
Giorgio Ortona, Catania, olio su tela, 24×30 cm 2017
In un certo senso anche Giorgio Ortona si occupa del noto, di ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: i palazzi, le vie delle nostre città, in particolare la Roma della speculazione edilizia, gli abitanti delle città, sospesi tra il non-essere e il nulla, ma lo fa trattando questa «materia» come se fosse una materia di sogno, con colori sbiaditi e sbilenchi, con foschie che si aggrumano e si disperdono. È proprio questo quello che intendo quando scrivo «abitare il poetico». Il nostro modo di abitare il poetico, di vivere poeticamente è raffigurare le cose per come sono… una via qualsiasi di qualunque città, una vecchia Panda che sfrigola nel caldo afoso di una strada. Questo significa abitare il poetico.
(g.l.)
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Fare esperienza del noto. Abitare il poetico.
caro Lucio Mayoor Tosi,
scrivere una poesia non è far mostra di quanto uno è bravo ma, essenzialmente, un fare esperienza di linguaggio.
L’esperienza di linguaggio che ho compiuto in questa ultima Storia italiana del Covid19, non ha più la forma di un viaggio e di un racconto (da Omero a Derek Walcott) che, separandosi dalla propria dimora abituale e attraversando il caleidoscopio dell’essere e il terrore del nulla, fa ritorno là dov’era già stato in origine, come accade ed è accaduto nella metafisica dell’Occidente, piuttosto qui la parola fa ritorno ad un luogo che non è mai stato, ovvero, ad un luogo di tutti, un luogo-non-luogo in cui ci siamo tutti da sempre, che non fa più questione e non fa più esperienza, un luogo che non è stato mai lasciato ma che ho trovato già fatto e compiuto ed è qui tra noi da sempre, un luogo della in-differenza.
Tutto ciò assume la semplice figura di un’abitudine, di un abitare nel noto, di un prendere atto del noto e del notorio, di una in-differenza dove non si può fare alcuna esperienza di ciò che già sappiamo.
Pensare il negativum (la Voce) in quanto tale senza rimarcarne il fondamento e per, eticamente, semplicemente, abitualmente oltrepassare l’essere e guadagnare l’avere, non più presupporre la finzione di un inizio, di uno svolgimento e la fine di un qualcosa che definisca e richiami a un qualche ritorno.
Qui, mi trovo in consonanza con il pensiero di Agamben: quell’esperienza «abissale», sintagma tipicamente heideggeriano, e che in Heidegger ha a che fare con l’esperienza radicale della morte, dunque dell’Essere, viene, da Agamben, radicalmente ribaltata: non solo essa non ha più a che fare con la chiamata della morte e con l’Essere, ma – di più – da esperienza «abissale» essa, come esperienza del «semplice» svanire, deve farsi abitudine, esperienza abituale, abitazione nel noto, etica, abitazione del poetico.
(Giorgio Linguaglossa)

giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm
Lucio Mayoor Tosi
La strada è in vetrina. Qualcuno passa, qualcuno c’era.
Verità dura un attimo. Da che ricordo, anche meno.
E io sono crudele. Uccido a piacimento dove mancano parole.
Confido che nessuno lo verrà a sapere.
Il puro sguardo piange e non piange.
Sai bene che Lucy ormai vive solo di poesia, e solo
con Mario M. Gabriele. Non sa dove altrimenti
nascondere gli optional del mestiere, se in cofanetto
la ceralacca dei baci, oppure nel sottosuolo.
Al giudizio universale manca sempre una postilla.
Marina Petrillo
Non tacque l’ultimo senso e affidò il tramite
all’indulgere di silenziosi Astri.
Remoto atto creante in riverbero
straniato ad infinito, algoritmo di Sé stesso
in sibilante ascesa, grembo saturo di onniscienza
velata di solitudini albescenti.
Si diede orma dal rilucente
in forma nulla all’eterno respiro sino a meditare
la capienza in vasi contenenti l’Universo
ed esplodere Tutto in Amore subitaneo
all’urgente multiplo della perfezione.
In inciampo non avverso al divino spense sorriso
unico, il sole e, ovvio alla luce, vegetò la Creatura Prima.
Immemore di essere, reminiscente al calco infuso a conoscenza
Chimera effimera nel vuoto della caduta incarnata a suo precipizio.

giorgio ortona, ritratto di Letizia Leone, 2012, olio su tavola, 59,8 x 35,6 cm
Giorgio Agamben
Stralci da Il linguaggio e la morte
Come dobbiamo pensare l’Ereignis nella prospettiva del nostro seminario? La coappartenenza e l’intreccio di essere e tempo sono stati qui posti in luce come l’aver-luogo del linguaggio nel tempo, cioè come Voce. Nell’Ereignis, potremmo allora dire, Heidegger tenta di pensare la Voce in se stessa, non più semplicemente come mera struttura logico-differenziale e come relazione puramente negativa di essere e tempo, ma come ciò che dà e accorda essere e tempo.
Egli tenta, cioè, di pensare la Voce assolta dalla negatività, la Voce assoluta. La parola Ereignis, nell’accezione heideggeriana, è semanticamente prossima alla parola Assoluto: in essa occorre, infatti, intendere lo eignen, il proprio, come in Assoluto il sé e il suo.
Ereignis potrebbe valere, in questo senso, quando as-sue-fazione, as-so-luzione. La reciproca appropriazione di essere e tempo che ha luogonell’
Ereignis è, anche, una reciproca assoluzione, che li scioglie da ogni relatività e mostra la loro relazione come la relazione assoluta, la relazione di tutte le relazioni. […] Per questo Heidegger può scrivere che, nell’Ereignis, egli cerca di pensare “l’essere senza riguardo all’essente” – cioè, nei termini del nostro seminario,l’aver-luogo del linguaggio senza riguardo a ciò che, in questo aver-luogo, è detto, formulato in proposizioni.
(G. Agamben, Il linguaggio e la morte, p.127)
La domanda che dobbiamo porre a questo punto è: è possibile una tale assoluzione e assuefazione della Voce? È possibile assolvere la Voce dalla sia costitutiva negatività, pensare la Voce assolutamente? Tutto si decide dalla risposta che diamo a queste domande. Quel che, tuttavia, possiamo già anticipare, è che l’ Ereignis non sembra essersi integralmente sciolto dalla negatività e dall’indicibile. “Noi non possiamo mai rappresentarci l’Ereignis”; “l’Ereignis non è né si dà”; esso è nominabile solo come un pronome, come l’ Esso (Es) o come il Quello (Jenes) “che ha destinato le diverse figure dell’essere epocale”, ma che, in se stesso, è “non storico, meglio: senza destino”. Anche qui, come nell’Assoluto hegeliano, nel punto in cui, nell’Ereignis, il destinante si rivela come il proprio, la storia dell’essere giunge alla fine […] e, al pensiero, non resta letteralmente null’altro da dire e da pensare che questa “assuefazione”. Ma questa è, nella sua essenza, una espropriazione (Enteignis) e un nascondimento (Verbegung) che, ora, non si nasconde più, non è più celato in figure storiche e in parole, ma si mostra come tale: puro destinar-sé senza destino, puro obliar-sé dell’inizio. Nell’Ereignis, possiamo dire, la Voce mostra sé come ciò che, restando non detto e insignificato in ogni parola e in ogni tramandamento storico,destina l’uomo alla storia e alla significazione, come il tramandamento indicibile che fonda ogni tradizione e ogni parola umana.
Solo in questo modo la metafisica può pensare l’ethos, la dimora abituale dell’uomo.
(G. Agamben, op. cit. p.128)
In Heidegger, la figura dell’umanità as-sue-fatta, cioè post-storica, resta ambigua. Da una parte, infatti, che nell’Ereignis avvenga lo stesso nascondimento dell’essere, ma non più celato in una figura epocale e, quindi, senza più destinazione storica, può soltanto significare, se ben si riflette, che l’essere è, ora, definitivamente obliterato e che la sua storia, come Heidegger ripete, è finita. Dall’altra, Heidegger scrive che vi sono ancora, nell’Ereignis, possibilità di disvelamento che il pensiero non può esaurire e, quindi, ancora destinazioni storiche; inoltre l’uomo sembra qui avere ancora, in verità, la figura del mortale parlante. L’Ereignis è, anzi, proprio ilmovimento che porta il linguaggio come Sage alla parola umana. In questo senso, “ogni linguaggio autentico (eigentlich) – in quanto è, attraverso il movimento della Sage, assegnato all’uomo – è destinato (geschickt) e, perciò, destinale (geschicklich)”. Il linguaggio umano, pur non essendo più qui legato ad alcuna natura, resta destinato e storico.
(p. 130)
Poiché tanto l’Assoluto che l’ Ereignis sono orientati verso un esser stato, un Gewesen, di cui rappresentano la consumazione, i lineamenti di una umanità veramente assolta, as-sue-fatta – cioè integralmente senza destino – restano, in entrambi, nell’ombra.
(p. 130)
Assuefazione, assoluzione, ombra, per Agamben sono parole semanticamente contigue. L’essere si trasduce e traduce allora nell’avere, nell’habitus, nella veste modale: «la stessa prassi sociale, la stessa parola umana divenute trasparenti a se stesse».
(p. 133).
Per questo, se volessimo caratterizzare l’orizzonte del seminario rispetto all’esser stato in Hegel e in Heidegger, potremmo dire che il pensiero si orienta qui piuttosto in direzione di un mai stato. Il seminario pensa, cioè, a partire dalla definitiva cancellazione della Voce, pensa la Voce come mai stata, non pensa più la Voce, il tramandamento indicibile. Il suo luogo è l’ethos, la dimora in-fantile – cioè senza volontà e senza Voce – dell’uomo nel linguaggio. Questa dimora – la figura di una storia e di una parola universali e mai state, che non si destinano, perciò, più in un tramandamento e in una grammatica – è ciò che resta, qui, da pensare.
(pp. 130-131)
Poiché la poetry kitchen nutre tanti sospetti di poesia facile e leggera, io mi permetterei di attirare l’attenzione dei lettori sulla estrema difficoltà che comporta la scrittura di una poesia kitchen. È proprio l’opposto di quanto si crede ingenuamente.
Perché non pensare ad una anti-soap-poetry? Perché non portare la Promesse du Bonheur a tutti come normalità della dimensione della felicità contraffatta, dimensione indirizzata stabilmente verso la Lichtung della infelicità generale? Dimensione al di là della prassi? Ci troviamo in quella che Wolfgang Welsch chiama la «de-realizzazione della realtà».1 L’Arte, nell’accezione hegeliana e romantica, scende dal suo piedistallo per entrare nella catena di montaggio della comunicazione mediatica di massa e nell’industria della obsolescenza culturale programmata e non, tanto è vero che gran parte dell’arte di oggi è arte ad obsolescenza programmata, arte a termine con tanto di euforia per la fine dell’arte. Si pensi alla Gioconda di Leonardo, l’opera più riprodotta del patrimonio artistico occidentale: dagli ironici baffi di Marcel Duchamp alle moltiplicazioni dei barattoli di Andy Warhol fino alle svariate immagini pubblicitarie che ci circondano, alle immagini seriali riprese e diffuse dai media. L’arte dismette la sua aura, cessa di essere un capolavoro venerabile e distante per diventare un’immagine prossima e familiare. L’oggetto-arte si trasforma sempre più in evento quotidiano e l’attenzione si sposta verso il contesto sociale e antropologico della civiltà moderna.2
L’homo aestheticus è diventato il modello di riferimento. L’estetica è diventata un paradigma ermeneutico della trans-modernità, una disciplina transeunte in grado di rendere ragione del superamento in senso trans-disciplinare e trans-genico che caratterizza la produzione dell’arte odierna. L’iperestetica si presta ad essere il luogo ermeneutico della baumiana «modernità liquida» in cui viviamo, improntata ad un continuo andare oltre.
1 W. Welsch, Aesthetics beyond Aesthetics (1995), poi in Id., Undoing Aesthetics, Lon-don, Sage, 1997, pp. 85-86; il saggio è consultabile anche online [http://www2.uni-jena.de/welsch/ Papers/beyond.html].
2 Il «simulacro», per Baudrillard, è un’immagine priva di prototipo, l’immagine di qual-cosa che non esiste. Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 2007, e anche M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, Cappelli, 1980, p. 122. Secondo Baudrillard, il sistema dei segni sostituisce la fisicità delle merci e le dissocia dai bisogni che avrebbero dovuto soddisfare. Si determina così una società della simulazione in cui i parchi a tema, i centri commerciali, i reality show divengono autoreferenzialie si trasformano in un caleidoscopico gioco di immagini rifesse. Il simulacro sostituisce progressivamente la realtà, rispetto alla quale appare più stimolante e attraente. Basta en-trare in un centro commerciale per accorgersi che tutto è illusione: le piazze, le aiuole, lanatura, la socialità, la confortante situazione di sicurezza, l’appagamento visivo. Cfr. Id., Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Bologna, Cappelli, 2008.
Cfr. Fabrizio Desideri (No aesthetics without meta-aesthetics, in Dopo l’estetica, cit., p. 67) che formula l’ipotesi di una “meta-estetica”. Lo studioso individua i confini verticali dell’oggetto di studio nel «territorio problematico che l’estetica scopre come qualcosa di concettualmente specifico e irriducibile» e, in particolare, nel «problema della genesi dell’estetico nel paesaggio umano», in relazione ai vincoli ambientali e ai presupposti psico-antropologici e i confini orizzontali nella riconfigurazione dell’estetica in rapporto alle altre discipline filosofiche («in particolare all’ontologia, all’etica, alla filosofia della mente e a quella del linguaggio»)
È vero: la poesia è esperienza, ciò non toglie che ci sia una valutazione di tipo estetico. Mi sono piaciuti i dipinti di Ortona.
I dipinti di Giorgio Ortona sono poetici e allo stesso tempo narrativi,mi piacciono. Il tema trattato li lega alla realtà, la resa pittorica li trasporta nell’attimo tra veglia e sonno. Nei guanti indossati da Letizia Leone c’è la storia di una giornata, ma anche la ‘resa’ alla poesia di ogni gesto umano che entri nella trama del mondo. ‘Abitare il poetico’ per restare umani?
Un pensiero sulla poetry kitchen
La filosofia dell’arte è giunta a rivelare, dalla “Fontana” di Duchamp in poi, come un qualsiasi oggetto quotidiano può diventare arte. Allora, non serve necessariamente decontestualizzare l’oggetto o defunzionalizzarlo, e neppure esporlo in un luogo o in un momento determinato, dacché l’unico gesto che conta non è affatto un happening o una performance – roba per chi non si è ancora liberato del plebeo gusto dello spettacolo circense – bensì il fatto mentale, l’idea, la volontà, la pura essenza del fatto arte.
Solo così tutto può ri-diventare finalmente arte senza toccare nulla della realtà materiale, delle sue proprietà, dei suoi usi, delle sue funzioni pragmatiche.
Solo così è la piena, finale attualizzazione dell’arte che restituisce alla realtà la sua piena, originaria pienezza, come all’alba della storia, quando ogni cosa poteva essere arte, anzi, era arte.
Ci vuole un grande coraggio per decretare questo definitivo fiat iperbolico: il mondo come ready made, mi correggo, il ready made come mondo.
Wittgenstein nei suoi scritti non cerca mai di convincere i suoi lettori, piuttosto si limita a proporre delle questioni. Implicitamente chiede al lettore di rispondere.
Significativo è questo appunto:
Questo libro è scritto per coloro che guardano con amichevolezza allo spirito in cui è scritto […]. Se dico che il mio libro è destinato solo ad una piccola cerchia di persone (se così la si può chiamare), non voglio dire, con questo, che, per me, tale cerchia sia l’élite dell’umanità; sono però le persone cui mi rivolgo, e non perché migliori o peggiori delle altre, ma perché formano la mia cerchia culturale, in certo modo sono gli uomini dalla mia patria, a differenza degli altri che mi sono stranieri
(Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, p. 24, ss.).
Analogamente, se non si capisce che qualsiasi «real object» può essere «ready made» e può diventare arte per il solo fatto di inserirlo in un certo contesto, non si può capire nulla della poetry kitchen sulla soglia della quale il guardiano del faro, Mario M. Gabriele, ci invita ad entrare.
RELOADING MARAT
Il tergicristallo s’è messo in proprio,
così anche la bottiglia dell’acqua minerale.
Niente più Governo e discariche
e per un trita tempeste rivolgere domanda al Sole.
Alcuni colombi hanno appreso il linguaggio post Covid
e mirano ai pini di un milione di gradi come Galileo.
Sarà l’estate ma per riprendere coraggio basta un verso di Tranströmer.
Pillola rossa senza avvertenze sul silenziatore.
Nella battaglia su via Re David c’è uno sciabordio di onde
Arrivano notizie dall’ Egeo: Giasone conduce i suoi contro i colonnelli greci
All’Odeon danno Ecce bombo e Mao confeziona virus per il 2020.
Attraversare l’Arizona tra sparuti cactus
Sull’asfalto un crotalo e spari da una finestra all’ altra.
Dopo i teschi dell’ottantaquattro l’assist dell’ ottanta
infine le due torri del sessantanove
Per conto suo la sensazione di interno nulla
Cunicoli stretti connettono fogne e terrazze
…
Il topo delle Marianne annuncia il Dies Irae
Spingere il sole in olio bollente a confessare: due Agosto
Trizio e deuterio in valigia accanto al dentifricio
Bologna, distante una lancetta ferma, Piazza Fontana.
L’ elio metterà tutti a tacere,
senza anidride carbonica e Chernobyl.
…
La rotatoria fa le dieci e venticinque
Una nebulosa oscura il quadrato del Sole
Da una cantina si affaccia il Minotauro
Pasifae innamorata di un fico.
…
Nel plasma alcuni nomi senza cognome
con l’entropia ad ordinare quark
e una temperatura sotto zero kelvin
che mette i Re al posto dei soldati.
…
L’ elenco in mano a Marat è tecnologia di quanti
Che altro è stato scritto di rilevante?
(Francesco Paolo Intini)
Sulla leggibilità della poesia italiana del ‘900
Meditazioni sottoforma di intervista immaginaria
di
Gino Rago
È ancora leggibile la poesia italiana del Novecento?,
Un rapido colloquio con uno studioso di poesia italiana
Domanda:
A questo punto preciso in cui siamo, cioè prossimi ai quasi 20 anni del Duemila, potremmo forse chiederci senza pudori né remore scolastiche: è leggibile, e in che misura è leggibile, la poesia del Novecento?
Risposta:
La domanda, il dubbio sembrano fatti apposta per parlare di Guido Gozzano. Non solo di lui, ma soprattutto di lui, che con Saba è stato il più “ottocentesco” dei primi poeti del Novecento.
Domanda:
In che senso ?
Risposta:
Nel senso che in loro la modernità, per quanto si annunciasse con chiari segni (culturali, sociali, politici) non è stata un programma. Dietro i loro versi non c’è un’idea nuova di poesia.
Domanda:
Perché, si spieghi meglio…
Risposta:
La loro è anzitutto una situazione personale, che come tale viene descritta in dettaglio e con il minimo di censure letterarie. Dietro la loro poesia c’è un diario, ci sono confessioni, descrizioni dal vero e racconti da mettere in versi che abbiano una riconoscibile musica di versi, anche a costo di sembrare una nostalgica o umoristica parodia della poesia.
Domanda:
Saba e Gozzano, sono tante le analogie fra i due?
Risposta:
Le analogie fra Gozzano e Saba tuttavia finiscono presto: si limitano al loro istinto di trascinare l’Ottocento nel Novecento, ripeto l’Ottocento nel Novecento, un Ottocento piuttosto innocente, visto in una luce di crepuscolo benché evocato con un nitore da riproduzione fotografica.
Con queste ultime parole mi riferisco più a Gozzano che a Saba. E’ Gozzano che parla di pirografie, di cartoline, di dagherrotipi.
Domanda:
Volendo soffermarci su Gozzano, in tanti hanno parlato di alto grado di leggibilità della sua poesia.
Risposta:
L’alto grado di leggibilità di Gozzano è dovuto a procedimenti visivi minuziosamente descrittivi, da novella versificata.
L’intero repertorio stilistico della narrativa viene trasferito in un genere di poesia che tende irresistibilmente al poemetto: c’è una scenografia, è in corso una scena, ci sono personaggi, incontri, dialoghi, episodi e aneddoti.
Domanda:
Forse anche con un pizzico di psicologia.
Risposta:
Sì, ma c’è quella psicologia che è necessaria sia al ritratto sia alla introspezione del personaggio-poeta.
Domanda:
Si riferisce a La signorina Felicita.
Risposta:
E’ proprio quella psicologia sulla introspezione del personaggio-poeta che fa della composizione più famosa di Gozzano, La signorina Felicita, ovvero la Felicità, una novella in versi romantica “fuori tempo”, con la perfetta, forse troppo perfetta, tipizzazione della ragazza semplice e dell’avvocato sognatore, sentimentale sì ma incapace di sentimenti.
Domanda:
D’Annunzio e Pascoli sullo sfondo.
Risposta:
Appena un passo più in là rispetto al voracissimo esteta D’Annunzio, e a Pascoli, quasi un sismografo letterario iperpercettivo e insieme ossessivo.
Domanda:
Quindi Gozzano è con loro…
Risposta:
Gozzano è lì con loro ed è altrove. È meno letterato e più borghese. Non è né un malato professore di lettere né un avventuriero a caccia di piaceri inimitabili. Metricamente è meno curato, esibisce una certa nonchalance o inabilità formale.
Domanda:
Gozzano rispetto a Pascoli.
Risposta:
Il principe dei critici stilistici italiani, Gianfranco Contini, nota che le capacità tecniche di Gozzano, che a qualcuno sono sembrate o possono sembrare virtuosistiche, risultano abbastanza approssimative se confrontate con quelle eccezionalmente colte di Pascoli.
Domanda:
Vale soltanto per Gozzano verso Pascoli?
Risposta:
I poeti del Novecento italiano, che hanno spesso voluto presentarsi formalisticamente sofisticati, mostrano di aver perso competenza metrica, anche se cercano a volte di ottenere effetti di sorpresa violando regole che non erano più capaci di padroneggiare (la stessa cosa si può dire per la musica e soprattutto per le arti visive).
Domanda:
Tanta critica riconosce ancora a Gozzano un forte patrimonio di risorse comunicative.
Risposta:
Le risorse comunicative di Gozzano sono dovute a un esperimento riuscito nell’accostare, magari con qualche intenzionale goffaggine, il prosastico e il poetico, il parlato borghese e un’ostentata vocalità metrica. È come se scrivesse recitando da letterato, ma per essere letto anche, se non soprattutto, da non letterati.
La sua poesia, i suoi versi allestiscono una perfetta messa in scena, un teatro al quale il lettore-spettatore non può resistere.
Basta citare poche strofe e si entra subito nel gioco, in medias res, davvero in mezzo alle cose, ai fatti, letteralmente, secondo la regola che Orazio prescrive al poeta epico.
Domanda:
E infatti: “Signorina Felicita a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa…”
Risposta:
E così per stare al suo gioco… scende il ricordo nel cuore amico e poi la cerulea Dora, e Ivrea… E il dolce paese che non dico.
Domanda:
E su Saba?
Risposta:
Se Lei vuole, di Saba parleremo in qualche altra occasione, ora sto per andare a Nemi, per la sagra delle fragole…
*
Gino Rago
Tutto l’occorrente
L’assistente di volo ha l’occhio clinico
e tutto l’occorrente per la sala operatoria.
«Se vedessi uno così salendo sull’aereo, mi sentirei nudo
correrei a mettermi il cappotto.»
prima di stipare l’incontinenza nella cappelliera.
Il raccolto scarso di stagione spoglia un contadino, a Sambacanou, del suo QI nominale.
L’amica geniale è quella che disegna scarpe
per camminarci in lungo e in largo dentro i buchi neri.
A che altezza va fissato il nero di seppia affinché non coli giù
fino a trasgredire l’emergenza biancolatte estiva?
«Stavo pensando di aprire un’altra carta N26. È gratuita
e mi piace sparpagliare i nostri pochi euro sui circuiti digitali.»
Distanze. Sbalzi. Brulichii. Da coprire con l’aggressività ’60.
Ogni giorno una famiglia sbologna un metro quadro in più d’ombrìa.
31/07/2020
Un oggetto può essere arte a intermittenza?
Adesso sì, tra un minuto, no? – Un oggetto può essere un semplice oggetto nella vita di relazione («real things») e poi diventare un oggetto d’arte allorché viene posto in una teca, su un podio, in una vetrina di museo, in una vetrina da bar, nella teca di una galleria, etc.?
Così, una frase giornalistica, un evento di cronaca come quello dei 5 milioni e trecentomila euro del conto dormiente alle Bahamas del governatore della Lombardia, Fontana, può diventare un oggetto d’arte se e quando verrà inserito in una mia (o di altri) poesia? Che cosa è il differenziale che decide se esso sia arte o non-arte? –
È questo quello che fa la poetry kitchen: prende un oggetto o un evento della cronaca e lo traspone in un’opera poetica. E diventa, in virtù di questo semplice atto del creatore, un oggetto d’arte.
È squisitamente poetry kitchen la consapevolezza dell’evanescenza dei limiti tra un oggetto o evento della cronaca e un oggetto o evento d’arte.
Quella consapevolezza vivissima (possiamo dire quasi poetry kitchen) che guida Gozzano nello scrivere La signorina felicita con l’inserimento di una invenzione, un vero e proprio ready made per l’epoca, la Signorina Felicita in presa diretta, dalla vita domestica al quadretto post-idillico della poesia gozzaniana, fantesca e amante del giovane avvocato senza speranze e senza virtù.
da Les choses de la vie
di Marie Laure Colasson, un inedito, il n. 33
33.
Un clown pailleté d’un cirque en déroute
ignore le monde qui s’écroule autour de lui
Eredia tient sa tristesse à distance
met un masque pour déguiser son angoisse
Les yeux émerveillés Edith regarde une plume blanche
suspendue entre ciel et terre
La blanche geisha à fleur de rêve
écarte les ombres qui dansent sur le sol
Un fou sanguinaire en quête de mort
fait jouer les ressorts cachés de son triomphe
tourbillon entrechoquement d’objects isolés
un violon luisant un ventilateur argenté
un vase d’excrément un archet des cordes des poignards
tout conspire aux raffinements de la cruauté
Eredia la blanche geisha Edith entrainent le clown
loins du terrificant fracas métallique
ne laissant à terre que fragments décousus
*
Un clown con la paillette d’un circo in rovina
ignora il mondo che crolla attorno a lui
Eredia tiene la tristezza a distanza
indossa una maschera per dissimulare l’angoscia
Gli occhi stupefatti Edith guarda una piuma bianca
sospesa tra cielo e terra
La bianca geisha ai fiori di sogno
scarta le ombre che danzano sulla strada
Un folle sanguinario cerca la morte
fa giocare i resort nascosti dal suo trionfo
Vortici intersezioni di oggetti isolati
un violino lucido un ventilatore argentato
Un vaso d’escrementi un archetto delle corde di pugnali
tutto cospira alla raffinatezza della crudeltà
Eredia la bianca geisha Edith trascinano il clown
lontano dal terrificante fracasso metallico
non lasciando a terra che frammenti scuciti
ma io entrerò limpido nella mia lingua natale,
tutto così dolcemente, e così assolato – che acceca!
( agosto 2011)
produttore di carta straccia
( a Gozzano)
Guido mi felicito con Te perché non hai una corazza esangue
e sei solo un produttore di cartastraccia per una signorina
che non amavi affatto… e non l’amavi per un rimpianto acerbo,
né per altro dissentire dalla sua voce la finzione di un falsetto.
E hai messo sottaceto il cuore e in formalina il suo lacrimare
quando più o meno tardi scopristi la rossastra ironia della Tua gola,
e cantavi all’alba scellerata gli occhi dal rifugio di una Speranza!
Due strade e due talismani per un errore di principessa!
Aspiravi agli aromi del caffè, non ai versi e ai colloqui di Arianna!
E la cucina si rivestiva di fiammingo per una cocotte di Maddalena
quando Pinocchio fiutava allo specchio le cosce della marchesa!
E come un reduce dagli stermini pensavi all’oscena Ketty
tra i saloni tisici della villa di Meleto… e qui sognavi di Amalia
l’ultima traccia, un altare del passato e le soglie e i gradini,
e non pensava lei a Federico – mai per le collane di falso lauro!
ma alle bacche del tasso e al liberty d’armille e ai ceri spenti.
Guido, hai mancato gli anni del Cristo per solo un anno!
Per una manciata di mesi hai evitato l’Imitazione!
Non ti sarebbe piaciuta questo genere di Felicità!
Ma non sei già stufo del tuo sboccato sangue?
Antonio Sagredo
Maruggio/Campomarino, 28 giugno 2012
Titolo:
Piange un carico di matrimoni sfitti.
Sta per entrare in chiesa. Sto per entrare in chiesa.
Un tempietto romantico, retto su quattro cariatidi femminili
a tutto tondo, posto in un dipinto celeste.
Cinema e gelato. Poi all’aperto, lontani, come dentro
un Monet.
.
Il cancro in gola, dove l’hai letto?
Un groviglio di prospettive da film Avatar.
Il grosso naso di una vacca cincischia tra l’erba,
la lingua si porta via il paesaggio.
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Treni e burattini un tempo funzionanti ruotano nello sguardo
di un blocco di cemento; posto per metà sott’acqua, immortalato
sul punto di accendersi una sigaretta.
.
Quattro caravelle, quattro cariatidi, quattro mariti.
La prima spesa alla Migro.
Il cappuccio tondo dei giochi al ribasso. Una cavolata.
Poi siamo morti.
.
– Nella foresta dei tuoi archi abbiamo trovato casa.
Ma tu eri cielo, io senza mani.
Nessuna distanza attorno. Gelsomini su ogni porta.
Odore piscio di zafferano. Quante avventure!
.
All’orecchio sospirano le canzoni Non ti voglio
e Siamo paradiso.
Abbiamo sognato momenti di quiete. E nel sonno
ci perdevamo.
.
Tra le quattro donne cariatidi, capita il Principe Azzurro.
Tutto inzaccherato (piove sempre).
L’amarezza di vederti morte che ci attraversi.
E’ un’aria lenta. Stridula.
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Tentiamo il sorpasso ma d’improvviso fa buio.
Streghe in automobile contano le ore al Millionaire.
Vedi scorrere il Danubio. Rangers del Minnesota a cavallo.
Piazze d’Africa.
Parole cadute dal frigo. Vetri dappertutto.
– Preferisco i cavalli.
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Capisci perché lasciarci?
Siamo già perduti. Lo siamo sempre stati.
– Non buttare la cicca nella pozzanghera.
Così, bene.
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L’anima di un defunto obeso fa le sue abluzioni,
pieno di rancore perché la moglie lo ha lasciato
E noi a ridere. Finisce tutto, tutto finisce. Siamo liberi.
Liberi e peccaminosi. Lasciamoci.
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La sigla parte con promesse di commossa felicità.
Il mondo è dove giocavamo appesi alle piante.
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Come tante fiamme la gente arancione gioisce.
Sogni una casa sull’acqua.
Tante persone dicono grazie.
(May – ago 2020)
caro Lucio,
ho ripreso la tua poesia e l’ho riproposta in un post apposito programmato per il 28 agosto alle ore 8,30 dedicato all’approfondimento della cd. Poetry kitchen.
comunico che dal 10 agosto (data dell’ultimo post utile la rivista dormirà fino al 28 agosto).
Auguro a tutti un riposo sereno e una febbrile creatività, il Paese ne ha bisogno.