Mini Antologia di Poetry kitchen, Poesie di Gino Rago, Guido Galdini, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa, Giovanni Giudici, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa 

Marie Laure Colasson ZY Struttura dissipativa acrilico 50x50 cm, 2020

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa ZX 30×80 cm, acrilico su tavola, 2020

Qui Marie Laure Colasson fa esperienza originaria del linguaggio del colore. Fare esperienza originaria del linguaggio (dunque della storia) come linguaggio del colore è fare esperienza del gioco del colore. Esperienza, linguaggio e in-fanzia (il non-colore) coincidono in quanto origine. Origine, esperienza e linguaggio coincidono in quanto in-fanzia del non-colore; origine, esperienza e in-fanzia del non-colore coincidono in quanto linguaggio.
In origine, linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto gioco, esperienza fondamentale.
È questa coincidenza confluenza nel gioco ciò che consente il dispiegamento della ‘storia’, a fondare la possibilità che vi sia qualcosa come una ‘storia’ e un significato. L’in-colore, ovvero il fatto che l’uomo non sia sempre già (stato) un parlante, che il linguaggio giunga all’uomo dall’esterno, dall’altro,  scindendosi e articolandosi in lingua-e-discorso, semiotico-e-semantico, essenza-ed-esistenza, si annuncia come quel luogo che, indugiando sulla soglia, al limite delle scissioni, nel loro punto d’insorgenza, inaugura la loro destituzione nella forma della di loro originaria esperienza, nell’esperienza del gioco, cioè nella forma dell’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. In questo modo essa, l’in-fanzia, il non-colore acquista colore, profondità e storicità e può fare esperienza dell’origine della differenza in quanto esperienza fondamentale. Ciò che implica, anche, esperienza della storicità.
«Se noi non possiamo accedere all’infanzia senza urtarci al linguaggio che sembra custodirne l’ingresso come l’angelo con la spada fiammeggiante la soglia dell’Eden, il problema dell’esperienza come patria originale dell’uomo diventa allora quello dell’origine del linguaggio, nella sua doppia realtà di lingua e parola». (G. Agamben, Infanzia e storia, p. 47) 
(Giorgio Linguaglossa)

Gino Rago

Gino Rago è nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore della Rivista on line “L’Ombra delle Parole”.

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Storie di Passages n. 1

La caffettiera di van Gogh
per tutta la notte ha litigato con il manichino di de Chirico.
Diceva che lei almeno sa fare il caffè, invece un manichino
è solo un manichino.

Allora, è successo che De Chirico
si è spazientito e ha disegnato un sole con i raggi
che si mette in cammino, attraversa a piedi le montagne e le nuvole
entra nell’atelier di Marie Laure Colasson,
si ferma allarmato davanti ad una “Struttura dissipativa” della pittrice
posta sul cavalletto.
e chiede: «E questo cos’è?»,
domanda che ha molto seccato la pittrice francese la quale per ripicca
lo ha punzecchiato con una forcina per i capelli
dicendogli che era uno spazzacamino, un presuntuoso, un leghista, un feticista
e un fascista…

Squilla il telefono al 6° piano di via Domodossola n. 25.
Sylvie Vartan parla con George Perec.
«Monsieur Perec, c’è un figuro che ci segue,
dice che abita nel futuro e che è capitato per sbaglio
nel presente».

«È Jèrôme Lapalisse, di professione crittografo, di mestiere ammazza parole
e aggiustalampadari.
Abita nel condominio al numero 11 di Rue Simon-Crubellier…
Tappeti Bukhara, due dobermann, libri rilegati in pelle,
porcellane cinesi, uccelli esotici, un pappagallo gialloverde del Madagascar,
tavolini africani in mogano».

Jèrôme Lapalisse a Sylvie Vartan:
«Madame, quella signora elegante ci osserva».

George Perec:
«È Madame Colasson, pittrice, vive a Roma,
ogni tanto torna ai passages, nei boulevard, passeggia con dei foulard colorati,
si ferma sempre davanti alle pasticcerie,
pensa che il segreto delle sue “Strutture dissipative”
sia racchiuso nelle torte con la panna…».

 

[Ecco un tipico esempio di poesia con oggetto, o poesia sull’oggetto, cmq poesia oggettiva, che altro non è che una poesia pensata come uno stampo mimetico-realistico dell’oggetto, che gira intorno all’oggetto…]

Giovanni Giudici (1924-2011)

Descrizione della mia morte

Poiché era ormai una questione di ore
Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
Era arrivato l’avviso di presentarmi
Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
L’avvenimento era importante ma non grave.
Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista
E che si esorta: sii uomo, non è niente.
Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro?
Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era
Quello che normalmente penso che dovrà essere,
Ma nel paese vicino al mio paese
Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
C’era un bel sole non caldo, poca gente,
L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica,
Disse: prego di là – dove la cassa era pronta,
Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,
E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato,
Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio
Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
Sarà meno d’un attimo – mi assicurò la signora.
Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
Era una specie di garrota o altro patibolo.
Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
Domandando se mi avrebbero rasato
Come uno che vidi operato inutilmente.
La donna scosse la testa: non sarà niente,
Non è un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
Che importa anche se era questione solo di ore.
C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.

(da O Beatrice, 1972)

Marie Laure Colasson

caro Gino,

questa volta ti meriti i miei complimenti, hai raggiunto la légéreté tipicamente francese che consente di rendere più leggera una realtà in sé asfissiante e l’hai trasposta nella poesia italiana come meglio non si poteva,
Ha ragione Lucio Mayoor Tosi quando dice che la tua poesia è di stampo giornalistico, è vero, e ben venga finalmente una poesia che impiega il linguaggio dei rotocalchi e lo converte in opere letterarie. La poesia di Giudici postata sopra era un tentativo di scrivere una poesia giornalistica, purtroppo non riuscito; al contrario, il tuo tentativo è, a mio avviso, riuscito. Se Giudici avesse scritto la poesia invertendo gli addendi, cioè mettendo la morte che osserva e descrive l’io, avrebbe ottenuto risultati migliori, ma le sue convinzioni neoveriste non gli consentivano neanche di immaginare un tale salto immaginativo. Un bravo anche al pittore Giorgio Ortona. È problematico per un pittore fare oggi un ritratto di figura umana per tantissimi motivi che non sto qui a ripetere. Ma lui c’è riuscito in modo brillante. Io ci vedo anche un lontano ricordo di Bacon. Ma è che dopo Bacon fare un ritratto o autoritratto è diventato ancor più problematico. L’autoritratto è come una poesia lirica, un racconto dell’io sull’io. Qualcosa sfugge sempre. E allora devi inseguire ciò che sfugge. 

Guido Galdini

Limericks (o pressappoco)

Non sono rigorosi, né in termine di numero di versi né di metrica. Oltretutto i protagonisti non sono i soliti (young lady e old man), l’unico vezzo è di rimare talvolta il protagonista con la località.
Spero che rimanga comunque qualche briciola di nonsense.

c’era un interstizio di Busto Arsizio
che non sapeva come colmare il suo poco spazio
ha provato coi materiali più disparati
sacchi di cenere piume conglomerati
ma tutti nessuno escluso appena versati
sfuggivano come se fossero indemoniati
così è rimasto vuoto ed in grande strazio
quell’interstizio afflitto di Busto Arsizio.

*

c’era un cervo di Capriolo
che fu colto da un problema di ruolo
quando vide un capriolo di Cervo
sobbalzò fino all’ultimo nervo
quel confuso capricervo di Cerviolo.

Nota: Capriolo è un comune in provincia di Brescia, Cervo un comune in provincia di Imperia

*

c’era un matematico di Piancamuno
che non sapeva la tabellina dell’uno
e si sussurra con un’aria di mistero
forse nemmeno quella dello zero
mentre l’altra di meno infinito
era invece il suo argomento preferito.

*

c’era un anniversario di Vicenza
che di sé aveva piena coscienza
e con santa pazienza
aspettava la propria ricorrenza
quell’anniversario preciso di Vicenza.

*

c’era un mollusco minuscolo di Erbusco
il cui modo di fare era così brusco
che dopo averlo cucinato con il pesto
è rimasto per ripicca tanto indigesto
che a digerirlo c’è voluto un intero lustro
quel mollusco insopportabile di Erbusco.

*

c’era una famiglia di Ventimiglia
che era fatta soltanto da una figlia
sola sola passeggiava fino a sera
per incontrare un’altra figlia di Bordighera
ma poi insieme non combinavano mai niente
quelle due figlie della riviera di ponente.

 


Lucio Mayoor Tosi

Google park

Studenti all’uscita di scuola. Indossano grembiuli azzurri,
colletto bianco e sono di diverse altezze.

Tutti a vedere le acrobazie dell’aeroplanino rosso
dentro l’antebus del rifacimento televisivo.

“TV color 2020”. Buffi gelati, che si sbucciano all’aria.
Xi Jinping fa sparire monetine di simil oro in bocca.

Ride. Google park s’infetta di granellini e musica gialla,
che cambia colore quando finisce.

Quando meno te l’aspetti, se li metti in tasca
alcuni riprendono a suonare.

Il viceministro della scuola spiega come fosse possibile,
nel 1990, creare montaggi dove qualcuno appare a parla.

Con quelle giacche buffe di traverso.

Giuseppe Talìa

 Giuseppe Talìa (pseudonimo di Giuseppe Panetta) nasce in Calabria, a Ferruzzano (RC), nel 1964. Vive a Firenze e lavora come Tutor Organizzatore nel Corso di Studi in Scienze della Formazione Primaria, Dipartimento FORLILPSI. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Le Vocali Vissute, (1999); Thalìa, (2008); Salumida, (2010); La Musa Last Minute, (2018). Presente in diverse antologie e riviste letterarie tra le quali si ricordano, I sentieri del Tempo Ostinato – Dieci poeti italiani in Polonia (2011); Come è Finita la Guerra di Troia non Ricordo (2016). Quest’ultima pubblicata, a cura di Giorgio Linguaglossa, in edizione bilingue da Chelsea Edition, New York 2019, con il titolo How the Trojan War Ended I Dont’ Remember. La silloge Thalìa esce in versione bilingue negli Stati Uniti d’America per Xenos Books – Chelsea Editions Collaboration, California, U.S.A. 2017, con le traduzioni di Nehemiah H. Brown. Ha pubblicato, inoltre, due libri sulla formazione del personale scolastico, L’integrazione e la Valorizzazione delle Differenze, marzo 2011; Progettazione di Unità di Competenza per il Curricolo Verticale: esperienze di autoformazione in rete, Edizioni La Medicea, Firenze 2013.

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Caro Germanico, bisogna sistemare Caproni
Spargere le ceneri di Gramsci nell’aria Satura

Sotto il pitosforo nano del belletto minimal-chic
Dove non cresce oramai che il trifoglio di Malvoglio.

Tu sai, Germanico, quanto i Fortini della politica
Discendenti di Ascanio, dalla Suburra abbiano

Tratto giovamento fin dal regno di Numa Pompilio.
Quanto il “finger food” e lo “street food” siano degni

Del castrato in salsa di cipolla e tortelli di piccione.
Bisogna sistemare Caproni, rileggere il sessanta

E il settanta, capire perché sia fallita l’osteria familistica
I buoni contorni una volta saltati in padella di ghisa

Per l’odierna smania nervosa verso l’antiaderente.

Giorgio Linguaglossa

caro Tallia,

ti scrivo questa missiva tra gli ozi di Capua
e i negozi di Ercolano in compagnia del passito di Pantelleria.

Germanico consuma fast food con Orestilla
la figlia di quel coccodrillo di Fasullo

che si è dato al commercio di schiavi
mentre la sua amante, Gaia Priscilla, si gode

un muscoloso negro d’Egitto, nipote dei Tolomei,
dice il manigoldo, rampollo della nobile stirpe

di Osiride e di Anubi. Che vuoi, l’impero è tanto grande
che un frammento di esso occuperebbe

il Circo Massimo e il Foro di Traiano dell’Urbe.
A proposito, hai notizie del poeta Gino Rago?, sai

sono un po’ preoccupato, ultimamente ha cambiato lo stile
della sua poesia, adesso scrive in distici,

ma la sua Musa risulta alquanto attempata e impettita
come una mercenaria di infimo rango

che impiega il belletto e il soffritto di alghe
per i suoi capelli untuosi…

Per Agamben la poesia è ciò che resta della lingua, dopo che di essa sono state disattivate le normali funzioni comunicative e informative. Pertanto, la lingua della poesia, la lingua che resta, «ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde».1
Nella poesia, intesa come sopravvivenza di una lingua morta, Agamben sottolinea il fatto che in essa si condensano immagini mobili, ma senza vita, anche se è possibile, quasi per incanto, che il poeta le rianimi e che le renda di nuovo canto, musica e voce. Se è vero che parlare e poetare significa fare esperienza della lettera come morte della lingua e della voce, tuttavia il mitologema originale della poesia prevede proprio la memoriale conservazione della voce nella lettera.
Se la poesia è ciò che resta della voce e della lingua nelle morte lettere, le quali però per incantesimo si rianimano, allora la stessa può essere definita come qualcosa di «indistruttibile, che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione». La poesia è costituita da quella lingua che resta «anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet»; questa particolare lingua, infatti, «può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane». Sempre secondo Agamben, memore di una lunga tradizione di riflessione filosofica platonica, la lingua della poesia ha uno stretto rapporto con il nome, definendosi a partire da ciò che chiama, cioè da quell’«elemento della lingua che non discorre e non informa,che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama».3

1 G. Agamben, «Che cosa resta?», in http://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta [dicembre 2018].
2 G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 71-72
3 Id., Che cosa resta?, cit

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma (via Pietro Giordani, 18 – 00145). Di genitori siciliani, nella sua stirpe convivono tracce degli antichi colonizzatori della Sicilia: fenici, cartaginesi, greci, siculi, spagnoli, francesi, arabi. Ha una laurea in Lettere. Per la poesia ha pubblicato nel 1992 pubblica Uccelli (Scettro del Re) e nel 2000 Paradiso (Libreria Croce). Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, insieme a Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte (Libreria Croce, Roma). Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto (LietoColle)Per la saggistica nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980–2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio Pilato, Mimesis, Milano. Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000–2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) Ensemble, Roma, e una antologia della propria poesia bilingue italiano/inglese Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) con Chelsea Editions, New York. Nel 2016 pubblica il romanzo 248 giorni con Achille e la Tartaruga. Nel 2017 esce la monografia critica su Alfredo de Palchi, La poesia di Alfredo de Palchi (Progetto Cultura, Roma) e nel 2018 il saggio Critica della ragione sufficiente e la silloge di poesia Il tedio di Dio, con Progetto Cultura di Roma.  Ha curato l’antologia bilingue, ital/inglese How The Trojan War Ended I Don’t Remember, Chelsea Editions, New York, 2019. Nel 2014 fonda la rivista telematica lombradelleparole.wordpress.com  con la quale, insieme ad altri poeti, ha lanciato  una nouvelle vague, un nuovo modo di pensare la poesia denominata: Nuova Ontologia Estetica. Dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva della filosofia di oggi,  cioè un nuovo paradigma per una poesia della nuova civiltà telematica che teorizza la scomparsa dell’io, l’enunciato poetico nella forma del frammento e del polittico, ovvero, una poesia che contempli la contemporaneità e la  molteplicità di tempi e di spazi entro una unica cornice di poesia. Una forma-poesia come cornice di una molteplicità di fotogrammi e di enunciati.

19 commenti

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19 risposte a “Mini Antologia di Poetry kitchen, Poesie di Gino Rago, Guido Galdini, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa, Giovanni Giudici, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa 

  1. cari amici e interlocutori,

    l’intento di una mini Antologia del nuovo orientamento poetico (verso la poetry kitchen) è utile anzi indispensabile in raffronto al modello-poesia collaudato di Giovanni Giudici (O Beatrice, del 1972), ormai ampiamente scaduto. È come se fossero passati mille anni. O la poesia di Giudici si è invecchiata o siamo invecchiati noi. Quel modello di poesia mimetica o realistica si è esaurita da un pezzo. È finito da un pezzo il modello di riferimento e quel mondo lontano si fa sempre più lontano.
    Io penso che siamo ringiovaniti, e che abbiamo ringiovanito la poesia italiana.
    Come scrive Giuseppe Panetta:

    caro Germanico, bisogna sistemare Caproni
    Spargere le ceneri di Gramsci nell’aria Satura

    È tutto un mondo (la tradizione come Ueberlieferung e Tradizion) che è finito. Il cestino della storia è sempre pieno di scarti e di rimasugli di cibo mal digerito, ma la storia va avanti, tritura e stritola chi gli sbarra la strada, senza esitazione e memoria.

    È che oggi occorre fare una poesia degli scarti e degli stracci, del derisorio e dell’ultroneo. Dal nostro punto di vista la poesia di Giudici è ancora troppo bene educata, troppo seriosa, ci parla seriosamente e con parole ironico-assennate della morte. Beh, io gli preferisco i limerick di Guido Galdini, la giostra funambolica di Gino Rago e i fuochi d’artificio di Giuseppe Talia. Questione di gusti? Sì, e anche di etica.
    La lingua che usiamo, noi siamo.

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  2. Ewa Tagher

    Sul Il Fatto Quotidiano del 22 luglio, Tomaso Montanari, nella sua recensione al “Manifesto per riabilitare l’Italia” AA.VV. scrive: “Dal vocabolario della storia dell’arte viene una parola-chiave, che vorrei idealmente aggiungere al Manifesto. Quella parola è: scarto. La sua polisemia è per i linguisti, casuale. Ma, ai miei occhi, felicissima. Nella sua forma si trovano a confluire due storie etimologiche diverse. Lo scarto e ciò che si scarta, cioè che si butta via. La seconda scelta, che si lascia ai margini (e questo significato viene da scartare, nel gioco delle carte). Ma lo scarto è anche il movimento improvviso e imprevisto che ti apre i giochi, e cambia paradigma (e questo significato viene invece dal latino exquartare, tramite il francese écarter: separare, dividere e dunque imboccare strade diverse). Dunque, la periferia (meglio: le aree interne, l’Italia dei vuoti, le Italie fragili, i margini) come scarto: nel duplice senso di ciò che è stato scartato e di ciò da cui potrebbe venire lo scarto, la mossa del cavallo che cambia il gioco.

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  3. ottima la ricordanza che ewa tagher ci fa sullla parola scarto da intendere e da accogliere, come in molti di noi già è avvenuto, della parola ‘scarto’ nelle varie declinazioni indicate da tommy montanari; accanto a questa parola (‘scarto’) ne indicherei un’altra, soprattutto nel mio caso delle storie di una pallottola e dei passages, ed è spatial turn; soprattutto io ho scelto di andare nelle 16 storie di una pallottola e nei passages dal paradigma ‘tempo’ al paradigma ‘spazio’; le mie pallottole, dalla n.1 alla n.16, non hanno passato, non hanno futuro e nel presente sono velocissime e distratte viandanti; in compenso, tutte le pallottole sono avide di spazio, vogliono attraversare lo spazio, vogliono riempirlo e abitarlo…dal paradigma tempo al paradigma spazio si va dalla modernità postcoloniale alla ipermodernità, non è facile questo nuovo paradigma preminentemente spaziale a discapito del troppo abusato paradigma tempo, ma (com’è del resto anche nella recentissima ricerca poetica delle ‘ stanze’ di giorgio linguaglossa) la poesia dello spatial turn e dello svuotamento degli oggetti che tali rimangono senza mai farsi ‘cose’ se sottratti al tempo, alla storia, alla memoria di chi li possiede, sono per me le grandi novità di questa poesia nuova dello ‘scarto’, dello spatial turn, degli oggetti che cadono sui balconi, sui terrazzi o sull’asfalto, o sulla testa di inconsapevoli viandanti, svuotando i luoghi dove prima si trovavano ridando ai luoghi prima occupati e/o invasi dagli stessi oggetti lo spazio di nuovo libero da ri-vivere, da ri-abitare, da ri-attraversare

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  4. tiziana antonilli

    Grazie a Ewa Tagher per la preziosa segnalazione riguardante la doppia etimologia della parola ‘scarto’. In riferimento a quanto dice Gino Rago a proposito degli spazi lasciati liberi da ri-attraversare, posso aggiungere che il titolo del mio ultimo volume di poesia ‘ Le stanze interiori’ racconta proprio uno svuotamento e un ri-attraversamento altro. Si tratta di un’operazione che regala una soddisfazione comparabile a vivere una seconda vita.

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    • gentile Tiziana Antonilli,
      non ho avuto modo di leggere il Suo volume poetico “Le stanze interiori” e mi fido di ciò che lei dice.
      Per me, ho guardato, come al primo, ancora timido, forse inconsapevole, segnale di spatial turn, al Georges Perec del «Tentative d’épuisement d’un lieu parisien» nel quale si impone una idea di spazio che ho fatto mia e che racchiudo in poche parole in stile perecchiano:
      «Lo spazio ha bisogno di essere percorso, e l’individuo ha bisogno di percorrerlo, ricorrendo a espedienti e/o a regole.
      Oppure raccontandolo».

      E, poi, cosa è stato nella civiltà industriale e cosa è ancora nella civiltà post-industriale il nostro vivere nel mondo se non sentirsi come in una sorta di un grande museo di stranezze, di oggetti come bizzarri giocattoli
      che noi, come quasi bambini curiosi, siamo tentati a rompere per vedere come dentro son fatti e alla fine accorgerci che sono vuoti…

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  5. milaure colasson

    Gentile Gino Ragò,

    ma come fa a sapere che io tengo fra i capelli una forcina appuntita con la quale ho immaginato, e forse desiderato, di piantarla sulla proboscide del pittore di palazzo Giorgio de Chirico?, il quale, come diceva Warhol, si è divertito a dipingere per altri cinquanta anni i medesimi quadri metafisici con qualche variante, visto che si vendevano bene. Ma è che la poesia, come si vuole o come si puote, non si vende né se fatta bene né se (come capita nella generalità) fatta male, come la poesia di Giovanni Giudici postata sopra. Certo, Giovanni Giudici, visto che quel modello di poesia andava bene e i critici lo applaudivano, non ha fatto altro che riscrivere la medesima poesia “seriosa”, come dice Linguaglossa, in tutte le salsa. E così è passato nella storia della poesia italiana.
    Ma il tempo, purtroppo, fa sempre degli sgambetti ai poeti laureati, i quali, prima o poi, vengono sfrattati dal loro podio.

    Gentile Gino Ragò, torniamo per un momento alla forcina. Lo sa? è un ottimo strumento intimidatorio, i maschi se la danno subito a gambe quando vedono una donna armata di tale attrezzo puntuto. E poi quel de Chirico è veramente un… lo incontravo spesso al caffè Greco di via Condotti. Stava affondato nella poltrona a gustare il te che sorseggiava tra il sornione e il serioso. Assomigliava in qualche modo a Montale, come tipo umano. E fisicamente ad un elefante triste Io non lo degnavo mai di uno sguardo. Non ho mai digerito la sua pittura da cavalletto educato.

    E quanto a Sylvie Vartan, cantava solo in play back, non sapeva cantare. Era molto bella però, e sensuale. Anche con lei mi sono scontrata più volte sul terrazzo di un noto avvocato, incolto e stupido, che organizzava delle feste, sul suo terrazzo romano, delle tipiche insalate romane dove ci trovavi di tutto: malcapitati, politici, registi, poetastri, ballerine di can can e, talvolta, capitava Johnny Hallyday e Moravia con la sua donna di turno…

    Adesso, provo nostalgia per quelle terribili e insondabili insalate romane. Di pessimo gusto, volgari, da torcicollo e da malpancisti. Uscivo di lì e andavo dal mio amico gallerista Plinio che teneva un bar in via dell’Oca. Che mi chiedeva ogni volta che mi incontrava: Dove è nato Garibaldi? Ed io ogni volta gli giravo le spalle in faccia a quel signore d’altri tempi…

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  6. Cara Marie Laure Colasson,
    tu, partendo dal postulato secondo il quale “È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca e i poeti della pop-top-poesia si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza” e adottando l’efficacissima forma epistolare con cui comunichi avec moi, pallottola dopo pallottola, hai finito con l’inventare dal nulla una nuova forma di ermeneutica del mio recentissimo ciclo poetico delle 16 storie di una pallottola, ciclo fondato sullo spatial turn in cui il paradigma temporale cede il posto al paradigma spaziale.

    Di ciò ti ringrazio.
    *
    Milaure Colasson su Gino Rago

    – «L’unità stilistica, la struttura della poesia di Gino Rago non sono né la parola né la vicinanza tra due termini sorprendenti, ma la frase ancora sconosciuta finché non si ritrova incarnata sulla pagina, la frase creatrice del proprio pensiero, della propria invenzione, la sua deriva infine fuori dalle norme del descrittivo ordinario. Il rischio incorso è ovviamente l’arbitrario, che si potrebbe chiamare uscita dal senso, il che non avviene in queste poesie che rilanciano le loro strofe in direzioni sempre nuove aiutate da ritmi estremamente vari.
    Dove siamo? Non so se lo sapremo mai, forse non lo sa nemmeno Gino Rago.
    I tempi si confondono, i luoghi ci abitano poi ci lasciano, la poesia si dà alla prosa dei giorni. Quello che è successo è ugualmente quello che non è avvenuto, quello che non è stato scritto, la tenuta d’un diario difficile da condurre, da portare avanti».

    *
    – « Egregio Signor Gino Rago,
    poeta della top-poezia, Le devo comunicare il mio disappunto per la girandola di eventi che ruotano attorno alla pallottola uscita per errore manifesto dal revolver a tamburo un tempo di mia proprietà…. ma non posso essere stata io a premere il grilletto perché trenta anni fa ho regalato la pistola a Jannik e quindi non ne sono più in possesso.
    Questa storia della pallottola mi ha impedito di dormire sonni tranquilli in questi ultimi tempi e, per di più, sono perseguitata dalla polizia italiana e da quel figuro del commissario, il Dr. Ingravallo che non mi dà tregua e mi insegue ovunque vada, con mascherina o senza. Le confesso che la faccenda diventa sempre più ingarbugliata perché in effetti ho ritrovato, l’altro giorno, nella mia Birkin, in modo misterioso e inspiegabile, il piccolo revolver con il manico di madreperla.

    Chi l’ha ficcata nella mia borsetta?
    Che cosa devo pensare?
    E’ lei o il Dr. Ingravallo o, addirittura, il prof Linguaglossa il quale negli ultimi tempi sembra essersi evaporato…
    Le confesso che tutta questa faccenda mi lascia molto perplessa.
    Forse tutto ciò è opera di una cellula di Al Shabbab o di qualche servizio segreto di qualche potenza straniera…
    Non è escluso che chiederò l’intervento e la protezione della Ambasciata di Francia di Piazza Farnese.
    Lei capirà, devo in qualche modo tutelare il mio nome e la mia onorabilità.
    Con profonda stima».
    *
    – «Caro Gino Rago,

    questa volta ti meriti i miei complimenti, hai raggiunto la légéreté tipicamente francese che consente di rendere più leggera una realtà in sé asfissiante e l’hai trasposta nella poesia italiana come meglio non si poteva,
    Ha ragione Lucio Mayoor Tosi quando dice che la tua poesia è di stampo giornalistico, è vero, e ben venga finalmente una poesia che impiega il linguaggio dei rotocalchi e lo converte in opere letterarie. La poesia di Giudici postata sopra era un tentativo di scrivere una poesia giornalistica, purtroppo non riuscito; al contrario, il tuo tentativo è, a mio avviso, riuscito. Se Giudici avesse scritto la poesia invertendo gli addendi, cioè mettendo la morte che osserva e descrive l’io, avrebbe ottenuto risultati migliori, ma le sue convinzioni neoveriste non gli consentivano neanche di immaginare un tale salto immaginativo. Un bravo anche al pittore Giorgio Ortona. È problematico per un pittore fare oggi un ritratto di figura umana per tantissimi motivi che non sto qui a ripetere. Ma lui c’è riuscito in modo brillante. Io ci vedo anche un lontano ricordo di Bacon. Ma è che dopo Bacon fare un ritratto o autoritratto è diventato ancor più problematico. L’autoritratto è come una poesia lirica, un racconto dell’io sull’io. Qualcosa sfugge sempre. E allora devi inseguire ciò che sfugge».
    *

    – «Gentile Gino Rago,

    ma come fa a sapere che io tengo fra i capelli una forcina appuntita con la quale ho immaginato, e forse desiderato, di piantarla sulla proboscide del pittore di palazzo Giorgio de Chirico?, il quale, come diceva Warhol, si è divertito a dipingere per altri cinquanta anni i medesimi quadri metafisici con qualche variante, visto che si vendevano bene. Ma è che la poesia, come si vuole o come si puote, non si vende né se fatta bene né se (come capita nella generalità) fatta male, come la poesia di Giovanni Giudici postata sopra. Certo, Giovanni Giudici, visto che quel modello di poesia andava bene e i critici lo applaudivano, non ha fatto altro che riscrivere la medesima poesia “seriosa”, come dice Linguaglossa, in tutte le salsa. E così è passato nella storia della poesia italiana.
    Ma il tempo, purtroppo, fa sempre degli sgambetti ai poeti laureati, i quali, prima o poi, vengono sfrattati dal loro podio.

    Gentile Gino Rago, torniamo per un momento alla forcina. Lo sa? è un ottimo strumento intimidatorio, i maschi se la danno subito a gambe quando vedono una donna armata di tale attrezzo puntuto. E poi quel de Chirico è veramente un… lo incontravo spesso al caffè Greco di via Condotti. Stava affondato nella poltrona a gustare il te che sorseggiava tra il sornione e il serioso. Assomigliava in qualche modo a Montale, come tipo umano. E fisicamente ad un elefante triste Io non lo degnavo mai di uno sguardo. Non ho mai digerito la sua pittura da cavalletto educato.

    E quanto a Sivye Vartan, cantava solo in play back, non sapeva cantare. Era molto bella però, e sensuale. Anche con lei mi sono scontrata più volte sul terrazzo di un noto avvocato, incolto e stupido, che organizzava delle feste, sul suo terrazzo romano, delle tipiche insalate romane dove ci trovavi di tutto: malcapitati, politici, registi, poetastri, ballerine di can can e, talvolta, capitava Johnny Hallyday e Moravia con la sua donna di turno…

    Adesso, provo nostalgia per quelle terribili e insondabili insalate romane. Di pessimo gusto, volgari, da torcicollo e da malpancisti. Uscivo di lì e andavo dal mio amico gallerista Plinio che teneva un bar in via dell’Oca. Che mi chiedeva ogni volta che mi incontrava: «Dove è nato Garibaldi?». Ed io ogni volta gli giravo le spalle in faccia a quel signore d’altri tempi….

    (Milaure Colasson)
    *
    Ringrazio ancora Milaure Colasson per i suoi contributi ermeneutici a favore della mia recentissima ricerca di poesia.
    *
    Gino Rago

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  7. Giorgio De Chirico è un pre-moderno. Non ha senso criticarlo, o è fin troppo facile farlo oggi senza tenere conto che egli visse in epoca post futurista. Le sue opere migliori (vere o fasulle a me piacciono tutte) appartengono a un’epoca ormai trascorsa. Le arti visive sono state fortemente segnate, a partire dagli anni ’60, dal concettuale. Il pensiero concettuale rappresenta una svolta radicale, nel senso che pone in soffitta il “piacere estetico” e con esso il culto dei materiali. L’arte diventa arte delle idee. In quest’ottica, va vista anche la critica di Giorgio Linguaglossa, che è critica concettuale.
    Mancando ogni riferimento al piacere estetico, va da sé che si possa parlare di “scarti”, e che poesie un tempo considerate senza far complimenti come brutte, possano essere diversamente valutate. Anche la pittura di Marie Laure Colasson, se letta concettualmente trova una sua ragione d’essere. Questa è la lezione dadaista, da Duchamp in poi. Ma della Colasson abbiamo letto tre/quattro poesie, in linea con i fondamenti NOE, non mi sembra il caso di farla tanto lunga. E i dipinti, certo ben eseguiti, non vanno al di là di una qualsiasi opera informale, cioè pre-concettuale.
    Con questo non voglio dire nulla di preciso: l’arte concettuale, il tempo di nascere ed era già superata; negli anni ’80, in clima di post-modernità, con la Transavanguardia, ma ci furono Land art, minimal art, body art… Qui siamo alla fine del secolo 1900.
    Oggi, almeno questa è la mia opinione, dovremmo approfondire quel che un tempo era il “piacere estetico”. E tentare di più un approccio scientifico. Parlare quindi di forze e di dinamica. Considerare la capacità d’impatto del verso libero, ad esempio, nel contesto tecnologico della comunicazione interattiva. O non sia meglio proporre, come in punta di freccia, un verso strutturato più adeguato ai tempi. Cosa che secondo me era riuscita grazie all’individuazione del frammento: sintesi di linguaggio e resa di contenuti.

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  8. Mini Antologia di Poetry kitchen, Poesie di Gino Rago, Guido Galdini, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Talia, Giorgio Linguaglossa, Giovanni Giudici, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa 


    Editoriale de Il Mangiaparole n. 10

    caro Lucio,

    Gianni Vattimo ha affermato a metà degli anni ottanta che il post-moderno non può essere soltanto la riduzione della forma-poesia alle mode culturali, suo tratto distintivo sarebbe la tendenza «di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell’innovazione. Da questo punto di vista, esso corrisponde allo sforzo heideggeriano di preparare un pensiero post-metafisico».1 Oggi, nell’epoca che segue il post-moderno, la tecnica è la conseguenza pienamente realizata della fine della metafisica, ecco spiegata la ragione del grande ruolo che la «tecnica» svolge nell’arte odierna.

    Grandissima parte dell’arte di oggi, le installazioni e le performance, a partire dalla merda d’artista di Piero Manzoni negli anni sessanta, sono opere che vogliono esibire una contrarietà meramente personale e psicologica degli artisti all’arte da loro praticata.

    Oggi, il pittore, il poeta, lo scultore (i fabbricatori individuali di manufatti) possono al massimo diventare pescatori di perle e di stracci, di plastiche marine e di rottami di antichi velieri. Walter Benjamin ha intuito con grande acume che il filosofo e l’artista sono diventati degli «straccivendoli» e dei «pescatori di perle», e devono soffermarsi su oggetti apparentemente non degni di attenzione, sugli «stracci», su aspetti generalmente ritenuti trascurabili e negletti dallo sguardo ufficiale degli addetti alla narrazione culturale.

    Questi oggetti, questi luoghi privilegiati sono i frammenti che la megalopoli globale mette in mostra nelle sue vetrine e nei suoi passages mediatici capaci di investire i passanti e gli utenti con continui choc percettivi. Il mondo moderno è una archeologia di traumi e di miracoli, di frammenti impazziti che sostituiscono la contemplazione statica da un punto di vista esterno con la «fruizione distratta» di un punto di vista in movimento.

    È tutta l’impalcatura del pensiero poetante che rischia in ogni istante di periclitare e soccombere sotto la pressione di soverchianti forze storiche dissonanti e divergenti che tendono a portare a dissoluzione la struttura metrica, il lessico e lo steso «concetto» di arte. Concetto quanto mai aporetico e auto contraddittorio che si esprime con le parole della metafisica filosofica e di quella poetica, in una commissione graffiata e adulterata che il linguaggio del pensiero poetante trascina con sé insieme alle rovine, ai relitti e ai detriti della storia.

    Parlare di «arte concettuale», cioè che il valore di un’opera d’arte risieda nella sua essenza «concettuale», come sostiene Danto, è, a mio avviso, nient’altro che un abile stratagemma per uscire dal vicolo cieco del pensiero sull’arte degli ultimi decenni. Sarebbe stato preferibile accettare il dato di fatto che l’arte che si fa oggi e da tanti decenni ormai è una «non-arte». E dire finalmente la verità-vera: che l’arte è morta, finita, chiusa. Un critico degno di questo nome dovrebbe parlare di «non-arte» (al di là delle questioni terminologiche e psicologistiche incentrate sul concetto di «concettuale»).

    Per Walter Benjamin «l’immagine è dialettica nella immobilità», e le immagini si danno soltanto in «costellazioni» tematiche o iconografiche.
    Al massimo, oggi si potrebbe riattivare la formula benjaminiana della «non-arte» come «immagine dialettica nella immobilità». La non-arte che è venuta dopo il Brillo box di Andy Warhol (1964) è, criticamente, una «non-arte». Questo va detto, finalmente, con grande onestà e chiarezza, altrimenti ci prendiamo in giro.
    Per la poesia vale lo stesso ragionamento.

    Oggi, il concetto di «contemporaneità», il concetto di «nuovo» sono qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarli che già sono nel passato, legati all’attimo, sono già sfumati non appena li nominiamo. Penso che da questa situazione della condizione post-post-moderna si dovrà pur uscire prima o poi, si dovrà pur ricominciare a pensare in termini di discorso poetico per porlo stabilmente entro le coordinate della sua collocazione storica nel Dopo il Moderno.

    1 Gianni Vattimo, La fine della modernità Milano, Garzanti, 1985 p. 114

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    • Dopo la fine dell’arte

      Il saggio è stato pubblicato nel 1997 a partire da una serie di lezioni (le A. W. Mellon Lectures) tenute presso la National Gallery of Art di Washington nel 1995, costituisce il naturale completamento della filosofia dell’arte di Danto il quale si era occupato del problema filosofico dell’arte per la prima volta negli anni ’60, quando pubblicò un saggio, The Artworld. Il saggio,del 1964, fu scritto quasi di getto in seguito alla visita ad una mostra presso la Stable Gallery di New York, mostra in cui veniva esposta l’opera di Warhol, Brillo Box.

      Con The Artworld Danto inaugura un percorso di definizione del campo dell’arte che si concluderà con la pubblicazione de La trasfigurazione del banale (1981). In esso Danto non riesce però a definire l’essenza dell’opera d’arte, la Pop art gli imponeva una riflessione su questa nuova situazione dell’arte contemporanea. In realtà, La trasfigurazione del banale non si può considerare un insuccesso. Danto delinea un campo semantico nuovo per contraddistinguere le opere d’arte a partire da due punti fermi che le caratterizzano: le opere d’arte sono a proposito di qualcosa (aboutness); le opere d’arte incarnano il loro significato (embodyment of meaning). Esse portano cioè un messaggio la cui relazione col significato è intensionale e si esprimono con il linguaggio della retorica.

      Il problema da filosofico diventa psicologico, l’interesse non verte più sul giudizio di verità dell’arte, bensì sulla necessità di un «concetto» di arte – «Perché arte?» – Danto offre come soluzione il mantenimento di un «concetto» che sappia rendere conto delle infinite possibilità assunte dall’arte oggi. Un «concetto» di arte per il quale «everything goes» (Danto), in realtà ci introduce in un non-concetto, un concetto poroso nel quale può entrare di tutto.
      Dante intuisce che L’arte ed il concetto sono enti storici, finiti. E che dopo la fine ci sarà pur sempre un nuovo inizio.

      «L’Età dei Manifesti» (che va dal 1880 al 1965), peculiarità dell’epoca “moderna” (poco meno di un secolo dall’Impressionismo al Brillo box di Warhol), si caratterizza per Danto per una svolta radicale: non più l’imitazione del mondo, ma l’affermazione di volta in volta di sé come verità del proprio concetto.

      In Dopo la fine dell’arte (1997), il critico americano dopo aver sostenuto che l’opera d’arte si giudica tale solo a confronto con le opere d’arte precedenti (secondo la teoria ermeneutica tradizionale), va oltre il concetto di un’ermeneutica storica, di un confronto col passato, che caratterizza il presente dell’intero mondo dell’arte. Ora si tratta di approfondire la dimensione semantica del «concetto» di arte prescindendo dalla storia, essendo essa terminata in un relativismo al cui interno «tutto è possibile».

      Con l’invenzione e la diffusione della fotografia, e della cinematografia agli inizi del novecento gli artisti si rendono conto che il criterio mimetico della pittura come sistema di strategie apprese per produrre rappresentazioni sempre più adeguate non aveva più senso, perché lo strumento tecnico più adeguato a questo scopo era diventato un altro, non più il concetto di verosimiglianza e, quindi, di mimesis, quanto quello di inverosimiglianza, ovvero, di anti-mimesis.

      Con la diffusione di internet e dei social media quali mediatori della narrativa del mondo di oggi, la poiesis si rende sempre più auto cosciente, scruta al proprio interno la progressiva mancanza di legislazione interna, il progressivo indebolimento dei modelli normativi, la dissoluzione e la disparizione della soggettività e, di conseguenza, la dissoluzione dell’idea dell’ordo rerum e dell’ordo idearum, della differenza soggetto-oggetto che dirigeva e convalidava un certo modello normativo.

      Con il che oggi la poiesis si è scoperta liberata dai lacci che la legavano al modello normativo e costrittivo dell’ordo rerum e dell’ordo idearum. Così libera e liberata l’arte si è trovata ad essere una semplice parte del mondo, a perdersi nel mondo, ad essere un momento di un cinetismo universale dotato e guidato dall’entropia. È il mondo della fine della storia che avanza. È il mondo della fine dell’arte. Il differenziale dell’arte si trova nel «concetto» di arte, non più nel manufatto artistico.

      Con la comparsa della Pop art nel 1964 è apparso evidente che le agenzie artistiche non sono molto differenti dalle agenzie turistiche; gli artisti, coloro che militano nel campo dell’arte dovranno provvedere alla propria auto pubblicizzazione e alla auto pubblicizzazione della propria arte. L’arte porta alla ribalta una nuova domanda: non più la definizione di un proprio fondamento, quanto l’interrogativo di fondo: «Cosa differenzia un’opera d’arte da ciò che non lo è, quando non sussiste una differenza percepibile tra di essi?». Danto trae l’avvento di tale illuminazione intorno al significato profondo della comparsa dell’arte Pop dalla visita a una mostra di Warhol a Manhattan nel 1964.1 Non importa più la domanda storica intorno al perché dell’arte ma la domanda se esiste una «difference between a work of art and something not a work of art».
      Il Brillo box di Warhol (1964) il Letto di Rauschenberg (1955), il Ventilatore di Oldenburg (1966-67), oppure la Borsa per la spesa di Lichtenstein (1964) sono oggetti che non presentano alcuna differenza percettibile tra l’oggetto di uso comune e l’oggetto artistico. La felicità alienata che si respira in queste opere è una cosa totalmente nuova con cui dover fare i conti. La differenza è solo nel concetto dell’oggetto, non più nell’oggetto in sé. Trasposto dal mondo dell’uso nella dimensione dell’arte l’oggetto diventa di per sé oggetto d’arte.
      Danto, parlando della ripetizione del dettaglio quotidiano nei lavori degli artisti Pop – e quindi della sua banalizzazione ad opera dell’arte – riporta questa frase di Warhol: «… se voglio sedermi e guardare quello che ho visto la sera prima, non voglio che sia essenzialmente la stessa cosa, voglio che sia esattamente la stessa. Perché più guardi la stessa identica cosa, più perde di significato, e più ti svuoti e ti senti bene».2
      Scrive Duchamp in difesa di Mr. Mutt sul secondo numero della rivista “The blind man” nel 1917: «Se il Sig. Mutt abbia fabbricato la fontana con le sue mani o no, non ha importanza. Egli l’ha SCELTA. Ha preso un normale oggetto della vita e lo ha collocato in modo tale che il significato utile scomparisse dietro al nuovo titolo e al nuovo punto di vista – ha creato un nuovo pensiero per quell’oggetto».3 Duchamp rende esplicito il contenuto non-filosofico dell’arte del ready -made, da cui la Pop art prenderà le mosse mezzo secolo più tardi.
      Era nato il ready made. L’ «originale» della fontana andò perduto. Per molti anni l’opera più influente del XX secolo è stata, di fatto, la fotografia e il testo che la commenta in questa effimera rivista, noti solo agli amici di Duchamp. La foto, poi, riapparirà solo nel 1945, e sempre in una rivista, “View”, dedicata a Duchamp.
      Scriverà Benjamin nel 1939: «La storia dell’arte è una storia di profezie. Affinché queste profezie possano diventare comprensibili devono però giungere a maturazione quelle circostanze che l’opera d’arte spesso ha precorso di secoli o anche solo di anni».

      1 Cfr Danto, After the end of art, op. cit., p. 35: «As I saw it, the form of the question is: what makes the difference between a work of art and something not a work of art when there is no perceptual difference between them?».
      2 Ibidem «First I tried to put it on a flat plane, but it was obviously too massive. It had too much character. It looked too much like itself. … It still refused to be abstracted into art. It looked like art with a goat. And so I put the tire there and then everything went to rest. And they lived happily ever after».
      3 M. Duchamp, Il caso Richard Mutt

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      • Se ci pensiamo un momento, i limericks di Guido Galdini segnano il punto più distante cui è giungo un poeta di oggi rispetto alla poesia che si fa oggi e da alcuni decenni come quella di Giovanni Giudici. I limericks rendono evidente il non-senso della poesia tradizionale, quella che crede di abitare il senso e il significato e invece approda alla vacuità. Ma anche i limericks restano all’interno del modello poesia del novecento (che continua in modo epigonico oggi) che si può compendiare nella formula: «parole = non senso», un po’ un gioco di società e di abilità linguistica. Con la poetry kitchen invece siamo al di là di quella formula: la poetry kitchen viene da un non-luogo e va verso un non-luogo, la poetry kitchen è, letteralmente, un «fuori-senso».

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  9. Siamo nella non-arte, siamo nella non-poesia. Importante è soltanto ESSERNE CONSAPEVOLI.

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  10. Sì, dovremmo raccontarlo ai bambini ogni volta che hanno fantasie. O all’uomo di Neanderthal.

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  11. Trovo ridicolo il comportamento novecentesco di soppiantare una conquista raggiunta con un’altra, ritenuta nuova di sanapianta. In questo modo si butta, si butta sempre via tutto. Se è ridicolo, non è opera di artisti ma della critica. E se è della critica significa che è opera del mercato, della compravendita. Questo Giorgio De Chirico lo sapeva benissimo.
    E’ dal secolo scorso che gli artisti hanno abdicato, nessun potere ha il loro pensiero. Ma se vai a teatro, mica ti compare il critico a preparati lo stomaco; no, si spengono le luci e comincia lo spettacolo. Idem per il cinema.
    Io son per le post-fazioni. Quando vado in libreria apro i libri di poesia nel loro contenuto, e immagino così facciate tutti. Con questo non voglio affatto sminuire il contributo della critica, è grande il suo sostegno. Ogni artista ne ha bisogno; scrivendo, ad ogni parola, ad ogni verso il poeta esercita una critica attenta. Siamo in famiglia. Ma parlare di non poesia libera il campo agli incapaci. Un conto è contestare il “poetico”, un altro è fare bisboccia.

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  12. Ha scritto di recente Annalisa Andreoni:

    «il compito di un buon giornalista, anche quando scrive di cultura, rimane prima di tutto quello di informare il lettore in maniera intelligente ed equilibrata, e non quello di validare la bontà di quello che viene proposto. E neanche voglio riferirmi agli interventi, sempre più frequenti, di scrittori che parlano di altri scrittori, i quali spesso scrivono di quanto sono bravi i colleghi per dovere di scuderia. Ma chi fa professione di critico letterario svolge, o dovrebbe invece svolgere, un mestiere diverso.

    Guardando alla situazione generale, è un dato di fatto che negli ultimi anni si siano avvicinate pericolosamente la pratica della promozione e la pratica della critica. Il circo Barnum dei premi letterari ha contribuito, forse più di ogni altra cosa, a questa commistione, reclutando tra le file dei giurati molti critici, che finiscono, chissà come, per premiare le scelte più sponsorizzate dalle case editrici. Ma anche lo svilimento della pratica del consulente editoriale, un tempo gloriosa, e la proliferazione delle agenzie letterarie giocano un ruolo non irrilevante. Ora, la promozione è una cosa importante e legittima, perché un libro è prima di tutto un prodotto, al quale hanno lavorato molte persone, il futuro delle quali dipende dalla sua buona riuscita. Se io su un giornale leggo invece un critico, voglio che sia capace di discernere quanto in un romanzo c’è di volontaristico, mal riuscito e velleitario. Mi aspetto che sia in grado di analizzare lo stile e la lingua di un autore, di individuare se vi sia o meno uno scarto rispetto alla comunicazione verbale quotidiana e di distinguere il lavoro profondo che uno scrittore vero fa sulla lingua dalla retorica un tanto al chilo; di capire quanto, nell’autofiction oggi praticata, sia sbrodolamento diaristico, e quanto nella trama ci sia di trito e già visto persino nelle telenovelas; mi aspetto, infine, che si prenda la responsabilità di valutare esteticamente l’oggetto di cui mi parla in quanto opera letteraria e di dirmi se vale la pena che io, lettore affamato di buona letteratura, lo legga oppure no.

    Il critico militante dovrebbe tenere bene distinta la propria funzione da quella del sociologo della letteratura, al quale tocca studiare e spiegare anche tutto ciò che va sotto il nome di paraletteratura, inclusi i romanzi che una volta si chiamavano d’appendice. E’ il sociologo della letteratura che deve studiare perché si vendano centinaia di migliaia di copie di questi testi e dirci in che cosa sono rappresentativi della nostra contemporaneità. Il critico letterario, invece, non dovrebbe prendere sul serio tutto ciò che viene pubblicato, sulla base dell’assunto che la realtà è questa e che il suo compito è quello di interpretarla.

    Se non tocca ai critici militanti dire che un romanzo è mediocre e non merita affatto di essere letto e studiato come si fa con la buona letteratura, a chi tocca? E non mi riferisco tanto alla pratica della stroncatura, in cui i critici si cimentano talora sui giornali con gli autori che non sopportano, quanto all’usanza, molto meno praticata, di tener alta l’asticella qualitativa con gli scrittori ai quali guardano con benevolenza. E’ innegabile che la letteratura, oggi, salvo poche voci note, soffra della mancanza di un tale ruolo».

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    • Sono d’accordo, ovvio. E tu Giorgio, hai tutta la mia stima. Il problema è l’istituzione, e faccio un esempio che mi riguarda come artista: “appena giunto alla stazione del paesino” dove vivo attualmente, presi i primi contatti con gli artisti di qui, mi trovai subito a dover trattare con il critico; buon uomo, il quale ha nell’agenda tutti i contatti con sindaci e maestranze addette alla promozione culturale. Venne a una mostra collettiva da me organizzata ma senza il suo beneplacito. Mezz’ora prima dell’inaugurazione, diede un’occhiata alle opere esposte e quando fu il momento improvvisò un lungo discorso al pubblico: niente più di una semplice lettura delle opere, come anche uno studente potrebbe fare. Questo perché “senza il critico non si fa niente”, dissero due degli artisti che avevo invitato. Cosa significa? Significa che senza la presenza istituzionale del critico, puoi scordarti di vendere le tue opere a una cifra superiore a 499,90 euro. Io contestai tutta la faccenda. Da allora qui non mi invitano più, nemmeno per un aperitivo.

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  13. Retro di copertina del libro di Mauro Pierno di prossima pubblicazione: Compostaggi

    «Ciò che resta lo fondano i poeti» ha scritto Hölderlin. E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, il biossido di carbonio, gli scarti della combustione, gli scarti della produzione, le parole sporcificate…
    Le parole delle poesie di Mauro Pierno sono errori di manifattura, errori del compostaggio, errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili. Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le parole combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non è Mauro Pierno il responsabile. Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del distico è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un distico distassimo e dismetrico che contiene al suo interno una miriade di dis-allineamenti fraseologici, dis-connessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo. Il distico è una gabbia metrica dinamica che contiene al suo interno le pulsioni e le tensioni che si sprigionano da decadimento chimico delle parole, che consente una sorta di compostaggio delle parole un tempo nobili e nobiliari.
    È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, Mauro Pierno e i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza. «Solo i pensieri che non comprendono se stessi sono veri» ha scritto Adorno.

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  14. La strada è in vetrina. Qualcuno passa, qualcuno c’era.
    Verità dura un attimo. Da che ricordo, anche meno.

    E io sono crudele. Uccido a piacimento dove mancano parole.
    Confido che nessuno lo verrà a sapere.

    Il puro sguardo piange e non piange.

    Sai bene che Lucy ormai vive solo di poesia, e solo
    con Mario M. Gabriele. Non sa dove altrimenti

    nascondere gli optional del mestiere, se in cofanetto
    la ceralacca dei baci, oppure nel sottosuolo.

    Al giudizio universale manca sempre una postilla.

    (May. Lug 2020)

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