
Giorgio Ortona, Arancione, indaco e celeste, olio su tela, 2020, 63,4 x 59,4 cm
Nel quadro è raffigurata Letizia Leone che cammina in una strada di Roma all’epoca del Covid19. Sì, «andiamo verso la catastrofe senza parole» scriveva Vincenzo Cardarelli nel 1919. Sono passati 101 anni e siamo allo stesso punto, andiamo verso la catastrofe senza parole. I colori si sono sbiaditi, sbiancati, indeboliti, Letizia ha una andatura casuale, impacciata, sembra avere un’aria stralunata… potrebbe andare al mercato a fare la spesa o ciondolare senza meta per il quartiere di Piazza Vittorio dove abita, a Roma. Non credo stia pensando alla rivoluzione che non verrà, forse, semplicemente ha fatto colazione in fretta, si è vestita come al solito, i capelli sembrano arruffati e guarda leggermente a lato, un po’ in alto, a dx… forse un gabbiano con le sue strida o un corvo sui cassonetti della immondizia sta attirando l’attenzione della passante, o forse nulla di tutto ciò, Letizia ha semplicemente mal di testa e non vede l’ora di prendere una aspirina… (g.l.)
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«“Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari”. Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile.
Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de “La Ronda”: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di “rivoluzione” è come parlare di ircocervi in scatola. Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”».1
La poesia di Franco Falasca fa parte di quel movimento sussultorio e ondulatorio di fine novecento che ha nome di post-sperimentalismo. Francesco Muzzioli nella postfazione di nature improprie (poesie 1976-2000), pubblicata nel 2004, parla di poesia «fondata sull’incongruo». Siamo dinanzi ad un discorso poetico dove è predominante un vistoso intento metaletterario: locuzioni accidentali si intrecciano a frastagliature frattali; locuzioni parenetiche, ipotetiche, ottative, dubitative, esortative si diramano nel tessuto ritmico-sintattico con tutta una congerie di espedienti retorici: dalla deviazione semantica, alla paronomasia, alla iper metafora per contatto, alla anadiplosi, alla analogia per dissimmetria, a frasari storpiati e incongrui… tutto ciò finisce per conferire ai testi un andamento di irrisione convulsa a metà tra la mestizia del grido impotente e la tristizia goliardica della derisione. È un proposito metaletterario quello che governa il dettato poetico di Franco Falasca, è la sua personale interpretazione dell’eredità dello sperimentalismo del tardo novecento. Falasca importa nel suo registro stilistico la più grande estensione di strumenti retorici dello sperimentalismo per piegarlo all’impeto dello sdegno civile e politico ma anche alla irrisione e alla derisione, al disincanto e all’incanto. Quello che ne deriva è, nei momenti migliori, un tessuto linguistico composto, mobile, variabile, esuberante, con vari moduli sintattici che si sovrappongono e interagiscono in un soliloquio con effetto di lacerante e grottesca ilarotragoedia.
Il discorso poetico da elemento di resistenza è diventato una condizione di esistenza. In questa lucida strategia di assimilazione della contaminazione rientra sia l’istituto dello spostamento semantico, sia il lavoro sul sotto testo, sia gli scambi semantici tra parole diverse. È l’iconologia del linguaggio poetico piccolo borghese che viene marionettizzata e ludicizzata. In questa operazione di marionettizazione del linguaggio poetico mediatico maggioritario la poesia di Franco Falasca trova la sua ragione di esistenza, la sua petitio principiis.
(Giorgio Linguaglossa)
1 G. Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 p. 10
Franco Falasca
da La felicità e le aberrazioni (poesie 2001-2010), Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2011
L’impero dei sensi
Il mondo è una sacra sindone
dall’acciaio curvo
la corda del giocattolo trilla sul vuoto pavimento
sottostante al mondo è l’improprio
ed io l’assecondo come un vigliacco filosofo
ma a sera sveglio
l’inguine irride le paludi
dove le rane aspergono le rituali
cerimonie dal carattere dorato.
È l’impero dei sensi o l’ossessione del vuoto?
Ogni ridicolo sapere cozza sul crostone
plumbeo all’imbrunire delle civiltà
osseo sapere
dal pane abbrustolito e dal vin santo
e dall’orizzonte di cartapesta
dove i tuoi sorrisi bruciano la mia drammatica
armonia.
Il filosofo sulla veranda
Dice il filosofo che la vita è un segnale d’allarme
senza allarme e senza segnale
e se la speranza è l’ultima a morire
l’allarme è il primo a suonare,
e se l’edera sporge dalla chioma
è già avvenuto il miracolo
della speranza che sostituisce l’allarme
e delle idee semplici che si vendono al mercato
della perspicacia inutile,
incantevoli idee ridotte a significato
per un ex-filosofo venuto a visitare
la casa e seduto sulla veranda
ricorda che il suo passato è nel futuro
e la sua memoria è una discarica
di computer fuori uso e condensatori ossidati.
Brutta storia quella del segnale d’allarme
per una poesia arrugginita e malinconica
priva di ogni ornamento
abbandonata a se stessa sulle foglie galleggianti
di uno stagno colorato.
Ascolto la sua voce solitaria
a volte gentile a volte assente,
sapendo che non c’è nulla,
un vuoto capillare e permaloso,
oltre le montagne rocciose.
Siepi atterrite
da rivoluzioni permanenti
appassiscono turbate dal circuito incorretto,
obbrobrio dell’inefficace linfa,
avvisati da assistenti stanchi,
per violentare il pensiero dinanzi alle dimore
del dio ribelle, colmo di rabbia cristallina,
in un inefficace squarcio della mente lucida,
un caduco siparietto,
in una valle senza nome.
Astronavi plissettate
Il cretino metallizzato caca isole rigogliose
stupefatto per l’insensata noia
e nel ripercorrere la memoria incauta
s’imbizzarrisce in una eterna esitazione
scrutando il non voluto orizzonte
dove sempre sosta un presente irrecuperabile:
nelle retrovie dell’angoscia similitudini planetarie
distruggono lentamente le inique deduzioni.
Pensando di avere le astronavi plissettate
s’industria godendo del nulla.
Orgoglio dopo orgoglio
continua a cacare isole rigogliose
sicuro della confidenza delle cose.
A sera assetato siede sulle vetrate popolari
sognando il giorno delle eterne distrazioni.
Di nulla vestito e di nulla circondato
s’industria nell’evirato cumulo di cose
a dondolarsi tra una scimitarra ed un orinatoio
vittima dell’arte ed inconsapevole monarca,
orgoglioso dello schiaccianoci,
e sereno successore del tempo non-tempo
e dello spazio non-spazio
in una cattiveria media e non soddisfatta di sé,
perenne.
Attraverso il cuore del mondo,
come un ebete dal ringhio meschino,
la poesia mi seguiva come un cane fedele o un’ombra,
come un cane fedele ad un mio cenno spastico,
oleosa e trasparente.
Dov’era la poesia? In un incerto brivido grigio
che aleggiava nell’aria invernale,
ma assente di senso
e di odore civile
(una pattumiera dell’inconscio)
conduceva dove qualcuno rabbioso perveniva
in un intrigo gelido d’indifferenza teologica.
Ho scritto innumerevoli testi su innumerevoli mondi,
innumerevoli mondi attendono altri innumerevoli testi.
È una aspettativa di assenze ripiene di cioccolato ebete.

foto Marie Laure Colasson, manichino n. 2, Bruxelles, 2015
da http://www.francofalasca.it
1.
Uno zaino grigio, una sera incapsulata in cornice, un giuoco,
appunto si muove e s’interroga
di quale destino dove e chi
e tenere sono le labbra e calibrati gli occhi sull’allusione ondulata
non ho ricordi finalmente
e l’osservo – incantato – antologia di presunte mitologie:
il caso mi assolve da colpe inesistenti, fruscii di acque,
siepi, silenzi voluti, ed un dilatato nuovo vuoto
nell’universo qua intorno: tienimi la mano
mentre leggo una iscrizione sul bordo di uno degli universi
possibili.
Era tutto questo in certe sere storiche che vanno
come filari di formiche
dovendo procurarsi esse il cibo e noi le emozioni.
Tenere sono le labbra e duri i modi,
antologia di presunte mitologie
da ora non più sparse: m’è apparsa
a dover stringere i nodi e demolire i ricordi
– il caso non ha memoria –
è un tranquillo stare ed un vorticoso pensare
da sere anche gli alberi sono felici
a vederti, rinnovato impasto del tutto
sparpagliato tra paesi e laghi:
è forse un occhio di solitudine nuova,
non pensiamo ad altro, apparente occasionale presenza
incorniciata da lisci capelli.
2.
Era il credibile panorama di sette nostalgie
su cui incombeva umile il trauma dei ricordi
e le erbe sfoltite tra gli arrugginiti cancelli
di una lezione distorta
mio era il sapere e mio il ricordo
e mia l’aria bruciata che ti circondava
non per desiderio di assuefazione possessiva
su quel volto scovato tra somiglianze del rinascimento
del giorno superficiale
su muri di cinta dei cimiteri;
le erbe sfoltite mute assecondavano
la mai sopita curiosità delle allusioni dipinte
dei capelli sciolti
delle perifrasi dette per cattiveria
dell’origine delle cose.
L’incudine corrotta gioiva di quella densa
pasta filosofica
nelle cui orecchie i ricordi calpestavano
le nostalgie di cartapesta.
*
da nature improprie, fabio d’ambrosio editore, Milano, 2004
VII
Sotto la stessa luna l’etica coagula
pensieri e sentenze da presunta larva
oscurata e derisa
da presunta luna sul senso compiuto
sentenza e derisione sull’orlo del tempo
in attesa d’energia storica che ripercorra il tempo
a lungo ed attraversando luoghi e spazi
estetica della rivolta
sesso ed artigiana mestizia
conclusa dove il destino dell’albero
apre all’estetica dell’orizzonte
l’origine di sé e del luogo del tempio
e del diritto e della statica applicata
consunto tempo di derisione programmata
luna derisa e programmata
ricaricata al canto dei giorni ipotetici
oscurati da labbra ed attese sul bordo dei portali
divelti nelle sue linee cineree
imposti da innumerevoli incontri
dove il patto facea destino o risibile storia
incuneatasi (vipera) nell’abbondanza d’agosto.
VIII.
D’agosto a luna tetra s’incontravano rospi
verdi à pois intrisi d’agosto sotto la luna
per energia o filosofia a reddito discosti
gracidavano ad un filo d’attesa innocui
al contatto della terra spuria d’insetti articolati
sul vialetto di pensieri sparsi
ogni giorno l’ombra essicca l’oasi
in un glaciale torneo a picchi vistosi
seme a sonagli decretati in vistosi dogmi
d’altri luoghi occultati al senso
filosofia del rospo ch’espelle il senso
dotato di vistose aporie
la prima sull’albero di fico
altre qua e là su verande di cotto
o su altre strade…
Franco Falasca è nato a Civita Castellana (VT), vive a Roma. Nel 1973 ha fondato (con Carlo Maurizio Benveduti e Tullio Catalano) l’Ufficio per la Immaginazione Preventiva con cui ha collaborato fino al 1979 (cfr. vol. omonimo, a cura di F. Menna, Marani editore, Roma, 1976), tentando di ampliare o indefinire la nozione di arte e letteratura (cfr. voll. autogestiti S.p.A. 1972-75, Roma; Imprinting, 1975-79, Roma, rivista di sperimentazione e linguaggio).
Ha partecipato tra le altre alle seguenti mostre od eventi: Art around ’70: Italy Two – Museo di Filadelfia (USA) – dicembre 1973; Biennale di Venezia: L’ambiente come sociale, Venezia – 1976; Incontri internazionali d’arte – Palazzo Taverna, Roma – 1977; Arte in Italia 1960-77 Museo Civico, Torino – 1977; Artericerca 78: Ricerca artistica territorio e ambiente – Palazzo delle Esposizioni, Roma giugno 1978; Testuale: Le parole e le immagini – Rotonda di via Besana, Milano – settembre 1979; Anni ’70. Arte a Roma – mostra collettiva di artisti italiani e internazionali, a cura di Daniela Lancioni – Palazzo delle Esposizioni, Roma – dal 16 dicembre 2013 al 2 marzo 2014.
Suoi testi e materiali vari sono stati pubblicati, oltre che nei cataloghi delle mostre alle quali ha partecipato, anche su varie riviste e antologie. Ha pubblicato i volumi: Una casa nel bosco ‑ Prose e racconti”, Edizioni Latium/Quasar, Roma, 1990 (Premio Letterario Orient‑Express 1990); “Nature improprie (poesie 1976-2000), Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2004 (Premio Lorenzo Montano 2004-2005); La felicita e le aberrazioni (poesie 2001-2010), Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2011; La creazione nota, Fabio D’Ambrosio Editore, Milano, 2017. Sito Internet: www.francofalasca.it
Delle poesie qui pubblicate di Franco Falasca preferisco l’ultima, della raccolta 2004. Nelle altre fatico a distinguere le parole, troppo il rumore di quel molto verseggiare. Non ho più la testa del soldato che campeggiava attorno al castello di Federico II, quando nel vederlo uscire a cavallo interrogava del sovrano il suo sopracciglio. Meglio stare in sella.
A sera assetato siede sulle vetrate popolari
sognando il giorno delle eterne distrazioni.
…
Dov’era la poesia? In un incerto brivido grigio
che aleggiava nell’aria invernale,
ma assente di senso
e di odore civile
(una pattumiera dell’inconscio)
Ecco, ci siamo. Da qui parte la poesia NOE, che non è poesia a discendere o a salire. Ma forse la push pin sul promemoria. Il punto.
La Mega Crisi quale causa efficiente della nuova poesia
Occorre prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: “Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione”. Il delirio, soprattutto se sistematizzato, finisce col dare ordine e senso a un’esperienza di caos insopportabile. È possibile pensare sulla scia di Lacan, che questa reazione accada quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, quel significante escluso, in significante – la paternità – a cui non corrisponde più alcun significato? Ora, questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto.
Questo preambolo per dire che al di sotto dell’esperienza della nuova poesia c’è una situazione di lacerazione, frammentazione, de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto, espressioni tipiche del nostro tempo di Mega Crisi.
Voglio dire che noi non ci saremmo mai imbattuti nella nuova fenomenologia poetica nella quale siamo impegnati se non vivessimo in un periodo di grande crisi (economica, politica, sociale e spirituale, e quindi anche stilistica), alla quale dobbiamo in qualche modo rispondere, trovare un senso alla crisi e malgrado la crisi; anche perché l’unico modo di uscire da una crisi devastante come quella che l’umanità sta vivendo nel nostro tempo, è attraversarla, trovare un senso alla crisi. Anche il non-senso sarebbe una risposta plausibile alla crisi che stiamo vivendo. Le bombe deflagrate nello Sri Lanka ci riguardano molto da vicino. La guerra civile della Libia ci riguarda molto da vicino. La pandemia del Covi19 ci riguarda da vicinissimo. La stanchezza per certe parole ci riguarda da vicinissimo. La guerra civile (strisciante) che da almeno un anno affligge l’Italia è un sintomo evidentissimo di questa Grande Crisi.
Ecco, io sono del parere che questa Mega Crisi o Crisi globale sia la causa efficiente della nuova fenomenologia del poetico. Noi tutti scriviamo la poesia che scriviamo in preda ad una frantumazione e de-valorizzazione di tutti i valori ai quali facevamo riferimento fino appena a ieri. Ecco, tutti quei valori, improvvisamente, oggi non valgono più, sono andati in disuso, sono stati rottamati. Oggi noi abbiamo di tutti quei valori soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti, nient’altro ci resta di integro, tutto è stato frantumato e rottamato. La Nuova Poesia non può che riflettere questa Mega Crisi dei valori e delle parole (che quei valori portano). Non è affatto colpa nostra né forse neanche merito nostro se abbiamo abbracciato una nuova ontologia estetica. Probabilmente, anzi, sicuramente dopo di noi verranno altre ontologie estetiche, il mondo non si ferma certo alla Nuova Poesia, ma adesso, in questo preciso momento segnato dalle lancette dell’orologio della storia, è il momento.
Grazie caro Giorgio per aver portato su l’Ombra l’opera di Ortona che mi ritrae in piena pandemia durante uno spostamento, un deambulare privo di senso tra le strade del quartiere Esquilino. Il quadro si associa perfettamente all’opera “Manichino” di Marie Laure Colasson in quanto eliminato il superfluo della narrazione restano indizi segnaletici di figure inespressive… manichini, marionette, passanti distratti si associano perfettamente ai versi ludici di Franco Falasca , le sue grottesche intaccano tanto materiale della tradizione e stereotipi letterari accatastati in una cesta dove si va a rovistare magari in lunghe ore di noia: “Una pattumiera dell’inconscio”…
D’agosto a luna tetra s’incontravano rospi
verdi à pois intrisi d’agosto sotto la luna
per energia o filosofia a reddito discosti
gracidavano ad un filo d’attesa innocui
al contatto della terra spuria d’insetti articolati
sul vialetto di pensieri sparsi
ogni giorno l’ombra essicca l’oasi
in un glaciale torneo a picchi vistosi
seme a sonagli decretati in vistosi dogmi
d’altri luoghi occultati al senso
filosofia del rospo ch’espelle il senso
dotato di vistose aporie
la prima sull’albero di fico
altre qua e là su verande di cotto
o su altre strade…
Il verso della terra arata, macinata nelle sorprese
di una didascalica città. L’ombra di palazzi e confindustrie,
l’alto gradimento dello smog.
La casa, i colli, le polveri sottili accidenti della emancipazione.
Un grido si risentimento.
La folla senza braccia a dimenarsi.
(Riconosco nella poesia di Falasca un grido.
La perfetta geografia poetica della contrapposizione
naturale contraffatto
“dal pane abbrustolito e dal vin santo
e dall’orizzonte di cartapesta
dove i tuoi sorrisi bruciano la mia drammatica
armonia.”
oppure
“luna derisa e programmata
ricaricata al canto dei giorni ipotetici…”
Bella voce sub urbana la poesia di Falasca,
la metterei a specchio
con i versi tutti meridionalisti,
in questo caso sub meridionalisti di Lino Angiuli.
(ma questa è un intuizione tutta da verificare).
GRAZIE OMBRA.
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Mi prendo un po’ di spazio per delle poesie pop a modo mio:
Tu eri il mio canelupo, e io ti portavo a spasso.
Abbiamo vissuto momenti del secolo scorso che oggi
sarebbero domeniche speciali. Al gelato doppio
per famiglie del Teatro insieme. Di fianco alla bocciofila.
Dammi la mano, amico. E’ l’ultima insegna.
Abbiamo capito l’antifona: tutto passa ed è bello così.
Prima che finisca l’ora del rubino, lingua di foglie autunnali
e qualche mare a Rimini, dovremo dirci la parità.
Musica in cambio di lumache, se piacciono.
…
Scrivo per bifolchi, non l’universale Warhol.
Che poi Lui nemmeno saprebbe distinguere due parole
dalle simili iniziali.
Comunque era sesso. Una bella di fianco al maestro
in canottiera. Aperitivo Giove. Esempio di raddrizzato
camionista fuori di testa per Björk – Come to Me,
Ma sono tutte uguali per il Caino che sembro.
Sole sole, portami una luce al parcheggio, un contrasto.
Padre, figlio, le cose ripetute che sai.
…
C’è un mare d’oppio sulle tamerici in fiore.
Forse anche l’albatros delle canzoni. E’ triste Venezia,
ci passano gli almiranti, una specie di 33 giri
sul posto, col braccio ingessato sul budino di nozze.
La figlia innocente di un patatrac. Noi, io, facciamo la spesa.
Camicia nera sotto camicia verde, materassi a molle.
Puzza di quaresima.
…
Ultima Baudelaire. Come farsi un cinghiale senza piangere
per la mutua dello spirito; che in poesia sarebbe
l’opera del fondatore, in mano un pugno di dollari.
Se non esagero, sono quattro poeti in uno, messi sul diritto
del bancone.
Mario Gabriele è un eternauta. Un singolo di Mogol.
Giorgio, stiracamicie nel suo tormento.
Gino Rago, con fuori la camicia sembra una ballerina
celeste. Così, per dire con Ulisse le Illuminazioni.
…
Per finire sul banco, la proboscide di un merito all’Esselunga.
Spiaggia libera dell’Università.
Poeti come piovesse che Dio la manda. Venite presto.
Il cuore canta melodie: datemi canguri, non cloroformio!
C’è vento d’emozione. Tante storie d’amore che, se passi,
senti squillare le voci.
(May, may 2020)
In corsivo i modi di dire.