Ho impiegato molto più tempo del previsto per la costruzione del video, e perché nelle ultime settimane sono stato poco bene (pressione alta poi bassa bassa…). e perché dal punto di vista tecnico è stato un lavoro abbastanza complicato. Le moltissime lettere dell’alfabeto che svolazzano qua e là e tutti gli altri oggetti, non sono immagini fotografiche ma oggetti tridimensionali. Quando cadono sulla “superficie” del black hole si comportano come veri e propri oggetti fisici. Seguendo la legge gravitazionale scivolano inesorabilmente nel buco. In teoria non si dovrebbe vedere alcunché di quanto avviene nel buco, però facendo finta di stare nei pressi dell’orizzonte degli eventi e avendo una telecamera adeguata…noi abbiamo il privilegio di vedere e ascoltare i coniglietti, forse perché qualcuno, dall’aldilà del buco, ha registrato l’evento. Non lo sapremo mai!
Che Einstein e Hawking, mi perdonino.
(Gianni Godi)
Giorgio Linguaglossa
Esercizio con violino e tamburo
K. sbatte la porta. Resto là, sulla soglia, per qualche minuto.
Impalato. Poi mi scossi e guardai la porta aperta. [1]
Madame Hanska aprì tutte le finestre, «Sa, le finestre sono nere», disse.
E fece entrare le madamigelle con il grembiulino.
«Buonasera Cogito – esordì Hanska – le cose sono cambiate
negli ultimi tempi». Prese una forbice e un posacenere
e li posò sulla siepe di capelvenere e di acanti.
«Sa, c’è una tigre e un pianoforte… Ecco, metto la forbice
sul pianoforte, adesso Vivaldi può suonare.
Woland ha ordinato ai gatti di suonare, il Requiem, quello, sì.
Solo quello. La musica uccide gli uccelli», aggiunse.
«Lo specchio avrà la sua vendetta», disse Baudrillard,
«Non resta che reinventare il reale», aggiunse tra il serio e il faceto.
Era seduta in mezzo alla camera. La tigre sorrideva.
«Per oggi basta con la musica – disse – dovrebbe esercitarsi più spesso.
Impari a suonare piuttosto. La rappresentazione è finita.»
Il commissario fece un buco nel muro
Entrò il commissario. Delle uniformi grigie lo seguivano.
Fecero un buco nel muro, dietro il quadro appeso alla parete.
«Qui è nascosta la refurtiva».
«Sì, da qualche parte ci deve pur essere», mi disse.
«Ne sono certo». Annuii. Guardai il cielo color lavagna,
e mi lavai le mani.
«Chi è Yolande?»
«Si chiama Yolande, ma non so chi sia…
Un tempo è stata la mia amante», risposi.
«Yolande è piccola, porta sempre scarpe con tacchi 12
E cappelli esagerati».
Sopra il cappello c’era un ombrello.
Però, era già notte. Entrai nel bosco.
La pioggia era fitta, mista a neve.
Così, ho preso il bus notturno per arrivare più in fretta.
Erano le tre.
Glossa
[1] Le tesi Sul concetto di storia di Benjamin si concludono con una frase paradigmatica: “ogni secondo […] era [per gli ebrei] la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia”. Questo significa che ogni momento di ogni giorno, in questa vita e in questo mondo, è il momento (“cairologico”) della decisione e dell’azione, il presente, e non il futuro, è il tempo della storia
*
La poesia si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere.
Al poeta è assegnato il posto nel “frammezzo”, egli è il mediatore tra gli dei e gli uomini, tra il «non più» degli dèi dipartiti e il «non ancora» del dio che ha da venire (Heidegger). Che io aggiornerei così: il poeta è il mediatore tra l’essere e il nulla, rivela il nulla dell’essere e l’essere del nulla. Per questo il poeta moderno non può che essere profondamente nichilista, anche contro la sua volontà e la sua intenzione. Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere.
Vera aspirazione della poesia è quello essere di casa e rendersi familiare (Heimischwerden) un’inquietante estraneità in cui comunque ci si trova spaesati (Unheimischsein), vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare andando a ritroso.1
Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.
Mia madre posa una forbice sui tasti del pianoforte.
Sono due miei versi che non significano nulla di concreto, non hanno un referente, come del resto anche nelle tue poesie non c’è nulla del concreto-presente. E forse questo è il modo migliore per poter essere concreti e presenti nel presente-passato e nel presente-futuro. Questo non significare nulla è forse il miglior modo per significare qualcosa di impellente che non può essere detto con il linguaggio del presente, quello della comunicazione.
(Giorgio Linguaglossa)
1 Cfr. M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister” a cura di W. Biemel, in Gesamtausgabe, cit., vol. LIII, p. 22; tr. it. a cura di C. Sandrin e U. Ugazio, L’inno, Der Ister di Hölderlin, , Mursia, Milano 2003.
La pop-poesia è l’erede della destrutturazione della «visione tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna
caro Lucio,
scrive il filosofo Slavoj Žižek:
«Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.
Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.
Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1
La «struttura tragica» di Maria Rosaria Madonna ha bisogno dell’oggetto. È sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo. Non sono d’accordo con la tesi di Slavoj Žižek per il quale la nozione freudiana di pulsione di morte può essere utilizzata egualmente anche per una civiltà del post-umanesimo del capitalismo globale, anzi, sono propenso ad ipotizzare che la pulsione di morte svanisce nella «merce», cioè nel «valore di scambio». La nuova civiltà dell’epoca della tecnica o cibernetica sembra aver fagocitato la pulsione di morte, annullandola nella «merce». Il feticismo della merce conterrebbe al suo interno la pulsione di morte rimossa, se non addirittura cancellata. Questo è l’aspetto inquietante delle società post-democratiche, che il capitalismo è esso stesso il prodotto della tecnica e causa esso stesso della tecnica. La risposta data da Duchamp di riabilitare l’oggetto, il ready made, rende evidente ciò che fino ad allora era rimasto occultato sotto le pastoie ideologiche e apologetiche del «bello». Siamo ancora oggi inchiodati al ready made di Duchamp. Tutta l’arte di questi ultimi decenni è appena un codicillo al ready made di duchampiana memoria, ma esserne consapevoli è già un piccolo passo per oltrepassare il ready made, per andare oltre la parola come segno.
Io penso invece che lo scacco matto del capitalismo globale risieda nell’aver rimosso la pulsione di morte, averla addomesticata e averla cancellata e rigenerata sub specie di «merce»; la merce sarebbe la resurrezione della pulsione di morte con segno invertito: da pulsione di morte a pulsione di vita. La pulsione di morte è il motore segreto di cui si alimenta il capitalismo che lo convoglia sulle merci come un mana, un sortilegio che accalappia tutti gli umani post-umani. Qui ci viene in soccorso un pensatore certo non marxista come Heidegger il quale scrive: «l’essere svanisce nel valore di scambio». E, con l’essere, anche la pulsione di morte svanisce nel valore di scambio.
Già Marcuse nei tardi anni cinquanta affermava che oggi le categorie psicologiche sono diventate categorie politiche. Che io chioserei così: oggi le categorie del politico sono diventate categorie della nuova psicanalisi e dei versanti cognitivisti della psicologia contemporanea.
La pop-poesia che stiamo facendo ha questa chiarissima consapevolezza, questa auto evidenza, che «l’essere svanisce nel valore di scambio» e che tutte le categorie della retorica della vecchia poiesis sono diventate categorie della nomenclatura psicologica; psicologismo ed estetismo si equivalgono e sono equipollenti nella inanità complessiva del pensiero filosofico sotteso.
Così, il «soggetto» della nuova pop-poesia diventa una «pallottola» sparata non si sa da chi e contro di chi. E qui il commissario Ingravallo fa cilecca perché le sue categorie indagatorie fanno cilecca, si rivelano carta straccia. E non potrebbe non essere altrimenti.
La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della pop-poesia o top-poesia che dir si voglia.
Penso che la pop-poesia abbia scoperto la valenza gestuale del linguaggio, a prescindere dal significato e dal senso. Cioè il linguaggio ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non vedeva, che anzi occultava e faceva di tutto per occultarlo, eppure un pensatore come Wittgenstein lo aveva chiarito da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è parte di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. E una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La pop-poesia è linguaggio gestuale e figurato allo stato puro. Ma ciò non significa che sia senza significato o senza senso come pensava l’ontologia del linguaggio poetico del novecento, al contrario, nella pop-poesia la valenza e la potenza del linguaggio figurato e gestuale ne viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.
Scrive Wittgenstein:
«Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. — Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto diverse sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente non quando facciamo filosofia».2
1 Slavoj Žižek e Glyn Daly, Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Intervista a Žižek, Dedalo, 2004 p. 92
2 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche § 11
Con il coronavirus è finita l’Europa
Massimo Cacciari
Incapace di prevedere le emergenze annunciate, miope, egoista e divisa. La politica del Vecchio Continente ha toccato il fondo. Ma potrebbe ancora riscattarsi prendendosi cura di quelle classi che hanno più sofferto e sono state ignorate
L’età della globalizzazione potrebbe diventare quella delle pandemie? Certo che sì. Come un collasso finanziario in un nodo del sistema contagia l’intero in tempi infinitamente più rapidi che nel passato, come una guerra, una carestia, una crisi mettono in movimento interi popoli che premono su frontiere sempre più virtuali, lo stesso è inevitabile avvenga per le malattie infettive.
Natura matrigna perciò? No, cecità culturale e politica. Non eravamo stati forse “avvisati” del trauma finanziario che blocca lo sviluppo economico e sociale dell’Occidente dal 2007-2008? Occorreva grande fantasia per comprendere che il modo in cui siamo intervenuti in Iraq, in Siria, in Libia avrebbe se non generato, certo moltiplicato i disperati flussi migratori di questi anni? È diverso ora per il coronavirus? Fino a un certo punto.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Who – appunto, chi è? Chi la conosce nei palazzi del potere?) da molti anni ha lanciato l’allarme. Le modifiche radicali dell’ambiente, la deforestazione, gli allevamenti intensivi, l’uso massiccio di antibiotici per gli animali (con conseguente resistenza all’antibiotico nell’uomo), il commercio illegale di fauna viva cosi come di carni o parti di animale, costituiscono una serie di cause precisamente documentabili per l’emergenza di gravissime pandemie.
In un incontro della Who del 2018 l’esplodere di un’Epidemia X esattamente con le caratteristiche (e sembra anche la genesi) del coronavirus era stata prevista. Evola, Sars, Mers non avevano insegnato nulla. Lo staffilococco aureo aveva fatto 7.000 morti in Europa nel 2015; nello stesso anno 33.000 persone avevano perso la vita per infezioni resistenti alle cure. Quando in Cina o in Corea trovano un’infezione in un allevamento altro non sanno fare che prendere in massa gli animali, cacciarli in una fossa e bruciarli vivi. Si vedano in rete le agghiaccianti immagini di stragi di maiali, in violazione tra l’altro di leggi internazionali sottoscritte dai vari Stati.
Di tutto questo pochi o nessuno stanno a parlare; solo l’emergenza la fa da padrona, come per le crisi finanziarie e sociali, e per l’immigrazione. (Emergenza perenne, che alla fine “sospenderà” parlamenti e elezioni, o ne dimostrerà l’inefficacia… è questa la tendenza generale? Fondamentale discorso che non possiamo qui svolgere).
Nessuna analisi di lungo periodo, nessuna coscienza dei pericoli (così come delle grandi opportunità) che fisiologicamente appartengono all’epoca in cui ci tocca di vivere. Strategie totalmente inadeguate. Si attende che il male arrivi, e poi a caccia di cure e vaccini. Gli scienziati prevedono e ammoniscono invano. Voci che chiamano nel deserto. Se ne invoca l’aiuto nell’emergenza, e poi via a tagliare di nuovo per formazione, ricerca, posti letto, ecc. Tanto nessuno sa e quel che si sa si dimentica.
Di una politica incapace di essere all’altezza del mondo globale, di sapere e di prevedere, l’Europa ha fatto sfoggio in questa crisi più ancora che nelle precedenti. Ed è cosa incredibile a pensarci, poiché questa volta non si trattava di egoismi locali, psicologicamente anche spiegabili se non giustificabili, come nel caso di difendere il proprio bilancio a scapito dell’“amico” o i sacri confini della patria dalla presunta invasione dell’alieno – no, questa volta si trattava di un’epidemia in corso e necessariamente destinata a coinvolgerci più o meno, prima o poi, tutti.
E invece per settimane e settimane ognuno “padrone a casa propria”, come se anche il coronavirus potesse essere bloccato nei lager libici o in quelli di Erdogan o alle frontiere del Brennero o tra Ventimiglia e Nizza.
Abbiamo forse toccato il fondo? Una Unione europea che non riesce a disporre tempestivamente un piano comune di fronte a un nemico di questo genere come potrà mai superare gli abissi che la dividono dalla attuazione di una qualche convergenza nelle politiche finanziarie e sociali, da una presenza politica decente sulla scena internazionale? La pandemia finirà – non le sue numerose, dichiarate concause, se non ci si mette tutti mano. E finirà con un’immagine della politica europea ancora più frammentata, occasionale, incapace di previsione e prevenzione, di prima.
Senza un grande sforzo in queste prossime settimane per interventi su scala continentale davvero coordinati, simbolo di questa crisi resteranno il cieco e sordo tecnicismo finanziario della Lagarde, della Bce orfana di Draghi, o le follie di Johnson e del suo staff (degne di uno Swift le loro battute sulla “terapia del gregge”).
Anzitutto a coloro che la crisi potrebbe colpire ben più gravemente dello stesso virus la politica europea è chiamata a prestare la massima cura, e cioè proprio a quei ceti e a quelle classi le cui sofferenze essa ha ignorato, ad esempio, quando dovette affrontare la catastrofe della Grecia. A chi non può “stare a casa” perché non ce l’ha, o ce l’ha, per così dire, troppo stretta per viverci a lungo comodamente, o a chi perdendo lavoro e reddito magari rischia di perdere anche quella. Non possiamo più permetterci una politica all’inseguimento degli eventi, fatta di semplici raccomandazioni, molta retorica, poco sapere e niente progetto. Se questa crisi segnerà la svolta, la ricorderemo tra vent’anni quasi con gioia. Ciò che è certo è che nulla deve essere più come prima.
da l’Espresso
Caro Giorgio (Linguaglossa),
grazie, grazie, e davvero complimenti vivissimi, con un affettuoso saluto da parte di
Mariella (Bettarini)
Grazie Giorgio😂 *Gianni Godi* Tricolor
Il giorno sab 30 mag 2020 alle ore 17:38 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona
Gino Rago
Storia di una pallottola n. 10
Metro B. Fermata Colosseo. Sale il Fantasma del Louvre.
Porta una mascherina. Gialla.
Milaure Colasson con la sua Birkin è in fondo alla carrozza.
Sale nella metro il filosofo Stavrakakis.
«È Belfagor! Fermatelo! Le fantôme du Louvre!», grida.
Un agente in borghese pedina Marie Laure Colasson.
«Signora, pardon, mi sono invaghito di lei, non creda a Belfagor, non è possibile,
è una invenzione di Victor Hugo…».
Madame Colasson:
«Monsieur, è tutta colpa di Juliette Gréco.
Rivolga istanza all’Ufficio Informazioni Riservate».
Da una Beretta calibro 9 una pallottola di gomma
colpisce in pieno un kit anti-Covid-19 (mascherina e visiera in plexiglas)
fissata con una molletta sul filo dei panni del balcone del quinto piano.
Il filosofo Stavrakakis litiga con il filosofo Žižek.
Ingravallo dice che Linguaglossa è un sovversivo.
Una volante a sirene spiegate.
Tre giubbotti antiproiettili fanno irruzione al quinto piano di via Pietro Giordani.
Uno, due, tre spari.
Sequestrano tute, occhiali cinesi, una videocamera a raggi infrarossi,
guanti in lattice, un termoscanner, una soluzione idroalcolica, un reagente,
due confezioni di amuchina, mascherine chirurgiche FFP2, tamponi.
Cadono sulla strada dei vasi da fiori sulla testa di due clienti
proprio davanti al negozio di vini sfusi.
Apericena da Rosati a Piazza del Popolo.
Marie Laure Colasson incontra Catherine Deneuve.
Parlano di quella scena che girò tutta nuda in “Belle de Jour”.
Da una finestra:
«Quelli eran giorni, sì, erano giorni. Noi ballavamo anche senza musica…».
Vittorio Gassman parcheggia l’auto sportiva a Piazza del Popolo
nel film “C’eravamo tanto amati” (1974), regia di Ettore Scola con Nino Manfredi,
Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli.
Ripostiglio di sartoria teatrale al primo piano di via Gabriello Chiabrera:
manichini, scampoli, aghi, spolette, fili di seta, bottoni, ditali.
Montale sta provando una giacca di velluto a coste fini:
«Ahimè, la Musa mi ha abbandonato,
questi giovinastri preferiscono gli stracci, le discariche abusive, la plastica,
i cassonetti della immondizia…».
POP-POESIA, una meditazione
A proposito di certi aspetti di ciò che stiamo tutti insieme pro-ponendo come pop-poesia, (benché Milaure Colasson preferisca dire «top-poesia»), Giorgio linguaglossa e la stessa Milaure Colasson scrivono:
«[…]Il disallineamento fraseologico, la compresenza di salti e sovrapposizioni temporali e spaziali, l’intervento e la compresenza di interferenze, l’impiego di Avatar, Icone, Luoghi e personaggi svariati danno alla poesia della nuova ontologia estetica una mobilità e una imprevedibilità assolutamente originali.
Nella NOE non c’è più il «soggetto» che commenta, glossa, legifera o delegifica intorno ad un oggetto, anzi, l’oggetto si è liofilizzato, è diventato polistirolo liquido, si è atrofizzato e non se ne trova più traccia… se non nelle discariche, nei rifiuti urbani e suburbani, nei retrobottega del Monte del Banco dei Pegni, nei ripostigli dei rigattieri e nei magazzini di Porta Portese [come il Montale nel ripostiglio di sartoria teatrale della storia di una pallottola n.10 di Gino Rago]…».
Ciò significa, tradotto in soldoni, che fantasia e immaginazione del poeta della pop-poesia e «significato» sono ai ferri corti.
I poeti della pop-poesia hanno già consegnato nelle mani degli ambasciatori e dei difensori del «significato», inteso ancora come cifra portante della poesia, la loro dichiarazione di guerra.
Perché?
La risposta è semplice ed è questa:
se si registra ancora la persistenza del significato la fantasia e l’immaginazione si dissolvono e la Musa scappa a gambe levate se avverte anche minimamente la presenza del significato…
Gino Rago
Egregio poeta Gino Rago,
innanzitutto prendo le distanze da quel poliziotto in borghese che mi ha pedinato durante tutto il mese di agosto in pieno solleone… il figuro non faceva che sbirciare la mia gonna… e poi sono desolata che in questa triste vicenda con il commissario Ingravallo sia stata investita anche l’Ambasciata di Francia cagionando un incidente diplomatico. Tutto ciò per le intemperanze di un commissario inadeguato e incompetente. Sono contenta che Ingravallo sia stato rimosso dal suo incarico e rispedito a Campobasso, suo paese natale. Questo pettegolezzo mi è stato riferito dal Signor Linguaglossa il quale è un notorio “sovversivo” come bene sanno i servizi deviati di stanza nel bel Paese.
Però devo dirLe che il mio incontro con Catherine al caffè Rosati di piazza del Popolo è stato molto piacevole e con lei ho scambiato due chiacchiere sulle nostre rispettive “nudità”,
Non le nascondo, comunque, il mio apprezzamento franco e disinteressato per la sua Storia di una pallottola n, 10…
Aspetto con impazienza il seguito della Storia malfamata. Ma, per favore, non mi faccia più incontrare con quel buzzurro di Ingravallo!
Affettuosamente,
Milaure
caro Gino Rago,
la poiesis è una struttura desiderante ed è situata in una dimensione dove del de-esse non se ne fa nulla. Non nell’essere ma nel de-essere, questo è il luogo della poiesis.
Piuttosto, chiediamoci: è la poiesis-desiderio una sequenza di pratiche di vita in grado di lasciare trasparire una forma ascetico-dionisiaca che, proprio in quanto tale, non presenta nulla di privato?, oppure è il privato auto dispiegantesi?, e cioè il pubblico?
In Foucault, il desiderio si afferma come un meccanismo politico cruciale, rappresenta lo spazio dove il bio-potere contemporaneo gioca la sua partita. La poiesis-desiderio sperimenta la sua partita e la sua dipartita tra fallimenti, passi indietro, trionfi, dietro-front, forme diffuse di controllo post-giuridico della vita, spinte al déréglement etc.
Se si legge con attenzione, nella mia poesia postata sopra, il desiderio risulta già irreggimentato interamente nella dimensione bio-politica, assoggettato alla Legge. Non c’è via di uscita.
Nella poesia di Gino Rago, invece, il desiderio-poiesis attraversa la dimensione del de-essere come una pallina da flipper nel flipper, va a sbattere di qua e di là e ritorna sempre al punto di partenza. L’inizio e la fine coincidono.
Il controllo bio-politico della soggettività delle società post-democratiche proprie dell’età del liberalismo coincide con l’assoggettamento della soggettività e con il suo affievolimento. Ecco perché ho parlato di recente di alcuni poeti di oggi che fanno poesia del bio-politico e della vita privata, del foro interiore e dei suoi paradisi fiscali. Questo è un punto decisivo. Certe forme di arte del bio-politico periclitano invariabilmente nel Kitsch, in particolare quelle dove ci trovi il racconto dell’io e affini. L’inconscio politico di cui ci parlano alcuni filosofi marxisti (Stavrakakis e Žižek) non è quello spazio aperto dove il desiderio viene assoggettato alla dimensione del bio-politico?.
Foucault considera il desiderio una forza storica determinata da fattori sociali che non prevedono scarti, che nel presente emergono e si consumano. Per Deleuze, Foucault non vede che pur nel processo d’omologazione neo-liberale del desiderio, persiste un formidabile principio di omogeneizzazione in cui la singolarità potrebbe ritrovarsi a desiderare altrimenti perché costantemente segnata da vie di fuga, deragliamenti, déréglement. Insomma, il desiderio non può essere totalizzato. Tra Deleuze e Foucault non c’è soltanto un dissidio sul tema del desiderio, sono innanzitutto vicini perché negano la negatività del desiderio tipica del Lacan hegelo-kojèviano. Tuttavia, la critica di Foucault al neoliberalismo – l’età del dominio del desiderio; dell’assenza di libertà per un eccesso di libertà – lo consegna a una posizione non del tutto estranea ai timori che alimentano le posizioni politiche dei lacaniani di sinistra di oggi.
Nella costellazione teorica che implica i nomi di Deleuze e Foucault, la questione del desiderio ha un evidente spessore politico la cui definizione ha un carattere centrale: in Foucault è il termine ultimo di un sabotaggio politico di ciò che noi siamo per farci essere sempre ciò che siamo. Il desiderio è ciò che ci consegna un’identità quando, nella società molecolarizzata, non siamo più nessuno. Vale a dire, il desiderio è ciò che non ci permette di rifiutare ciò che siamo diventati. In Deleuze, invece, non si nega che il desiderio sia il nucleo di qualsiasi territorializzazione del potere; allo stesso tempo, però, costituisce l’occasione per spezzare qualsiasi occlusione alle sequenze evenemenziali della vita. Ciò può accadere perché in Deleuze il desiderio si colloca sempre altrove rispetto a dove te lo aspetti: si ritira, riemerge, si struttura al di là di qualsiasi struttura.
Ogni genere di opera cela un segreto. Solitamente, nelle opere moderne questo mistero non si nasconde, anzi, fa bella mostra di sé. Tuttavia, proprio in questa trasparenza, si annida il segreto. Nel pieno della visibilità, emerge una impossibilità, una impermeabilità ermeneutica. L’ermeneutica perde il suo oggetto, non lo vede più. Il mistero più abissale, è proprio l’assenza di qualsiasi mistero. Quest’assenza ci sottrae la cosa, ce la toglie, rendendo problematico qualsiasi tentativo di messa a fuoco di essa. C’è qui un buco nero concettuale, una evidente aporia. Questo vicolo cieco teorico, questo anacoluto speculativo, in realtà è l’indice di una questione che va ben oltre le evidenze dell’arte moderna. C’è qui una impasse, una aporia che deve essere affrontata.
Condivido spirito ed essenza delle meditazioni di Giorgio Linguaglossa e credo e penso fermamente che proprio questo stadio avanzatissimo della nostra poesia, come appunto la pop-poesia, sia in grado di promuovere l’auspicata ri-fondazione della polis attraverso la formazione di un altro tipo di cittadino, un nuovo cittadino per una nuova polis.
È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.
Parallasse
È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere la procedura della poesia dei poeti della nuova ontologia estetica. Nella loro poesia è rinvenibile in atto questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»
[The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *
* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.]
Sulla pop-poesia
Penso che l’atto fondativo della nuova pop-poesia è stato quello di sottrarre la poesia al logos della ragione raziocinante, che poi era nient’altro che il Logos dell’io. In questa accezione, la poesia di uno Zanzotto non differisce poi molto da quella del tardo Caproni, di un Sanguineti, del tardo Fortini, o di Pasolini, l’artefice è sempre il soggetto e le sue crisi di identità e di significazione. Con la pop-poesia tutto questo è caduto nell’oblio. Il colpo di destrezza è stato quello di portare la poesia fuori del Logos, fuori della Ragione raziocinante e di dare vita a personaggi e a situazioni che si reggono nel nulla, che sopravvivono soltanto nel vuoto, che custodiscono il loro mistero, il loro Enigma.
Nei personaggi e nelle situazioni della poesia di Gino Rago, in quelli di Mario Gabriele, di Marie Laure Colasson, di Francesco Paolo Intini, di Carlo Livia e di altri non c’è più il referente del significato o del significante che ci può aiutare, la nuova poesia sfida la logica del senso e del significato, sfida la psicologia, e sfida anche l’ermeneuta che voglia sondarne le significazioni implicite.
I personaggi veri e inventati, le icone, gli avatar, le situazioni ultronee sono il prodotto di ciò che non è rintracciabile nel linguaggio se non attraverso dei sostituti, delle trasposizioni. Il desiderio della poiesis-desiderante tende sempre fuori del linguaggio.Das Ding, la Cosa non è per Lacan un oggetto desiderato, non ha un contento determinabile nel linguaggio. Ciò a cui la Cosa si riferisce non è rappresentabile, non può aver accesso allo spazio psichico, e perciò essa, dice Lacan, è «il fuori significato [le hors-signifié]». Non appartiene allo spazio del simbolico inaugurato dal linguaggio, ma a quello del «reale». La Cosa si situa sul piano dell’inconscio, il desiderio originario si volge alla dimensione inoggettivabile in quanto non meramente ontica ma squisitamente ontologica, di das Ding (Cfr. in Kant, l’“in sé”, non diventa mai fenomeno).
«L’uomno di fiducia (The confidence-man, un po’ come si dice Medicine-man, l’Uomo di fiducia) è disseminato di riflessioni di Melville sul romanzo. La prima di queste riflessioni consiste nell’avocarsi il diritto di un irrazionalismo superiore (cap. XIV). Perché il romanziere dovrebbe sentirsi obbligato a spiegare il comportamento dei suoi personaggi e a darne ragione, mentre la vita, per parte sua, non spiega mai nulla e lascia nelle sue creature tante zone oscure, indiscernibili, indeterminate, che sfidano ogni chiarimento? È la vita che giustifica, non ha bisogno di essere giustificata. Il romanzo inglese, e più ancora il romanzo francese, sentono il bisogno di razionalizzare, anche se solo nelle ultime pagine, e la psicologia è senza dubbio l’ultima forma del razionalismo: il lettore occidentale aspetta la battuta finale. In questo senso la psicoanalisi ha rilanciato la pretesa della ragione. Ma se essa non ha risparmiato le grandi opere romanzesche, nessun grande romanziere del suo tempo è riuscito a trovare un vero interesse nella psicoanalisi. L’atto fondativo del romanzo americano, come anche del romanzo russo, è stato di portare il romanzo lontano dalla via della ragione, e di dare vita a personaggi che si reggono nel nulla, sopravvivono nel vuoto, custodiscono fino alla fine il loro mistero, e sfidano logica e psicologia. la loro stessa anima, dice Melville, è un “vuoto immenso e terrificante, e il corpo di Achab è una “conchiglia vuota”. Se hanno una formula, non è certamente esplicativa, e il PREFERISCO DI NO resta una formula cabalistica come quella dell’uomo del sottosuolo, che non può impedire che 2 più 2 faccia 4, ma che non vi si rassegna».1
1 G. Deleuze in Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, Bartleby La formula della creazione, Quodlibet, 1993 Macerata, p. 31
https://www.artribune.com/television/2020/05/video-fire-pozar-un-cortometraggio-inedito-di-david-lynch-su-youtube/
Gianni Godi ha messo in luce l’aspetto più recondito della poesia di Giorgio Linguaglossa: è poesia avveniristica, in largo anticipo sui tempi.
Lucio Mayoor Tosi: Ho provato a farlo. Forse ci sono riuscito solo in parte!
Caro Gianni,
ho fatto di mestiere l’art director, quindi per tanti anni ho avuto modo di riflettere sul rapporto tra parola e immagine. Mio compito era quello di visualizzare concept. Ora penso che il modo migliore sia quello di sommarli, in modo che le parole dicano una cosa e le immagini un’altra. Voglio dire, conta l’imprevisto. Infatti nei tuoi video accade: quando un personaggio parla ti devi aspettare di tutto, è imprevedibile. E così l’immagine.
Al cinema, nei film di commedia high-quality, da Altman a Woody Allen, le inquadrature sono quasi sempre ferme. Il regista procede per stacchi, le immagini servono a contenere le parole. Tu invece le muovi, tutto si muove… ogni singola cosa è protagonista.
Secondo me stai facendo benissimo. Complimenti. Anche per le voci.
Grazie del commento, Lucio!
Di fatto, dato che stiamo parlando di video, ho sempre pensato che il movimento sia essenziale, altrimenti basterebbero le fotografie, magari bellissime. 15 anni fa provai a fare un video con centinaia di fotografie, principalmente volti sorridenti in primo piano di miei paesani. Le foto furono scattate in occasione di tutte le feste paesane del 2005.
Ad ogni persona che fotografavo, chiedevo di guardare intensamente l’obiettivo e di pensare al futuro.
Ne venne fuori un video di circa 80 minuti. Le immagine “estratte” furono messe in continuo lento movimento, “senza fine”, sovrapponendole fra loro o a immagini più o meno stilizzate, del paese o a situazioni di festa. Il video fu fatto per uso “domestico”. Per ragioni misteriose le immagini ti “catturano”. Per poterlo mostrare in pubblico, dovrei cambiare la colonna sonora! Se il Covid 19 o altri malanni me lo permetteranno potrei provarci!
caro Gianni,
grazie innanzitutto per il tuo lavoro, per noi è importantissimo questo incontro tra arti e poetiche artistiche diverse: poesia, romanzo, pittura, video-art e musica. È questo il nuovo modo di pensare e di condividere la nuovissima pop-arte, pop-poesia, pop-video-art, la poesia non può vivere da sola, non può sopravvivere nel suo «splendido» isolamento che è diventato solipsismo autarchico, la poesia ha bisogno del confronto critico e dello scambio tra tutte le arti e con il pensiero filosofico.
Mi trova completamente d’accordo la grammatica con cui è stato costruito il video, l’impiego dei puffi-avatar della seconda parte del video l’ho trovato originalissimo e di fortissimo impatto emotivo e semantico; sei riuscito a mettere in evidenza la fortissima negatività del testo poetico con un fortissimo tasso aggiunto di straniamento delle immagini e delle icone. Il risultato complessivo mi è sembrato notevole. Ho ascoltato voci recitanti (bravissima la voce recitante femminile) straniate e stranite che hanno messo in evidenza l’essere delle voci prive di referenza, prive di corporeità fisica, quasi che le parole scavassero un vuoto nel linguaggio, una impressione di sospensione e di indecidibilità nel vedente ascoltante.
Grazie del tuo lavoro insostituibile.
Un saluto.
Giorgio Linguaglossa
Se la patafisica è la scienza delle soluzioni immaginarie, per la pop-poesia non ha senso parlare di «soluzioni immaginarie», la pop-poesia avverte l’esigenza di reinventare il reale come finzione, come gioco di specchi, come costruzione e decostruzione ad un tempo del linguaggio nel linguaggio.
Non si tratta di una riscrittura segnica della realtà, perché la realtà come noi la intendiamo non esiste, ma è già, in quanto tale, frutto di una simulazione; si tratta piuttosto di porre in essere una dissimulazione auto ironica della realtà, perché essa viene distrutta e insieme ricostruita proprio nel non-luogo che la contiene: nello specchio del linguaggio.
Ieri sera Marie Laure Colasson dopo aver visionato il video di Gianni Godi, ha riconosciuto la grande capacità dell’autore di reinventare il linguaggio poetico in un altro linguaggio, un linguaggio simulacrale fatto di avatar, emoticon, figure tridimensionali che si avvale della stessa grammatica del web per ricostruire un video secondo un modernissimo concetto di spazio simulacrale-virtuale. Ha fatto un pop-video, se così possiamo dire.
Per come la vedo io, Pop è scrivere nel geroglifico del banale. Merito dell’arte pop è quello di rendere manifesto e riconoscibile il banale. Dopo l’epoca della grande narrazione, il passo successivo. Nomi e oggetti del vecchio mondo, ancora qui: autentico vintage.
E’ d’uopo!
“Linoleum, linoleum, linoleum…”
Tutti allo stesso tempo
(Ossia un concerto di voci
Ovvero coincidenze)
Personaggi:
Emme
Erre
Emmea
Ci
E
Gi
A
Effe
Esse
L’operatore, ovvero
studio teatrale 22.04.90
rivisitazione maggio 2020
AMBIENTAZIONE: (nove posti a sedere disposti a diversa altezza; agli estremi di essi alcune file di scatole tutte uguali. Nove individui occupano i rispettivi posti e a ritmo si passano le scatole. Tutti sono vistosamente scalzi. S, ad un estremo, avrà il compito di ripristinare la fila di scatole; dall’altro capo, M, avrà cura di riproporre il giro delle stesse. Gli altri personaggi: R, Ma, C, E, G, A, F.)
(Terminando il giro silenziosamente)
M
R
Ma
G :
A :
F :
S : vuota!
M: Incomincio ad essere stanco.
R: che senso ha?
Ma: appunto che senso ha?
C: …” Che senso ha?” Cosa?
E: questa ricerca suppongo?!
G: no, no…forse il senso…
A: …ho inteso!
F: io niente!!!
S: centro quarantatré! Vuota!
M: Passa.
R: anch’io incomincio ad essere stanco!
Ma: io ancora no.
C: cercare, cercare, cercare…
E: mai essere stanchi…
G: appunto!
A: certo!
F: su sbrigatevi! (È l’unico a dare segni di impazienza)
S: vuota!
(Toccandosi i piedi)
M: ho i piedi freddi.
R: i miei sono di ghiaccio.
Ma: i miei infreddoliti.
C: i miei semi rigidi.
E: i miei raffreddati.
G: i miei ibernati.
A: i miei congelati.
F: i miei…non ci sono! (Tutti disapprovano)
S: vuota!
M: Eppure le avevo
R: anch’io le avevo
Ma: difatti le portavo
C: anch’io le portavo
E: io le calzavo
G: anch’io le indossavo
A: io le infilavo
F: io…semplicemente camminavo
S: vuota!
M: era un quarantuno!
R: il mio un trentanove!
Ma: il mio un trentacinque!
C: il mio un trentasette!
E: il mio un trentasei!
G: il mio un trentotto!
A: il mio un trentanove!
F: il mio…un centoottantotto! (Tutti disapprovano)
S: vuota!
M: Mi mancano.
R: anche a me.
Ma: pure a me.
C: a me anche.
E: a me pure.
G: sicuro.
A: chiaro.
F: oscuro! (Disapprovano tutti)
S: vuota!
…/…
GRAZIE Ombra.
Lo conferma anche qui, in questo lavoro: Mauro Pierno ha delle folgorazioni geniali. (Mauro, non vedo l’ora di leggere Compostaggi con mia prefazione…).
Bravo Mauro Pierno.
Gianni Godi ha saputo anche in questo lavoro su/dentro i versi della pop-poesia di Giorgio Linguaglossa essere alla altezza della fama che lo precede, un lavoro che scuote, e che fa riflettere, al di là del semplice emozionalismo d’accatto dei più, emozionalismo dell’io-narciso che non ha nulla da dire né da dare, ormai da tempo…
Bel post davvero denso di spunti riflessivi.
L’ombra ha sempre una gamba in più!
…E poi intricante questo testo teatrale ultimo postato…
Cari amici,
Queste sono le ultime parole di George Floyd, un uomo di 46 anni ucciso da un agente di polizia statunitense che lo ha bloccato, premendogli il ginocchio sul collo con tutto il suo peso per quasi nove minuti:
«È la mia faccia, amico
non ho fatto nulla di grave, amico
ti prego
ti prego
ti prego non riesco a respirare
ti prego amico
qualcuno mi aiuti
ti prego amico
non riesco a respirare
non riesco a respirare
ti prego
(parte non comprensibile)
amico non respiro, la mia faccia
devi solo alzarti
non riesco a respirare
ti prego, un ginocchio sul mio collo
non riesco a respirare
merda
lo farò
non posso muovermi
mamma
mamma
non ce la faccio
le mie ginocchia
il mio collo
sono finito
sono finito
sono claustrofobico
mi fa male lo stomaco
mi fa male il collo
mi fa male tutto
un po’ d’acqua, o qualcosa
vi prego
vi prego
non riesco a respirare, agente
non mi uccidere
mi stanno ammazzando
ti prego, amico
non riesco a respirare
non riesco a respirare
mi stanno ammazzando
mi stanno ammazzando
non riesco a respirare
non riesco a respirare
per favore, signore
ti prego
ti prego
ti prego non riesco a respirare»
Poi ha chiuso gli occhi e ha smesso di supplicare. La morte di George Floyd è stata dichiarata poco dopo.
Entra nelle grazie di un bottone la fessura rauca
di un volto nobile.
La voce fa una fossa nella strada.
Un girotondo di parole inservibili
di alcuni bimbi
colti sul fatto.
(Nella seconda parte dei frammenti filmici di Godi che attraversano le poesie di Linguaglossa quella che più ho colto è questo girotondo di voci di bambini. Notevole la recitazione se si tratta di una sola ed unica voce femminile! Ora che ci penso è tutto un gioco al rimpiattino.
il termine pop è la condizione esemplare di un significato colto in fragrante divenire. L’interpretazione è per sua natura pop.
Godi ha fatto interpretare le parole di Linguaglossa dapprima con le singole lettere di uno scarabeo fisico, fidatevi lo stesso che utilizzava Einstein con
i numeri però, poi da cartoni animati avatar, gli stessi che utilizzava Cameron che aveva visto i teletubbies e ha finito poi di far interpretare la poiesis linguaglossiana da Totò che interpretava Buster Keaton! – Gli interpreti potevano essere altri come tutta la poesia pop! )
( questo omaggio per il genere tragico)
Grazie OMBRA.
P.S.: grazie Gino!
Caro Mauro Pierno.
tu sei per me come un cugino alla lontana.
Della stessa famiglia ridens.
Grazie OMBRA.
…lo finisco il pensiero…
Il pop pensiero è l’autentico presente che a un certo punto ci siamo dimenticati che per una serie di ingolfamenti temporali torna finalmente a galla. Dalla deriva, dall’esclusione, a cui era stato sottoposto o riapparendo se preferite.
Mi vengono in mente le tanto care missive che quell’instancabile di Rago ha inviato a Ewa Lipska, il prototipo delle lettere alla Maria nazionale. Ergo, quindi Ingravallo e li che deve
indagare. Madame Colasson ha un gancio perfetto col buona camicia televisivo.
(Uno dei miei scrittori preferiti è Sebastiano Vassalli come riesce ad essere cronista e protagonista in una sua storia è strabiliante. Un teatro tutto suo, grande!)
Termino,
cosa voglio dire , appunto cosa vuoi dire con questo, che ce sempre una parte del presente che dovrà diventare futuro è viceversa che dovrà diventare passato.
La pop poesia è il presente che affiora.
Grazie OMBRA.
(Anche per aver risvegliato in me il teatro)
Vi abbraccio.