
Marie Laure Colasson, La Cosa, acrilico su tavola 50×40, 2020
Il quadro raffigura l’evento di un «corpo in brandelli» come «nuda cosa». Nuda cosa come corpi neutri, al di là del godimento e al di qua del soggetto, al di là del significante e al di qua del segno. Finché c’è il soggetto il corpo non può esserci. Se c’è un corpo, non c’è il soggetto. Il corpo è e non è, non viene incontro a nessuno. Il corpo è in quanto non è.
Agamben afferma che le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza.
L’«evento di un corpo» lo si raggiunge attraverso il «fantasma di un corpo». Si ha evento in quanto si ha un fantasma. È chiaro che qui ci si muove in un campo mondano del tutto privo di trascendenza. Un corpo abita la condizione in cui attualmente si trova. La sua condizione è quella che è, quello che fa è fare qual-cosa di quello che si è. Il corpo che conosciamo è il corpo che parla, che si esprime attraverso un sintomo che qualcuno deve interpretare; ma se il corpo diventa un sintomo, cioè un segno, allora il corpo reale svanisce, e rimane solo il significante di qualcos’altro. Nel corpo reale questo continuo slittamento di senso (di per sé inarrestabile, come quello scoperto da Saussure negli anagrammi), si arresta. Il corpo reale smette di essere sintomo, cioè linguaggio, e diventa quello che Lacan con un neologismo definisce «sinthomo», cioè un corpo che vive fino in fondo la corporeità che è. Il «sinthomo» per Lacan è allora il corpo che è passato «al livello del reale». Il nastro di Mœbius esibisce questo movimento: Il passaggio dal corpo-sintomo al corpo-«sinthomo» è di per sé un processo del tutto normale. Si tratta di vedere quello che era da sempre lì, il corpo nudo, brandelli di corpo nudi che galleggiano su un fondale di oscurità. Un corpo fatto a brandelli, brandelli di corpo. Come sul nastro di Mœbius, ci si accorge che allontanandosi in una direzione dopo un tragitto che può essere anche molto lungo, si torna al punto di partenza. I brandelli di corpo che galleggiano sull’0scurità sono in viaggio, si preparano alla «traversata del fantasma». Si scopre così che non esiste un punto di partenza, o un punto di vista, e che siamo sempre stati nello stesso posto. Si scopre soprattutto che tutto è lì in vista, che non c’è un segreto, perché nel magico quadro di questa struttura dissipativa l’interno diventa immediatamente l’esterno, e vice-versa. Nel quadro non c’è né interno né esterno, c’è un corpo-superficie in brandelli. È questa la caratteristica dell’«evento di corpo», del «corpo in brandelli» che non ha bisogno dell’Altro, ma nemmeno lo teme; non ha bisogno di un significato né di un significante, che vive la vita che vive, una vita amebiotica perché essa è l’unica vita che gli è dato di vivere, di cui può fare esperienza.
(Giorgio Linguaglossa)
… la pop-poesia è un ossimoro. In greco, oxymoron vuol dire “acuta follia”. C’è, infatti, dell’acuta follia a mettere insieme termini in apparenza così distanti e inconciliabili come il pop, cioè il popolare, e la poesia, la disciplina più elitaria, almeno se la si pensa in termini di disciplina di nicchia riservata ai professionisti della «poesia». Ma, se si esce da questa visione angusta e mortifera che concepisce la poesia come un discorso fatto da cerchie ristrette di professionisti auto nominatisi «poeti» per cerchie ristrette di altri auto nominati «poeti» che non sempre si capiscono tra di loro, ecco che allora l’ossimoro non sarà più tale…
Giorgio Linguaglossa
Così… me ne sono andato
«Così… me ne sono andato, non esistevo più. E mi sono accorto che ero felice.
Poi mi sono risvegliato, ho aperto gli occhi»,
disse Xabratax ingollando un tramezzino.
Il parrucchiere François finì di tagliare la zazzera al ministro degli esteri,
il quale se ne andò senza pagare.
Un elicopter-money si alzò in volo e fece cadere banconote da 50 euro
sulle teste dei cittadini a piazza del Popolo.
«Sì, in casa ho un busto di Mussolini – replicò Žižek –
Però non mi è chiaro come faccia un drone a localizzarmi».
«Either you’re the butcher or you’re the cattle» [o sei il macellaio, o il bestiame] rispose Mister Bim, ma l’interlocutore era andato al bagno a fare la pipì…
Cianfax fece un giro attorno al tavolo.
«Tutto quello che ci circonda, comprese queste sedie, è una produzione della mia mente, una creazione del mio pensiero».
Žižek non replicò.
La lampadina riprese a tossire.
Entrò una femboy di polistirolo liquido e silicone in calzamaglia nera
e diede un bacio ad Azazello.
Petit déjeuner dans un hôtel à New York.
Sur fond de télévision allumée en permanence.
Deux grands écrans plats encadrent cette petite salle à manger
où les hôtes sirotent leur café et mâchent leurs bagels.
Les images d’actualité défilent en boucle,
les commentateurs commentent, leurs mots bourdonnent en bruit de fond.
Nous écoutons distraitement.
Il cavaliere solitario siede sulla riva del mare.
Gioca a scacchi con la Morte.
È una inquadratura della famosa scena del film Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1956).
Entra una sventola, dice che è la controfigura di Ursula Andress,
invece è una ladyboy di Rekjavik, una famosa pornostar,
adesso sta orinando davanti alla webcam.
Il Cavaliere di Coppe cita Wittgenstein: Il mondo è una scacchiera
e noi gli scacchi.
Lilli Gruber grida alla telecamera: «Ridatemi il mio vero volto!».
Xabratax gridò: «L’imperfezione del nulla è il reale!»,
e si richiuse nel loculo da dove era improvvidamente sortito.
Il tenente Sheridan appende la giacca sull’attaccapanni,
dice che Ingravallo non capisce niente.
Marilyn ritornò sulla scena con il famoso vestito rosso che si sollevava al vento.
Ci fu un gran fracasso di telecamere.
Un gabbiano beccò la testa di un corvo. E sparì.
È la scena finale di À bout de souffle di Godard (1960):
Jean Paul Belmondo viene raggiunto dalla pallottola di un poliziotto.
Fugge. Caracolla. Inciampa e muore sull’asfalto.
Le ultime parole…
Scusate, ho dimenticato le ultime parole.
Stamane ho aperto un libro di un autore di poesia di oggi molto noto, milanese. Ecco il brano iniziale di una sua poesia:
Da che luce d’altopiano da che crollo
memoria di boato o di schianto
viene l’uomo che adesso si appoggia
al muro di un sottopassaggio
e piange e sembra grugnire scuote una ringhiera
dicendo tra le lacrime…
Si tratta di una monodia, una litania, con quell’abbrivio: “Da che…” che introduce un tempo approssimativo che va dall’imperfetto al presente secondo lo schema della ontologia poetico-narrativa maggioritaria di questi ultimi decenni: Ricordo + personaggio + descrizione + io fuori quadro… secondo uno schema poetico collaudato e consunto dal retrogusto letterario di seconda mano, È chiaro che qui si fa poesia professionale, si fa della poesia una professione, la poesia diventa un linguaggio monodico, litanico, schiava del referente posto nel ricordo in un punto preciso della memoria, come se la memoria fosse un deposito di bagagli di una stazione ferroviaria. Da questa concezione della memoria come deposito di bagagli e di oggetti smarriti ne viene anche lo stile degli enunciati che corrisponde a quel deposito di bagagli dimenticati di una stazione ferroviaria. Il testo è immobile e l’io lo può descrivere dall’esterno, da un punto fisso dell’esterno. Del testo si perde anche la polisemia del linguaggio poetico il quale è il prodotto riflesso e meccanico del punto di vista dell’io narrante. Il dicibile non proviene dall’indicibile ma dal dicibile. Tutto è detto, tutto è esplicitato. Non c’è nulla da capire e da carpire, il lettore capisce tutto.
Heidegger dice che il linguaggio poetico è “polisenso […] . La polifonia del poema […] proviene da un punto unificante, cioè da una monodia, che in sé e per sé, resta sempre indicibile. La molteplicità dei significati propria di questo dire poetico non è l’imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi lascia essere”.1
“La poesia è istituzione in parola [Worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione,ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”.2
Chiosa Gianni Vattimo:
“quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”.3
1 M. Heidegger, Il linguaggio nella poesia, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, p. 74
2 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, p. 50
3 G. Vattimo, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in AA. VV
Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, p. 293.
Autointervista
Domanda.
«Come distinguere il ciarpame da ciò che non lo è?. Una domanda ingenua, una domanda assurda. Possiamo solo avanzare su quest’assurdità. E andare oltre. In questa catastrofe nella quale ci troviamo nel mondo del Covid19, ci troviamo a dover decidere che cosa è ciarpame e cosa non lo è.»
Risposta n. 1:
«Tutto è ciarpame, ma nel ciarpame ci sono continue bellezze.»
Risposta n. 2:
«si tratta di una risposta di comodo. Fa comodo rispondere con il panegirico della bellezza e altre amenità. Io ad esempio non trovo alcuna bellezza nella volta stellata o nel corpo nudo di Marilyn. Se guardate da vicinissimo il corpo nudo di Marilyn al microscopio e la volta stellata con il telescopio, ne vedreste di orrori!
In realtà ciò che chiamiamo bellezza è semplicemente il nostro punto di vista antropogenetico.
Dal «ripostiglio di sartoria teatrale» all’attuale miniera di rifiuti e di stracci
Prendiamo, ad esempio, una poesia di Gino Rago o di Mario Gabriele e della nuova ontologia estetica e confrontiamola con quella del tardissimo Montale, quello del Diario del ’71 e del ’72. Il disallineamento fraseologico, la compresenza di salti e sovrapposizioni temporali e spaziali, l’intervento e la compresenza di interferenze e l’impiego di Avatar, Icone, Luoghi e personaggi svariati danno alla poesia della nuova ontologia estetica una mobilità e una imprevedibilità assolutamente originale. Nella NOE non c’è più il «soggetto» che commenta, glossa, legifera o delegifica intorno ad un oggetto, anzi, l’oggetto si è liofilizzato, è diventato polistirolo liquido, si è atrofizzato e non se ne trova più traccia… se non nelle discariche, nei rifiuti urbani e suburbani, nei retrobottega del Monte del Banco dei Pegni, nei retrobottega dei rigattieri e nei magazzini di Porta Portese…
La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei piú) che mai sia esistita.
Se pure una ne fu, indossa i panni dello spaventacchio
alzato a malapena su una scacchiera di viti.
Sventola come può; ha resistito a monsoni
restando ritta, solo un po’ ingobbita.
Se il vento cala sa agitarsi ancora
quasi a dirmi cammina non temere,
finché potrò vederti ti darò vita.
La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio
di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo
chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita
di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica
e con quella dirige un suo quartetto
di cannucce. È la sola musica che sopporto.
Eugenio Montale, Diario del ’71 e del ’72
Dal «ripostiglio di sartoria teatrale» all’attuale miniera di rifiuti fetidi e di stracci delle discariche abusive di oggi che noi della nuova poesia abbiamo preso ad oggetto della nostra poesia, dicevo, dal 1972, dal Diario di Montale ne è passato di tempo. La sola musica che io personalmente sopporto è quella che promana dagli stracci e dai depositi di liquame fetido delle discariche. Spero che questo sia anche il Vostro intendimento cari amici di cordata.
In tal senso, noi rinnoviamo e proseguiamo la tradizione. Siamo noi i veri alfieri della migliore e più critica tradizione del novecento italiano. Questo almeno lo dovranno ammettere i nostri accusatori-detrattori.
Così inizia Lucio Mayoor Tosi una sua poesia:
«Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato…»
Ecco, nel mondo amministrato dove tutto è regolamentato con la massima precisione, capita di non sapere più come comportarsi nelle cose più elementari come entrare in un bar per prendere un caffè…
Così non sai come iniziare una poesia, se dalla testa o dalla coda, se dal «ripostiglio di sartoria teatrale» o dai miasmi fetidi di un cassonetto di immondizie che staziona qui sotto casa mia in via Pietro Giordani n. 18 a Roma. È che è diventato problematico l’inizio e la fine. Ed è diventato problematico anche proseguire dopo l’inizio. Per dire cosa? È il «dire» che è diventato problematico.
Ricordo un giorno che feci l’errore di uscire con una signora. All’improvviso, mi resi conto che non avevo nulla da «dire». Fu una serata alquanto imbarazzante.
Ieri sera la giornalista LIlli Gruber ha intervistato il senatore Bagnai della Lega. Il buffo era che Bagnai se ne fregava delle domande e rispondeva come gli pareva parlando di questo e di quello.
È che viviamo in un mondo pop, non resta che prenderne atto. Già parlare di «sartoria teatrale» è qualcosa di fondato, Montale si poteva considerare fortunato a poter parlare di sartorie teatrali… dai tempi di Montale ad oggi non c’è più un argomento che possa essere preso in seria considerazione in poesia, questo è il problema. Penso che oggi si possa fare una poesia serissima facendo parlare direttamente le cose, finalmente liberate dalla schiavitù del referente.
Intorno al 1919 Osip Mandel’stam scrive un saggio Sull’Interlocutore e punta la sua attenzione critica sul problema ignorato dai simbolisti: «Con chi parla il poeta?». Punto cruciale della nuova poesia acmeista era, nel pensiero del poeta russo, di ripristinare un corretto rapporto con l’«interlocutore», anzi, il presupposto filosofico sul quale si basava il suo concetto di poesia acmeista era quello di individuare un «nuovo» rapporto con il «pubblico» e con l’«interlocutore». La «nuova poesia» avrebbe dovuto identificare un nuovo pubblico e un nuovo concetto di «interlocutore». Era una posizione strategica e una posizione filosofica.
Oggi mi sembra che questo sia il problema centrale per la poesia italiana: Con chi parla Laborintus (1957) di Sanguineti? Con chi parla la poesia di Attilio Bertolucci? La poesia di Bertolucci, penso a La camera da letto, richiede una grande lentezza. La poesia paragiornalistica che verrà dopo Satura di Montale richiede invece una grande velocità. Come mai questo fenomeno? Che cosa è cambiato nella poesia italiana? Con chi parla la poesia post-montaliana (post Satura, del 1971)? Quale è l’«interlocutore» della «nuova poesia»?
Ecco, in proposito, un brano cruciale di Osip Mandel’stam nella traduzione di Donata De Bartolomeo. La poesia di Mandel’stam rispetto a quella dei simbolisti richiede una grande lentezza, va in senso contrario a quello dei simbolisti.
Osip Mandel’štam
Allora, con chi parla il poeta?
Allora, con chi parla il poeta? La questione è scabrosa e molto attuale, poiché sino ad oggi i simbolisti eludono la sua pungente impostazione. Il simbolismo, mettendo del tutto da parte la correlazione, per così dire, giuridica da cui è accompagnata l’azione del dire (dico, cioè, che mi ascoltano e che mi ascoltano non gratuitamente, né per curiosità ma perché obbligati), ha rivolto la sua attenzione esclusivamente all’acustica. Getta il suono nell’architettura dell’animo e, con il narcisismo che gli è proprio, segue le sue peregrinazioni sotto le leggi dell’altrui psiche. Esso prende in considerazione l’aderenza sonora, che deriva da una buona acustica, e chiama questo calcolo, magia. In questo atteggiamento, il simbolismo ricorda «Prestre Martin», il proverbio medievale francese, il quale nel tempo stesso dice la messa e la ascolta. Il poeta simbolista non è soltanto un musicista, egli è anche uno Stradivarius, il grande artista creatore di violini, preoccupato di calcolare le proporzioni della «scatola» della psiche dell’ascoltatore. Nella dipendenza da queste proporzioni, il colpo dell’archetto o riceve una regale pienezza o suona miseramente e con insicurezza. Ma, signori, la musica esiste anche indipendentemente dal fatto che qualcuno la suoni, in una certa sala e su un certo violino! Perché, allora, il poeta deve essere così previdente e sollecito? Dov’è, infine, questo fornitore di violini viventi per le esigenze del poeta, degli ascoltatori, la cui psiche è equipollente alla conchiglia del lavoro di Stradivarius? Non sappiamo, non lo sapremo mai dove sono questi ascoltatori… François Villon ha scritto per la marmaglia della metà del XV secolo, eppure noi troviamo nei suoi versi una viva bellezza.
Ogni persona ha degli amici. Perché mai il poeta non dovrebbe rivolgersi agli amici, alle persone che gli sono veramente vicine? Il naufrago, nel momento critico, getta nelle acque dell’oceano una bottiglia sigillata con il suo nome e la descrizione del suo destino. Dopo lunghi anni, passeggiando tra le dune, la trovo nella sabbia, leggo la lettera, vengo a sapere la data del fatto, l’ultimo desiderio del morente. La lettera, sigillata nella bottiglia, è indirizzata a chi la troverà. L’ho trovata io. Significa che sono io il misterioso destinatario.
Il mio dono è misero e la mia voce non è alta,
ma io sono vivo e sulla terra il mio
essere a qualcuno è caro:
un mio lontano discendente lo troverà
nei miei versi, chi lo sa? La mia anima
stringerà con la sua un rapporto
e come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.
Leggendo i versi di Baratynskij, provo la medesima sensazione come se nelle mie mani fosse caduta quella bottiglia. L’oceano di tutta la sua enorme produzione poetica le è venuto in aiuto, l’ha aiutata a colmare la sua predestinazione e l’emozione si impossessa del provvidenziale trovatore. Nel gettare la bottiglia nelle onde da parte del naufrago e nell’invio dei versi da parte di Baratynskij, ci sono due momenti che appaiono assolutamente identici. La lettera, così come i versi, non sono indirizzati a nessuno in particolare. Ciò nondimeno, entrambi hanno un destinatario: la lettera, colui che si accorge per caso della bottiglia nella sabbia, i versi il lettore «nella posterità». Io vorrei sapere che tra quelli cui capiteranno sotto gli occhi i citati versi di Baratynskij, non sentirà il brivido felice e sinistro che viene quando all’improvviso ti chiamano per nome.
Konstantin Bal’mont dichiara:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri,
soltanto la fugacità metto nei versi.
In ogni fugacità io vedo mondi,
pieni di volubile, iridescente fuoco.
Non maledite, saggi, che vi importa di me?
Io sono soltanto una nuvoletta piena di fuoco,
io sono soltanto una nuvoletta – vedete, veleggio
e chiamo i sognatori – voi, non vi chiamo.
Quale contrasto rappresenta il tono sgradevole, insinuante di questi versi con il profondo e modesto valore dei versi di Baratynskij. Bal’mont si difende, come se si scusasse. È inammissibile per un poeta! L’unica cosa di cui non si deve scusare! Eppure, la poesia è consapevolezza della propria ragione. In Bal’mont, in questo caso, non c’è questa consapevolezza. Il primo verso uccide tutta la poesia. Il poeta dice subito chiaramente che non lo interessiamo:
Io non conosco la saggezza, utile agli altri.
Inaspettatamente per lui, lo ripaghiamo con la stessa moneta: se noi non ti interessiamo, anche tu non ci interessi. Che me ne importa di una nuvoletta, ne veleggiano molte… Le vere nuvole hanno questo vantaggio, che non si fanno beffe della gente. Il rifiuto dell’interlocutore attraversa come una riga rossa tutta la poesia di Bal’mont e la sbiadisce fortemente. Bal’mont nei suoi versi tratta continuamente con disprezzo qualcuno, gli si rivolge senza rispetto, con negligenza, con alterigia. Eppure, questo «nessuno» è il misterioso interlocutore. Non compreso, disconosciuto da Bal’mont, egli brutalmente si vendica di lui. Quando parliamo, cerchiamo nel volto dell’interlocutore l’approvazione, la conferma che abbiamo ragione. Tanto più il poeta. La preziosa consapevolezza della ragione poetica spesso manca a Bal’mont, poiché egli non ha mai un interlocutore. Donde i due spiacevoli estremi della poesia di Bal’mont: la piaggeria e l’insolenza. L’insolenza di Bal’mont non è autentica, non è originale. Il bisogno di auto-affermazione in lui è francamente morboso. Egli non può dire «io» sottovoce. Egli grida «io»: «Io – improvvisa frattura, io – tuono che gioca». Sulla bilancia della poesia di Bal’mont il piatto «io» squilibrava decisamente ed ingiustamente il piatto «non-io», che sembrava troppo leggero. Lo stridulo individualismo di Bal’mont non è gradevole. Non è il tranquillo solipsismo di Sologub, che non insulta nessuno, ma un individualismo a spese di un altro «io». Sentite come Bal’mont ami sbalordire con diretti e penetranti usi del «tu»: in questi casi egli assomiglia ad un cattivo ipnotizzatore. Il «tu» di Bal’mont non trova mai un destinatario, ma gli passa rapidamente vicino, come una freccia scoccata da un arco troppo teso.
E come ho trovato un amico nella contemporaneità,
io troverò un lettore nella posterità.»
Caro Giorgio,
nel leggere i tuoi ultimi interventi inevitabilmente il pensiero è corso alla scena del supplizio della povera ragazza messa al rogo nel film di Bergman “ Il settimo sigillo”.
In qualche modo il poeta si trova su quella scala mentre cerca di convincere Antonius che qualcosa c’è, questi e più di lui il suo scudiero hanno contezza che così non è.
La scena scorre, la condanna, il tempo impongono leggi ed eventi che non vogliono domande ma solo obbedienza e conformità di veduta. Il pensiero dei due cammina sui binari dell’evidenza e del dubbio mentre quello dei carnefici e della strega su quello della certezza e della positività.
D’altronde come potrebbe entrare a far parte della vita il Nulla?
Solo in punta di morte, quando la successione degli eventi diventa singolare e violenta, si manifesta con quello che fa, la distruzione di cui è portatore.
Il poeta dunque si trova di fronte a questa evidenza di un Nulla che scaturisce sul crinale degli avvenimenti. Ma ce ne vuole a convincerlo che questo stesso sia l’ interlocutore che svuota il paesaggio ed il coro di uomini, l’unico in grado di indicargli un senso e un modo per scendere dalla scala.
Il salto è tutto qui.
Quando questo diventa chiaro il ruolo di ognuno all’interno della sua narrazione si scolla e con esso anche il pensiero logico che vi corrisponde.
Non è follia ma lucida presa d’atto di un problema di cui la poesia è manifestazione nella misura in cui si fa indeterministica, lontana cioè dal dare un peso e un senso preciso a ciò che scrive.
Tutto è chiaro se al centro dell’universo poetico c’è l’Io domatore di leoni con i suoi trucchi di verseggiatore capace di attrarre l’attenzione su un numero di bravura e piacevolezza, ma cosa succede se qualcuno di questi manifesta il suo animo di violenza e predazione e nessuno è in grado di controllarlo?
L’evidenza è intorno a noi con questo costante saltare del COVID -manifestazione di una natura imprevedibile e infinitamente indomabile- addosso a qualcuno, ma lo era già da parecchio tempo, solo che non eravamo su quella scala con il rogo sotto e potevamo illuderci che l’Io avrebbe dominato il gioco di equilibrio tra terrore e ragione o che qualcun altro lo avrebbe fatto per noi.
C’è di fatto che questo tipo di domatore non è più credibile se di fronte al Nulla continua a dire che c’è un interlocutore su cui modellare il discorso e con cui val la pena di rapportarsi ” dicendo la messa e ascoltandola” per dirla con Mandel’štam.
La poesia indeterministica, come il sottoscritto la intende, è fatta di interferenze e suggerimenti, percorsi illogici del tempo e salti di epoche. La nuvola che, come dice il poeta di sopra non si fa beffe di nessuno, riempie un foglio che non è di cellulosa.
Ma di cosa è fatto il suo nucleo?
[PACK]
Intervistarono il lavoro, proiettore in pensione,
e dichiarò che non ce la faceva più a tener fermo il frigo.
Il Po gli chiedeva cosa fare di versi e spleen
L’ ossigeno aveva denti di carbone.
Zolfo che sgorgava dall’idrogeno.
Anche la mente rimandava allo stomaco
Impossibile sostenere il ritmo della carie
Immagini sfocate fuori Capitale.
Una cucina a raccontare il piacere della dispersione
Ritornò in casa dopo un sopralluogo alla corteccia cerebrale.
…
Opportunità che offriva la cornetta del telefono.
Installare cardellini nel ciliegio
da una stalattite una margherita.
E quando fu piazzato un geyser oltre la veranda
il discorso cadde sulla caldera sottostante
-In una spiga si può essere vicini a Dio
E sentire mille ampere tra stelo e Sole
Piccoli roditori delle immagini costruivano cattedrali sulla calce viva.
Il freon rigenerato dalle scene di paura .
…
Fracchia recita Edipo re.
-Tornai da figliol prodigo dopo aver vagato per l’Antartide.
E niente d’incomparabile a una cena ultraterrena.
Non più di una Spagnola alla volta se non si ha posto tra i Sigilli.
E infatti la più grassa, creatura di Otero, non riusciva a rientrare nel Settecento.
Decise di liberare una pulce dalla parrucca e si trovò nel 2020.
Dov’era la testa mozzata dei colombi?
Attese la fine del quaternario intanto che in un angolo riprendeva fiato.
Cominciò con una storia di pressione e ingrossamento del fegato
Ma ci finirono dentro calcoli biliari e sedia elettrica,
lieviti e ostruzione della coronaria
E ora quest’intervista sul vapore
che si disperde da una pentola sul pack.
[CERCASI CAPOSTAZIONE]
Al rifiuto del geranio l’acqua sale nel rubinetto.
L’ictus abbandona il campo a Stalin furioso.
-Finire da chierichetto una vita così.
Sole e Pioggia giocano a roulette russa
Nessuno dei due azzarda una regola
Perché angosciarsi con gli scacchi
se il Logos ha già pensato a tutto?
Terza tra le Grazie, una Kapò balla la polka.
Chi l’avrebbe detto di questi postumi fuori della fossa.
L’epoca fu propizia alle birrerie. Il grano violentava i crucchi.
I popoli ricevettero un filetto di piombo al giorno
Ma adesso il botulino fa da chairman a un congresso di virologi.
Finiscono seduti a un giardinetto. Bere novello
Forchetta e piatto con un occhio alle scintille.
La firma di Duchamp sulla confezione da un Ampere.
E intanto da una polla nella rocca sgorga Cagliostro.
L’uscita dagli ovuli fu un rompicapo
mettere in ordine feti e chiavi inglesi
ai gatti nati dai baccelli fu tagliata la testa
Non si può progettare un esperimento come un binario
Prima o poi un bunsen si mette in proprio
Le leggi ridiscesero le scale ma era il ‘39 e diluviava
Da una crepa nella carena un fotone contagiò Noè.
[LA LUCCIOLA SPENSE IL FALÒ]
Calcabrina chiuse via Glamorelli
Rimasero secchi a riempirsi di cieli stellati
Plutone interviene ad un pranzo di cassintegrati:
-Milioni di piedi hanno smesso di cercare un predellino
E la calcolatrice non ha il tasto dello spread.
C’è odore d’amuchina nel pensiero di Cartesio
…
Nacquero sillogismi con vibrioni in premessa.
Il museo di Pietro il Grande non conobbe crisi
Il mostro a tre teste del declassamento
I nervi prospettano un meteorite nello Yucatan
D’altronde si sa che alla scomparsa dei mammiferi
subentrarono i Tirannosauri.
Alcuni, con donne bellissime a fianco,
indossavano lo scalpo di Marylin
Altri avevano il mouse a trentadue denti
I Poli invece voltarono faccia e decisero per un altro momento.
Il tempo era propizio alla glaciazione
e non si poteva lasciar fuggire l’occasione.
[GLENN]
Tre chitarre sulla clinica di fronte.
Cinque dita per una gru.
Per tutti un infinito a divisore.
Ruota il sole in un bagaglio a mano.
Così cominciò la prevendita di biglietti.
Ci si sarebbe accaniti per un posto in un secondo.
Immettere velocità nella pigrizia dei poeti.
La montagna russa al lancio dello Shuttle
In diretta e la garanzia di poter scegliere
tra bandiera rossa e stelle e strisce.
Quel giorno la chitarra mise una corda
in una bottiglia e scolò il pvc.
Ci furono vittime senza preavvisi
e interviste all’uranio arricchito.
Al licenziamento di ulivi seguirono piramidi
con radici esagonali.
Tafferugli tra tifoserie
per l’acquisto di triangoli.
Negli occhi la trasparenza delle api
mentre sputava whisky il collo in fiamme.
La scomparsa dei diodi muschiati
in favore di una scheda perforata.
Toccano il naso i denti buoni. Cardellini
nelle trombe di Eustacchio.
La corteccia dei Beati.
John Glenn in tutti i Noi.
Il saluto dall’universo e una certezza
Integrale triplo in punto di morte.
Gli altri.
La divisione a palate sulle spalle.
[BREVE INTERVALLO IN UN GIORNO DI PIOGGIA]
Un Io cade sul pino, un altro scivola sulla veranda.
Tanti annaffiano i trifogli
È pioggia, diluvio, tzunami
Una goccia ha perso le dita stanotte.
Batteva forte alle finestre del quartiere.
I dati confermano un tonfo nel mercato dell’oro.
Gli smeraldi escono da soli dalle miniere.
I diamanti invece hanno crepe d’argilla.
I batteri muoiono d’invidia.
Bandito il rimorso dalla coscienza
si procede a sperimentare un volo di corvo.
I topi confermano il pessimo andamento della stagione.
Piazzare peste è davvero difficile.
Di gatti feroci nemmeno l’ombra.
Solo quelli di casa conoscono lo Spread.
Un agguato di cani in diretta TV.
A uno che diceva NOI hanno dato dell’untore
e dopo averlo ucciso, ha potuto bestemmiare.
C’è un ritorno di pioggia. Cade sul soffitto, scivola sul canale del gas
Si affaccia ai vetri. Fa un breve intervallo di pubblicità.
Poi torna la conta oltre il cento, mille, infinito
In giacca e cravatta su tondo, oblungo, fico secco, cipolla
goccia dopo goccia ovvio, sulle antenne, le cucine le case
(Inediti, Francesco Paolo Intini)
caro Francesco Paolo Intini,
Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto
Il reale emerge come un resto, un residuo, uno scarto. In ciò la critica del testo poetico, lungi dal ridursi a mera pratica ermeneutica, non può neanche appiattirsi a semplice teoria del senso. Se così fosse, il nucleo vuoto del reale resterebbe integro.
Il reale, nella sua intima estraneità all’ordine simbolico, può manifestarsi solo nei termini di un eccesso residuale. Ecco allora che fuori dal simbolico c’è del reale, ma in quel fuori così intimo che è al contempo un dentro. Fuori dal significato, fuori dal senso, il reale si dà al soggetto in tutta l’ambiguità del suo statuto. L’estraneità del reale al senso, tuttavia, non coincide precisamente con l’insensatezza del reale medesimo. Il testo poetico non risponde ad alcuna intenzione originaria di significazione, o a un «voler dire», il reale è il registro di tutto ciò che il testo non recita e che è fuori tanto dal senso quanto dal non-senso. Il testo poetico è proprio di un fuori-senso costitutivo del registro del reale. Indifferente alla sua logica, il senso è ciò che sfugge al reale in entrambi i versi del proprio dominio. Queste le parole di Lacan al riguardo, in uno dei numerosi tentativi di definizione del reale:
«L’Altro dell’Altro reale, ossia impossibile, è l’idea che abbiamo dell’artificio in quanto è un fare che ci sfugge, e cioè oltrepassa di molto il godimento che possiamo averne. Tale godimento sottile sottile è ciò che chiamiamo spirito. Tutto questo implica una nozione di reale. Certo, bisogna distinguerla dal simbolico e dall’immaginario. L’unica seccatura – è il caso di dirlo, vedrete fra poco perché – è che in questa faccenda il reale fa senso,mentre, se andate a scavare quello che intendo io con la nozione di reale, appare che il reale si fonda in quanto non ha senso, esclude il senso o, più precisamente, si deposita essendone escluso». 1
Tuttavia, malgrado la sua estraneità e la sua irriducibilità all’ordine simbolico, alla significazione e a qualsiasi tentativo di rappresentazione, esiste un modello in grado di riferire piuttosto adeguatamente l’opacità del reale al senso. Si tratta della lettera.
Qual è lo statuto della lettera in Lacan? Ben lungi dall’aderire al modello della scrittura tradizionale, la lettera è qualcosa di insignificante, o insensato, ma di quell’insignificanza o insensatezza che non indica tanto l’assenza di significanza o di senso, quanto l’estraneità, la revulsione ad esso. Ogni senso, così come ogni non-senso, è interdetto alla lettera, la cui solitudine indica l’emersione di qualcosa nel registro dell’esperienza umana (esperienza profondamente simbolica) come di un resto problematicamente irricevibile e non integrabile nell’esperienza stessa, in quanto dotata di senso. Esiste un’utilità della lettera, non riconducibile unicamente alla sua funzione indicativa, o sintomatica di un reale in quanto residuo o scarto non integrabile e non significante nell’esperienza del soggetto: si tratta, piuttosto, di una funzione di collegamento con una sorta di campo trascendentale del linguaggio, prima cioè che il linguaggio inauguri concatenazioni significanti di parole.
Si tratta, in altri termini, di annodare l’insignificanza della lettera al potere enunciativo delle parole, così da poter «godere del solo blaterare della parola». La questione di fondo è legata al riconoscimento del carattere esplicativo della lettera, nella misura in cui essa, prima ancora di costituirsi come segno in un sistema linguistico, polverizza il linguaggio riducendolo alla materialità di una cosa. E quella cosa che emerge come scarto nel linguaggio, altro non è che il reale stesso, non si aliena nell’esperienza significante del linguaggio articolato, ma vi si oppone, non fa resistenza, ma mostra l’emergere del reale come ulteriorità rispetto alla significazione delle parole. In questa prospettiva, il reale è ciò che interrompe il funzionamento illimitato del dispositivo semiotico: irruzione del reale nella catena semiotica, impasse della formalizzazione del dispositivo linguistico. Il reale fa problema nella linearità del dispositivo linguistico, nella strutturazione simbolica della realtà. E se il dispositivo semiotico è ciò che funziona a patto di non arrestarsi mai, il reale emerge in questo meccanismo introducendovisi come una crepa che ne mina anche solo per un istante la stabilità. Del reale, dunque, non si dà sapere. Escluso all’iscrizione in un registro di senso, il reale non è dell’ordine del conoscibile, né dunque della verità. Come esso non si concede né al senso né al non senso, così esso risulta esteriore al conoscere e al non conoscere, nella misura in cui essi non sono altro che i poli opposti di un medesimo regime: il conoscere. Come sostiene Alain Badiou, una delle differenze sostanziali tra il reale e la realtà nel pensiero lacaniano consiste nell’inscrizione della realtà nel dominio di ciò che è, almeno di principio, conoscibile. Al contrario, il reale, che abbiamo visto essere esterno tanto al conoscere quanto al non-conoscere, non può essere pensato, per ciò stesso, nemmeno nei termini di inconoscibilità. Al di là di ogni formalizzazione, il reale lo si può solo incontrare.
Τύχη – L’incontro con il reale
Fuori dal senso, dalla verità, dal conoscibile e dall’inconoscibile, l’unico dominio cui il reale si concede è l’incontro. Ma v’è di più: nella differenza abissale che sussiste con la realtà ordinariamente intesa, il reale lacaniano è l’indice di qualcosa che appare improvvisamente nel mondo empirico e che ne interrompe il funzionamento, ne traumatizza l’esercizio. Il reale è ciò che resta disfunzionale rispetto al mondo.
Τύχη: come si sa, con questo termine ereditato da Aristotele, Jacques Lacan indica proprio l’incontro con il reale nella misura in cui esso prende le forme del trauma. E il trauma non è altro che ciò che nella realtà si presenta come inassimilabile alla realtà stessa. Trauma che irrompe nel funzionamento lineare della catena significante,che vi fa irruzione come buco, come taglio. Ma a costituirsi come trauma nel linguaggio è proprio un significante, ancorché del tutto particolare; un significante che, non ricollegandosi a nulla, incarna la mancanza, incarna il reale come iato. Eppure questo incontro è un incontro costitutivamente mancato. Nell’esperienza della psicoanalisi, sostiene Lacan, ogni appuntamento con il reale è un appuntamento tradito, eternamente rinviato. Perché il reale in sé è ciò che sfugge senza posa; non si dà appuntamento con il reale se non nella forma di un appuntamento mancato. Pur tuttavia, tale mancanza non indica affatto l’irrealizzabilità dell’incontro stesso: l’incontro con il reale si rea-lizza nella forma della mancanza, della fuga, della procrastinazione indefinita. E l’effetto sul soggetto di questo incontro sempre mancato con un reale che si dà solo nella forma del trauma non può che essere un effetto perturbante, straniante, spossessante. Nell’incontro traumatico sentiamo venir meno la presa, il controllo su noi stessi e sull’esperienza ordinaria del mondo.
Tύχη è l’indice di una sorpresa traumatica che irrompe nella vita del soggetto. La natura evenemenziale della Tύχη in quanto incontro con il reale inscrive l’accadimento nell’esperienza e ne marca la difficoltà di controllo.
Tύχη è, altrimenti detto, l’evento dell’ «incontro del soggetto con il proprio impossibile». È l’incontro con il reale in quanto impossibile. Formula magica o ritornello sin troppo abusato nell’esegesi lacaniana, la descrizione del reale in termini di impossibile è tuttavia rivelatrice di quante e quali considerevoli resistenze e complicazioni siano intime ad ogni tentativo di inquadrarne lo statuto. Proprio per questo, il reale di Lacan, lungi dall’essere un’entità mistica, si configura come quella soglia evenemenziale indicibile che tocca il soggetto nel suo punto impossibile, così che il soggetto medesimo non sia in grado di riferirne alcunché: l’ineffabilità del reale coincide con la sua radicale estraneità all’ordine del senso e della verità. Puro punto di traumaticità. Ecco il reale. Ecco l’impossibile del reale.
Non l’irreale, dunque, ma l’impossibile come ciò che include in sé stesso il possibile nella forma dell’innominabilità, dell’ineffabilità, dell’irrappresentabilità. Ecco allora che il ricorso di Lacan alla nozione aristotelica di Tύχη per indicare l’incontro costitutivamente ed organicamente mancato con il reale, è mirato a definire il contatto del soggetto con l’impossibile di quel reale che giace al fondo di ogni possibilità, e che è limite ed origine primordiale e causativa di ogni contingenza.
1 1 J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psico-analisi 2003. p. 61 trad. It. di A. Di Ciaccia, Contri, Torino, Einaudi.
Gino Rago
Storia di una pallottola n.8
Ufficio degli oggetti smarriti di via Gaspare Gozzi. Il commissario Ingravallo ha requisito una busta con dentro questa conversazione telefonica.
Wislawa Szymborska:
«Madame Colasson,
avrei bisogno del suo cardiogramma».
Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, le posso concedere un cablogramma
con dentro il nulla».
Wislawa Szymborska:
«La sua pallottola viaggia sempre a scrocco…
E anche senza biglietto».
Marie Laure Colasson:
«Madame Szymborskà, sto dissipando le mie “strutture dissipative”.
Domani sarebbe già tardi, non posso risponderLe.
Adieu».
*
caro Gino Rago,
sono passati 110 anni dal saggio di Osip Mandel’štam Sull’Interlocutore. Questa tua poesia rende bene la differenza, anzi, l’abisso che passa (e divide) tra la visione della poiesis della Szymborska (sostanzialmente ancorata alla ontologia poetica del tardo novecento) e quella di Marie Laure Colasson, una poetessa della nuova ontologia estetica.
Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.
Il vero potere destituente è la potenza destituente del «nulla» che abita la poiesis della nuova poesia della nuova ontologia estetica.
Giorgio Linguaglossa ha centrato l’idea che anima l’evento-pallottola nella storia n.8: il confronto fra due finissime sensibilità poetico-artistiche, Colasson-Szymborska, rispetto a due differenti spiriti-del-tempo, pop-poetico quello di Madame Colasson, tardo-novecentesco quello della Szymboska, entrambe ‘intercettate’ dal dottor Ingravallo che questa volta però rimane fuori dallo scenario, ma con uno gnommero che lo divora: chi ha fatto sparire le
“Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne?”
L’ambasciata di Francia di Piazza Farnese fa pressione sul Ministero degli Esteri e su quello degli Interni per il loro ritrovamento…
La denuncia della loro scomparsa è partita da Madame Pélissier…
Egregio poeta Gino Ragò,
innanzitutto, questo dialogo lo trovo centrato perché assurdo e perché la sua incoerenza e inconcludenza sono la mia “tasse de thé” e poi perché trovo che la poesia di oggi abbia come interlocutore il “nulla” come infatti la mia pittura delle “strutture dissipative”, le quali hanno il compito di dissipare il “nulla”. E nient’altro.
Chi pensa che alla poesia arrida una qualche corona d’alloro, pensa banalità.
Distinti saluti.
da Circonvallazione Clodia n. 21
Milaure.
Giorgio Linguaglossa scrive:
“Da Mandel’štam alla Szymborska c’è un filo conduttore piuttosto rettilineo: la fiducia nell’interlocutore che guida la poiesis, adesso le cose sono cambiate, quel filo si è spezzato, non è più possibile rivolgersi ad alcun interlocutore, la poesia ragionamento, la poesia della elocuzione, la poesia figlia del significato e del significante è tramontata, oggi il poeta è alle prese direttamente con il «nulla» (in tal senso non avrebbe senso discettare di significante e di significato), la sola cosa che può fare è mettere il «nulla» al posto dell’«interlocutore» di Mandel’štam. E ripartire da lì.”
Leggendo questa acuta riflessione, questa ennesima questione poetica che Linguaglossa ha portato a galla, mi chiedo: e se il nulla corrispondesse a un’altra dimensione? Se il destinatario così definito non ci fosse, non avesse ragion d’essere, se la poesia della nuova ontologia estetica fosse semplicemente riflesso di un evento, che non ha per forza bisogno di spettatori? Tempo fa, su queste stesse pagine ci si chiedeva: che poesia è possibile dopo l’Olocausto? Credo, però che giunti a questo punto nello sviluppo critico della nuova ontologia estetica, si debba fare un passo avanti e chiedersi: che poesia è possibile dopo le leggi sulla meccanica quantistica? Nel casino fuorilegge dell’universo quantistico, non esiste una realtà oggettiva: la materia può essere letta sia come fenomeno ondulatorio che come entità particellare, al contrario della meccanica classica, dove ad esempio la luce è descritta solo come un’onda. Mi permetto perciò un paragone, forse un po’ azzardato, ma efficace: credo che la poesia qui fondata della nuova ontologia estetica sia figlia naturale, risenta, della teoria dei quanti, quasi ne fosse un naturale riflesso. La nuova poesia, non è descrittiva, non descrive la “luce”, il fenomeno, l’evento, ma è piuttosto essa stessa materia, è essa stessa evento, lo crea, in forme diverse, intellegibili sia come onda che come particella. Figurativamente la pallottola di Gino Rago può essere onda e particella insieme, così come Herr Cogito, crea un evento facilmente fruibile in una dimensione anni luce da noi. E così via dicendo. Giuseppe Gallo scrive così:
“Si mise il pennello nell’occhio destro.
La Madre lo colse sul fatto.
-Perché vuoi accecarti, Figlio mio?
Il Figlio rimase perplesso.
La intravedeva ancora con l’occhio sinistro.
Allora prese un altro pennello e lo ficcò dentro l’occhio sinistro.
-Perché sei cieco, Figlio mio?
-Per vedere il resto del mondo!”
Fu così che Newton, ficcandosi letteralmente una matita in un occhio scoprì la vera natura della luce, scomponendola in ogni sua onda. Perdonate la mia digressione “fisica”, che sarà anche azzardata, ma Linguaglossa è in grado di provocare anche questi azzardi, con le sue riflessioni. 🙂
Guernica ha l’indirizzo esatto.
Una svolta al centro dell’attenzione.
La dissipazione precisa della storia.
Due schegge nel profilo.
Madame, permette?
La mano sfiora al petto la pallottola!
_____
(Davvero una imprecisione, questa mia. Sono troppo distratto dall’idea che pure è forte.
La poesia è brutta. Ma la riscrivo prima o poi)
Mi preme dire questo:
Il quadro denominato “La cosa” posto in sommità del post , di madame Colasson, questa struttura disssipativa, evoca una Guernica contemporanea. Uno sfracelo attraverso il vetro buio della contemporaneità. Le schegge voluttuose del presente.
Bellissimo…
(…)
Grazie OMBRA.
caro Mauro Pierno,
ti ringrazio veramente per l’apprezzamento del mio quadro, alla prossima mostra che farò sarò lieta di invitarti, oppure magari un giorno qui a casa mia, una specie di deposito di quadri imballati e non…
Questo quadro ha avuto un parto molto lungo e difficile, con molti ripensamenti perché le soluzioni non trovavano la mia soddisfazione… in un certo senso i “brandelli” nuotano in una oscurità che non saprei definire… cercavo nuove soluzioni formali a qualcosa che non aveva ancora trovato il suo luogo…
Un saluto cordiale.
m.l.
Cara Ewa Tagher,
Sono contento che tu abbia colto questo problema da me messo in luce. Negli anni novanta mi chiedevo che cosa intendesse Mandel’štam con il concetto di «interlocutore», adesso, dopo trenta anni ho capito che quella parola oggi va tradotta con la parola «nulla». L’interlocutore è il nulla che abbiamo davanti, dietro e di lato, è la parete bianca del futuro al quale la poesia è inviata, la parete bianca è il telos della poiesis, la poiesis non ha abitazione nel nostro mondo, non ha una Heimat, una patria, non è lecito baloccarsi con le belle parole, dobbiamo guardare bene quest’ospite in faccia diceva Heidegger.
per Wittgenstein le entità primarie di cui si compone questo nostro mondo non sono gli oggetti, ma i fatti. Se qualcuno si chiede che cos’è il mondo, o meglio, in che cosa consiste il mondo potrebbe essere tentato di fare un elenco delle cose che ci sono: il fiore, il vaso, il tavolo, lo schermo, la finestra e così via, finché arriva a un elenco completo, un inventario del mondo. Chi pensa così suggerisce che il mondo sia la somma delle cose che esistono; come se il mondo fosse un grande magazzino con lunghi corridoi di scaffali dove troviamo in un corridoio i fiori, in un altro i vasi,in un altro ancora i tavoli ecc.
I limiti di questa concezione sono evidenti: ciò che conta non è il mero essere degli oggetti, ma il modo in cui essi si relazionano gli uni con gli altri. Importa, in altre parole, non soltanto che il fiore esista e che il vaso esista, ma che il fiore stia nel vaso. «Il mondo» – dice Wittgenstein all’inizio del Tractatus – «è tutto ciò che accade. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose».Per descrivere questi fatti ci serviamo, secondo Wittgenstein, delle frasi o proposizioni. Se uno dice: «Il fiore sta nel vaso» descrive il fatto che il fiore sta nel vaso. E si nota subito una somiglianza tra la proposizione e il fatto descritto: infatti, Wittgenstein suggerisce che le proposizioni siano immagini dei fatti del reale. A ogni elemento presente nel fatto (il fiore, il vaso, lo “starci dentro” nel nostro esempio) corrisponde un elemento della proposizione,la parola “fiore”, la parola “vaso”, l’espressione “sta nel”. Il fatto è caratterizzato da una struttura interna, che determina come si relazionano gli oggetti all’interno del fatto (che «il fiore sta nel vaso»); e questa struttura viene rappresentata dalla struttura logica dell’enunciato, che determina come si relazionano le parole all’interno della proposizione.
Può apparire banale ma è bene ricordare che la poesia ha a che fare con le proposizioni e che ogni proposizione è una immagine fatta ad immagine di fatti che avvengono o sono avvenuti nel reale. È questa distanza tra le proposizioni e il reale che a me interessa come poeta. Come poeta sono il custode di questa «distanza».
Per la poiesis dire «tavolo», «vaso», «fiore» significa accogliere l’evento come esso si dà nella sua nudità. È l’Evento che illumina le cose che sono nei fatti. È l’evento che illumina la poiesis.
–
“Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato… “.
… non credo affatto che questi siano dei versi, e di versi simili a questi Mandel’stam ne aveva orrore… poiché il poeta russo possedeva una classicità che gli proveniva da Tauride e anche da Proserpina…
Certo gli piaceva frequentare dei bar e dopo aver bevuto diversi bicchieri del vino francese preferito dai simbolisti russi lo Chablis oppure “ era andato dal direttore Kuzin per centellinare con lui e con i suoi amici una bottiglia di vino georgiano” e inoltre frequentatore di cantine che scrive in versi:
Il vino denso di Kacheti
è bene berlo in una cantina,
là nella frescura, là nella pace
bevete a sazietà, bevete in due,
da soli non bisogna bere.
—
Il poeta e gli amici “ controllavamo quale vino sia il migliore, se il Teliani o il Kavaris”, ma beveva con gusto vini italiani come dice in alcuni versi:
“io bevo, ma ancora non ho trovato, dei due ne scelgo uno solo:
l’allegro Asti spumante o il vino di Castel del Papa.”
— ma la sapienza era nel vino e >>Allora, con chi parla il poeta? >>>certo col vino e del vino, tutti i poeti russi su citati erano grandi bevitori e del e col vino ne facevano filosofia, ecco perché la filosofia russa è bislacca e non seria come quella tedesca.
La sophia e la poesia russe bevono vino e non birra!
Carlo Livia
02:38 (6 ore fa)
a me
LE MAINTENANT IMMOBILE
Sono un errore con sette corpi. Uno è rinchiuso in un vecchio film osceno, gli altri vagano nella cristalliera.
In fondo al salotto dei nonni, scopro una bestia scarlatta, che recita la preghiera. L’urlo del sacrestano mi sparge nel novilunio.
Sono il macchinario psichico, ricoperto d’occhi orientali. Vedo il sepolcro sconfinare nella Madre invalicabile.
Un avvoltoio sui resti dell’Enigma. Sciami di passeggiatrici sul dubbio mostruoso. In un angolo un precipizio soffice, sul viale del primo bacio ( appena risorto).
Oggi un altro anfratto crocifisso. Un’anima ruba candide spine dal bagaglio della luna di miele.
Una vita galleggia sul nulla e s’infrange sul piedistallo vuoto ( non è la mia).
Domestiche chiacchierano e cambiano l’Universo. La donna ragno aspetta nel corridoio. Io rubo dalla teca l’amplesso triste.
L’annuncio parla di un ingorgo alla fine del tempo. O di una scheggia nella gola del serpente.
La ragione viene spogliata nel sogno pallido. Le anime si preparano nel camerino. Corpi e parole vengono ammucchiati nel lavatoio.
Il paese della Sposa è un’oscura farfalla. Vola verso l’infanzia, fra ritratti d’imbrunire. Molti angeli sono caduti nel pianoforte a coda. Troppe estasi, senza guinzaglio, si perdono in confutazioni.
Il cielo offerto dalle pastiglie è solo un antico frantoio. Lì non smettono d’invocare carnagioni bionde.
Il Padrone mi ha sognato un’ora. La mente apocrifa è in subbuglio. Non riesce piu’ a tacere.
Ogni vita finisce nello stesso viale di voci rampicanti. Alcune s’inabissano in donne senza ricordi. Donne che impallidiscono al di là del tempo, senza ragione.
Nel lutto si aprono finestre oblique. Nozze e giuramenti fossili, a perpendicolo sui teschi.
Il Nulla è sigillato da fulmini e usignoli. Espone sotterranei di corpi che mimano l’amplesso. Felici da far paura.
Gli Dei scomparsi si sposano a tarda notte. Nascosti nei corridoi del museo.
Davanti al cancello, i corpi capiscono l’inganno, e scompaiono.
Un incrocio di acque è il sigillo. Cercano il battesimo nel verde.
Un lume scosceso, infestato di stelle morte, conduce vagoni colmi di aldilà. Un dirupo dagli occhi spalancati.
Principesse votate all’ora blu chiedono – quando finisce l’ouverture?
“Noi sogniamo ciò che dobbiamo, non ciò che vogliamo” (Jung).
La vera sorgente dell’immaginario artistico è nell’inconscio, da cui, successivamente, in subordine, vengono alimentate, nei diversi linguaggi formalizzati, mitologie, teologie, visioni poetiche.
Aristotele, primo legistratore e codificatore del pensiero occidentale, fa scaturire i sogni da influssi demoniaci, anziché divini, perché rappresentano l’elemento disgregatore, il rischio di entropia della dimensione razionale, del congegno simbolico che organizza e codifica esperienze ed emozioni, cioè dello strumento che, con fatica millenaria, ha permesso di stabilizzare e comunicare istanze e contenuti psico-affettivi.
L’inconscio freudiano è ancora una sorta di ripostiglio oscuro, in cui vengono accatastati i contenuti rimossi dall’istanza morale (Super-io), infatti viene nominato “Es”, neutro, per indicare l’inferiorità assiologica all’ “Io”, che nella visione illuministica deve prevalere su istinti e passioni.
Per Jung, l’inconscio rappresenta la trascendenza, tutto ciò che non può essere compreso e rappresentato dal linguaggio razionale. In particolare è la dimensione in cui si compongono e integrano tutte le antinomie, libertà e necessità (come nel Dio di Spinoza), finito e infinito, materia e spirito.
In Lacan, fiancheggiatori dei surrealisti, il linguaggio dell’inconscio si sottrae ad ogni traduzione in semantiche codificate e immutabili, strumenti di alienazione e asservimento del potere. Ascoltare e rappresentare “l’incessante mormorio della bocca d’ombra” (Breton) significa liberare l’energia emotiva che incatena e opprime l’umanità, l’operazione dialettica che unisce sogno e realtà nella surrealta’ è la traduzione pratica dell’idealismo hegeliano, che non deve limitarsi, come accade con Marx, a emancipare dalla servitù economica, ma operare una integrale rivoluzione antropologica, culturale, spirituale, in cui trovano risposta tutte le esigenze e necessità esistenziali.
In questa paradossale e inevitabilmente fallimentare opera di traduzione dei materiali informi, caotici, metamorfici, inafferrabili dell’inconscio in strutture stabili e rappresentabili, consiste la dimensione prometeica, aporetica e tragica dell’arte contemporanea, inaugurata dalle “Illuminations” di Rimbaud, in cui vengono trasgredite e violate norme prosodiche, estetiche, etiche e logiche. Ma in nome di cosa? In che modo riprodurre il codice oscuro, fluido e scosceso del sogno può rifondare il pensiero, illuminare la via verso una nuova visione dell’Essere, in cui
“La poesia è l’amore realizzato
del desiderio rimasto desiderio” (René Char)?
Per Kafka scrivere era “una forma di preghiera”, laica, quasi blasfema, in cui si evincono, con delirante lucidità, i punti nevralgici in cui il pensiero metafisico si annoda e ingarbuglia, trasformandosi in paralogismo, per cui
“L’uomo non può più nascondersi che lui stesso ha creato ciò che adora e ammira” ( Nietzsche).
Il pensiero onirico ha insieme una grande umiltà (come ci si può vantare dei propri sogni?), e insieme la sconfinata arroganza di riformare completamente tutta la dimensione cognitiva, epistemologica, decomponendola con l’ignita violenza della follia (la paranoia critica, come la definiva Salvador Dali’) per non restare imprigionati in una dimensione di interdetti e mistificazioni, in cui la strada verso la verità sembra preclusa per sempre, come recita dolorosamente
CRISTALLO di Paul Celan
Non cercare sulle mie labbra la tua bocca,
non davanti alla porta lo straniero,
non nell’occhio la lacrima.
Sette notti più tardi erra il rosso incontro al rosso,
sette cuori più profondo batte la mano alla porta,
sette rose più tardi sussurra la fontana.
La prima pagina ha l’occhio stanco,
è una pratica elegante, bisbiglia attimi.
Di un raggio ha il cuore esatto.
Giusta la corrente. Apre e chiude cinque nuvole.
Non sono stanche le parole che si asciugano.
hanno pure una bicicletta semplice.
Grazie OMBRA.
«Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato…»
(Lucio Mayoor Tosi)
«Sono un errore con sette corpi. Uno è rinchiuso in un vecchio film osceno, gli altri vagano nella cristalliera.»
(Carlo Livia)
«Un Io cade sul pino, un altro scivola sulla veranda.
Tanti annaffiano i trifogli»
(Francesco Paolo Intini)
«Così… me ne sono andato, non esistevo più. E mi sono accorto che ero felice.
Poi mi sono risvegliato, ho aperto gli occhi»,
disse Xabratax ingollando un tramezzino.
(Giorgio Linguaglossa)
«La prima pagina ha l’occhio stanco,
è una pratica elegante, bisbiglia attimi.»
(Mauro Pierno)
Come si vede da questi esempi di autori della nuova fenomenologia estetica, qui siamo dinanzi ad un linguaggio impiegato come una sorta di tic localizzato, si tratta di frasi che affiorano in una situazione linguistica per decontestualizzarla, sono frasi scritte in una sorta di pseudo linguaggio che collide con il linguaggio adottato dalla collettività nel quale una parola ne presuppone sempre delle altre che possono sostituirla più o meno bene. Nel linguaggio adottato in modo irriflesso dalla collettività le singole frasi si dispongono in modo da designare degli stati di cose o azioni che obbediscono a delle convenzioni comunemente accettate. Però, però… ci sono anche delle altre convenzioni, implicite, soggiacenti che fanno riferimento ad altri stati di cose e ad altre presupposizioni linguistiche. Quando parliamo noi non ci limitiamo ad indicare soltanto delle azioni ma poniamo in essere degli atti che ci assicurano un rapporto fisso, stabilito con l’interlocutore: ordino, interrogo, prometto, prego, produco degli «atti linguistici» performativi (speech-act) i quali impongono la necessità di una risposta (io vi ordino…); al contrario, le frasi non-constatative sono quelle che fanno implicito riferimento a stati di cose soggiacenti, impliciti e implicati in altri ordini di discorso che sono dati per presupposti e per possibili, che non sono delle invarianti.
Ebbene, i versi sopra riportati sono indiscutibilmente di quest’ultimo tipo, non richiedono una risposta si-no, non impongono un comportamento, ma si limitano a sollevare nell’interlocutore dei distinguo, delle eccezioni, a indicare delle risorse, delle possibilità, delle eventualità, aprono degli spazi di manovra, degli spazi mentali.
Al contrario, se leggiamo le frasi di un maestro storico della poesia italiana, Montale, ci accorgiamo che siamo dinanzi ad atti linguistici constatativi, che riconoscono uno stato di cose accertato e non messo in dubbio.
«La mia Musa è lontana: si direbbe
(è il pensiero dei piú) che mai sia esistita.»
(Eugenio Montale)
Si tratta, come ognuno potrà notare, di una differenza di fondo tra due tipi di impostazione del discorso poetico che non possono essere più diverse e contrastanti.
Mi sembra evidente che la nuova sensibilità del discorso poetico della nuova fenomenologia del poetico richieda l’adozione di proposizioni non-constatative che prediligono le espressioni dubitative, incidentali, approssimative, anche assurde o illogiche, anche ultronee che recidono il linguaggio da ogni referenza.