica autonoma di Tataria. Fa domanda per ottenere un posto di lavapiatti in un mensa del Fondo letterario e non lo ottiene. Mur si lamentava della vita che conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava appena per due pagnotte. La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta. Domenica 31 agosto 1941 rimasta sola a casa, sale su una sedia e si impicca a una trave. Ha 49 anni. Lascia un biglietto d’addio e d’amore profondo: per Mur che la disprezzava per la sua sciatteria e per la sua dubbia reputazione. L’epitaffio era già stato scritto, autografo, il 3 maggio 1913 a 20 anni:
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«… Leggi – di ranuncoli
e papaveri colto un mazzetto –
che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo…
Solo non stare così tetro,
la testa china sul petto.
Con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami».
Nell’intervista a Iosif Brodskij pubblicata su questa rivista e tratta dal libro edito da LietoColle Dialoghi con Iosif Brodskij (2016) è riportato questo dialogo:
Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.
Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?
Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.
Volkov: Ieri, tra l’altro, era il suo compleanno, e ho pensato: sono passati così pochi anni; se Cvetaeva fosse sopravvissuta potrebbe essere ancora con noi, potremmo vederla e parlare con lei. Lei, Iosif, ha parlato sia con Achmatova che con Auden. Frost è morto da non molto. Insomma, i poeti di cui stiamo discutendo, sono nostri contemporanei, e allo stesso tempo sono già figure storiche, quasi dei fossili.
Brodskij: Sì e no. Questo è molto interessante Solomon. Di fatto, la visione del mondo che lei trova nelle opere di questi poeti è entrata a far parte della nostra percezione. Se vuole, la nostra percezione è il completamento logico (o forse illogico) di ciò che è contenuto nelle loro poesie; è lo sviluppo dei principi, delle motivazioni, delle idee, che si esplicitano nelle opere degli autori da lei citati. Dopo averli scoperti, nella nostra vita non è successo più nulla di così sostanziale, non è così? Cioè, io ad esempio, non ho incontrato niente di più significativo. Compreso il mio proprio pensiero… queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei. Nient’altro ci poteva formare così, almeno me, come Frost, Cvetaeva, Kavafis, Rilke, Achmatova, Pasternak. È questo che li rende nostri contemporanei, finché non tireremo le cuoia, fintanto che saremo vivi. Penso che l’influenza di un poeta, questa sua emanazione o irradiazione, si estenda per una o due generazioni.
Volkov: Quando ha conosciuto per la prima volta le poesie di Cvetaeva?
Brodskij: A diciannove, vent’anni circa. Perché prima non ero particolarmente interessato a tutto questo. Cvetaeva, ovviamente, la leggevo già allora, ma non nei libri, solo nelle copie battute a macchina del samizdat. Non mi ricordo chi me l’ha dato, ma quando ho letto il Poema della montagna, tutto si è sistemato. E da allora, niente di quello che poi ho letto in russo mi ha fatto un’impressione così grande come Marina.
La Cvetaeva ha inaugurato nella poesia russa ed europea un nuovo genere di poesia, una sorta di colloquio utilizzando sistematicamente la paratassi e l’impiego poetico del silenzio e dei retropensieri, i non detti. E così è rimasta nella storia della poesia europea.
Buonasera cari amici; questo è per me un articolo con una duplice gemma preziosa.. Da un lato, il poema di Marina Cvetaeva, straordinario come sanno essere i poemi per la loro capacità di farsi epos, di cantare un’epoca, un cosmo, per di più in questo caso, impreziosito ulteriormente con il ricchissimo retroterra del corredo della cultura popolare russa, come del resto nella migliore tradizione dell’epica.
Dall’altra i gustosissimi “versi osceni” propostici da Giorgio, che trovo particolarmente stimolanti (e per niente osceni: ma del resto è un concetto che non mi appartiene, per lo meno nell’accezione corrente dell’aggettivo, legata al linguaggio o ad atteggiamenti di discendenza popolare: trovo molto più oscena ad esempio, certi atteggiamenti di alcuni poeti da salotto dei giorni nostri); come ho avuto modo di evidenziare in un intervento precedente, ho una particolare predisposizione e coinvolgimento verso il comico (nella trasposizione più ampia del termine) e trovo che in poesia l’elemento comico contribuisca da par suo alll’operazione di destrutturazione e rinnovamento del linguaggio – rispetto agli impaludamenti in cui ormai versa il quadro prevalente della produzione poetica italiana – che è uno degli obiettivi fondanti della Noe. Ovviamente, nel momento stesso in cui produce quest’effetto di straniamento e sovvertimento, sostiene altresì quella ricerca delle connessioni profonde che sottendono la realtà apparente ed ufficiale, finendo per farsi paradossalmente (ma neanche tanto) partendo da una condizione di metastoria, paradigma del proprio tempo storico. Buona serata ed un abbraccio a tutti voi.
‘ Queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei ‘ dice Brodskij nell’intervista postata da Giorgio Linguaglossa. Anna Achmatova mi ha creato, posso dirlo. Porto sempre con me le parole che Achmatova pone a prefazione del suo poemetto ‘Requiem’. Un giorno, mentre Anna era in fila davanti a una famigerata prigione di Leningrado per portare un pacco a suo figlio recluso, dalla folla dolente degli altri parenti si staccò una donna che chiese ad Anna: ‘Tu puoi raccontare tutto questo ?’ Anna rispose , ‘ Posso’, e su quello che una volta era stato un viso di donna si intravide un sorriso. Il regime sovietico costrinse Anna al silenzio, le impedì di pubblicare, me lei continuò a scrivere ,a creare, a pensare. Sì, Anna Achmatova mi ha creato.