Le antologie di poesia italiana dal 2000 ai giorni nostri – Parola plurale, Dopo la lirica, La poesia italiana dal 1960 a oggi (2005), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2017), Cambio di paradigma o tutto come prima?

esecuzione di Lucio Mayoor Tosi

Anno 2005. Escono tre Antologie di poesia: Parola plurale, Dopo la lirica, La poesia italiana dal 1960 a oggi. Nel 2017 esce l’antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, a cura di Giorgio Linguaglossa

Le prime tre  antologie eleggono l’anno 1960, l’anno della rivoluzione operata dai Novissimi e dalla neoavanguardia, quale linea di demarcazione dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura delle proposte di poesia accompagnate dalla caduta del tasso tendenziale di problematicità della poesia proposta, fenomeno che collima con le posizioni di poetica personalistiche da parte delle personalità più o meno influenti. Si nota il fenomeno della de-ideologizzazione della poesia proposta e i fenomeni diffusi di auto promozione di gruppi e di singole personalità. La storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione ad opera delle personalità più influenti e facoltose.

Così Daniele Piccini dichiara nella Introduzione alla sua antologia i suoi intendimenti metodologici:

Nonostante tutto ciò, e messolo in conto, l’antologia che il lettore ha fra le mani nasce e si articola come un tentativo di risposta al vuoto storiografico descritto, verificatosi ora per contrazione ora per casualità, ora per esplosione demografica, democratica e orizzontale delle presenze […]. Quello che si vuole evitare è di favorire in sede storica la proliferazione di autori minori in seno a una stessa trafila poetica, a una medesima (tra le tante possibili) tradizioni. Cercare di fornire per ogni orientamento e ricerca il o i migliori rappresentanti, con tutto il cumulo della loro irriducibilità a un sistema, a una poetica predefinita è la bussola che ha orientato la redazione della presente antologia. (Piccini 15)

Piccini intende mettere un freno all’esplosione demografica delle antologie e lo fa con un’antologia ristretta a poche personalità che siano però considerabili «nevralgiche e capaci di render ragione del quadro» (Piccini 36). Coerentemente con questo presupposto, soltanto tre dei ventuno poeti antologizzati da Berardinelli e Cordelli sono inclusi in La poesia italiana dal 1960 a oggi: Cucchi, De Angelis e Magrelli. Salta agli occhi comunque che la selezione degli autori introdotti: Rondoni, Ceni, Mussapi, sia il prodotto di “intelligenza” con la poesia istituzionale più che il prodotto di un lavoro di ricerca.

La seconda antologia del 2005 è Dopo la lirica, curata da Enrico Testa, per Einaudi.

Il periodo considerato va dal 1960 al 2000, la selezione include ben 43 autori di poesia. Nella Introduzione, dopo un excursus sulle linee di forza della poesia degli ultimi tre decenni, il curatore presenta i poeti in rigoroso ordine cronologico. Pur nella ampiezza e sobrietà del quadro storico contenuto nella introduzione, alla fin fine il criterio adottato dal curatore finisce per essere quello del catalogo e dell’appiattimento degli autori in un quadro storico direi unidimensionale e monotonale. Voglio dire che dal quadro storico scompaiono le differenze (se differenze ci sono) tra un autore e l’altro e perché proprio quei tali siano i prescelti e per quale giudizio di gusto o di militanza. Se la poesia è in crisi di bulimia, il curatore gonfia a dismisura i poeti inclusi nella antologia, quando invece sarebbe stato ovvio attendersi una restrizione delle maglie larghe. A questo punto, l’analisi linguistica dei testi si rivela per quello che è, un valore informazionale e di nessuna utilità ai fini della storicizzazione che avrebbe dovuto spiegare proprio il perché di quei poeti e non altri. Testa sfiora la problematica centrale, le “grandi questioni” del pensiero e, in particolare, “del nichilismo […]; la presenza, infine, di motivi e strutture antropologiche: le figure dei morti al centro di rituali evocativi o procedure sciamaniche, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, funzione non strumentale e magica degli oggetti”. (Testa XXXII)

Il criterio-guida della antologia è la individuazione di una rottura radicale della lirica italiana verificatasi negli anni Sessanta. Rottura dovuta a cambiamenti epocali e alle loro ripercussioni  sulla struttura del testo poetico e le sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, fenomeno che si riflette nella indistinzione tra prosa e poesia. Vengono messi nel salvagente gli autori della precedente generazione (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) con una piccola concessione alla poesia dialettale: Loi, Baldini. Possiamo comprendere lo sconforto e lo smarrimento del curatore il quale si trova a dover rendere conto della entropia del genere poesia identificata nella poesia post-lirica con conseguente difficoltà a tracciare un quadro riepilogativo della situazione, a nulla serve giustificare questa condizione con l’argomento secondo cui tutta la poesia contemporanea viene considerata «postuma», con l’argomento che ad «una cartografia imperfetta è allora preferibile uno scorcio o veduta parziale» (Testa XXVI).

Non risulta chiaro quale sia per Testa la linea o le linee di sviluppo che la poesia italiana ha seguito dal 1985 al 2005. È plausibile, ma non sufficiente, l’intendimento di ridimensionare il peso di alcuni autori istituzionali: Mario Benedetti, Franco Buffoni, Stefano Dal Bianco, quando invece sarebbe occorso più determinazione nelle esclusioni e nella indicazione delle linee di forza del quadro poetico complessivo.

A quindici anni dalla apparizione della antologia Dopo la lirica risulta ancora inspiegato che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi due lustri, Testa si limita ad indicare le categorie del post-moderno, della postumità della poesia, della poesia post-montaliana, questioni stilistiche rimaste in sospeso, peraltro abbastanza confuse, l’unico punto messo in evidenza è  il limen tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida ma ancora vaga e ondivaga in quanto mancante di ulteriori elementi definitori per poter individuare la «mappa» dei 43 autori per completare il quadro, sarebbe occorso una diversa campionatura e uno studio più approfondito sugli autori della militanza poetica che Testa non ha compiuto, probabilmente per l’enorme congerie di autori e di testi che galleggiano nel mare del villaggio globale del mondo poetico italiano.

Antologia cop come è finita la guerra di Troia non ricordo

Parola plurale di Andrea Cortellessa tenta di fare il punto della situazione comprendendo alcuni autori già selezionati ne Il Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli del 1975 e nella Parola innamorata. Il modello è sempre quello dei Poeti italiani del Novecento di Vincenzo Mengaldo .

Si procede per inflazione dei numeri: gli autori confluiti nella Parola plurale sono 64, numero pari a quello dell’antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975. Il primo capitolo, inoltre, non solo riprende gli autori antologizzati nel 1975, che già nel titolo rimanda esplicitamente a quel precedente: Effetti di deriva, il saggio di Berardinelli, è qui diventato Deriva di effetti. I curatori di questa antologia danno molto rilievo alla frattura posta al centro della riflessione e dell’operazione antologica di Berardinelli e Cordelli, dei quali riprendono le date di rottura: 1968, 1971 e 1975. Nel Sessantotto si esaurisce l’esperienza della Neoavanguardia «l’ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’Idea di Forma senza allontanarsene del tutto» (Alfano. 20). Il 1971 conclude l’evoluzione del genere lirico con le raccolte di Montale e Pasolini, e apre un altro periodo con Invettive e licenze di Dario Bellezza. L’idea di fondo di Parola plurale è mettere il punto fine al periodo inaugurato dalla antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975 per ripartire dalla idea di una selezione degli autori in base ad un codice o modello, nonché di riposizionare il genere antologia mediante la introduzione di un elemento di collegialità.

L’organizzazione «policentrica» di Pier Vincenzo Mengaldo, caratterizzata da una valida capacità saggistica che individua e storicizza gli autori, collide qui con il problema oggettivo della omogeneizzazione dei criteri e dei giudizi di gusto dei singoli curatori che affiancano Cortellessa, e quindi con la selezione e la organizzazione di una antologia “plurale” laddove ogni inclusione ed esclusione dipende dal giudizio di gusto dei singoli consiglieri. Così, mancando un comune orizzonte di ricerca, la “collegialità” del lavoro finisce inevitabilmente per coincidere con la gratuità delle singole inclusioni.

Il problema della «mappa», in mancanza di un progetto che rientri in un preciso orizzonte, finisce per periclitare in una gratuita pluralità di gusti e di posizioni individuali prive di una giustificazione storica e stilistica che può nascere soltanto da una attiva militanza nel poetico.

Così spiega un curatore la sua idea: «La risposta […] sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle […]. Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (‘generazioni’, ‘gruppi’, ‘linee’…); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio. (Alfano et al. 9)

Dei 64 poeti, circa una ventina obbediscono ad una linea neo o post-sperimentale, tutti gli altri appaiono posteggiati in una sorta di narratività allo stadio zero della scrittura. Accade così che Parola plurale, sicuramente uno dei cataloghi più aggiornati sotto il profilo bibliografico, non riesce ad evitare una sorta di genericità e di misteriosità della situazione della poesia italiana contemporanea che non vada oltre il facile truismo della mancanza di un canone o modello. E anche puntare il dito sulla de-ideologizzazione della scrittura poetica, non solo non è un criterio sufficiente ma, a nostro avviso, non fa altro che aggravare il problema di non aver saputo o potuto indicare l’obiettivo di una antologia della poesia contemporanea italiana.

Certamente, la mancanza di una militanza sul terreno del poetico rende enormemente difficoltoso se non impossibile tracciare una linea dei confini della «mappa» per il semplice fatto che non si ha adeguata cognizione del territorio reale cui la «mappa» dovrebbe corrispondere.

E siamo giunti a Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2017), a cura di Giorgio Linguaglossa, che include soltanto 14 autori, con una netta inversione di tendenza rispetto alla esplosione demografica delle antologie precedenti. E siamo a ridosso della Proposta di una nuova ontologia estetica, il cui atto di nascita data dal 2017 tramite la piattaforma della rivista on line lombradelleparole.wordpress.com, una piattaforma di poetica sicuramente militante. Qui una idea  almeno c’è: l’uscita definitiva e senza ritorno dalle poetiche ergonomiche del novecento e un primo progetto di costruzione di una nuova idea di poesia.

La Introduzione non lascia margini a dubbi: si è chiusa in modo definitivo la stagione del post-sperimentalismo novecentesco, si sono esaurite le proposte di mini canoni e di mini progetti lanciati da sponde poetiche le più diverse ma per motivi, diciamo, elettoralistici e auto pubblicitari, si sono esaurite la questione e la stagione dei «linguaggi poetici», anche di quelli finiti nel buco dell’ozono del nulla; la poesia italiana sembra essere arrivata ad un punto di gassosità e di rarefazione ultime dalle quali non sembra esservi più ritorno. Questo è il panorama se guardiamo alle pubblicazioni delle collane a diffusione nazionale, come eufemisticamente si diceva una volta nel lontano Novecento. Se invece gettiamo uno sguardo retrospettivo libero da pregiudizi sul contemporaneo al di fuori delle proposte editoriali maggioritarie, ci accorgiamo di una grande vivacità della poesia contemporanea. È questo l’aspetto più importante, credo, del rilevamento del “polso” della poesia contemporanea. Restano sul terreno  voci poetiche totalmente dissimili ma tutte portatrici di linee di ricerca originali e innovative.

Molte delle voci di poesia antologizzate vibrano, con consapevolezza dei propri strumenti linguistici, in quell’area denominata l’Epoca della stagnazione, che non significa riduttivamente stagnazione della poesia ma auto consapevolezza da parte dei poeti più avvertiti della necessità di intraprendere strade nuove di indagine poetica riallacciandosi alle poetiche del modernismo europeo per una «forma-poesia» sufficientemente ampia che sappia farsi portavoce delle nuove esigenze espressive della nostra epoca.

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.

L’espressione cambiamento di paradigma, ripresa nella Introduzione alla antologia è intesa come un cambiamento nella modellizzazione e stilizzazione degli eventi in vari campi: della scienza, dell’arte figurativa, della poesia, del romanzo ed è ormai una nozione ampiamente applicata dalla critica letteraria e non solo, ma anche di quella filosofica.

(Giorgio Linguaglossa, Gino Rago)

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20 risposte a “Le antologie di poesia italiana dal 2000 ai giorni nostri – Parola plurale, Dopo la lirica, La poesia italiana dal 1960 a oggi (2005), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2017), Cambio di paradigma o tutto come prima?

  1. Dalla ossessione del “tempo” nella poesia italiana del ‘900 al fattore “spazio”
    nella poetry kitchen
    Gino Rago
    Bozza backstage storie di una pallottola

    Prima versione

    Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani.
    La famosa pallottola chiede di essere ricevuta
    Dal dirigente, il critico e poeta Giorgio Linguaglossa:
    «Signor Dirigente, sono stanca della stagnazione
    Estetica e moraledi questo tempo,
    desidero cambiare secolo».
    Il Direttore Giorgio Linguaglossa:
    «Gentile pallottola, accolgo la sua istanza
    a una condizione e cioè che Lei porti con sé
    Questa busta sigillata da aprire soltanto in presenza
    Del Generale Hermann Kanzler,
    Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate
    Dello Stato Pontificio. Faccia in modo
    Che Papa Pio IX non sappia nulla».

    La pallottola è alla breccia di Porta Pia.
    Entra con i bersaglieri a cavallo
    con le piume al vento.
    I soldati papalini tirano contro i bersaglieri a cavallo
    cucchiai e forchettoni di legno,sanpetrini,
    scolapasti, ferri da stiro, chiavi di casa, scarponi chiodati,
    fichi secchi, bruscolini, mele marce, angurie guaste,
    supplì di riso, gratta checche, filetti di baccalà,
    crocchette di patate, fiori di zucca con alici,
    trippa ar sugo, pezzi di porchetta di Ariccia,
    tonnarelli cacio e pepe.

    Le popolane dalle finestre:« A buzzurri,
    ma che sparate a fà, entrate a Roma in pace,
    a Roma se magna…
    E fateve da Menghi na fraschetta a via Flaminia
    prima d’annà a San Pietro,
    tanto er Papa già è scappato a Castel Sant’Angelo».

    Alla testa dei bersaglieri a cavallo
    la pallottola entra nella sala degli arazzi al Quirinale,
    il Generale Kanzler si è chiuso nella toilette del papa:
    «Signor Generale, ho una busta sigillata per Lei
    dall’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani…».
    Poi vola verso il Palazzo del principe di Salina,
    trova Giuseppe Tomasi di Lampedusa
    con suo cugino il poeta Lucio Piccolo
    e con don Sedàra, il padre di Angelica.
    Una signora elegante con una veletta scura
    Irrompe nel salone:
    «Bendicò, il fedelissimo cane dei Salina
    già morto e imbalsamato è stato gettato nella spazzatura
    con tutti i vecchi regnanti».
    Travestita da mademoiselle Dombreuil
    la pallottola fa cadere un reggi-candele del Settecento:
    «Tancrède, Angelicà, où êtes-vous?».

    In una Struttura Dissipativa
    un critico d’arte intravvede la bozza
    del monumento al Gianicolo di Anita Garibaldi.
    *

    • Dalla ossessione del “tempo” (nel giro di circa venti anni, dagli anni ’30 agli anni postbellici ‘50/’60, si passa da una concezione del tempo metafisica e/o metastorica a una soprattutto storica) nella poesia italiana del ‘900 al fattore “spazio” nella poetry kitchen.

      Seconda versione

      Gino Rago
      Bozza backstage storie di una pallottola

      Nessuno saprà mai perché la famosa pallottola
      il giorno 20 settembre 2020
      si presentò al Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani n. 18.
      Il critico poeta Giorgio Linguaglossa
      stava appunto discutendo con il generale Patton
      il quale esibiva con orgoglio i suoi due revolver a tamburo
      con il manico di avorio.

      La pallottola era vestita con un abito degli anni settanta
      con le spalle strette.
      «Veda, Signor Linguaglossa – esordì –
      sono davvero esausta e annoiata del Novecento,
      secolo bigotto e carnevalesco. Adesso basta,
      ne ho le tasche piene! E così chiedo di cambiare secolo».

      Il Direttore critico Linguaglossa:
      «Gentile pallottola, accolgo con piacere la sua istanza
      a una condizione però, che Lei porti con sé
      questa busta sigillata da aprire soltanto in presenza
      del generale svizzero Hermann Kanzler,
      Capo della gendarmeria dello Stato Pontificio.
      Ovviamente, Pio IX non ne deve sapere nulla».

      La pallottola è alla breccia di Porta Pia.
      Entra con i bersaglieri piemontesi a cavallo
      con le piume al vento.
      I papalini lasciano cadere cucchiai, forchettoni di legno, sanpietrini,
      scolapasta, ferri da stiro, chiavi di casa, scarponi chiodati,
      fichi secchi, bruscolini, mele marce, angurie guaste,
      supplì di riso, grattachecche, filetti di baccalà,
      crocchette di patate, fiori di zucca con alici,
      trippa ar sugo, finanche la porchetta di Ariccia
      con tonnarelli cacio e pepe.

      Le popolane dalle finestre:
      «A buzzurri, ma che sparate a fà, entrate, qua se magna…
      E fateve na fraschetta dalla sora der “Menga” a via Flaminia
      prima d’annà a San Pietro,
      tanto er Papa già è scappato a Castel Sant’Angelo!».

      Che fa che non fa, la pallottola entra nella sala degli arazzi al Quirinale,
      il Generale Kanzler si è chiuso nella toilette del papa,
      sta facendo la pipì.
      «Signor generale, Il Regno di Sardegna chiede la resa!».

      Poi vola verso il Palazzo del principe di Salina,
      C’è Tomasi di Lampedusa con il cugino il poeta Lucio Piccolo
      c’è anche don Sedàra, il padre di Angelica.
      Giocano a tresette.

      Una signora elegante con guardinfante e veletta scura
      irrompe nel salone (è la pallottola che si è travestita), grida:
      «Bendicò, il fedelissimo cane dei Salina
      già morto e imbalsamato è stato gettato nella spazzatura
      con tutti i vecchi regnanti!».

      Travestita da mademoiselle Dombreuil
      la pallottola fa cadere un reggi-candele del Settecento:
      «Tancrède, Angelicà, où êtes-vous?».
      *

      • Prosa a tratti capace di perfidia. Fanciullesca, esilarante.
        Grazie, Gino.

      • Faccio mio e lo rivolgo all’amico Gino Rago questo commento di Guglielmo Aprile sul poeta ceco Pavel Reznicev.

        guglielmo aprile
        10 settembre 2017 alle 14:59

        Di primo impatto, specialmente se si è reduci da letture poetiche fondate sull’ingenuo presupposto che la realtà sia quella che ci appare, questi funambolismi surrealistici possono dare l’impressione di un gratuito divertissmént verbale: un’esperienza tutto sommato ludica, che riduce il fine della scrittura allo stupore degli inusuali accostamenti, e allo smarrimento suscitato dalla visione di un mondo sganciato dai suoi tradizionali assi portanti logici. Ma se si prova a praticare un tale genere di poesia, ci si accorge di quanto esso sia tremendamente difficile: il rischio di lasciarsi prendere la mano dal fuoco di fila delle analogie, e quindi di uscire di strada, è ad ogni verso dietro l’angolo. I surrealisti veri sapevano trasformare in gioco anche questo spauracchio: eludono il filo sottile dello smacco semantico attraverso il frastornante riverbero magnetico prodotto dalle combinazioni. I finali, qui, sono sempre epifanici: riuscire ad arrivarci, senza disperdersi nel variopinto arlecchinismo dello stile, è come nuotare in apnea: gli ultimi versi hanno il sapore di una chiave ad un rebus finalmente scoperta, sebbene impossibile da chiarire del tutto: quando meno te lo aspetti, ecco che quelle parole ti offrono uno squarcio, dal quale improvvisamente si intravede una luminescenza diversa, soffocata dietro strati di materia inerte che accecano i tuoi occhi di ogni giorno

        • Condivido appieno le parole di Giorgio Linguaglossa. D’altra parte cosa sarebbe questa poesia, senza fari di luce? Gino Rago ne ha sempre avuti, da che lo leggo, da Ecuba. E anche Giorgio, i suoi filosofici.

        • Anch’io in buona parte sento di far mio e di in esso rispecchiarmi con le mie pallottole verso lo Spatial turn nella intelligenza e nella competenza del commento di Guglielmo Aprile che Giorgio Linguaglossa mi rivolge. Ciò conferma ancora una volta l’importanza della esperienza di lettura, della cultura poetica e della militanza sul terreno della poesia, senza cui nessun traguardo ermeneutico è possibile, secondo il pensiero dello stesso Giorgio Linguaglossa che riporto:
          “Certamente, la mancanza di una militanza sul terreno del poetico rende enormemente difficoltoso se non impossibile tracciare una linea dei confini della «mappa» per il semplice fatto che non si ha adeguata cognizione del territorio reale cui la «mappa» dovrebbe corrispondere.”.
          Così come mi piace evidenziare l’affinamento dello strumento critico di Lucio Mayoor Tosi verso gli altrui versi e verso i miei di oggi su questa pagina de L’Ombra.

  2. Stefano Giovanardi alla fine del 1997, dalle colonne di «Repubblica», ammoniva che «quali saranno le novità, le linee egemoni, gli sconvolgimenti della poesia del 1998, non se ne accorgerà nessuno. Su questo potete giurarci».
    Gli replicava un giovane, all’epoca, poeta e critico, Paolo Febbraro nell’anno 2000, che Giovanardi cinicamente aveva dichiarato che «non avrebbe letto nulla, non si sarebbe informato di nulla e verosimilmente di nulla avrebbe informato i propri lettori». E questo non perché «tutta la poesia futura sarebbe stata brutta e come tale irrilevante, ma che sarebbe stata irrilevante anche se bella, e dunque in teoria rilevantissima».

    Il punto è qui.
    Come si fa ad esercitare la professione di critico che riceve un buon stipendio dalla Università per poi dichiarare candidamente che «non avrebbe letto nulla, non si sarebbe informato di nulla e verosimilmente di nulla avrebbe informato i propri lettori».
    Mi chiedo: Quale credibilità, quale legittimità, quale credito può ricevere un tal pusillanime di critico?

    Si chiede Andrea Inglese:
    Una volta «si prendeva il libro di quella certa collana di poesia, si poteva avere un’idea di cosa si stava per leggere. Oggi invece si esagera in senso opposto: non c’è più modo di capire in quale direzione i poeti, anche quei pochi minimamente affermati, siano diretti; non ci sono valori condivisi; leggiamo tutto e il contrario di tutto. Convivono caoticamente – fra loro bellamente ignorandosi – àlgidi sonettatori e magmatici informali, gnomici e aforisti, terebranti sacerdoti del Sublime e ìlari snocciolatori di nonsense, mistici e sadici, performers agguerriti e teneri àrcadi. Non è questa – ci stringono all’angolo – la prova che quello della poesia ha ormai cessato di essere un linguaggio? Non è ormai la poesia italiana contemporanea, solo e semplicemente, un sempre più stanco e stucchevole gioco di società?».1

    1 https://www.nazioneindiana.com/2005/10/26/parola-plurale-1/

  3. Nella sua poesia sequel, Gino Rago passa in rassegna figure trapassate nel letterario, alla maniera di “Fantasmi a Roma” (film di Pietrangeli del 1961). Come a dire che di vero, e vivo, resta solo la scrittura: negativo di realtà divenuta vieppiù apparente, edulcorata. Appare falso tutto ciò che vedi e tocchi. Sogno, maya, allucinazione.
    Poco fa per strada una signora, vicina di casa: «Non so cosa fare, se andare a votare oppure no». Ho riso, lieto per la sua incertezza, segno di risveglio. Quindi, dopo aver riso ci siamo scambiati una buona serie di bugie, su questo e quello, sul SI’ e sul NO. “Una signora elegante con una veletta scura / Irrompe nel salone: / «Bendicò, il fedelissimo cane dei Salina / già morto e imbalsamato è stato gettato nella spazzatura / con tutti i vecchi regnanti». Parlare e scrivere, la stessa cosa. Ma è vero parlare, ma è vero scrivere.
    Ma come la mettiamo con le categorie impegno-disimpegno, giusto-sbagliato? Mettiamole in fattore X, da destinare alla nuova poesia derivata da interattività. Che non vuol dire poesia dialogante, ma che assume in sé il fattore interattivo. Quell’essere parlati non più dal divino. In kitchen. Con la radio che va. E tentare di mettere in ordine.

  4. Non è possibile che da questa faccia. Eppure
    nel corso degli eventi l’aristogatto di Sicilia. Qui giunto

    e con fare distratto. Qui o nel verso successivo.

    Dondola dondola, l’arsenale ne è pieno.
    Bella camicia.

    (May set 20)

  5. L’immaginario

    È pensiero della communis opinio che l’immaginario sia mantenuto in vita artificialmente. Ad esempio, la poesia di Gino Rago e quella di Mauro Pierno sono un prodotto di artificio?, qualcuno direbbe, di maniera.
    È vero invece il contrario: senza una ricerca si cade dritti nella maniera e nel manierismo. È invece la ricerca che consente di evitare il manierismo. Di solito prendiamo per buono l’immaginario che ci consegna l’ideologia dominante, ma la poesia che ne risulta diventa un epifenomeno dell’ideologia e nient’altro. Anche la poesia fa parte dell’ideologia, ne è parte integrante, fa parte della visione del mondo di un’Epoca. Qualcuno dice che Sì, si tratta di un irreale che procede da una «irrealizzazione» prodotto di fantasia e immaginazione. Non so quale serietà possa avere una simile opinione. Altri sostengono che la poesia da una duplice istanza di verità: è vera per me che la faccio e per te che la leggi. Ma anche questo argomento a me sembra specioso. Che significa «istanza di verità»? – La poetry kitchen vuole mettere tutto in discussione, in primis l’Immaginario maggioritario. Il movimento della coscienza è intenzionale, ma, nel caso dell’immagine il correlato della coscienza è preso di mira come ciò che non è sottoposto al mio sguardo, anzi, che non dipende dal mio sguardo, anzi, tanto meno dipende dal mio sguardo tanto più quella immagine sarà vera.
    È questa la novità della poesia buffet. O poetry kitchen.

  6. Ecco una mia poesia del 2013, poi pubblicata nel 2014 in La filosofia del tè un libro di finte cineserie.
    Quanta strada è stata fatta da questa cineseria alla
    poetry kitchen!

    L’allievo Tu I torna dalla guerra

    Quando tornai a casa, dopo il tempo
    dell’invasione dei tartari,

    mi rallegrai che la mia casa fosse stata risparmiata,
    mi rallegrai nel trovare mia moglie,

    in piedi, in cucina, che mi scaldava
    il tè nel bricco che bolliva sul fornello,

    il fedele domestico, più vecchio e più magro…
    c’era financo lo sgabello

    ancora intatto sul quale un tempo
    poggiavo i piedi dopo pranzo,

    mi rallegrai nel trovare Zerco,
    il mio cane, che mi venne incontro scodinzolando,

    (lui sì, mi aveva riconosciuto)
    mi rallegrai nell’ascoltare i racconti

    di mia moglie circa i lutti dei vicini,
    le uccisioni, le depredazioni inaudite

    e le vicende degli amori clandestini
    che erano fioriti in quegli anni cupi…

    mi rallegravo del cinguettio dei passerotti
    sugli alberi, che il mondo

    continuasse a girare come prima.
    Mi rallegravo io stesso

    di essere sopravvissuto in tutti quegli anni
    dell’invasione barbarica.

    «Dopo tutto è il male minore
    essere ancora in vita – mi dicevo per rassicurarmi –

    e c’è un male peggiore,
    quello di non esserlo più, in vita»;

    ma non riuscivo a persuadermi,
    a capacitarmi del tutto e guardavo dalla finestra aperta

    i rami del mandorlo fiorito che uscivano
    dal buio ed entravano nella finestra

    così, senza cercare nulla, senza volere nulla.

    (da La filosofia del tè, 2014, Ensemble)

    • Wow. Hai una prosa talmente diligente che mette voglia di riprendere a scrivere il compito. Da bravo allievo di maestro zen. Ma quei fiori sono un tocco di pennello!

    • Giorgio Linguaglossa

      Due parabole del maestro Anarcisio Aclastico

      Il filosofo Anarcisio Aclastico sedeva nudo sulla sommità di un tempio pagano quando interloquì con i cittadini di Afanarsis dichiarando che avrebbe risolto lui tutti i problemi filosofici mediante la pronuncia di due sole parole.
      Postquam, dopo lunga meditazione, dichiarò il filosofo che avrebbe risolto tutti i problemi mediante l’ausilio di una sola parola.

      Detto fatto. Si pose Anarcisio Aclastico al centro della piazza del mercato in posa sussiegosa con la sua bisaccia a tracollo masticando un gustoso sandwich.

      Nel mezzo alla curiosità e all’ammirazione dei concittadini riuniti nell’agorà, il filosofo emise un lungo e sonoro borborigmo accompagnato da numerosi e rumorosi peti.

      Narrano le fonti che quella fu l’ultima parola che il filosofo produsse prima di scomparire nel nulla della storia non scritta.

      *

      Stava dritto nel mare fino alla cintola
      il filosofo, ed era nudo
      e immergeva nel mare un secchio senza fondo…

      «maestro – gli dissi facendomi coraggio –
      non finirete mai di travasare il mare!»

      ma quegli non mosse ciglio né accennò alcuna risposta.

      Dieci anni più tardi, ripassai per quello stesso mare e mi avvidi che il maestro era sempre lì che immergeva il secchio senza fondo nel mare, se lo issava sulle spalle e versava il contenuto sulla spiaggia…

      «maestro – gli dissi facendomi coraggio –
      non finirete mai di travasare il mare!»

      ma quegli non mosse ciglio né accennò alcuna risposta.

      (da La filosofia del tè Roma, Ensemble, 2013)

  7. Alfonso Cataldi

    Voleva solo partecipare

    Il corrimano sale fino al terzo piano e buca il finestrone.
    «Hai caldo pure tu Luna?»

    O due calici rasi sono sufficienti a immaginarti porno?

    Confucio regalava sempre una goleador
    a chi calciava un esempio di virtù nella comunità avversa.

    «La società liquida è durata meno del previsto»
    il Covid voleva solo partecipare

    però la temperatura è scesa appena di tre gradi
    e i barbecue non hanno fatto un fiato.

    Il basilico dei vicini la sera si finge morto
    di fronte alle nostre serie TV preferite.

    «Jesse, non lasciarlo andare. Getta le chiavi dell’auto nel dirupo
    non resisterà più di due puntate alla tua neurodiversità.»

    Con il coltello sotto il cuscino

    Passa tutto il giorno attorno a un solo buco di groviera
    e non lo sa che non produce ossitocina.

    Il topo autistico da laboratorio
    guiderà le distrazioni umane?

    L’endocrinologo ha disegnato i bottoncini sotto le mammelle
    La bilancia non porta un filo di trucco

    e dichiara tre chili in più
    da colare su una mutilazione priva di display.

    Halloween non è mai presente quando serve
    e non risponde al telefono.

    Qui dormono tutti con il coltello sotto il cuscino
    di notte girano i cacciatori di soci Coop.

    • Se c’è una cosa che mi piace nei poeti NOE, che nel leggere un verso ti dimentichi di quello precedente; ma non ti preoccupi, perché il poeta NOE sa come come fare per rimetterti in carreggiata. Va in larghezza, il verso Alfonso Cataldi. Ed è una poesia a molti piani. Un palazzo. Adattissimo per il Covid.

    • caro Alfonso Cataldi,

      hai avuto pazienza e infine la tua attesa è stata premiata. Un tempo scrivevi poesie dove il reale era lì dove tutti pensavamo che fosse, come pensavo io nella poesia del 2013 postata sopra. E invece non è affatto così scontato, il reale non è lì dove noi credevamo ingenuamente di averlo lasciato.
      «Il Reale è ciò che torna al suo posto», scrive Lacan. Rispetto alla nozione di Reale Lacan definisce l’oggetto come qualcosa che si pone al limite della nostra esperienza e che ad esso possiamo riferirci solo mediante il pensiero che esso è lì dove si trova. In un primo tempo ne parla come di un impossibile ed in effetti per reale si può intendere come qualcosa che fugge sempre, ma che, indipendentemente da quello che intendiamo farne, ritornerà sempre al suo posto. Per la poetry kitchen il reale è ciò che resta prima che gli oggetti ritornino al loro posto, prima che l’Ordine sia ricostituito. È in questo modo che va letta la tua poesia non-realistica.
      È che tu hai capito che il reale non si trova più lì dove ieri sera lo avevamo lasciato.

  8. Mariella Bettarini

    Caro Giorgio Linguaglossa,

    ottimo questo tuo invio relativo alle antologie di poesia italiana dal 2000 ai giorni nostri.

    Grazie, mille auguri sempre e un saluto caro da

    Mariella Bettarini

  9. Guido Galdini

    Lavori domestici

    1) Elegia per il lavello della cucina

    il frammento del guscio di un uovo
    tre semini di pomodoro
    un nocciolo di oliva
    l’ombra della buccia di una cipolla
    una crosta di formaggio
    mezza foglia d’insalata
    uno spaghetto

    un po’ d’acqua che gorgoglia prima di sparire nello scarico
    che altro serve per affrettare la fine?


    2) Istruzioni per il rifacimento di un letto (proprio od altrui)

    è mattina ed il sole si sta dondolando
    con questo inizio
    spero sia soddisfatto il vostro appetito poetico

    il letto sfatto richiede competenza e fiducia
    le lenzuola accartocciate, avvolte nel loro disagio
    ricordano che non è passata invano la notte
    a passeggiare tra gli incubi e gli altri sogni leggeri

    iniziate col togliere i cuscini, appoggiateli ad una sedia
    rivoltate fino in fondo le coperte, date aria al materasso
    sbattete, sprimacciate, affrontate
    tutte le azioni inermi del sollievo

    fatto questo lasciateli un po’ riposare
    riprender fiato per la notte ventura
    guardate in basso la strada
    poco affollata di gente e di rumori
    fate vagare i pensieri: malgrado l’apparente distacco
    questo passaggio è essenziale
    per la riuscita dell’opera

    poi riprendete il lavoro
    tirate, aggiustate, pareggiate le onde
    concedete una carezza ai cuscini
    stendetevi sopra il copriletto
    e date un ultimo tocco
    alla piccola piega rimasta ribelle sull’orlo

    non ho usato nemmeno una volta il termine coltri
    vi prego di tenerne conto nel giudizio sul presente componimento.

  10. La posta in gioco, come è evidente in queste composizioni di Guido Galdini, è pratica, o meglio, etica. Etico è il problema di come parlare dell’angoscia degli atti quotidiani di quelli che noi compiamo in modo irriflesso, dopo Freud e Lacan. Non come riferimento ad quem, bensì muovendo da ciò che possiamo, sulla scia della scoperta dell’inconscio, significare oltre e da ciò che già in Freud è insignificabile, l’Unheimlich, l’estraneo e l’imperturbabile.
    Ma occorre muoversi soprattutto dall’esperienza degli atti quotidiani del soggetto barrato in rapporto ad un oggetto che non è più quello tranquillo della filosofia e della poesia tradizionali che pensano che esso se ne stia lì e non si muova, ma è ancora da pensare, confrontandosi con il già pensato circa i cosiddetti “oggetti parziali”.
    Ma è che la poesia demistifica l’ideologia che si cela dietro gli atti quotidiani apparentemente neutri e tranquilli che noi compiamo ogni giorno. Ecco, è proprio in quegli atti quotidiani che si celano le ombre. È lì che la poesia deve indagare. È che gli atti quotidiani sono privi di esperienza, non danno luogo ad alcuna esperienza, sono atti standardizzati, neutri, come neutra e standardizzata è l’ideologia dominante che impedisce l’esperienza.
    L’angoscia non è il significante di un significato rimosso. L’angoscia ha una modalità di presenza propria, che non è significante, anzi, è proprio il senza-significato che produce quel tipo di angoscia tipica delle nostre società telemediatizzate. L’angoscia deriva da un atto senza-significato che viene ripetuto all’infinito, in modo preferibilmente automatico in modo analogo ai tic. Una angoscia spot, semaforica, che c’è, si accende, e non c’è, si spegne.

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