Lucio Mayoor Tosi, Composizione
[Lucio Mayoor Tosi nasce a Brescia nel 1954, vive a Candia Lomellina (PV). Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti, ha lavorato per la pubblicità. Esperto di comunicazione, collabora con agenzie pubblicitarie e case editrici. Come artista ha esposto in varie mostre personali e collettive. Come poeta è a tutt’oggi inedito, fatta eccezione per alcune antologie – da segnalare l’antologia bilingue uscita negli Stati Uniti, How the Trojan war ended I don’t remember (Come è finita la guerra di Troia non ricordo), Chelsea Editions, 2019, New York. Pubblica le sue poesie su mayoorblog.wordpress.com/ – Più che un blog, il suo personale taccuino per gli appunti.]
L’andatura atetica della «nuova poesia» è fatta di vacillamenti, di zoppicamenti, di passi all’indietro (ma verso dove?); un passo in avanti e due all’indietro. Si va per passi laterali, per tentativi, per macchie (come nella sua pittura), per scorciatoie, per smottamenti laterali, ribaltamenti e ritrosie, per tracciamenti e ritracciamenti, per sentieri che si rivelano Umweg e Irrweg e ritracciamenti all’indietro, di lato, in diagonale.
La scrittura astratta, al pari della sua pittura predilige la macchia monocromatica del colore sul fondale neutro. Il fondale è costruito come una rete di significati neutri sulla quale si staglia la superficie sporcificata del colore, anch’esso neutrale. È che non essendoci più una fondazione sulla quale fondare il discorso poetico e il discorso pittorico, quest’ultimo se ne va a ramengo, senza un mittente e senza un destinatario, contando unicamente sulla destinazione ipotecaria, sulla destinazione ipotetica, con tanto di fidejussione. Si invia, si destina qualcosa a qualcuno pur sapendo che non giungerà veramente mai nulla a nessuno, in quanto la destinazione è priva di destino, si vive alla giornata seguendo il Principio Postale, la spedizione della cartolina, delle cartoline, dei post-it, degli attaches.
Così nasce il «polittico» di Lucio Mayoor Tosi. Il «polittico» è una sommatoria di cartoline, di invii, di rinvii, di post-it, di scripta improvvisati, inintenzionali, di rumori di fondo, di interferenze semantiche, di interferenze simboliche, iconiche. Il «polittico» è la risposta più ardita alla assenza di fondamento del discorso poetico nell’ipermoderno e, al contempo, la replica più alta alla crisi della poesia e dell’arte astratta di oggi. Ecco il punto, con le parole di Tosi: «il passo e il cambio di passo». Una poesia che non abbia in sé un «passo» e un «cambio di passo», è una poesia polifrastica generica come se ne legge a miliardi di esemplari. È il «passo» che detta il ritmo, e il ritmo detta il tipo di versificazione.
Si tratta di un complesso meccanismo di invii e di tracciati destinati allo sviamento e all’evitamento, alla elisione dei significanti dove il messaggio, che reca impresso il desiderio e l’intenzione, la pulsione, non arriva mai a destinazione in quanto per definizione freudiana inibito alla meta, e il Principio di Piacere che ha prodotto il desiderio approda infine al Principio di Realtà. Una complessa struttura policentrica. E così facendo forse perpetua il meccanismo di riproduzione del capitale del piacere non ottenuto mediante la riproduzione del piacere in piacere de-sublimato, s-fondato, de-soggettivato, de-oggettivato, piacere tras-posto, tras-ferito.
(Giorgio Linguaglossa)
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Lucio Mayoor Tosi
“L’azione letale del significante colpisce la struttura sintattica della poesia depalchiana destrutturandone i nessi logico-proposizionali. Questo «intervento» in quanto operazione di divisione del «soggetto» condotto attraverso ciò che Lacan definisce «alienazione significante», si ha come «separazione». Separazione dal campo materno. Separazione dal desiderio materno. Separazione dal linguaggio poetico della tradizione considerato come linguaggio anestetizzato”. Giorgio Linguaglossa sett.2017.
Sembra che la poesia riconduca al campo materno; e la grammatica al significato. Pertanto, chi non abbia conservato il linguaggio materno dovrà più di altri confrontarsi con la grammatica, che è grammatica del significato. Da qui la difficoltà di poter ritrovare le parole all’origine. Entra in campo una mediazione culturale, di fronte alla quale il mezzo grammaticale dimostra la sua insufficienza: forse perché funzionale al significato, la grammatica consente una innovazione semantica, raramente di linguaggio.
Non sono un esperto linguista, ma è quanto sto osservando. Il linguaggio me lo piego da me giostrando sulle procedure convenzionali del discorso. Altri vedo che fanno fatica, o vivono questo impedimento grammaticale; anche nelle recenti poesie poetry kitchen noto che i versi partono dall’a-capo e finiscono diligenti al punto, in una sorta di spezzettamento dei significanti, che rasenta l’assurdo. Il frammento diligente – che per essere frammento andrebbe preso a sassate (vedi la poesia di Alfredo De Palchi) – se di significato o narrazione anche assurda, causa l’appropriata grammatica finirà inevitabilmente col tramutarsi in una sorta, o variante, del verso libero. Quindi formalmente un passo indietro rispetto a quanto si stava cercando.
Penso si tratti di un percorso individualmente de-condizionante. Quindi ci si attacca ovunque sia possibile pur di restare in sella. Questo se il linguaggio materno è irrimediabilmente perduto.
Vi è una componente che definirei terapeutica, di ricerca o anche di semplice ma totale ascolto introspettivo; che in qualche modo in questi ultimi anni abbiamo cercato, confrontandoci, di normare in altra struttura: il distico, per l’appunto, che è variante del verso libero. Libero ma compresso, cioè depurato degli elementi che a nostro giudizio invecchiano il linguaggio poetico tradizionale.
Come per miracolo ritrovare la scrittura mirabile di Virginia Woolf nei versi di Mario M. Gabriele. La stessa cura nel dettaglio, quasi la stessa ironia, per non dire della compostezza anglosassone. Ma il romanzo può sparire in un verso, perfino ridursi a un nome.
Carlo Livia: “le ossessioni private si trasfigurano in costanti e immutabili plessi semantici, che ruotano sempre attorno agli stessi grovigli e aporemi irrisolti”. Ma questo accade perché l’autore si affeziona al proprio disagio, e l’immaginario, forse temendo che altrimenti non scriverebbe più. Diventano archetipi le istanze scritte per essere contemplate. Figure, nulla che abbia a che vedere con lo stile nominale. Che per mio gusto sarebbe un passo ulteriore in avanti, verso l’inanimato esteriore.
Sento urgente la questione Tempo interno e Tempo esterno (la prima completamente assente nelle poesie di Intini). Una navigazione sicura si può fare viaggiando a 360 gradi. Mettersi in gioco.
Giorgio Linguaglossa
caro Lucio,
penso che la nuova fenomenologia della poiesis che chiamiamo poetry kitchen rientri nel mondo epocale del Ge-Schick dell’essere di cui parla Heidegger: non più apertura di mondi storico-destinali, non più apertura di epoche, non più inaugurazione di epoche storiche nelle quali si dà l’essere, non più il susseguirsi (tras-missione, Ueber-lieferung) di aperture, di epoche, non più come ciò che viene in presenza, ma come ciò che viene in «chiusura» di un mondo storico-destinale, come inaugurazione della «chiusura». «Chiusura» che però non si dà mai come fine ma come tentativo di oltrepassamento del fine, tentativo di oltrepassamento della soglia del fine, e impossibilità di quell’oltrepassamento come superamento della metafisica della presenza e della luce che consente ed assicura quella luce, e quindi della fine della metafisica. In questo tragitto dovremo procedere con drasticità verso l’interminabile dissoluzione della presenza, che è il modo con cui si dà la presenza nell’orizzonte della metafisica, al di là della concezione metafisica del segno come ciò che «sta per» il significato, che tende a derubricare il segno scritto come ciò che sta per qualcosa che a sua volta sta per altro; procedere verso la liberazione del significante da ogni dipendenza che caratterizza oggi, nelle società mediatiche, la subordinazione del significante ai significati stabiliti dalla comunità.
È ovvio, per chi voglia capire, che qui stiamo parlando della fine dell’arte come rappresentazione e come fine della metafisica della presenza. La «casa dell’essere», non è più il linguaggio, l’essere ha sfrattato il linguaggio dalla sua casa-custodia e adesso se ne va a ramengo per il mondo non più mondo. Il linguaggio come cristallizzazione e sedimentazione di opere classiche e iscrizione monumentale si è allontanato dalla tradizione, ha preso congedo da essa ed è rimasto orfano di senso. Continua a leggere