
Francesca Dono, good morning, acrilico a secco su carta, 2020
Scrive Lucio Mayoor Tosi:
«Quanto alle parole non so. Per il fatto che oggi ti vengono date gratis, sembra non abbiano alcun valore; però, scegliendo e accostando “scarti”, rifiuti, qualche rimanenza d’epoca, ecco, riprendono vita. Sembrano altre. Certo, si noteranno i rappezzi, i rammendi, le cuciture, ma forse un giorno non lontano proprio di quest’arte del riutilizzo – contraria agli sprechi e alla sovrabbondanza – si parlerà positivamente. Per quel che NON si ha da dire, queste componenti vanno benissimo.»
Parlando della poesia e dei poeti venuti dopo Composita solvantur di Fortini (1994) ho fatto dei nomi di autori delle generazioni seguenti e li ho definiti come coloro che hanno «minore consapevolezza storica» del novecento e della tradizione. Un interlocutore mi ha chiesto che cosa volessi significare dichiarando Fortini come «l’ultimo poeta storico» del novecento. Ecco, io credo di averlo già spiegato. Cercherò di ripetermi, questo è un punto fondamentale per poter afferrare il concetto secondo cui tutta la poesia che è venuta dopo l’ultima opera di Fortini è in qualche modo «minore», minore in quanto non più saldata nella tradizione del novecento. È questo il punto. Non volevo essere offensivo nei confronti dei poeti venuti dopo il 1994, anzi, capire questo punto è indispensabile per acquisire consapevolezza storica della propria «debole storicità». Non ho voluto affatto essere intimidatorio o diseducato, volevo soltanto essere franco, schietto. E ripartire da qui.
Mi ci metto ovviamente anch’io tra coloro che si trovano in una «condizione di debole storicità», io che sono nato nel 1949, mi trovo coinvolto a pieno titolo in questa condizione di «debolezza ontologica», io come tutti, come tutti voi, nessuno escluso. Così, spero di avere escluso dalle mie parole qualsiasi intento diminutorio e/o intimidatorio.
Il problema una volta posto sul tavolo di dissezione, bisogna vivisezionarlo, osservarlo con attenzione prima di fare una diagnosi e una prognosi. Noi le nostre diagnosi e prognosi le abbiamo fatte con la «nuova ontologia estetica», una piattaforma che segna un momento di ripresa di consapevolezza, una ripresa «forte» pur nell’ambito di una condizione di «debolezza ontologica» della nostra condizione attuale. Quale sia l’orizzonte degli eventi di questa condizione di «debolezza ontologica» lo ha bene illustrato il pezzo di Lucio Mayoor Tosi citato all’inizio.
Il pensiero poetico e filosofico non ha più alcun oggetto se non l’erranza della metafisica, l’eclissarsi della metafisica, con annesso e connesso il bagaglio degli strumenti retorici ed ermeneutici che quella metafisica portava con sé. Ciò comporta una presa di consapevolezza che quella metafisica non è più utilizzabile, che dobbiamo andare al fondo della crisi di quella metafisica per poterla abbandonare nella sua interezza. Soltanto abbandonandola in piena consapevolezza possiamo alleggerirci e andare oltre, oltre il novecento. Noi possiamo soltanto raccogliere quegli «stracci» che il novecento ci ha lasciato in dono, in eredità, ma con la consapevolezza che si tratta, appunto, di stracci, di relitti e che è con queste «cose» che noi dobbiamo edificare.

Rimbaud, foto di Marie Laure Colasson
I classici dell’ottocento e del novecento ci appaiono sempre più lontani, estranei, perdono la loro aura, di esemplarità. Sono pensati come un relittuario di presenze-assenze, di simulacri, di ordini di valori conchiusi, lontani, inaccessibili, un ordine di valori de-valutati, appartenenti ad un passato già passato che è inutile perlustrare, ripercorrere, indagare, che forse è più utile porre tra parentesi per poterlo meglio ricordare. Forse oggi non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di un venir meno.
La guerra franco-prussiana e la rivoluzione della Comune di Parigi nel 1871 sono lo sfondo e il fondamento della poesia di Rimbaud. Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti, che la Rivoluzione del 1789 è la più grande sciagura della Francia, che i comunardi sono dei pazzi furiosi; predica il ritorno alla monarchia cattolica e legittimista. I litigi tra i due innamorati sono sempre più violenti. Paul e Arthur, per noia, fanno un gioco: coprono due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, poi si colpiscono finché non esce sangue. Dopo fanno l’amore. Verlaine, è posseduto dal pentimento, Rimbaud gli grida che è un gesuita infame e ipocrita; Verlaine gli chiede di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D’Arco, Rimbaud gli risponde con atroci bestemmie; Verlaine lo accusa di essere un comunardo incendiario e un sostenitore del suffragio universale… alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portasse il loro vagabondaggio esistenziale.
La tradizione come distinzione di Tradition e Ueberlieferung (trasmissione) si è interrotta, Rimbaud è il primo poeta ad avvertire il peso di questo evento. La trasmissione dei valori si è interrotta, si è inceppata, e non vale più il volerla rimettere in moto come se fosse un guasto al motore. A mio avviso, è qualcosa di più di un «guasto», qualcosa di diverso: siamo entrati tutti in un «nuovo orizzonte di eventi», in una condizione di «storicità indebolita», di «consapevolezza indebolita», di un ulteriore «indebolimento dell’essere». Con le parole di Heidegger: l’essere è «ciò di cui non ne resta più nulla», in cui, nella scia di un pensiero post-metafisico, non resta altro da fare che una rinegoziazione di un passato che non si consegna se non nella forma di una latenza, di una ri-memorazione, di una ripresa, di un ri-pensamento di ciò che è scomparso, sprofondato nella latenza… nella forma del frammento, di uno specchio vuoto che riflette un altro specchio vuoto, di un vuoto contenuto in un altro vuoto. La «distruzione dell’ontologia» ha inizio nell’ottocento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo.
Cosa ci resta oggi di un poeta come Rimbaud?, Carmelo Pistillo in questo suo denso volume tratteggia la vicenda umana e poetica del poeta di Charleville come segue.
(Giorgio Linguaglossa)
“Lascia l’Europa perché all’Europa oppone un modello di umanità allo stato selvaggio, così come in quello stesso periodo farà Gauguin. Ad Aden, sogna Harar, che è la Svizzera africana. Ad Harar, sogna Zanzibar o Panama o, semplicemente, di «andare a trafficare nell’ignoto» (Olivier Clément). I suoi viaggi ricordano, seppur in modo rovesciato, i voyages de découvertes intrapresi da Hegel alla scoperta della fenomenologia. Per il francese, però, il percorso si svolge in senso inverso. È l’occasione per sopravvivere senza la poesia. Un bene dell’anima di cui ha perso la memoria e di cui farà a meno. La poesia verrà sostituita con il mestiere. L’adolescente rapito dagli incantesimi sarà letteralmente scalzato dall’uomo che lavora. Rinuncia dunque a inventare una nuova lingua ma impara e approfondisce le lingue legate al suo mestiere. Studia le scienze applicate. Durante il periodo africano chiede alla famiglia di spedirgli decine di opere (manuali da carradore e da scalpellino, da vetraio e da fabbro; trattati di trigonometria e di meccanica, di idrografia e di meteorologia; opere sulle ferrovie e sulle lingue locali, ecc.) a testimonianza di un distacco radicale dalla poesia a favore della non-poesia. Ha bisogno di tenere i piedi ben piantati in terra. Il mestiere che svolge non consente distrazioni. La sua produzione poetica dura dunque pochissimi anni. All’età di ventun anni ha già detto tutto. Ciò che doveva scrivere l’ha già scritto. La sua poesia entra sovranamente nel silenzio dell’aria. Solo il silenzio è grande, dice Vigny, tutto il resto è debolezza. Ed è forse proprio questo silenzio sul proprio passato a fornire a Rimbaud la giusta energia per affrontare una vita nuova in mezzo a pericoli e continui rovesci di fortuna. 24 Dopo numerose traversie e marce sfiancanti, si stabilisce in Africa, dove svolgerà con impegno e serietà vari mestieri, fino all’ultimo di stimato mercante d’armi per il negus Menelik. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che sia stato anche trafficante di schiavi anche se di questa attività non esistono prove certe. Con una gamba in cancrena, dopo dodici anni di assenza, rientra precipitosamente in Francia, per la precisione all’ospedale di Marsiglia, dove gli viene amputato l’arto. È il 1891, anno della sua morte. Ha 37 anni come van Gogh, morto suicida nel 1890 in una fossa di letame.»
Quando il compagno di scuola Delahaye gli chiede che fine avesse fatto la letteratura, Rimbaud risponde semplicemente di non farne più. Altre testimonianze ci dicono che all’ennesima allusione alle sue poesie di gioventù, quasi a liquidare un’età «superba e sciocca», la risposta di un reticente Rimbaud è stata: «Sciacquature, erano solo sciacquature».
Il tragitto introspettivo della Saison è una plausibile rappresentazione della ricerca di una poesia di verità, ammesso che sia ancora lecito dissotterrare questa locuzione, che Rimbaud crede di poter esprimere anche nella più divampante mistificazione. Siamo di fronte a una confessione contrassegnata da un andirivieni di passato e presente, traguardando il futuro con il ricorso talvolta alle naissances latentes. Rimbaud entra ed esce continuamente dal tempo storico, facendo appello alle risorse nascoste delle parole, al loro alone e aura più segreta. Sente che la poesia ha esaurito il repertorio delle sue forme e dei suoi contenuti. Per cui scrivere, 30 nella sua rappresentazione, vuol dire una salutare «rappresaglia» dello spirito che, rivoltandosi, cerca una via d’uscita dall’abituale dizionario poetico ormai incapace di sorprendere e definire meglio il senso della vita. Il deragliamento dei sensi, di cui parla e scrive, presuppone una nuova ferrovia linguistica, altri e inesplorati binari. Ciò che Rimbaud più teme è quella che potremmo chiamare la sopravvivenza dei binari morti della letteratura e la decadenza della parola. Sperimenta perciò una nuova lingua per sgominare «il caso parola dopo parola» e garantire una nuova autenticità alle «parole della tribù», per usare termini mallarméani.
Quando Rimbaud dice Io, è come se esprimesse la propria memoria, un insopprimibile carico di ricordi. Esiste dunque un antefatto come in alcune tragedie greche dove qualcosa è avvenuto prima: una sciagura, una sconfitta, la rottura di un vincolo, un distacco, la violazione di una legge, una vendetta, un crimine o un sogno.
«Tu resteras hyène» è l’oracolo di Satana, che lo sollecita a consumare i vizi capitali. Non va dimenticato che Rimbaud è cresciuto sotto l’influenza del libro dei doveri, il battesimo, il cristianesimo, i dettami catechistici, il peccato, la croce, a cui ha risposto con scaltra disobbedienza. Tutta la Saison, seppur ambientata in una dimensione demoniaca, è permeata di cultura cristiana, che Rimbaud rifiuta in nome di azioni contrarie a quella pronuncia sacramentale. È fuor di dubbio che disobbedire può procurare un gran piacere e divenire col tempo un irresistibile vizio, quasi una porta del peccato da varcare con esultanza.
Il proclama enunciato («Je quitte l’Europe»), dal luogo forse non riconosciuto come originario, si arena sulle sponde dell’esperienza passata dove non resta che aspettare avidamente Dio («J’attends Dieu avec gourmandise»). Non c’è una contiguità con l’affanno della partenza né l’ansia dell’approdo. Rimbaud si manifesta nella sua duplicità di essere saggio nell’attesa di Dio e contemporaneamente negro per via della gola, uno dei peccati capitali. Come scrive Richter, il «saggio-negro (o poeta-negro) si è allontanato dalla sua iniziale educazione cristiana che gli appare deturpata dalla menzogna, il che significa che ha abbandonato l’ipocrisia dei bianchi che l’hanno battezzato con la forza del canon (“Les blancs débarquent. Le canon! Il faut se soumettre au baptême, s’habiller, travailler”), dove il canon è da intendersi insieme come arma da fuoco (cannone) e dogma della Chiesa (canone), in questo caso il battesimo. Si è liberato delle couples menteurs che regolano la cultura esistente, a cominciare dalla religione».
Quello che [Rimbaud] chiama l’inconnu (l’Ignoto). Per scoprirne l’essenza il poeta deve lavorare e guadagnarsi il titolo di voyant. Il poeta è veggente, afferma con vigore alchimistico e accenti profetici; può raggiungere l’Ignoto perché più di altri ha coltivato la sua anima. Non è un semplice banditore, è veggente, e il veggente è il malato che rifiuta ogni cura, il gran maledetto e criminale che, con le proprie mani, si pianta e si coltiva le verruche sul viso fino a sfigurarselo.”
(Carmelo Pistillo)

foto di Lorenzo Pompeo, cappelli a Parigi
«Jadis, si je me souviens bien, ma vie était un festin où s’ouvraient tous les cœurs, où tous les vins coulaient. Un soir, j’ai assis la Beauté sur mes genoux. – Et je l’ai trouvée amère. – Et je l’ai injuriée. Je me suis armé contre la justice. Je me suis enfui. Ô sorcières, ô misère, ô haine, c’est à vous que mon trésor a été confié! Je parvins à faire s’évanouir dans mon esprit toute l’espérance humaine. Sur toute joie pour l’étrangler j’ai fait le bond sourd de la bête féroce. J’ai appelé les bourreaux pour, en périssant, mordre la crosse de leurs fusils. J’ai appelé les fléaux, pour m’étouffer avec le sable, le sang. Le malheur a été mon dieu. Je me suis allongé dans la boue. Je me suis séché à l’air du crime. Et j’ai joué de bons tours à la folie. Et le printemps m’a apporté l’affreux rire de l’idiot. Or, tout dernièrement, m’étant trouvé sur le point de faire le dernier couac! j’ai songé à rechercher la clef du festin ancien, où je reprendrais peut-être appétit. La charité est cette clef. – Cette inspiration prouve que j’ai rêvé! «Tu resteras hyène, etc…», se récrie le démon qui me couronna de si aimables pavots. «Gagne la mort avec tous tes appétits, et ton égoïsme et tous les péchés capitaux.» Ah! j’en ai trop pris: – Mais, cher Satan, je vous en conjure, une prunelle moins irritée! et en attendant les quelques petites lâchetés en retard, vous qui aimez dans l’écrivain l’absence des facultés descriptives ou instructives, je vous détache ces quelques hideux feuillets de mon carnet de damné.
Nuit de l’enfer J’ai avalé une fameuse gorgée de poison. – Trois fois béni soit le conseil qui m’est arrivé! – Les entrailles me brûlent. La violence du venin tord mes membres, me rend difforme, me terrasse. Je meurs de soif, j’étouffe, je ne puis crier. C’est l’enfer, l’éternelle peine! Voyez comme le feu se relève! Je brûle comme il faut. Va, démon! J’avais entrevu la conversion au bien et au bonheur, le salut. Puis-je décrire la vision, l’air de l’enfer ne souffre pas les hymnes! C’était des millions de créatures charmantes, un suave concert spirituel, la force et la paix, les nobles ambitions, que sais-je? Les nobles ambitions! Et c’est encore la vie! – Si la damnation est éternelle! Un homme qui veut se mutiler est bien damné, n’est-ce pas? Je me crois en enfer, donc j’y suis. C’est l’exécution du catéchisme. Je suis esclave de mon baptême. Parents, vous avez fait mon malheur et vous avez fait le vôtre. Pauvre innocent! – L’enfer ne peut attaquer les païens. – C’est la vie encore! Plus tard, les délices de la damnation seront plus profondes. Un crime, vite, que je tombe au néant, de par la loi humaine. Tais-toi, mais tais-toi!… C’est la honte, le reproche, ici: Satan qui dit que le feu est ignoble, que ma colère est affreusement sotte. – Assez!… Des erreurs qu’on me souffle, magies, parfums faux, musiques puériles. – Et dire que je tiens la vérité, que je vois la justice: j’ai un jugement sain et arrêté, je suis prêt pour la perfection… Orgueil. – La peau de ma tête se dessèche. Pitié! Seigneur, j’ai peur. J’ai soif, si soif! Ah! l’enfance, l’herbe, la pluie, le lac sur les pierres, le clair de lune quand le clocher sonnait douze… le diable est au clocher, à cette heure. Marie! Sainte Vierge!… – Horreur de ma bêtise. Là-bas, ne sont-ce pas des âmes honnêtes, qui me veulent du bien… Venez… J’ai un oreiller sur la bouche, elles ne m’entendent pas, ce sont des fantômes. Puis, jamais personne ne pense à autrui. Qu’on n’approche pas. Je sens le roussi, c’est certain. Les hallucinations sont innombrables. C’est bien ce que j’ai toujours eu: plus de foi en l’histoire, l’oubli des principes. Je m’en tairai: poètes et visionnaires seraient jaloux. Je suis mille fois le plus riche, soyons avare comme la mer. Ah ça! l’horloge de la vie s’est arrêtée tout à l’heure. Je ne suis plus au monde. – La théologie est sérieuse, l’enfer est certainement en bas, – et le ciel en haut. – Extase, cauchemar, sommeil dans un nid de flammes. Que de malices dans l’attention dans la campagne… Satan, Ferdinand,2 court avec les graines sauvages… Jésus marche sur les ronces purpurines, sans les courber… Jésus marchait sur les eaux irritées. La lanterne nous le montra debout, blanc et des tresses brunes, au flanc d’une vague d’émeraude… Je vais dévoiler tous les mystères: mystères religieux ou naturels, mort, naissance, avenir, passé, cosmogonie, néant. Je suis maître en fantasmagories. Écoutez!… J’ai tous les talents! – Il n’y a personne ici et il y a quelqu’un: je ne voudrais pas répandre mon trésor. – Veut-on des chants nègres, des danses de houris?3 Veut-on que je disparaisse, que je plonge à la recherche de l’anneau? Veut-on? Je ferai de l’or, des remèdes. Fiez-vous donc à moi, la foi soulage, guide, guérit. Tous, venez, – même les petits enfants, – que je vous console, qu’on répande pour vous son cœur, – le cœur merveilleux! – Pauvres hommes, travailleurs! Je ne demande pas de prières; avec votre confiance seulement, je serai heureux. – Et pensons à moi. Ceci me fait peu regretter le monde. J’ai de la chance de ne pas souffrir plus. Ma vie ne fut que folies douces, c’est regrettable. Bah! faisons toutes les grimaces imaginables. Décidément, nous sommes hors du monde. Plus aucun son. Mon tact a disparu. Ah! mon château, ma Saxe, mon bois de saules. Les soirs, les matins, les nuits, les jours… Suis-je las! Je devrais avoir mon enfer pour la colère, mon enfer pour l’orgueil, – et l’enfer de la caresse; un concert d’enfers.
Je meurs de lassitude. C’est le tombeau, je m’en vais aux vers, horreur de l’horreur! Satan, farceur, tu veux me dissoudre, avec tes charmes. Je réclame. Je réclame! un coup de fourche, une goutte de feu. Ah! remonter à la vie! Jeter les yeux sur nos difformités. Et ce poison, ce baiser mille fois maudit! Ma faiblesse, la cruauté du monde! Mon Dieu, pitié, cachez-moi, je me tiens trop mal! – Je suis caché et je ne le suis pas. C’est le feu qui se relève avec son damné.
C’è stato un tempo, se ricordo bene, che la mia vita era un banchetto, dove ogni cuore faceva dono di sé e tutti i vini fluivano. Una sera, ho accolto sulle mie ginocchia la Bellezza. – E trovandola amara, l’ho coperta d’ingiurie. Ho impugnato le armi contro la giustizia. Sono scappato. Oh streghe, oh miseria, odio, a voi è stato consegnato il mio tesoro. Sono stato capace di fare evaporare dal mio spirito ogni speranza terrena. Su ogni gioia, per strangolarla, mi sono esibito nel balzo sordo della bestia feroce. Ho invocato i giustizieri per mordere, mentre morivo, il calcio dei loro fucili. Ho invocato le catastrofi per soffocare nella sabbia e nel sangue. L’infelicità è stata il mio unico dio. Mi sono sdraiato nel fango. Mi sono inaridito col vento del crimine. E mi sono rallegrato facendomi beffa della follia. E la primavera mi ha impresso l’orrendo ghigno dell’idiota. Ora, in un tempo più moderno, trovandomi sul punto di fare l’ultimo couac! ho sognato di ricercare la chiave di quell’antico banchetto, dove forse potrei riavere l’appetito. La chiave è questa carità. – Questa ispirazione dimostra che ho sognato! «Resterai iena… etc.» ripete gridando il dèmone che mi premiò col garbo dei papaveri. «Espugna la morte con tutte le tue voglie, con il tuo egoismo e con tutti i peccati capitali.» Ah! ho patito troppo: – Ma, caro Satana, ti supplico, una pupilla meno indignata! e in attesa di qualche misera viltà che tarda a venire, per te, che ami lo scrittore liberato dalle facoltà descrittive o educative, io distacco questi rari, orribili foglietti dal mio taccuino di dannato.
Notte dell’inferno Ho ingoiato una copiosa sorsata di veleno. – Tre volte benedetto sia il consiglio che mi ha raggiunto! – Le viscere mi bruciano. La violenza del veleno torce le mie membra, mi deforma, mi annienta. Muoio di sete, soffoco, e non riesco a urlare. È l’inferno, la pena eterna! Guardate come si ravviva il fuoco! Brucio come si deve. Vieni, demonio! Avevo scorto la conversione al bene e alla felicità, la salvezza. Posso descrivere questa visione, l’aria dell’inferno non resiste agli inni! Erano milioni di adorabili creature, un soave concerto spirituale, la forza e la pace; le nobili ambizioni, che ne so? Le nobili ambizioni! Ed è ancora la vita! – Se la dannazione è eterna! Un uomo che vuole mutilarsi è di sicuro dannato, non è vero? Mi credo all’inferno, dunque ci resto. È la messa in scena del catechismo. Sono il servo del mio battesimo. Genitori, siete la causa della mia e della vostra infelicità. Povero innocente! – L’inferno non può contaminare i pagani. – È ancora la vita! Più tardi, le delizie della dannazione saranno più profonde. Presto, un crimine, che io possa precipitare nel nulla secondo la legge degli uomini. Zitto, stai zitto!… Qui è la vergogna, qui si è biasimati: Satana dice che il fuoco è ignobile, che la collera è terribilmente stolta. – Basta!… – Basta con gli errori ispirati da altri, magie, falsi profumi, musiche puerili. – E dire che possiedo la verità, che vedo la giustizia: il mio giudizio è sano e sicuro; sono maturo per la perfezione… Orgoglio. – La pelle della mia testa si è inaridita. Pietà! Signore, ho paura. Ho sete, tanta sete! Ah! l’infanzia, l’erba, la pioggia, il lago sulle pietre, il chiaro di luna quando il campanile suonava le dodici… il diavolo è sul campanile, a quest’ora. Maria! Santa Vergine!… Orrore della mia imbecillità. Laggiù, non sono forse anime oneste, che mi vogliono bene… Venite… Ho come un cuscino sulla bocca, non mi intendono, sono dei fantasmi. E poi, mai nessuno pensa agli altri. Non vi avvicinate. Puzzo di bruciato, è cosa certa. Non conto più le allucinazioni. Le ho sempre avute: più nessuna fiducia nella storia, oblio dei principi. Tacerò: poeti e visionari ne sarebbero gelosi. Io sono mille volte il più ricco, siamo avari come il mare. Questa poi! l’orologio della vita si è fermato un istante fa. Non sono più al mondo. – La teologia è seria, l’inferno sta certamente in basso, – e il cielo in alto. – Estasi, incubo, e sonno in una tana di fiamme. Quante astuzie nell’attenzione nella campagna… Satana, Ferdinando, corre con i semi selvatici… Gesù cammina sui rovi purpurei, senza piegarli… Gesù camminava sulle acque agitate. La lanterna ce lo rivelò in piedi, bianco e con trecce brune, accanto a un’onda smeraldo… Vado a svelare ogni mistero: misteri religiosi o naturali, morte, nascita, futuro, passato, cosmogonia, niente. Sono un maestro di fantasmagorie. Ascoltate!… Sono miei tutti i talenti! Non c’è nessuno qui e c’è qualcuno: non vorrei disgregare il mio tesoro. – Volete canti negri, danze di urì? Volete che mi dissolva, che io mi tuffi alla ricerca dell’anello? Volete? Concepirò l’oro, medicine. Fidatevi dunque di me, la fede aiuta, guida, guarisce. Venite, tutti, – pure i bambini, – che io vi consoli, che sia steso su voi il suo cuore, – il cuore meraviglioso! – Poveri uomini, lavoratori! Non chiedo preghiere; è soltanto con la vostra fiducia che sarò felice. – E pensiamo a me. Questo non mi fa rimpiangere troppo il mondo. È una fortuna che non soffra più. La mia vita fu soltanto fatta di dolci follie, è spiacevole. Bah! imitiamo tutte le smorfie possibili. Decisamente, siamo fuori del mondo. Nemmeno un suono. Il mio tatto è scomparso. Ah! mio castello, mia Sassonia, mio bosco di salici. Le sere, le mattine, le notti, i giorni… Sono sfiancato! Dovrei avere il mio inferno per la collera, il mio inferno per l’orgoglio, – e l’inferno per la carezza; un concerto d’inferni.
Ho esaurito la mia vita per stanchezza. È la tomba, sono destinato ai vermi, orrore degli orrori! Satana, buffone, vorresti dissolvermi con il tuo fascino. Io protesto. Protesto! un colpo di forcone, una goccia di fuoco. Ah! risalire alla vita! Gettare gli occhi sulle nostre deformità. E questo veleno, questo bacio mille volte maledetto! La mia fragilità, la crudeltà del mondo. Mio Dio, pietà, tienimi nascosto, mi comporto malissimo! – Sono inaccessibile e non lo sono. È il fuoco che si ravviva insieme al suo dannato.
Carmelo Pistillo vive e lavora a Milano. Ha esordito come poeta, presentato da Antonio Porta su “Alfabeta” nel 1982. Queste le sue raccolte di poesia: La locanda della chiglia (1986, Premio Camaiore Proposte – Opera Prima), L’impalcatura (1992, nota critica di Tomaso Kemeny, Premio Speciale Guido Gozzano), Quaderno senza righe (2008, contenente Lettera a Carmelo di Milo De Angelis), I ponti, i cerchi (2011, prefazione di Gabriela Fantato e nota critica di Milo De Angelis), Le due versioni del cielo (2013, postfazione di Michele Miniello) e Poesia da camera – Kammerpoesie (2020, prefazione di Maurizio Cucchi). È inoltre autore, insieme ad Antonio Porta, dell’antologia Perché tu mi dici: poeta? (2015, prefazione di Maurizio Cucchi, Premio Letterario Camaiore: Menzione Speciale per la Poesia italiana), che raccoglie il loro “teatro di poesia” realizzato negli anni Ottanta, dedicato alla poesia italiana del Novecento e a quella europea dell’Ottocento. Fra le sue pubblicazioni teatrali vanno ricordati almeno i drammi Mabuse (2009) e Passione Van Gogh (2014, postfazione di Virgilio Patarini, Premio Alessandro Fersen per il teatro ). Nel 2012 ha debuttato nella prosa con il libro di racconti Ti dico che non ho sognato, per poi confermare la sua vocazione anche narrativa con il romanzo Un uomo a piedi (2017). È del 2020 il suo libro-documento dedicato a Una stagione all’inferno di Arthur Rimbaud.
Oggi un nuovo Rimbaud è impensabile. La poesia rimbaudiana è legata a doppio filo ad una concezione di arte come originale irriproducibile. Nel moderno dispiegato ogni riflessione sul linguaggio è necessariamente onto-logia, e viceversa; ontologia significa anche ontopolitica, investigazione della città degli uomini, delle forze storiche che l’attraversano, i suoi conflitti che si riflettono anche sullo stato del linguaggio e che dal linguaggio ritornano alla polis. In rimbaud vediamo affiorare per la prima volta nella poesia occidentale questa evidenza. Ne segue che il linguaggio poetico viene investito con estrema violenza da questo dispositivo delle forze storiche in competizione tra loro. L’abbandono della poesia da parte di Rimbaud lo si comprende se lo si connette a questo rivolgimento conflittuale delle forze storiche del capitalismo del suo tempo in via di sviluppo.
Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica,(2003), Roma, Edizioni Idea, 2007, p. 9:
«Oggi il mondo è straordinariamente bello. Sono belli i prodotti confezionati, i vestiti di marca con i loro loghi stilizzati, i corpi palestrati, ricostruiti e ringiovaniti dalla chirurgia plastica, i visi truccati, le rughe stirate, i piercing e i tatuaggi, l’ambiente naturale protetto, gli interni arredati con le creazioni del design,gli equipaggiamenti militari ispirati al cubofuturismo, le uniformi dallo stile costruttivista o ninja, le pietanze con decorazioni artistiche, o più semplicemente confezionate nei supermercati con buste colorate, come i leccalecca. Persino i cadaveri possono essere belli se accuratamente imballati con fodere di plastica e ben allineati ai piedi delle ambulanze.Se una cosa non è bella, bisogna cercare di renderla tale. La bellezza regna. È diventata un imperativo: o sei bello oppure, almeno, risparmiaci la tua bruttezza».
Nella nuova dimensione virtuale la tradizionale coppia oppositiva originale/copia perde di significato. La tecnologia digitale, infatti, non è riproduttiva ma «generativa», agisce su in formazioni acustiche e visive trasferite su un codice numerico binario che può essere moltiplicato all’infnito senza perdere la sua autenticità.
Molte opere interattive, inoltre, permettendo una partecipazione cooperativa e distribuita, non solo sono riproducibili, ma anche diffuse e replicate su tutto il pianeta grazie al web. Il concetto d’imitazione, fulcro del sistema delle arti dall’antichità fino a Charles Batteux, e quello di ri-produzione, reso più problematico dall’avvento della fotografia, sono sostituiti da quello di simulazione che, pur gravitando nella medesima area semantica, si riferisce a un’immagine priva di referente.
La realtà virtuale, ad esempio, può produrre ambienti tridimensionali inesistenti, capaci di sollecitare sinesteticamente il fruitore che in essi può persino muoversi e agire, sperimentando una dimensione sensoriale percepita come autentica.
Che vuol dire, allora, che l’arte è andata oltre se stessa? […] Non vuol dire, piuttosto, che essa, compiendo il circolo del suo destino metafisico, è penetrata nuovamente nell’aurora di un’origine in cui non solo il suo destino, ma quello dell’uomo stesso potrebbe essere messo in questione in modo iniziale?
1 G. Agamben, L’uomo senza contenuto, p. 15
Agamben scrive :
L’ingresso dell’arte nella dimensione estetica – e la sua apparente comprensione a partire dall’aisthesis dello spettatore – non sarebbe allora un fenomeno così innocente e naturale come siamo ormai abituati a rappresentarcelo. Forse nulla è più urgente […] di una
distruzione dell’estetica che, sgombrando il campo dall’evidenza abituale, consenta di mettere in questione il senso stesso dell’estetica in quanto scienza dell’opera d’arte. Il problema è, però, se il tempo sia maturo per una simile distruzione, e se essa non avrebbe invece come conseguenza semplicemente la perdita di ogni possibile orizzonte per la comprensione dell’opera d’arte el’aprirsi di fronte ad essa di un abisso che solo un salto radicale potrebbe permettere di superare. Ma forse proprio tale perdita e un tale abisso sono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno se vogliamo che l’opera d’arte riacquisti la sua statura originale. E se è vero che è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, noi siamo forse oggi in una posizione privilegiata per comprendere il senso autentico del progetto estetico occidentale. 2
2 Ibidem, p. 17
se e quando l’arte avrà ancora il compito di prendere la misura originale dell’abitazione dell’uomo sulla terra,non è perciò materia su cui si possano far previsioni, né possiamo dire se la poiesis ritroverà il suo statuto proprio al di là dell’interminabile crepuscolo che avvolge la terra aesthetica. La sola cosa che possiamo dire èche essa non potrà semplicemente saltare al di là della propria ombra per scavalcare il suo destino. 3
3 Ibidem p. 155
interrogarsi sul compito dell’arte equivale a chiedersi quale potrebbe essere il suo compito nel giorno del Giudizio Universale, cioè in una condizione (che è per Kafka lo stesso stato storico dell’uomo) in cui l’angelo della storia si è arrestato e, nell’intervallo tra passato e futuro, l’uomo si trova davanti alla propria responsabilità.4
4 Ibidem pp. 170-171
L’arte
è l’Annientante che attraversa tutti i suoi contenuti senza poter mai giungere a un’opera positiva perché non può più identificarsi con alcuno di essi. E, in quanto l’arte è divenuta la pura potenza della negazione, nella sua essenza regna il nichilismo. La parentela fra arte e nichilismo attinge perciò una zona indicibilmente più profonda di quella in cui si muovono le poetiche dell’estetismo e del decadentismo: essa dispiega il suo regno a partire dal fondamento impensato dell’arte occidentale giunta al punto estremo del suo itinerario metafisico. E se l’essenza del nichilismo non consiste semplicemente in un’inversione dei valori ammessi, ma resta velata nel destino dell’uomo occidentale e nel segreto della sua storia, la sorte dell’arte nel nostro tempo non è qualcosa che possa essere decisa sul terreno della critica estetica o della linguistica. L’essenza del nichilismo coincide con l’essenza dell’arte nel punto estremo del suo destino in ciò, che in entrambi l’essere si destina all’uomo come Nulla. E finché il nichilismo governerà segretamente il corso della storia dell’Occidente, l’arte non uscirà dal suo interminabile crepuscolo.5
Ibidem, pp. 86-87
Una volta non solo la tecnica aveva il nome di techne. Una volta si chiamava techne anche quel disvelare che pro-duce la verità nello splendore di ciò che appare. Una volta si chiamava techne anche la produzione del veronel bello, techne si chiamava anche la poiesis delle arti belle. All’inizio del destino dell’Occidente, in Grecia, le arti raggiunsero la massima altezza del disvelamento loroconcesso. Esse fecero risplendere la presenza degli dei, il dialogo del destino divino e del destino umano. E l’artesi chiamava solo techne.
Essa era un unico, molteplice disvelamento. Essa era pia [fromm], pronos cioè pronta edocile alla potenza e alla difesa della verità.Le arti non avevano la loro origine nell’artisticità [das Artistische]. Le opere d’arte non erano fruiteesteticamente. L’arte non era un settore della produzione culturale. Che cos’era l’arte? Cos’era, forse per brevi, ma sommi, momenti della storia? Perché portava il semplice nome di techne? Perché era un disvelamento pro-ducente, e perciò faceva parte della poiesis.
Se all’arte sia concessa, in mezzo all’estremo pericolo, questa suprema possibilità della sua essenza, è cosache nessuno può sapere. Ma possiamo almeno meravigliarci. Di che cosa? Della possibilità opposta […] Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e ilconfronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro,ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l’arte. S’intende, solo quando la meditazione dell’artista, dal canto suo, non si chiude davanti alla costellazione della verità riguardo alla quale noi poniamo la nostra domanda.
Così domandando, noi attestiamo lo stato di difficoltà per cui, con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora cogliere ciò che costituisce l’essere della tecnica, e con tutta la nostra estetica non custodiamo più ciò checostituisce l’essere dell’arte. Tuttavia, quanto più interrogativamente noi consideriamo l’essenza della tecnica,tanto più misteriosa diventa l’essenza dell’arte. Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà [ Frömmigkeit ] del pensiero.6
Agamben chiama
critica
:
La critica nasce nel momento in cui la scissione raggiunge il suo punto estremo. Essa si situa nella scollaturadella parola occidentale e fa segno al di qua o al di là di essa, verso uno statuto unitario del dire. […]All’appropriazione senza coscienza [la poesia] e alla coscienza senza godimento [filosofia], la critica oppone ilgodimento di ciò che non può essere posseduto e il possesso di ciò che non può essere goduto. […] Ciò che èrecluso nella “stanza” della critica è nulla, ma questo nulla custodisce l’inappropriabilità come il suo bene più prezioso. (
Stanze, p. XIV)
[Appropriazione dell’inappropriabile – punto limite, soglia del pensiero, entro la quale solo esso possa esperire l’esperibilità stessa.
Vacuum installandosi nel quale, solo, è data l’esperienza della plenitudo, di quella «gioi che mai non fina» in grado di togliere e redimere ogni scissione.]
Ognuno dei saggi qui raccolti disegna quindi, nel suo circolo ermeneutico, una topologia del gaudium, della“stanza” attraverso la quale lo spirito umano risponde all’impossibile compito di appropriarsi di ciò che deve, inogni caso, restare inappropriabile. […] È in questa prospettiva che si può qui parlare di una “topologia dell’irreale”. […] Noi dobbiamo ancoraabituarci a pensare il “luogo” non come qualcosa di spaziale, ma come qualcosa di più originario dello spazio; forse, secondo il suggerimento di Platone, come una pura differenza, cui compete tuttavia il potere di far sì che«ciò che non è in un certo senso sia, e ciò che è, a sua volta, in un certo senso non sia». Solo una topologia filosofica, analoga a quella che in matematica si definisce analysis situs in opposizione all’analysis magnitudinis, sarebbe adeguata al topos outopos il cui nodo borromeo si è qui cercato di configurare. Così l’esplorazione topologica è costantemente orientata nella luce dell’utopia. Se una convinzione sostiene infatti tematicamente questa ricerca nel vuoto cui la costringe a sua intenzione critica, questa è appunto che solo se si ècapaci di entrare in rapporto con l’irrealtà e con l’inappropriabile in quanto tali, è possibile appropriarsi dellarealtà e del positivo.
G. Agamben, Stanze, pp. XV-XVI
6 M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Holzwege, trad. it. La questione della tecnica, in Sentieri interrotti, Mursia, Milano 1976, p. 26, 27
«La topologia che qui si esprime a tastoni nel linguaggio della psicologia, feticisti e bambini, «selvaggi» e poeti la conoscono da sempre; ed è in questa «terza area» che dovrebbe situare la sua ricerca una scienza dell’uomo che si fosse veramente affrancata da ogni pregiudizio ottocentesco. Le cose non sonofuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse checi aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè essestesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza di essere-al-mondo, La domanda dov’è lacosa? è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo?
Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zone che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi x in apparenza cosìsemplici: l’uomo, la cosa».7
7 G. Agamben, Stanze, p. 69
Il “disagio” che la forma simbolica porta scandalosamente alla luce è quello stesso che accompagna fin dall’inizio la riflessione occidentale sul significare, il cui lascito metafisico è stato raccolto senza beneficio d’inventario dalla semiologia moderna. In quanto nel segno è implicita la dualità del manifestante e della cosa manifestata, esso è infatti qualcosa di spezzato e di doppio, ma in quanto questa dualità si manifesta nell’unico segno, esso è invece qualcosa di ricongiunto e di unito. Il simbolico, l’atto di riconoscimento che riunisce ciò che è diviso, è anche il diabolico che continuamente trasgredisce e denuncia la verità di questa conoscenza. Il fondamento di questa ambiguità del significare è in quella frattura originale della presenza che è inseparabile dall’esperienza occidentale dell’essere e per la quale tutto ciò che viene alla presenza, viene alla presenza come luogo di un differimento e di un’esclusione nel senso che ilsuo manifestarsi è, nello stesso tempo, un nascondersi, il suo essere presente un mancare. È questo coappartenenza originaria della presenza e dell’assenza, dell’apparire e del nascondere che i Greci esprimevanonell’intuizione della verità come aletheia, svelamento […] Solo perché la presenza è divisa e scollata, è possibile qualcosa come un “significare”; e solo perché non vi è all’origine pienezza ma differimento (sia questo interpretato come opposizione dell’essere e dell’apparire, come armonia degli opposti o come differenzaontologica dell’essere e dell’essente) c’è bisogno di filosofare. Per tempo, tuttavia, questa frattura viene rimossa e occultata attraverso la sua interpretazione metafisica comerapporto di essere più vero e di essere meno vero, di paradigma e di copia, di significato latente e dimanifestazione sensibile.8
8 G. Agamben, Stanze, p. 71 e segg.
La ‘somiglianza’ e l’intersezione semica non preesistono alla metafora, ma sono rese possibili da essa eassunte poi come sua spiegazione, così come la risposta di Edipo non preesiste all’enigma, ma, da esso creata, pretende, con una singolare petizione di principio, di offrirne la soluzione. Ciò che lo schema proprio/improprio ci impedisce di vedere è che nella metafora nulla si sostituisce in realtàa nulla, perché non esiste un termine proprio che quello metaforico è chiamato a sostituire: solo il nostro antico pregiudizio edipico – cioè uno schema interpretativo a posteriori – ci fa scorgere una sostituzione dove non vi èche una dislocazione e una differenza all’interno di un unico significare […] in una metafora originaria sarebbeinutile cercare qualcosa come un termine proprio. […] La dislocazione metaforica non avviene, infatti fra il proprio e l’improprio, ma è una dislocazione della stessa strutturazione metafisica del significare: il suo spazio è quello di una reciproca esclusione del significante e delsignificato in cui emerge alla luce la differenza originale su cui si fonda ogni significare […] il paradosso centrale del significare che la metafora mette a nudo: il semainen è sempre originalmente una commessura d’impossibili.9
9 G. Agamben, Stanze,pp. 177-179 (corsivo nostro)
Porre all’inizio una scrittura e una traccia, significa mettere l’accento su questa esperienza originale [cioè: che l’esperienza originale sia sempre già presa in una piega, che la presenza sia ineludibilmente sempre già presa in un significare], ma non certo superarla. […] La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce, il venire in luce del suo fondamento negativo e non certo ilsuo superamento. Se è, infatti, possibile mettere a nudo l’eredità metafisica della semiologia moderna, ciò che resta per noi ancora impossibile è dire che cosa sarebbe una presenza che, finalmente liberata dalla differenza, fosse soltanto una pura e indivisa stazione nell’aperto. Quel che possiamo fare è riconoscere l’originaria situazione del linguaggio, questo “plesso di differenze eternamente negative”, nella barriera resistente alla significazione alla quale la rimozione edipica ci ha precluso l’accesso. Il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio. L’algoritmo S/s deve perciò ridursi alla sola barriera: /; ma, in questa barriera, non dobbiamo vedere solo la traccia di una differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni, il cui modello abbiamo cercato di delineare nell’ainos della Sfinge, nella malinconica profondità dell’emblema, nella Verleugnung del feticista. 10
10 G. Agamben, Stanze, pp. 187-188)
Gli animali non entrano nella lingua: sono sempre già in essa. L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, scinde questa lingua una e si pone come colui che, per parlare, deve costituirsicome soggetto del linguaggio, deve dire io. […] Allora la natura dell’uomo è scissa in modo originale, perché l’infanzia introduce in essa la discontinuità e la differenza fra lingua e discorso. Ed è su questa differenza, su questa discontinuità che trova il suo fondamento la storicità dell’essere umano. Solo perché c’è un’infanzia dell’uomo, solo perché il linguaggio non s’identifica con l’umano e c’è una differenza fra lingua e discorso, fra semiotico e semantico, solo per questo c’è storia, solo per questo l’uomo è unessere storico. […] È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta allastoria il suo spazio. Per questo Babele, cioè l’uscita dalla pura lingua edenica e l’ingresso nel balbettio dell’infanzia […] è l’origine trascendentale della storia. Il mistero, che l’infanzia ha istituito per l’uomo, può infatti essere sciolto solo nella storia, così come l’esperienza, come infanzia e patria dell’uomo, è qualcosa da cui egli è sempre già in atto di cadere nel linguaggio e nella parola. Per questo la storia non può essere il progresso continuo dell’umanità parlante lungo il tempo lineare, ma è, nella sua stessa essenza, intervallo, discontinuità, epoché [diremmo: «dialettica in stato d’arresto», cairologia, «tempo che resta»]. Ciò che ha nell’infanzia la sua patria originaria, verso l’infanzia e attraverso l’infanzia deve mantenersi in viaggio.11
11 ivi, pp. 50-52
Questo (Er)Fahren, questo essere-in-cammino verso e nell’infanzia, sancisce il luogo inauguraledella storicità e, al tempo stesso, quello ontologico dell’esperibilità del linguaggio nel suo aver-luogo Cfr i due saggi heideggeriani Die Sprache (1950) e Der Weg zur Sprache (1959), entrambi contenuti in Unterwegs zur sprache (1959).
noi vorremmo riflettere sul linguaggio e soltanto su di esso. Il linguaggio è linguaggio e nient’altro. Il linguaggio è il linguaggio. L’intelletto educato alla logica, uso a tutto sottoporre al processo calcolante, e perciò appunto il più delle volte presuntuoso, chiama questa proposizione una vuota tautologia. Dire due voltenient’altro che la stesa cosa: linguaggio è linguaggio, come è possibile che questo ci porti avanti? Ma noi nonvogliamo andare avanti. Vorremmo soltanto ci fosse dato di giungere là dove già siamo. […] Il linguaggio è il linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questaaffermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità. L’una el’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo nel quale vorremmo farci di casa [heimisch] per trovareuna dimora per l’essenza dell’uomo.Riflettere sul linguaggio significa pervenire al parlare del linguaggio in modo che questo parlare avvengacome ciò in cui all’essere dei mortali è dato ritrovare la propria dimora. 12
12 Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. Mursia, pp.28-29
Carissimi,
grazie, grazie, mille auguri e complimenti, con un saluto affettuoso da parte di
Mariella B.
INVOCAZIONE
( DELLO SPECCHIO RIBELLE)
“There is a crack
a crack in everything
That’s how the light gets in…”
Leonard Cohen
Sogni millenari girano nella città
con orologi muti e sguardi di corallo.
Voglie di donna scendono dalle torri
con maschere e farfalle di fuoco,
per legarti e stringere la radice oscura
della tua anima.
(Ma l’anima è una coppa di nostalgia
nasce dalla sorgente e muore nello specchio)
Una Dea magra, in filigrana antica,
travasa il silenzio dei bambini scomparsi.
(Bianco come il tuo dolore)
La mano che ha scritto in cielo
Mane Tecel Fares è morta lunedì.
Ha rubato il caos e le stelle danzanti.
La folla dei risorti lascia le sale di Mozart
in cerca dell’amore terreno.
(Ma l’amore è lontano,
nasce dal vento e si perde nei sotterranei)
Segui la processione delle spose tristi,
accanto alla statua che grida per le doglie.
(Ha in grembo un delirio di stelle)
Una folla di lune cieche t’invoca
dalla mezzanotte fonda, dove canta la Madre
e tutto il cielo è rinchiuso nella sua chitarra.
“Devi imparare il buio, la cenere, i mari spenti!
La Madonna bruna sale le scale, la senti?
(Ti perderai nel suo bacio eterno,
nella sua voce di tenebre nascoste,
nel suo sguardo senza nessuno)”.
NEL PORTO INVECE UNA BANDIERA DI SEGNALAZIONE, FORSE ROSSA
Amalgama di Io e mercurio.
Discarica da cui si staccano tumori.
I sensi altrove.
Traffico di rame in mano ai Narcos.
Bustine di oppio per dieci soldi un attimo di ascolto.
Istruzioni su come imbottire le maschere di Trump
E dunque lezioni di taylorismo dai tasti neri.
Una “L” scuote la chioma rossa
Ma si tratta di Gilda allo cherry e insetticida
Tra gli avanzi di un McDrive spuntò un testimone
Sniffava chimica perfino uno specchio
Un topo che sapeva come trattare l’ ossido
Suggerì di lucidare il Litio
Apparve un gran nasone, rosso carminio.
Di sicuro un transatlantico su Piazza San Marco.
I sogni invece sono creature autentiche
dici 77 spunta un lupo che azzanna in gola
E oggi se pigi un tasto resta uguale lo schermo
2 agosto uguale 12 Dicembre
Le ossa sbattono bollette
cessa di ballare la coda di lucertola
A garrire ci pensa un corvo.
Nel porto invece una bandiera di segnalazione, forse rossa
Il tritacarne col prezzemolo tra i denti
Impettisce perché Cartesio l’ha chiamato Vita.
(Francesco Paolo Intini)
Epilogo e testamento
E così me ne andai via tra miei e i tuoi singhiozzi
come un battello che si volta indietro e vede le sue onde
mescolate alle risacche. Così i doni della vita non sono
più naturali, e li disprezzo perché il conteggio è scontato
come il censimento delle vittime future… e noi siamo qui
interdetti in ogni pensare o fantasticare: questo è già un delitto!
Ma io li canto quei doni perché da tempo sono ultramondani
e non hanno più il fascino della sorpresa – come l’infanzia
che non s’addice più a un uomo – che non può più sognare!
Antonio Sagredo
Roma, 17 maggio 2013
—
(da Romaneta)
Eugenio Montale scrive di Guido Gozzano:
“Gozzano fu il primo dei poeti del Novecento che riuscisse ad attraversare D’Annunzio per approdare a un territorio suo”, e il primo poeta italiano che riuscisse a far cozzare l’aulico con il prosaico”.
Ecco, penso che Francesco Paolo Intini riesca a bene impiegare il grimaldello dell’attrito tra il prosaico e l’ultroneo e l’assurdo. È qui che scocca la scintilla, non tra «l’aulico e il prosaico» ma tra la significazione dotata di senso e di significato e una proposizione che decostruisce qualsiasi nozione di senso e di significato. Leggiamo due versi:
I sogni invece sono creature autentiche
dici 77 spunta un lupo che azzanna in gola
Ebbene, non v’è chi non veda che dopo la parola «i sogni» il discorso viene indirizzato direttamente e immediatamente verso l’assurdo e l’ultroneo. Scrivere dei «sogni» che «sono creature autentiche» significa fregarsene della significazione condivisa per puntare tutto su significazioni ultronee e palesemente insensate, se non assurde. Scrivere «dici 77 spunta un lupo che azzanna in gola», segna una rottura radicale con tutte le proposizioni del proposizionalismo poetico in vigore negli ultimi cinque-sei decenni di poesia italiana.
Qui si ha «un dire in cui la frattura originale della presenza era allusa nel paradosso di una parola che si avvicina al suo oggetto tenendolo indefinitamente a distanza». (Agamben, Stanze, p. 164)
Questo tenere a distanza l’oggetto e il suo significato è il concetto centrale da cui prende le mosse la destrutturazione che Intini compie della poesia italiana significazionista degli ultimi decenni.
Rottura radicale e senza equivoci che mi trova assolutamente d’accordo.
Una poetry kitchen radicale.
Ricordo agli amici de L’Ombra che il 77 nella smorfia napoletana suggerisce il sogno di un lupo ferito. Intini ha rovesciato il sogno! Ha detto: 77! Ed è spuntato “un lupo che azzanna alla gola”.
Caro Giorgio, hai ragione da vendere quando affermi con Agamben che questo “dire” di Intini è indice della frattura originale tra la parola e il suo oggetto; ma questa “dèfaillance” l’aveva segnalata qualche secolo fa anche il fondatore della ricerca linguistica moderna, De Saussure, e in varie e approfondite accezioni, anche Lacan.
Giuseppe Gallo