
Giorgio Ortona, autoritratto, agnostico, astemio e asintomatico, olio su tela, 533×375, 2020
Giorgio Linguaglossa
Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto
Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto. In ciò la critica del testo poetico, lungi dal ridursi a mera pratica ermeneutica, non può neanche appiattirsi a semplice teoria del senso. Se così fosse, il nucleo vuoto del reale resterebbe inviolato.
Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto. L’estraneità del reale al senso, tuttavia, non coincide precisamente con l’insensatezza del reale medesimo. Il testo poetico non risponde ad alcuna intenzione originaria di significazione, o a un «voler dire», il reale è il registro di tutto ciò che il testo non recita e che è fuori tanto dal senso quanto dal non-senso. Il testo poetico è proprio di un fuori-senso costitutivo del registro del reale. Indifferente alla sua logica, il senso è ciò che sfugge al reale in entrambi i versi del proprio dominio. Queste le parole di Lacan al riguardo, in uno dei numerosi tentativi di definizione del reale:
«L’Altro dell’Altro reale, ossia impossibile, è l’idea che abbiamo dell’artificio in quanto è un fare che ci sfugge, e cioè oltrepassa di molto il godimento che possiamo averne. Tale godimento sottile sottile è ciò che chiamiamo spirito. Tutto questo implica una nozione di reale. Certo, bisogna distinguerla dal simbolico e dall’immaginario. L’unica seccatura – è il caso di dirlo, vedrete fra poco perché – è che in questa faccenda il reale fa senso,mentre, se andate a scavare quello che intendo io con la nozione di reale, appare che il reale si fonda in quanto non ha senso, esclude il senso o, più precisamente, si deposita essendone escluso». 1
Tuttavia, malgrado la sua estraneità e la sua irriducibilità all’ordine simbolico, alla significazione e a qualsiasi tentativo di rappresentazione, esiste un modello in grado di riferire piuttosto adeguatamente l’opacità del reale al senso. Si tratta della lettera.
Qual è lo statuto della lettera in Lacan? Ben lungi dall’aderire al modello della scrittura tradizionale, la lettera è qualcosa di insignificante, o insensato, ma di quell’insignificanza o insensatezza che non indica tanto l’assenza di significanza o di senso, quanto l’estraneità, la revulsione ad esso. Ogni senso, così come ogni non-senso, è interdetto alla lettera, la cui solitudine indica l’emersione di qualcosa nel registro dell’esperienza umana (esperienza profondamente simbolica) come di un resto problematicamente irricevibile e non integrabile nell’esperienza stessa, in quanto dotata di senso. Esiste un’utilità della lettera, non riconducibile unicamente alla sua funzione indicativa, o sintomatica di un reale in quanto residuo o scarto non integrabile e non significante nell’esperienza del soggetto: si tratta, piuttosto, di una funzione di collegamento con una sorta di campo trascendentale del linguaggio, prima cioè che il linguaggio inauguri concatenazioni significanti di parole.
Si tratta, in altri termini, di annodare l’insignificanza della lettera al potere enunciativo delle parole, così da poter «godere del solo blaterare della parola». La questione di fondo è legata al riconoscimento del carattere esplicativo della lettera, nella misura in cui essa, prima ancora di costituirsi come segno in un sistema linguistico, polverizza il linguaggio riducendolo alla materialità di una cosa. E quella cosa che emerge come scarto nel linguaggio, altro non è che il reale stesso, non si aliena nell’esperienza significante del linguaggio articolato, ma vi si oppone, non fa resistenza, ma mostra l’emergere del reale come ulteriorità rispetto alla significazione delle parole. In questa prospettiva, il reale è ciò che interrompe il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico: irruzione del reale nella catena semiotica, impasse della formalizzazione del dispositivo linguistico. Il reale fa problema nella linearità del dispositivo linguistico, nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come una crepa che ne mina anche solo per un istante la stabilità. Del reale, dunque, non si dà sapere. Escluso all’iscrizione in un registro di senso, il reale non è dell’ordine del conoscibile, né dunque della verità. Come esso non si concede né al senso né al non senso, così esso risulta esteriore al conoscere e al non conoscere, nella misura in cui essi non sono altro che i poli opposti di un medesimo regime: il conoscere. Come sostiene Alain Badiou, una delle differenze sostanziali tra il reale e la realtà nel pensiero lacaniano consiste nell’inscrizione della realtà nel dominio di ciò che è, almeno di principio, conoscibile. Al contrario, il reale, che abbiamo visto essere esterno tanto al conoscere quanto al non-conoscere, non può essere pensato, per ciò stesso, nemmeno nei termini di inconoscibilità. Al di là di ogni formalizzazione, il reale lo si può solo incontrare.
Τύχη – L’incontro con il reale
Fuori dal senso, dalla verità, dal conoscibile e dall’inconoscibile, l’unico dominio cui il reale si concede è l’incontro. Ma v’è di più: nella differenza abissale che sussiste con la realtà ordinariamente intesa, il reale lacaniano è l’indice di qualcosa che appare improvvisamente nel mondo empirico e che ne interrompe il funzionamento, ne traumatizza l’esercizio. Il reale è ciò che resta disfunzionale rispetto al mondo.
Τύχη: come si sa, con questo termine ereditato da Aristotele, Jacques Lacan indica proprio l’incontro con il reale nella misura in cui esso prende le forme del trauma. E il trauma non è altro che ciò che nella realtà si presenta come inassimilabile alla realtà stessa. Trauma che irrompe nel funzionamento lineare della catena significante,che vi fa irruzione come buco, come taglio. Ma a costituirsi come trauma nel linguaggio è proprio un significante, ancorché del tutto particolare; un significante che, non ricollegandosi a nulla, incarna la mancanza, incarna il reale come iato. Eppure questo incontro è un incontro costitutivamente mancato. Nell’esperienza della psicoanalisi, sostiene Lacan, ogni appuntamento con il reale è un appuntamento tradito, eternamente rinviato. Perché il reale in sé è ciò che sfugge senza posa; non si dà appuntamento con il reale se non nella forma di un appuntamento mancato. Pur tuttavia, tale mancanza non indica affatto l’irrealizzabilità dell’incontro stesso: l’incontro con il reale si realizza nella forma della mancanza, della fuga, della procrastinazione indefinita. E l’effetto sul soggetto di questo incontro sempre mancato con un reale che si dà solo nella forma del trauma non può che essere un effetto perturbante, straniante, spossessante. Nell’incontro traumatico sentiamo venir meno la presa, il controllo su noi stessi e sull’esperienza ordinaria del mondo.
Tύχη è l’indice di una sorpresa traumatica che irrompe nella vita del soggetto. La natura evenemenziale della Tύχη in quanto incontro con il reale inscrive l’accadimento nell’esperienza e ne marca la difficoltà di controllo.
Tύχη è, altrimenti detto, l’evento dell’ «incontro del soggetto con il proprio impossibile». È l’incontro con il reale in quanto impossibile. Formula magica o ritornello sin troppo abusato nell’esegesi lacaniana, la descrizione del reale in termini di impossibile è tuttavia rivelatrice di quante e quali considerevoli resistenze e complicazioni siano intime ad ogni tentativo di inquadrarne lo statuto. Proprio per questo, il reale di Lacan, lungi dall’essere un’entità mistica, si configura come quella soglia evenemenziale indicibile che tocca il soggetto nel suo punto impossibile, così che il soggetto medesimo non sia in grado di riferirne alcunché: l’ineffabilità del reale coincide con la sua radicale estraneità all’ordine del senso e della verità. Puro punto di traumaticità. Ecco il reale. Ecco l’impossibile del reale.
Non l’irreale, dunque, ma l’impossibile come ciò che include in sé stesso il possibile nella forma dell’innominabilità, dell’ineffabilità, dell’irrappresentabilità. Ecco allora che il ricorso di Lacan alla nozione aristotelica di Tύχη per indicare l’incontro costitutivamente ed organicamente mancato con il reale, è mirato a definire il contatto del soggetto con l’impossibile di quel reale che giace al fondo di ogni possibilità, e che è limite ed origine primordiale e causativa di ogni contingenza.
1 1 J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psico-analisi 2003. p. 61 trad. It. di A. Di Ciaccia, Contri, Torino, Einaudi.
Gino Rago
Storia di una pallottola n.8
Ufficio degli oggetti smarriti di via Gaspare Gozzi. Il commissario Ingravallo ha requisito una busta con dentro questa conversazione telefonica.
Wislawa Szymborska:
«Madame Colasson,
avrei bisogno del suo cardiogramma».
Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, le posso concedere un cablogramma
con dentro il nulla».
Wislawa Szymborska:
«La sua pallottola viaggia sempre a scrocco…
E anche senza biglietto».
Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, sto dissipando le mie “strutture dissipative”.
Domani sarebbe già tardi, non posso risponderLe.
Adieu».
Storia di una pallottola n. 10
Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre.
Porta una mascherina. Gialla.
Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza.
Sale nella metro il filosofo Stavrakakis.
«È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.
Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson.
«Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile,
è una invenzione di Victor Hugo…».
Madame Colasson:
«Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco.
Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».
Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma
colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas)
fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano.
Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.
Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo.
Una volante a sirene spiegate.
Tre giubbotti antiproiettile fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani.
Uno, due, tre spari.
Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi,
guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente,
due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi.
Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti
proprio davanti al negozio di vini sfusi.
Apericena da Rosati a Piazza del Popolo.
Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve.
Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.
Da una finestra:
«Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…».
Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo
nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi,
Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.
Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera:
manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali.
Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:
«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato,
questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica,
i cassonetti della immondizia…».
Giorgio Linguaglossa
caro Gino Rago,
sono passati 101 anni dal saggio di Osip Mandel’štam Sull’Interlocutore, del 1919, il poeta di oggi non può più rivolgersi a nessun interlocutore. Questa tua poesia è figlia di questo tempo. Rende bene la differenza, anzi, l’abisso che passa (e divide) tra la visione della poiesis della Szymborska (sostanzialmente ancorata alla ontologia poetica del tardo novecento) e quella tua e di Marie Laure Colasson. Siete poeti della nuova ontologia estetica. È come se fossero passati mille anni dalla impostazione di Osip Mandel’štam.
Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso purtroppo le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.
Il vero potere destituente è la potenza destituente del «nulla» che abita la poiesis della nuova poesia della nuova ontologia estetica.
Marie Laure Colasson
Egregio poeta Gino Rago,
innanzitutto, questo dialogo lo trovo centrato perché assurdo e perché la sua incoerenza e inconcludenza sono la mia “tasse de thé” e poi perché trovo che la poesia di oggi abbia come interlocutore il “nulla” come infatti la mia pittura delle “strutture dissipative”, le quali hanno il compito di dissipare il “nulla”. E nient’altro.
Chi pensa che alla poesia arrida una qualche corona d’alloro, pensa banalità.
Distinti saluti.
da Circonvallazione Clodia n. 21
Milaure.
L’ha ripubblicato su l'eta' della innocenza.
Mi ha sempre colpito la frase di Adorno:
«La conoscenza si getta à fond perdu negli oggetti. La vertigine che ciò suscita è un index veri, lo shock dell’aperto, la negatività».1
E mi sono chiesto che cosa realmente volesse dire il filosofo tedesco. È che l’oggetto è quel prodotto del lavoro umano, e che quindi non è mai un prius, ma un post che è giunto fino a noi. Così l’oggetto quando ci raggiunge si è già incaricato il trasporto di tutto ciò che noi avevamo dimenticato o avevamo giudicato non essenziale. Ed è proprio lì il significativo, ciò che eccede il significato e rimanda alla cosa per essere di nuovo interrogata.
Allora, il racconto dell’oggetto in Storia di una pallottola di Gino Rago, è l’oggetto stesso nel suo farsi, nell’essersi così sedimentato. Descrivere un oggetto significa gettarsi a fondo perduto in esso per scoprire le storie che in esso sono nascoste o sono rimaste mute, vuol dire aprire una interrogazione. E allora scopriamo che l’oggetto altro non è che la storia della nostra interrogazione su di esso, l’archeologia di tutte le nostre interrogazioni. L’oggetto parla soltanto se interrogato, altrimenti rimane muto. Alle volte accade che sia l’oggetto stesso che ci parla, e ci scuote dal nostro torpore significazionista.
Il non-identico è tutto ciò che rimane come residuo della conoscenza identificante del soggetto. Quanto essa non riesce ad adeguare viene relegato nell’ambito dell’eterogeneo e del contraddittorio: non-identico è quindi tutto ciò che si sottrae al dominio dell’identità e che quindi viene bollato come non-essente. Il non-identico non è perciò irrazionale, ma irrazionalizzato. Il resto, il residuo, lo scarto è tutto ciò che il pensiero identificante del soggetto non è riuscito ad irreggimentare. Possiamo allora dire che ciò che è significativo è tutto ciò che resta fuori del pensiero identificante del soggetto. Lì è la verità dell’oggetto.
Cogliere il quid dell’oggetto significa coglierne la singolarità, coglierla diventa un ripercorrere a ritroso il processo del suo divenire, in un fitto intreccio di motivi critici ed ermeneutici, di ingredienti fantasmatici e fantastici che hanno contribuito a modellarla, cogliere le ragioni profonde che hanno portato ad una certa modellizzazione secondaria dell’oggetto.
La realtà è un campo di sperimentazioni senza verità, intenzionali e/o prive di intenzioni, frammentate, interrotte. Ciò si configura nel linguaggio, nelle parole di un certo linguaggio che, esso stesso disgregato e frammentato, cerca di aprire l’interno della cosa ricorrendo ad una riconfigurazione delle figure retoriche e dei tropi, «un po’ come le serrature di casseforti ben custodite, aperte non solo da una singola chiave o numero, ma da una combinazione di numeri».2 Solo così può liberarsi quella storia nascosta, coagulata, quel processo storico e sociale accumulato che è la verità della cosa, o le cose della verità che la storia dimentica negli angoli più riposti del suo svolgimento.
«Oggi il filosofo ha di fronte un linguaggio disgregato (zerfallenen Sprache). Il suo materiale sono le macerie delle parole, alle quali la storia lo lega; la sua libertà è unicamente la possibilità della loro configurazione in base al vincolo di verità in esse (nach dem Zwange der Wahrheit in ihnen). Egli può tanto poco pensare una parola come già data quanto inventare una nuova parola».3
1 T.W. Adorno, Ästhetische Theorie; trad. it. Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 55
2 Ibidem p. 146
3 T.W. Adorno, Thesen über die Sprache des Philosophen, in Gesammelte Schriften, Band I, hrsg. von R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973 (Tesi sul linguaggio del filosofo, trad. di M. Farina, in L’attualità della filosofia. Tesi all’origine del pensiero critico, Mimesis, Milano, 2009, pp. 81-86
Uno scambio di meditazioni, di precisazioni, di stimoli fra Milaure Colasson e Gino Rago, a partire dalla Storia di una pallottola n.1 del 10 aprile 2020
– Madame Colasson su Storia di una pallottola n.1
(del 10 aprile 2020)
*
Caro Poeta Gino Rago,
Le assicuro che non sono stata io, Madame Colasson, a sparare il colpo… Mia madre mi regalò tanti anni fa la sua rivoltella col manico di madreperla ed io a mia volta ho regalato il revolver a tamburo non ricordo più a chi tanto tempo fa…
E’ probabile che lui o lei sia l’assassino del povero poeta di Milano…
Io sono innocente!
In ogni modo la Sua poesia mi ha entusiasmato, è folle come piace a me e posso solo ringraziarLa di avermi collocato nella Sua poesia… come assassina!…
Comunque non escludo in assoluto che nel passato o nel futuro io non abbia sparato qualche colpo…
Un abbraccio affettuoso.
Milaure Colasson
*
(10 aprile 2020)
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Risposta di Gino Rago
*
Cara Milaure Colasson, Maestra delle «DISSIPAZIONI»,
tutto parte da qui, da questa nostra comune consapevolezza:
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
E segnalo che il revolver che ho visto nel mio sogno ad occhi aperti, ma fatto in presenza della ragione e che sulla scena della Storia di una pallottola n.1 Le ho attribuito, a me era parso che avesse il manico di avorio. Ma Lei mi dici essere di madreperla, e io Le credo.
Poi, la pallottola è uscita involontariamente dalla Sua pistola dal manico di madreperla e ha appena ferito il dottor Ciccio Ingravallo del Commissariato di Pubblica Sicurezza di Santo Stefano del Cacco.
Tutto sommato alla fine ha mancato il bersaglio del poeta del Nord, forse di Milano, che si è salvato, è stato dimesso da poco da una clinica privata e gira come se nulla fosse stato per le strade semi-deserte della città letteraria e per i piccoli quartieri della poesia epigonica fondata sul significante e sul significato, alla ricerca di qualche corona di lauro o anche perfino (ormai non si contano sul pallottoliere degli illusi e dei narcisi) del Nobel dagli Accademici di Stoccolma.
Quindi, cara Milaure, può stare tranquilla nel Suo «io-resto-a-casa» anche perché da un agente del KGB ho ricevuto una informazione sconvolgente, che è questa: il personaggio che la pallottola ha colpito a Via Merulana in realtà era (forse) Barabba…
L’agente del KGB, che ancora mantiene rapporti di stretta collaborazione con l’Ufficio Affari Riservati di via Pietro Giordani, mi ha invitato per questa rivelazione ad una nuova storia della pallottola e a ri-considerare le vicende di Barabba guardando attentamente in alcune poesie di PARADISO (Edizioni Scettro del Re) di Giorgio Linguaglossa…
Non so se lo farò, ma la cosa mi creda mi intriga.
Colgo l’occasione per:
– complimentarmi per l’ottimo Suo lavoro di commenti e traduzione delle poesie di Artaud;
– augurarLe una serena Santa Pasqua di gioia e di riflessioni sulle condizioni reali dell’uomo al tempo della pandemia: quest’uomo che prima del COVID-19 si sentiva onnipotente e padrone di tutte le cose del mondo, e invece continua a illudersi di poter rimanere sano su un pianeta malato.
Grazie madame Colasson per la Sua intelligente testimonianza,
Gino Rago
(11 aprile 2020)
Il reale emerge come le tracce del negativo nella lastra fotografica, come le tracce del corpo in una radiografia.
Le tracce del negativo che il discorso poetico ha l’obbligo di far parlare per via del fantasma e per via fantasmatica contengono un barlume di verità per quel pensiero che è il massimo responsabile della loro disgregazione. Il trascendimento del dominio (Herrschaft, dizione di Adorno), appare così legato non all’avvento di una ragione più luminosa e universale, ma di un linguaggio che sappia finalmente dar voce al negativo, senza arbitrio soggettivo e senza la violenza del soggetto che autolegifica.
Ti seguo sempre con molto interesse, sei la punta di diamante che apre la strada alla “poesia europea” Un caro abbraccio Luigina Bigon
cara Luigina Bigon,
grazie per l’apprezzamento del mio lavoro, ma è che senza il contributo di tutti i lavoratori dell’Ombra rimarrei muto anch’io… è il contributo fattuale di tutti che è uno stimolo per tutti, e anche per me, ovvio.
Pensavo che ha qualcosa di vero il vecchio aforisma attribuito talvolta ad Aristotele secondo cui “l’intero è più della somma delle parti”. L’intero dell’Ombra è più della somma delle singole parti.
Un caro saluto.
Giorgio
Un po’ per pietà, un po’ per negligenza e un po’ per calcolo, si lascia vivacchiare la filosofia in un ambito accademico sempre più stretto, dove si tende sempre più a sostituirla con la tautologia organizzata.
(Theodor W. Adorno, Minima Moralia)
Un po’ per pietà, un po’ per negligenza e un po’ per calcolo, si lascia vivacchiare la poesia in un ambito accademico sempre più stretto, dove si tende sempre più a sostituirla con la tautologia organizzata.
(parafrasi ad opera mia)
Stranamente, in quest’opera di Giorgio Ortona, come anche nel ritratto a Letizia Leone, si notano aspetti esistenzialisti. Mi sorprende perché in altre immagini di città si aveva l’impressione di stare in campo neutro… freddo, distaccato. La pittura è chiara e pulita, ma le immagini sembrano come disseppellite. Mi piacerebbe approfondire.
Grazie
Premesso che l’autoritratto è un genere difficilissimo, a mio avviso Giorgio Ortona è riuscito molto bene sia per il senso dei colori che per l’impostazione dei fondali; i colori ad olio sono come sospesi e tendono alla indefinizione e alla tonalità sui pastelli, soprattutto i fondali per far emergere la figura inquietante dell’autoritratto, l’impasto coloristico rende la pittura molto efficace e mi posso solo complimentare con l’autore.
Milaure.