Gino Rago, Vicissitudini della gallina Nanin, Poetry Kitchen, Antefatti ideologico-estetici, dalla Nuova Ontologia estetica alla poetry kitchen, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Marie Laure Colasson YYY Struttura dissipativa 30x30 2020[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa 30×30 cm, acrilico 2020]

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Gino Rago
Vicissitudini della gallina Nanin

La gallina della cover della poetry kitchen litiga con il suo creatore
tale Lucio Mayoor Tosi:

«Prima o poi lo dirò a mio papà,
non voglio più la cresta rossa e non voglio più essere nera,
voglio entrare in un quadro di Dalì».

Poi prende un taxi alla Stazione Ostiense.
Ma la vettura non parte,
il serbatoio si ribella al tassinaro.
«Sono pieno di benzina e voglio restare pieno,
non senti la radio, non leggi i giornali?
Non vedi nemmeno la televisione?
C’è il Covid19, sono vietati gli assembramenti!
I supermarket vanno a ruba! La carta igienica è esaurita!
i canarini non gorgheggiano più!».

Com’è come non è, la gallina Nanin è sul piazzale della Stazione Termini.
Vende palloncini, cartoline dell’Urbe, accendini, carte da gioco,
confezioni di fazzoletti, pennelli e biro cinesi

La gallina Nanin tiene un comizio.
«Il poeta è un lavapiatti, sta là dietro in cucina,
canta mentre sciacqua le stoviglie.
Il critico è l’addetto alla lavanderia,
gli editori sono i buttafuori,
i preti cantano messa.
Poi ci sono i poeti della poetry kitchen.
Cantano al capezzale del pronto soccorso delle parole,
dicono che la poesia la si fa in cucina
con le parole morte».

All’aeroporto di Fiumicino la gallina Nanin
non riconosce Lucio Mayoor Tosi che l’ha creata.

«Chi è Lei?»
«Forse si sbaglia… Io non sono io».
«E allora, chi è?».
Chi sono?
Sono un posteggiatore abusivo».
«Lei è un impostore!».
«Sono io che ho creato la gallina Nanin!».
Litigano.
E via di questo passo fin quando

Liz Taylor e Greta Garbo conversano con Marie Laure Colasson.
Vogliono entrare nel box della biglietteria.
Liz grida verso Ripellino che fa il bigliettaio:
«Rex, relax, lunaflex, permaflex».
«Ha ragione. Sono io, corvo tra i corvi di Zagòrsk,
adescato come un pifferaio».
«Si faccia riconoscere, dica le parole d’ordine!».
«Frigolit, Star, Tornegil. Bye-bye dallo specchio».

Nanin svolazza e va a posarsi sulla ringhiera del balcone
dell’Ufficio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani,
vede le zampe di una tigre sulla tastiera di un clavicembalo
che suonano una fuga di Johann Sebastian Bach:
«Ora la riconosco, è la tigre musicista di Ágota Kristof!».

Poi torna indietro nel tempo,
si mette alla testa delle oche che starnazzano in Campidoglio,
L’assedio dei Galli fallisce, i suoi strilli li mettono in fuga.

Un piccione viaggiatore
manda un messaggio al critico poeta Linguaglossa
Direttore dell’Ufficio Informazioni Riservate

C’è scritto: «Il piccione di Picasso è un falso!,
voleva dipingere una gallina!».
La gallina Nanin si trova nel mezzo della battaglia di Zama
nel 202 avanti Cristo.
Zampetta verso le legioni romane. Poi ci ripensa,
passa dalla parte dei cartaginesi.
Annibale sta per vincere. Allora, ci ripensa di nuovo
e passa dalla parte dei romani, e così Scipione l’africano
vince la battaglia, Annibale è in fuga.

Poi Nanin decide di tornare nella cover della poetry kitchen.
Bussa alla porta della Antologia.
Apre Gino Rago che la fa entrare.
E così finisce la storia.

Poetry kitchen coverGino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore delle Riviste on line “L’Ombra delle Parole”.

Gino Rago

Poetry Kitchen: Antefatti ideologico-estetici

La Poetry kitchen viene dalla ricerca di una Nuova ontologia estetica.
Il poeta della NOE fa suo l’assioma secondo cui:
– I segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell’arte moderna.
Per tale via maestra egli adotta la poetica del frammento come elemento costitutivo d’una sua personale ontologia estetica.
La quale, partendo dalla morte di Dio, assume in sé la constatazione della fine della visione platonico-cristiana del mondo e della conseguente scomparsa del centro dell’uomo nel mondo.
La sua ricerca d’arte ne prende atto e si muove nella persuasione della decadenza
– della verità assoluta,
– della impossibilità di ricondurre la frammentarietà ad una unità di senso. Entrando nella filosofia del frammentismo, il poeta della NOE assume il “frammento” come cifra caratteristica della ipermodernità poiché alla sua personalissima lettura il mondo ipermoderno si pone sotto il segno
– della deflagrazione del senso,
– della dispersione, dell’astigmatismo scenografico,
– della moltiplicazione delle prospettive,
– della crisi e della inadeguatezza espressiva di un “unico”linguaggio.

[Di tutto ciò nella esperienza poetica di Louise Glück , come dai testi proposti da questa pagina de L’Ombra delle Parole inequivocabilmente si evince, non si ravvisa la benché minima traccia].

Nella teoria estetica dell’opera ipermoderna il poeta della NOE interpreta il prospettivismo di Nietzsche come una promozione della frammentarietà contro le tesi di quell’ordine metafisico incentrato

– sulla verità dogmatica,
– sulla verità indiscutibile.

La poetica del frammento tende a esiti estetici del tutto nuovi poiché la filosofia del frammento è in grado di restituire dignità estetica a quelle irriducibili singolarità che caratterizzano l’esperienza concreta di ciascuno perché il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte.

Rifondando l’opera, o distruggendola, la morte da essa elimina la macchia dell’apparenza. Ma ciò che conta è che per il poeta della Nuova Ontologia Estetica e dello Spazio Espressivo Integrale, (introdotto per la prima volta da Giorgio Linguaglossa e da lui praticato come efficacissimo strumento d’interpretazione della “Nuova Poesia”), il frammentismo va oltre il significato di poetica, va oltre le intenzioni d’arte dell’autrice/autore.

Il frammento in lei/lui è una Weltanshauung.
– È uno stato d’animo.
– È il suo modo di sentire il mondo,
– di sentirsi lei/egli stessa/stesso “frammento” di questo mondo poiché risiede in lei/lui stessa/o l’unico punto di convergenza e di fusione di quella che Harold Bloom ha definito “la cartografia psichica” dell’artista:
l’agonismo perenne tra l’ “Io me stesso – l’anima – l’Io reale”.

[E neanche di ciò si ravvisa la benché minima traccia nella poesia della Glück]
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Il poeta della NOE, nel suo fare poetico all’ interno dello Spazio Espressivo Integrale, sa che:

– il vuoto non è assenza di materia;
– l’assenza di musica non è l’affermarsi del silenzio;
– lo Spazio Espressivo Integrale è l’unica regione in cui la poesia può inglobare spazio e tempo, filosofia e mito, musica e silenzio, metafisica e scienza, memoria e armonia delle sfere, meraviglia e sapienza, in una unità di linguaggio di numerosi linguaggi differenti…
– ciò che è perduto può essere ritrovato soltanto in forma di frammento, che non indica il Tutto, nella dialettica fra le parole e le cose, ma un tutto frantumato e disperso da cui deriva il dolore della e nella poesia;
– esiste un tempo assolutamente creativo. Un tempo che crea la vita poiché (secondo Prigogine) è il tempo delle infinite metamorfosi della vita nella biologia ed è il tempo delle infinite creazioni delle opere d’arte. Un tempo despazializzato, un tempo ” qualitativo ” e non ” quantitativo ” e che come tale non sa che farsene degli orologi;
– l’ Estetica non può ignorare questi nuovi orizzonti delle scienze ed è chiamata anzi ad orientarsi essa stessa verso una forma scientifica per essere in grado di tener conto delle strutture dissipative nelle quali trionfa l’infinita possibilità delle equazioni non lineari (Prigogine), equazioni con
all’interno il “tempo creativo” e, dunque, la cosiddetta possibilità progettuale della esperienza artistica;
– il mondo non è più “ciò che è” ma è “ciò che diviene” ed è “il possibile” il nuovo strato della cultura contemporanea;
– la nuova Estetica non può che appropriarsi di tali indicazioni.

[E neanche di ciò nella poesia di Louise Glück si ravvisano tracce, anzi questa poesia ignora totalmente l’esistenza e la portata del tempo creativo, per non parlare delle tensioni verso lo spatial turn. Insomma, volendo restare nei recinti della letteratura nostrana gli accademici di Svezia assegnando il Nobel 2020 alla poesia della Glück è come se, fosse stata ancora viva, avessero assegnato il Nobel a Liala…].

17 commenti

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17 risposte a “Gino Rago, Vicissitudini della gallina Nanin, Poetry Kitchen, Antefatti ideologico-estetici, dalla Nuova Ontologia estetica alla poetry kitchen, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

  1. per il maestro dei limerick Guido Galdini

    Poesia limerick

    La balena ha i denti bianchi.
    Il corvo è nero perché parla.
    Tu avevi un piede sulla luna che stava sotto alla ringhiera,
    c’era il lampione, la luce gialla tra i palazzi illuminati
    e i fili elettrici, le antenne delle tv, il cielo violetto, la luna lillà,
    io sto di qua, tu di là,
    la parola non sa dove andrà, nell’aldilà, nell’aldiqua,
    nessuno lo sa…

    *
    Poesia limerick

    …c’era questa poesia nascosta nell’oblò:
    una casetta in Perù, una cadillac, un frac,
    il fiume azzurro, il mare che se ne va,
    la rana canticchia sul cocuzzolo,
    di là, le nuvole lillà e la luna di qua prendono il tram
    per la felicità.
    Felci azzurre in quantità. Mirabilie e morbidità.

    Poesia limerick

    Mi ero invaghito di una bambola di gomma al caucciù.
    Abitava a Lima, in Perù, sul cucù
    zzolo di una montagna,
    io la accarezzavo sul bubù
    ogni sera prima di andare a letto,
    ora non più.
    La baciavo mangiando pasta al ragù di Corfù.

    Il cane in cortile abbaiava: baù baù

    Ovviamente, non ho rispettato le complesse regole del limerick inglese, e nemmeno mi interessava farlo. Quello che mi interessava è portare questo genere poetico dal non-sense al fuori-senso, il che è cosa ben diversa. In quanto fuori-senso, ci troviamo catapultati nella poetry kitchen. Ed è quello che ho cercato di fare.
    Anche la poesia sulla gallina Nanin di Gino Rago corrisponde al genere poetico del fuori-senso. Il che non significa affatto che si tratta di un non-sense. Il senso c’è, eccome, soltanto che si tratta di un senso fuori-senso.
    È un esercizio che suggerirei a tutti di fare.

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  2. Giuseppe Gallo

    Per il maestro dei limerick Guido Galdini, per Giorgio Linguaglossa e per la gallina Nanin di Gino Rago

    Era un giorno d’ottobre a Roma
    anche i colombi stavano in coma
    ma sul balcone il pappagallo
    era, invece, verde e giallo.
    Oh, quel giorno, che bello assioma!

    Poi una mattina vennero i Nas
    mi disse, allora, la bombola a gas:
    Stringimi! Spegnimi!
    Ma io che avevo solo millesimi
    senza più attendere bruciai ogni fax.

    Sempre qui a Roma, in via Giordani,
    c’è un ermeneuta a quattro mani.
    Trascrive, investiga,
    al dunque leviga.
    Forse è una costola dei Venusiani.

    Un saluto agli amici de l’Ombra!
    Giuseppe Gallo

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  3. Giorgio Agamben

    La sfera dell’enunciazione comprende, dunque, ciò che, in ogni atto di parola, si riferisce esclusivamente al suo aver-luogo, alla sua istanza, indipendentemente e prima di ciò che, in esso, viene detto e significato. I pronomi e gli altri indicatori dell’enunciazione, prima di designare degli oggetti reali, indicano appunto che il linguaggio ha luogo. Essi permettono, così, di riferirsi, prima ancora che al mondo dei significati, allo stesso evento di linguaggio, all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato. La scienza del linguaggio coglie questa dimensione come quella in cui avviene la messa in opera del linguaggio, la conversione della lingua in parola.
    Ma, nella storia della filosofia occidentale, questa dimensione si chiama, da più di duemila anni, essere, ousia.
    Ciò che sempre già si mostra in ogni atto di parola […], ciò che, senza essere nominato, è sempre già indicato in ogni dire, è, per la filosofia, l’essere.
    La dimensione di significato della parola “essere”, la cui eterna ricerca e il cui eterno smarrimento […] costituisce la storia della metafisica, è quella dell’aver-luogo del linguaggio e metafisica è quell’esperienza di linguaggio che, in ogni atto di parola, coglie l’aprirsi di questa dimensione e, in ogni dire, fa innanzitutto esperienza della “meraviglia” che il linguaggio sia. Solo perché il linguaggio permette, attraverso gli shifters, di far riferimento alla propria istanza, qualcosa come l’essere e il mondo si aprono al pensiero. La trascendenza dell’essere e del mondo – che la logica medievale coglieva nel significato dei trascendentia e che Heidegger identifica come struttura fondamentale dell’essere-nel-mondo – è la trascendenza dell’evento di linguaggio rispetto a ciò che, in questo evento, è detto e significato; e gli shifters, che indicano, in ogni atto di parola, la sua pura istanza, costituiscono (come Kant aveva perfettamente colto attribuendo all’Io lo statuto della trascendentalità) la struttura linguistica originaria della trascendenza. 1

    1 G. Agamben, Il linguaggio e la morte, pp. 36-37

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  4. Guido Galdini

    Per i miei quasi-limerick io mi sono inventato le regole, e quindi posso tranquillamente trasgredirle, dato che tra le regole ce n’è una che prevede la trasgressione di tutte le altre.
    Mi ricordo, nella mia vita di informatico, che quando ho chiesto a un programmatore di una ditta cliente quali standard seguivano, mi ha risposto imperterrito: “Il nostro standard è di non seguire nessun standard”, che è uno standard come un altro.

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  5. Gino Rago, Vicissitudini della gallina Nanin, Poetry Kitchen, Antefatti ideologico-estetici, dalla Nuova Ontologia estetica alla poetry kitchen, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa


    Alcune considerazioni a monte della poetry kitchen

    Pensavo, guardando il video di Gianni Godi con le parole di Mario Gabriele, con quegli avatar rigidi che parlano con voci stentoree mediante apoftegmi e assiomi, che la nostra esistenza di abitanti del mondo del capitalismo sia un’esistenza deprivata di libertà. Parliamo come prigionieri in un carcere soft, pieno di ninnoli, comforts e vezzeggiativi.

    La vita degli individui, singolare o collettiva, non può ridursi ad un lasciarsi vivere edonistico tipico della società postmoderna, sulla scia del
    «Dio è morto» nietzschiano o del «Se Dio non esiste allora tutto è permesso» dostojevskiano; non è questa la conclusione a cui si deve necessariamente tendere. Se Nietzsche e Dostojevskj confluiscono, con le loro teorie, in un pensiero nichilista, Zizek, a mio avviso, bypassa, cortocircuita il nichilismo stesso. Si potrebbe sostenere, dopo la dissoluzione dell’Ordine Simbolico e il ripiegamento del soggetto su se stesso, di essere caduti nel nichilismo più estremo ma, quello che ritengo fondamentale è mettere in evidenza come il punto ontologico di rinascita sia proprio la negatività più radicale; ilnichilismo viene così evitato e deviato con un atto della soggettività.

    Rimanendo all’interno del pensiero di Zizek, si nota come il discorso politico post-moderno ha sempre luogo all’interno di un orizzonte ben definito, quello del capitalismo liberista e oligarchico*. Si discute su diverse parti del sistema ma il capitalismo in sé non viene mai messo in discussione, non viene mai fatto emergere il fallo, il punto in cui esso ha fallito, la sua negatività; ogni parola, ogni atto o discussione si muovono all’interno della cornice stessa dell’ideologia del capitalismo, l’ideologia capitalista corrisponde alla grammatica contemporanea del nostro linguaggio. Non abbiamo un’altra grammatica.

    Non abbiamo un linguaggio idoneo ad esprimere la nostra mancanza di libertà, ecco perché parliamo e discettiamo di libertà, perché non c’è più libertà.
    Non abbiamo un linguaggio idoneo per esprimere la collocazione estetica della verità, ecco perché parliamo di «verità vera» e di verità falsa», dizioni incongrue e palesemente mentitorie. Noi oggi, senza averne coscienza, parliamo un linguaggio intimamente intimidatorio e assolutorio, come ciò accada, come è possibile che ciò accada è un problema anche del poetico. Chi si sottrae a questa domanda è necessariamente fuori dal poetico.

    La collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è una ubicazione privilegiata?, un luogo abitabile? Se intendiamo in senso post-moderno, e quindi post-metafisico, la definizione heideggeriana di nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», comprendiamo appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione ed edonismo delle merci che scorrono, come una fantasmagoria, dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale.
    Il percorso della «via inautentica» per accedere al discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. L’ubicazione poetica della verità è un luogo inabitabile. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia ed approdano sulla pagina bianca. Il discorso poetico, come esperienza estetica significativa dell’iper-moderno, è diventato un luogo inabitabile. Occorre prenderne atto. La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni e dalla consapevolezza che il suo luogo-non-luogo è diventato poeticamente inabitabile.

    Giunti come siamo sul solaio, dobbiamo gettare via la scala come ci ammonisce Wittgenstein?… «oggi forse viviamo in una fase del pensiero in cui ormai anche la tesi heideggeriana sul linguaggio come “casa dell’essere” sembra sulla via di perdere il suo peso?».1 La poiesis è divenuta un luogo inabitabile, dobbiamo prenderne atto, tra il linguaggio e l’essere si è insinuata una «differenza» che diventa sempre più grande e ingombrante. Sulla via di una interminabile dissoluzione della metafisica della presenza.

    * Un recentissimo studio di una agenzia internazionale ha verificato che durante la pandemia i ricchi si sono arricchiti mentr ei poveri si sono impoveriti. E che 40 famiglie italiane detengono una ricchezza pari a 160 miliardi di euro. (certo, una flat tax, ove fosse possibile, aumenterebbe a dismisura la ricchezza dei ricchissimi e impoverirebbe, a dismisura, i già poveri).
    1 Gianni Vattimo, Introduzione a La scrittura e la differenza di J. Derrida, Einaudi, 1971 XXIII

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    • Gino Rago, Vicissitudini della gallina Nanin, Poetry Kitchen, Antefatti ideologico-estetici, dalla Nuova Ontologia estetica alla poetry kitchen, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa


      La pandemia del Covid19 ci ha posto di fronte alla necessità di rivedere le categorie con le quali fino a ieri comprendevamo, o credevamo di comprendere il mondo. La pandemia del Covid19 ha cambiato le carte in tavola, e la poiesis ne deve prendere atto: non si può più fare poesia come la facevamo fino a ieri, il Covid ha fatto da spartiacque.

      Ieri parlavo con un poeta che mi ha chiesto che cosa intenda quando scrivo:

      «L’ubicazione poetica della verità è un luogo inabitabile».

      Ed io ho risposto più o meno così:

      «Il discorso poetico, come esperienza estetica significativa dell’iper-moderno, è diventato un luogo inabitabile. Occorre prenderne atto. La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni e dalla consapevolezza che il suo luogo-non-luogo è diventato poeticamente inabitabile. Per questo dobbiamo abitare questo luogo-non-luogo, non abbiamo altra scelta che questa».

      «Portami degli esempi di ciò che intendi», mi ha chiesto l’interlocutore:

      Io ho risposto:

      «La poesia di Mario Gabriele e di Gino Rago sono delle risposte poetiche efficienti a questa crisi del mondo moderno o, in altre parole, alla crisi del capitalismo di oggi».

      Ovviamente, alla mia risposta il dialogo si è chiuso.

      Oggi viviamo in un sistema istituzionale della letteratura del serpente che si morde la coda. Giulio Mozzi tempo fa fece notare come uno degli effetti in prospettiva più perniciosi, dell’uniformazione dei modelli editoriali causata dalle concentrazioni proprietarie denunciate dal prestigioso editor franco-americano, fosse da paventare nell’omologazione dei modelli testuali – tanto in senso linguistico-stilistico che tematico-ideologico: ché questi due livelli, a onta di chi insista a considerarne solo uno, sono com’è ovvio fra loro implicati – che i giovani autori in formazione sarebbero stati incoraggiati a omaggiare dall’«orizzonte d’attesa» che sono per loro, in concreto, i redattori delle case editrici cui proporre i loro testi.

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      • Ottimo, ottimo esercizio di ermeneutica avanzata, modernissima, questa di Giorgio Linguaglossa.

        Un lavoro di ermeneutica esemplare che vedrei benissimo all’interno della Prefazione linguaglossiana alla Antologia della Poetry kitchen, di prossima pubblicazione…

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  6. Notizie di Massimo Giannini

    Le ha date lo stesso direttore della Stampa in prima pagina stamattina, dopo che aveva annunciato di essere malato di Covid-19 due settimane fa Alla faccia di chi un mese fa diceva: «il virus è clinicamente morto»:

    “Scusate se riparlo di me. Oggi “festeggio” quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ospite ingrato che mi abita dentro. Gli ultimi cinque giorni li ho passati in terapia intensiva, collegato ai tubicini dell’ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro. Il Covid è infido, è silente, ma fa il suo lavoro: non si ferma mai, si insinua negli interstizi polmonari, e ha un solo scopo, riprodursi, riprodursi, riprodursi. Meglio se in organismi giovani, freschi, dinamici. Questa premessa non suoni da bollettino medico: mi racconto solo per spiegare quelle poche cose che vedo e capisco, da questa parte del fronte, dove la guerra si combatte sul serio. Perché la guerra c’è, se ne convincano i “panciafichisti di piazza e di tastiera”, e si combatte nei letti di ospedale e non nei talk show.
    Quando sono entrato in questa terapia intensiva, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’altra decina di più fortunati, sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati. Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo. Ma la gente non vuole vedere, e spesso si rifiuta di capire”.

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  7. Desidero, innanzitutto, esprimere la mia gratitudine a Giorgio Linguaglossa per il magnifico allestimento di questa pagina de L’Ombra delle Parole che onora la mia ricerca di poesia.

    In secondo luogo, ma non per ordine di importanza, dichiaro la mia intenzione di segnalare ai lettori e alle lettrici del nostro blog di Letteratura internazionale almeno i principali due temi, benché sottotraccia, che reggono
    le Vicissitudini di una gallina come testimonianza estetico-formale-poetica per me esemplare della poetry kitchen:

    – la rivolta di Nanin verso l’autore è il soggetto che si ribella al suo creatore, o se si vuole, il personaggio che si rivolta contro l’autore (e se questo esempio di ribellione di Nanin verso Lucio Mayoor Tosi diventasse contagioso? Non dovremmo più stupirci di vedere Pinocchio contro Collodi; il dottor Ingravallo contro Gadda; il commissario Montalbano contro Camilleri; Madame Bovary contro Flaubert; Leopold Bloom, la moglie Molly e Stephen Dedalus contro Joyce, e così via…).

    – il serbatorio di benzina che si ribella al tassinaro (come esempio di “oggetto” che rivendica il possesso di una propria coscienza e di una propria volontà e si vuole sottrarre al ruolo di funzione passiva nella vita degli uomini per farsi invece soggetto attivo nella storia, nello spazio e nel tempo del mondo. E se la rivolta del serbatorio si facesse contagioso…? Non dovremmo stupirci di vedere a Via Condotti un cappello e una scopa entrare da Bulgari e una sedia prendere un cappuccino al caffè Greco…).

    Per questi due, per me, grandi temi si trattava di trovare la lingua, la più efficace per affrontarli e indicarli ai lettori e alle lettrici.
    Ci sono riuscito? Non so, ma ci ho provato.

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  8. caro Gino,

    Il problema della ribellione degli oggetti è già dentro la relazione conflittuale del mondo di oggi, del capitalismo e della forma merce con i suoi acquirenti. Il fantasma, ci dice Žižek, è già nell’oggetto, è per questo che abita anche il soggetto. La tua è poesia nuovissima in quanto recepisce queste problematiche e le mette al centro della poiesis, tratta di fantasmi e di oggetti abitati da fantasmi. Direi che dall’esame del livello di ribellione degli oggetti presenti nella tua poesia, abbiamo un quadro clinico piuttosto veridico sulla nostra attuale condizione esistenziale, un quadro attendibile e preciso della pandemia che ha invaso il nostro modo di vita. Chiediamoci: Perché le cose del mondo stanno così come stanno? Possono stare in un modo diverso? Possono stare in un mondo diverso? Le cose si difendono diventando impenetrabili, le cose diventano cose in quanto impenetrabili, quando si sottraggono all’uso cui le abbiamo destinate.

    Soggetto e oggetto sono termini dialettici presenti nell’ordine del fantasma. Per fantasma intendo, riprendendo il pensiero di Lacan, uno schema inconscio singolare, soggettivo, presente in ciascun individuo; il fantasma sorregge il senso della realtà del soggetto. Quando la cornice fantasmatica scompare, il soggetto subisce una perdita di realtà e comincia a percepirla come un irreale universo privo di un solido fondamento ontologico. A questo proposito, in Il soggetto scabroso, Žižek ci dice come

    «questo universo da incubo non è pura fantasia ma, al contrario, ciò che rimane della realtà dopo che la realtà è stata privata del suo sostegno nel fantasma».1

    Per Žižek però questo fantasma è già insito all’interno dell’ideologia, è sempre fantasma ideologico. L’uomo infatti non può mai sfuggire all’ideologia, l’unica cosa che può essere fatta dal pensiero è quella di orientare la sua azione come se potesse evadere da questa struttura predeterminata.

    «L’ideologia non è un’illusione simile ad un sogno che noi costruiamo per fuggire la realtà insopportabile; nella sua dimensione di base essa è una costruzione di fantasia che serve come supporto per la nostra stessa realtà: un’illusione che struttura le nostre reali ed effettive relazioni sociali».2

    Questi tre vertici della triade: soggetto negativo, oggetto fantasma e la possibilità di una critica all’ideologia, rappresentano tre ordine non scindibili o analizzabili separatamente. Ognuno di essi richiama l’altro, o meglio tutto parte dalla centralità del soggetto storico, senzail quale non sarebbe possibile né l’ideologia né l’oggetto fantasma.

    La poetry kitchen è una scrittura dove i mobili ritagli di figure tentano di posarsi su qualche superficie storta e obliqua come in un dipinto cubista, è una scrittura profondamente astigmatica e daltonica perché cambia il posizionamento degli oggetti, le forme e i colori dei medesimi. E cambia il posizionamento del soggetto de-soggettivato.

    Il soggetto, nel pensiero di Žižek, occupa la posizione di «mediatore evanescente», vuoto sostanziale che, mediante il processo dis-oggettivazione, crea la rete Simbolica, nonché la realtà in cui noi tutti viviamo. Il soggetto si costruisce come un ente in se stesso decentrato rispetto al suo Agalma, concetto platonico ripreso da Lacan e tradotto in objet petit a , ovvero ciò che Žižek interpreta come identità primordiale dell’io. L’Agalma si caratterizza come l’oggetto nel soggetto, quella parte di Reale che, in quanto ingovernabile e non soggettivabile rispetto alla rete Simbolica, non è altro che un vuoto, un nulla che rende il soggetto diviso rispetto alla sua rappresentazione Simbolica, alla sua maschera identitaria creatasi nella realtà. Ma tale vuoto conserva in sé la potenza che mette in moto la jouissance, il sentimento di desiderio, per un verso terribile mentre per l’altro attraente, che riporta il soggetto a contatto con quella parte di Reale presente in lui che ritorna come spettro perturbante. Questo oggetto presente nel soggetto, che è più del soggetto stesso è la sua stessa verità, è quel residuo di Reale rimasto in lui che lo rende resto eccedente rispetto all’ordine Simbolico. La realtà, l’ordine Simbolico in cui si costituisce la vita sociale è dunque creato da un gesto vuoto di soggettivazione da parte del soggetto, c’è quindi un’iscrizione, parziale, del Reale all’interno del grande Altro. Questo processo è ciò che in Žižek viene identificato come operazione ideologica: è l’ideologia che permette al Simbolico di prendere vita nello specifico e di non rimanere nel generico, è l’ideologia che crea un campo di significati e significanti entro i quali si muoverà tutta la realtà sociale.

    1 S. Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, tr. it. a cura di D. Cantone e L. Chiesa, Cortina, Milano 2003, pp. 63-64.
    2 S. Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia, tr. it. a cura di C. Salzani, Ponte alle Grazie, Firenze 2014, p. 71.

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  9. Mario De Rosa

    Io è un altro (A.Rimbaud) già esisteva,piuttosto il problema è che tanti poeti (scelta poetica a parte) rifiutano di passare il Rubicone.Bisogna quindi studiare e ricercare pragmaticamente una poesia ,che non sia” sempre la stessa “,come l pezzi delle bande musicali improvvisate. Per il resto la poesia può contemplare e esprimere infinite forme.

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  10. Caro Gino Rago, tu affronti un problema che per la sua importanza meriterebbe molta riflessione. Tu parli di oggetti che si mettono in proprio, ma io mi chiedo che succede se lo stesso vale per una legge fisica?
    Qui siamo in un ambiente dove la verità di una legge trova (o meno) conferme nei fatti. Una legge tende ad emanciparsi dal suo autore, come qualcosa che venga gettata nel DNA dell’umanità per fargli sintetizzare gli enzimi giusti della comprensione dell’universo, come anche ciò che avviene in una pozzanghera dove a muoversi sono particelle microscopiche.

    Che vuole questa legge?
    Arruola indipendenza e sta in trincea.

    “E uguale emmecidue” non è che un verso.
    Scadente settenario e novecento.

    Ora è Colleoni e muove le sue truppe.
    Reclama eternità per altre tombe.

    Fa scacco al Re la mossa di barbiere.

    Nasce l’ immortale
    da mente mortale?

    Ciao

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  11. tiziana antonilli

    Tra le poesie di Louise Gluck mi piace ‘Secondi’, una storia di violenza domestica, non proprio roba da salotto. Nel testo , a mio parere’ ,l’autrice sviluppa la ‘moltiplicazione delle prospettive’ di cui scrive Gino Rago . Il testo mi trasporta nella canzone ‘Luka ‘ di Suzanne Vega, stessa atmosfera sospesa , ma al momento giusto una coltellata nello stomaco.

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  12. Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, traduzione italiana di C. Salani, Ponte alle Grazie, Milano 2011, pp. 619.

    recensione di Valentina Rametta

    I tratti culturali della nostra epoca, all’incrocio tra collasso economico e collasso ecologico, sono iscritti in una “maniera apocalittica” di vedere i tempi all’opera, nella quale l’insoddisfazione generale per il sistema capitalistico, raddoppiata dal carattere sociale e politico della fine di un certo mondo, che proviene dalle resistenze delle società soffocate dalle violenze politiche e dalle oppressioni di tutte le forme di totalitarismo, lascia il posto ad una sorta di freudiano Unbehagen, di “disagio” nel capitalismo liberale. Già un antropologo italiano come Ernesto De Martino aveva puntato lo sguardo sul discorso della fine del mondo nella particolare congiuntura culturale degli anni della “mutazione antropologica” e dell’“industria culturale”, e nel 1980 Jacques Derrida parlava di “un tono apocalittico adottato di recente nella filosofia”. Già allora si trattava della medesima domanda sulla fine, su temi escatologico-messianici della fine della storia e delle fini dell’uomo.

    Il tropo della fine del sistema capitalistico è oggi annunciato in perpetuo. La parata mediatica dei discorsi attuali sulla fine producono un infinito finire del mondo dentro il capitale, che pone la cognizione stessa del presente fuori di sé, in un tempo non-coincidente e penultimo, disturbato e differito, insieme attuale e a-venire, eccedente e folle. È secondo questa intonazione retorica della fine che Slavoj Žižek avvia le sue analisi sulle contraddizioni culturali del tardo capitalismo nel suo libro dal titolo più che esemplificativo in tal senso, Vivere alla fine dei tempi: il sistema capitalistico si sta avvicinando ad un apocalittico punto zero. Secondo il filosofo sloveno nell’attuale stato del capitalismo globale emergono “quattro cavalieri dell’Apocalisse”: il collasso ecologico, la riproducibilità biogenetica, i mutamenti interni al sistema finanziario, l’esplosione violenta delle esclusioni sociali (p. 10).

    La premessa di base del libro è che viviamo alla fine dei tempi del capitalismo, mentre le coordinate della nostra percezione sono assoggettate ad una patologica “negazione feticistica collettiva” (p. 11) che oscilla tra clonazioni del terrore e pedagogia della paura. In tal senso Žižek organizza il libro secondo lo schema delle cinque fasi di elaborazione del lutto (rifiuto, collera, venire a patti, depressione, accettazione), ripreso dalla psicologa Elisabeth Kübler-Ross, con quattro “interludi” che costituiscono una variazione sul motivo dello stato di menzogna vissuta della nostra vita quotidiana. In questa sorta di moltitudine che vive l’esperienza del lutto “è possibile scorgere le stesse cinque figure nel modo in cui la nostra coscienza sociale prova ad affrontare l’imminente apocalisse”(p. 13). Il fascio di tenebra che riceviamo in pieno viso da questo “universo senza mondo”, il quale è anche il fascio di tenebre del tempo, della cultura e della storia, rivela il fallimento degli ordini simbolici – l’idea di natura, il lacaniano “grande Altro” – e il rifiuto ideologico che normalizza l’evento “impossibile” – l’uragano Katrina, il crollo dell’11/9 – traslocando nel nudo reale le “incognite ignote” del trauma: “Il capitalismo globale genera dunque una nuova forma di malattia che è essa stessa globale, indifferente alle distinzioni più elementari come quella tra natura e cultura” (p. 409). Per tale ragione lo schema del lutto viene ripensato attraverso la formulazione critica di Catherine Malabou, come rapporto tra l’inconscio freudiano e l’inconscio cerebrale, ovvero il passaggio dalle “incognite note”, l’inconscio, alle “incognite ignote”, cioè il trauma. Per Žižek la nostra realtà socio-politica impone molteplici versioni di intrusioni esterne, “traumi, che sono solo questo, interruzioni brutali ma senza significato, che distruggono il tessuto simbolico dell’identità del soggetto” (p. 406).

    Dopo il “soggetto scabroso” che mette indubbio la modernità singolare del Ventesimo secolo dunque, Žižek osserva ora l’emergere, in questa condizione luttuosa globale, di un nuovo soggetto, il “soggetto post-traumatico” del Ventunesimo secolo, una figura di sopravvissuto la cui sostanza libidinale è costituita interamente dalla ferita irrevocabile del trauma (clandestini, rifugiati, vittime del terrorismo, sopravvissuti ai disastri naturali, vittime del neocolonialismo, nuovi poveri). Se per l’Occidente “post-politico” il trauma è una temporanea intrusione violenta che disgrega la normalità della nostra vita, per le soggettività dilaniate dalle guerre o dai totalitarismi “il trauma è uno stato di cose permanente, un modo di vita” (p.407). Per l’inconscio cerebrale non c’è alcuna possibilità di essere presenti alla propria ferita, non c’è alcuna rappresentazione, alcuna scena per questa “cosa”che non è una cosa.

    Il punto interessante della riflessione di Žižek sui “nuovi feriti” che vivono la fine dei tempi, consiste nel cogliere uno dei tratti propriamente apocalittici del nuovo millennio:

    “emerge un nuovo soggetto che sopravvive alla propria morte, la morte (o la cancellazione) della sua identità simbolica […]. Questo soggetto vive la morte come una forma di vita” (p. 408).

    È la condizione del Ventunesimo secolo e del soggetto “post-traumatico”, un’epoca di violenza politico-economica“astratta” che trae le proprie risorse dal misconoscimento e dalla rinuncia al senso propriamente politico della violenza, per cui “ogni ermeneutica è impossibile” (p. 409). Il primo paradosso è che l’oggetto-causa del desiderio –l’objet a di Jacques Lacan – diventa esso stesso un’esca, un sostituto vuoto che sta al cuore stesso dell’ordine simbolico, ma che nel medesimo movimento dimostra qualcosa in questa illusione, qualcosa di reale: “l’oggetto del desiderio nella sua natura positiva è vano, ma non il posto che esso occupa, il posto del Reale” (p.115). Le modalità della nostra sopravvivenza simbolica e materiale dipendono dunque dalla possibilità di intravedere, nel “posto del Reale”, ciò che resiste all’assedio del presente, giacché la nostra specie è divenuta una condizione naturale, un agente geologico sul pianeta. Da questa sponda antropo-logica Žižek osserva uno dei quattro cavalieri dell’apocalisse, l’ecologia: il passaggio dal Plei-stocene all’Antropocene (p. 459) è il risultato del mondo divenuto “umano, troppo umano”, il cui effetto è di aver minato la distinzione tra natura e storia umana. Ecco dunque l’altro paradosso dell’apocalittismo contemporaneo:

    “Possiamo preoccuparci quanto vogliamo delle realtà globali, ma è il Capitale che è il Reale della nostra vita” (p. 464).

    Ad un mondo più compiutamente umano, fa da speculum l’umano divenuto integralmente “na-turale”. L’attenzione portata da Žižek al discorso sull’ecologia si sposta proprio nella direzione dello“sforzo impersonale del capitale stesso a riprodursi” (p. 464). Il conflitto tra capitalismo ed ecologia non è il semplice “confliitto d’interessi patologici”: sono le nostre “preoccupazioni eco-logiche” ad essere fondate su un utilitario senso della sopravvivenza, per cui la stessa idea di “natura” di cui disponiamo, sia essa declinata in termini di decrescita che di sviluppo sostenibile, contiene in sé una minaccia apocalittica di riproducibilità del capitale in accordo col suo concetto, come ci suggerisce il discorso sul “capitalismo dei disastri”.

    La conclusione provocatoria di questa diagnosi apocalittica del Ventunesimo secolo, per Žižek, potrebbe essere questa: dobbiamo avere il coraggio di accettare che il nostro diritto fondamentale è solo quello di partecipare alla jouissance della servitude volontarie e del suo surplus di godimento (p. 334)? Oppure nell’immaginario collettivo, tra i desideri che occupano il posto del Rea-le, è visibile qualcos’altro? Il punto di partenza delle risposte abbozzate da Žižek “è imparare a essere terrorizzati da noi stessi” (p. 14), dallo stato “spontaneo” di menzogna vissuta per rendere ancor più oppressiva “quest’atmosfera di base letargocratica”, ma allo stesso tempo isolare i germi di una cultura opposta eutopica che passa dalle comunità dei topi di Kafka ai reietti freaks di Heroes (p. 506).

    È l’epiciclo utopico dell’apocalittica, lo “sguardo impossibile” di quei potenziali di resistenza che sopravvivono “in qualità di spettri storici” (p. 133), “versioni alternative del passato che per-sistono in forma spettrale e che costituiscono l’apertura ontologica del processo storico” (p. 134). È la “formula del ‘E se?’” (p. 136) che Žižek indica come l’occasione unica che si rovescia in modo auto riflessivo sul presente, e fa del “contemporaneo” una specie di storia alternativa che si è realizzata. In tal senso Vivere alla fine dei tempi presenta una relazione singolare con il proprio tempo, che aderisce ad esso, al suo continuo finire, ma insieme ne prende le distanze, esattamente come “la politica à la Bartleby” citata nelle ultime pagine (p. 553). Preferire di no è sospendere l’investimento libidinale, smettere di fare sogni sul potere e sul potere di godimento, autosabotare l’inconscio freudiano e l’inconscio cerebrale per rintracciare nel desiderio (l’1 +1 + a della matematica lacaniana) il posto del Reale, e nel posto del Reale il proprio desiderio, o per dirla con Lacan- Žižek, il desiderio di avere il proprio desiderio.

    Valentina Rametta

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  13. L’ultimo numero de “L’espresso” scrive:

    «Narcisisti, patologici, ipomaniaci e molto altro: da Trump a Erdogan e Duterte, il dibattito sulla stabilità dei capi di governo è diventato sempre più rilevante. Perché anche etichettarli come malati o dare troppo potere al giudizio degli psichiatri è pericoloso».

    Condivido, ma dobbiamo essere coscienti che la politica di destra sovranista e populista fa affidamento sulle psicopatologie di massa e pesca nelle psicopatologie diffuse nelle società moderne, si tratta di milioni di voti e delle empatie e preferenze di una innumerevole fetta dell’elettorato. È l’esplosione del Reale dopo il collasso dell’Ordine Simbolico avvenuto nelle democrazie liberali dell’Occidente, il Covid ha reso evidente che ci troviamo nel bel mezzo di una pandemia della ragione.

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  14. Il filosofo Slavoj Žižek dice che:
    “Il coronavirus ci costringerà a reinventare un comunismo basato sulla fiducia nella gente e nella scienza”.

    Crisanti: “Ero stato ottimista quando avevo parlato di lockdown a Natale. Il virus corre veloce”
    Il virologo Crisanti spiega come “chiudere paradossalmente è facile, ma poi bisogna evitare che i contagi non risalgano” e non esclude un lockdown anche prima di Natale.

    ANSA

    “Ero stato ottimista quando avevo parlato di lockdown a Natale. Magari non chiamiamolo in questo modo, però con questi numeri arriveremo a un inasprimento delle misure di contenimento molto prima”. Così, in un’intervista a ‘Il Messaggero’, il microbiologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti.

    “Abbiamo un doppio problema – afferma – I numeri che stanno venendo fuori sono un disastro. Dobbiamo abbassare la curva dei contagi, ma una volta ottenuto il risultato, dobbiamo essere in grado di mantenere la curva bassa. Ma è saltato completamente il sistema di tracciamento. Le misure di contenimento sono inutili senza un piano organico per dotare l’Italia di un sistema che mantenga basso il numero dei contagi. È la vera sfida. Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure. Quest’estate – ricorda – eravamo arrivati a 300 contagi al giorno, avremmo dovuto porci il problema e organizzarci per evitare che quel dato tornasse a salire mettendo in campo un reale ed efficace sistema di tracciamento e tamponi. Invece non abbiamo fatto nulla”.

    “Per una volta che sono stato ottimista, sono stato smentito. Avevo previsto il lockdown a Natale, pensando che i positivi aumentassero in maniera graduale. Non mi sarei aspettato che il sistema territoriale di contrasto e tracciamento si sbriciolasse così velocemente. E’ evidente che un inasprimento delle misure sarà in rapido sviluppo se quelle che sono state messe in campo non funzioneranno”.

    il treno sulla sopraelevata passa e va via…
    una car, un pedone, una striscia bianca, il fumo bianco, la ferrovia…
    la balena bianca ha i denti bianchi,
    la balena rossa ha i denti rossi,
    la biancheria è bianca e bianca è la felicità,
    chissà chi lo sa…
    la pagina della felicità
    è il treno che passa sulla biancheria bianca,
    sulla banca bianca, sulla tromba bianca, sulla colomba bianca…
    chissà,
    mi chiedo,
    dove andrà quel treno là…

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  15. Mi ricollego al passaggio della recensione di Valentina Rametta su Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, traduzione italiana di C. Salani, Ponte alle Grazie, Milano 2011, pp. 619., nel quale la Rametta scrive:

    «[…] Vivere alla fine dei tempi presenta una relazione singolare con il proprio tempo, che aderisce ad esso, al suo continuo finire, ma insieme ne prende le distanze, esattamente come “la politica à la Bartleby” citata nelle ultime pagine (p. 553). Preferire di no è sospendere l’investimento libidinale, smettere di fare sogni sul potere e sul potere di godimento, autosabotare l’inconscio freudiano e l’inconscio cerebrale per rintracciare nel desiderio (l’1 +1 + a della matematica lacaniana) il posto del Reale, e nel posto del Reale il proprio desiderio, o per dirla con Lacan- Žižek, il desiderio di avere il proprio desiderio.»,
    per fare con e su Bartleby lo scrivano, di Melville, qualche considerazione.
    *
    In Bartleby lo srivano, di Melville, tutto un mondo scricchiola per una frase soltanto, una frase in altri casi e in altre circostanze perfino innocua, se non banale: «I would prefer not to», «Preferirei di no».

    Laura Rinaldi, dal corso di Letterature comparate della Università di Perugia, su Bartleby lo scrivano, di Melville, scrive:

    « Bartleby lo scrivano è, sin dalle prime battute, un testo che si interroga sull’essenza della nuova società statunitense. Si tratta di un racconto che volge lo sguardo al mondo del lavoro e alle sue dinamiche; ma non c’è dubbio che sia caratterizzato anche da una forte vena simbolica, che rende l’intera storia, se non assurda, perlomeno grottesca.

    Ad una prima lettura Bartleby non sembra essere nemmeno il protagonista del racconto. Giovane, schivo e pallido, si presenta in uno studio legale per iniziare la carriera di copista. Quasi invisibile, con solerzia si avvicina alle pratiche, accanto ad altri impiegati che spiccano per eccentricità e che sembrano intrattenere con il superiore un particolare rapporto di accettazione e convivenza che sfiora a tratti i moti tipici dell’amicizia.

    Il narratore, a capo dell’ufficio, personaggio stranamente disponibile e accomodante, diventa testimone involontario del declino della carriera e, di conseguenza, anche della vita del nuovo assunto. In un inspiegabile guizzo di intraprendenza (o forse sarebbe meglio dire di negazione del proprio ruolo), Bartleby decide di sottrarsi e di annullarsi: prima in quanto impiegato, e poi, in maniera più definitiva, in quanto uomo.

    Ripetendo come una preghiera la frase che lo renderà celebre nella letteratura – «I would prefer not to» –, il giovane decide coscientemente di non adempiere più agli ordini; ma, ancora vincolato ad un ruolo dal quale sembra non poter sfuggire, non abbandona il campo di battaglia e rimane inevitabilmente invischiato in un luogo che si trasforma in non-luogo, un ufficio che perde tutto il carattere di spazio lavorativo e le funzioni stesse del suo essere, per divenire invece uno spazio in cui rinchiudersi per non uscirne più.

    L’ambiguità tra la ferma decisione e la scelta verbale, che non si identifica immediatamente come un netto rifiuto, non fanno altro che rendere il personaggio ancora più sfuggente: quel ragazzo che aveva iniziato a fare il copista così bene si ritrova ora ad essere un peso, un peso imbarazzante, sulle spalle di un uomo che sembra non far altro che volerlo aiutare.
    Non si può dimenticare, però, che la vicenda è ambientata negli Stati Uniti; lo ricorda con fermezza il sottotitolo: «A story of Wall Street».

    E questo vuol dire che, in qualche modo, tutte le dinamiche tipiche dell’Europa continentale – l’Europa di metà Ottocento in questo caso – sono inevitabilmente rovesciate. Mentre la figura dell’impiegato, nel vecchio continente, inizia a delinearsi come un modello in negativo (un uomo senza qualità integrato in un meccanismo che tuttavia lo schiaccia e lo priva di movimento, bloccandolo in una vita conchiusa senza possibilità di evasione o di fuga), in America la condizione di lavoratore, ancora più nel centro di quello che si delineerà come il cuore del capitalismo, può essere invece un trampolino, l’inizio di una scalata verso un successo senza limiti, che di certo non ci sarebbero stati per un impiegato così solerte come si era dimostrato Bartleby in principio.

    Sembra quindi che questa scelta assuma, nella società in cui si sviluppa la narrazione, un tono più “sovversivo” di quanto non appaia ad una prima lettura: la scelta volontaria di non partecipare, e quindi di uscire dal meccanismo produttivo, rende il personaggio scomodo (tanto da essere accusato di vagabondaggio e incarcerato), e ne fa un uomo che agisce (ma allo stesso tempo non agisce) fuori dalle dinamiche indiscutibili in cui si muovono tutti gli altri.

    Emblematico, perciò, che il narratore/datore di lavoro sia un avvocato e che rappresenti, anche se non direttamente, la legge; non stupisce che sia lui il primo a rimanere sbigottito della condotta del sottoposto, ma ancora più importante è che sia proprio lui a raccontare l’intera vicenda.

    Ecco che Melville, immerso in un mondo dove Bartleby non può ancora parlare in prima persona, e dove non può alzare la testa per raccontare la propria storia, sceglie di dar voce allo status quo, a chi tiene le redini del gioco, inducendo il narratore – incredulo ovviamente – ad osservare un comportamento sotto molti aspetti ingiustificato, controproducente e autodistruttivo, che porterà il protagonista alla scelta non solo di non identificarsi come impiegato, ma come essere umano tout-court.
    Bartleby, ormai in prigione, rispondendo all’ex datore di lavoro dirà:
    «So chi siete e non ho nulla da dirvi».

    Niente di più chiaro: un messaggio preciso che manifesta, ancora una volta, quanto sia radicata la consapevolezza del ragazzo; e quanto l’assurdità del racconto, che percepiamo scorrendo le pagine all’inizio, rappresenti in realtà”.
    *
    Il narratore, a capo dell’ufficio, personaggio stranamente disponibile e accomodante, diventa testimone involontario del declino della carriera e, di conseguenza, anche della vita del nuovo assunto. In un inspiegabile guizzo di intraprendenza (o forse sarebbe meglio dire di negazione del proprio ruolo), Bartleby decide di sottrarsi e di annullarsi: prima in quanto impiegato, e poi, in maniera più definitiva, in quanto uomo.
    da Bartleby lo scrivano:
    […]
    «Bartleby, in fretta, non s’attende che voi».
    Udii il sordo rumore delle gambe della sedia sul pavimento privo di tappeto, e ben presto egli apparve sulla soglia del suo eremo.
    «Che desiderate? », chiese tranquillo.
    «Le copie, le copie », risposi in fretta.
    – «Le dobbiamo collazionare. Ecco », e gli tesi il quarto esemplare.
    «Preferirei di no», disse, scomparendo tranquillo dietro il paravento.
    Per alcuni istanti rimasi come una statua di sale, immobile alla testa dei miei tre impiegati. Non tardai però a riavermi, mi avvicinai al paravento e gli chiesi il motivo di così straordinario comportamento.
    – «Ma perché rifiutate?».
    «Preferirei di no».
    *
    La nostra poetry kitchen è anche la poetica e l’estetica di quella che
    Slavoj Žižek, in Vivere alla fine dei tempi, ha indicato come

    “la politica à la Bartleby”:
    «I would prefer not to»…..«Preferirei di no».

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