
Lucio Mayoor Tosi, opera digitale, 2020
Simone Regazzoni anima da anni il dibattito italiano sulla contaminazione tra la filosofia e la cultura di massa sperimentando in primapersona nuove sfide contro l’accademismo. Dai saggi popfilosofici come La filosofia di Dr. House e Pornosofia, al suo primo romanzo, Abyss, un action-thriller sulle dottrine non scritte di Platone, fino al soggetto per una serie tv sul Segreto di Michelangelo.
L’intervista che segue è la sintesi di numerosi incontri pubblici avvenuti in occasione degli appuntamenti di Popsophia, festival del contemporaneo.
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La parola “popsophia” è entrata di diritto nel dibattito contemporaneo. Tuttavia il suo significato non è univoco e condiviso, è impigliato in pregiudizi e fraintendimenti. È necessario un passo indietro teorico? Che cos’è quest’ossimoro che mette insieme due termini opposti?
Regazzoni:
Nella domanda c’è già una risposta: la popsophia è un ossimoro. In greco, oxymoron vuol dire “acuta follia”. C’è, infatti, dell’acuta follia a mettere insieme termini in apparenza così distanti e inconciliabili come il pop, cioè il popolare, e la filosofia, la disciplina in apparenza elitaria, almeno se la si pensa in termini di disciplina accademica riservata ai professionisti del pensiero. Ma se si esce da questa visione angusta e mortifera, che concepisce la filosofia come un discorso fatto da cerchie ristrette di filosofi per cerchie ristrette di altri filosofi che non sempre si capiscono tra di loro, ecco che allora l’ossimoro non sarà più tale. La filosofia fin dall’origine si è posta il problema del “popolare”:pensiamo all’uso platonico del genere letterario diffuso dai “discorsi socratici” o ancor di più alla diatriba cinico-stoica per cui è stata evocata la formula di “filosofia popolare”. Per non parlare di ciò che accade durante l’illuminismo. Certo è che però non si può risolvere la questione della pop filosofia dicendo che esiste da sempre e che quindi non c’è nulla di nuovo, che la pop filosofia è filosofia nel senso originario del termine. Può funzionare strategicamente, in un primo momento, come strategia di legittimazione .Ma nulla di più. La pop filosofia nasce nello spazio postmoderno e risponde a un cambiamento in atto nei saperi, nella cultura, nei media. Il divenire pop della filosofia è una risposta a questa trasformazione in atto.
Perché la filosofia deve rispondere a questa trasformazione? Qualè il cambiamento avvenuto nel nostro tempo a cui la pop filosofia deve rispondere?
Regazzoni:
Nel secondo dopoguerra lo spazio della cultura va incontro a una trasformazione radicale, a un cambio di paradigma: la distinzione, fino a quel momento invalsa, tra una supposta cultura alta fatta di oggetti nobili, e una cultura bassa, volgare e popolare non sussiste più. Inizia quella forma di democratizzazione della cultura esorcizzata dai filosofi chiamata cultura di massa.
La filosofia deve rispondere a questa trasformazione radicale,evitando ogni possibile esorcismo. Inutile continuare a vivere nel fantasma di una “cultura alta” come unico spazio in cui muovere l’interrogazione,stigmatizzando tutto il resto come una degenerazione che rischia di “rendere stupidi” i giovani. C’è una generazione che è cresciuta con la cultura di massa, io stesso sono figlio di questa cultura: non è un caso che la pop filosofia trovi la sua prima declinazione in una nuova generazione filosofica che è nata a contatto non soltanto con i classici, ma anche con la cultura di massa. La pop filosofia, quindi, risponde alle trasformazioni in atto nella cultura del nostro tempo, interroga le nuove questioni che circolano nello spazio pubblico e le sottopone alla prova del pensiero. Emergono le prime obiezioni: se la filosofia comincia a occuparsi di serie tv, di Harry Potter o, peggio ancora, del porno, non rischia di svilirsi,di perdere il suo valore? Questa, però, non dovrebbe essere una preoccupazione del filosofo. Un “buon pensiero” non si definisce come tale a partire dall’oggetto che interroga. Non è l’oggetto a stabilire se ho articolato un ragionamento che si può definire “buono”, ma è l’articolazione del ragionamento stesso. Interrogarsi sugli oggetti della cultura di massa – anche quelli in apparenza meno nobili – non intacca lo statuto di scientificità della filosofia. Ma se ci fermassimo qui, diremmo solo che la pop filosofia è una forma rigorosa di filosofia (intendendo con “rigorosa”, al fondo, una forma saggistico-argomentativa) applicata alla cultura di massa.
Questa è sicuramente una forma di pop filosofia, presente in particolare in ambito anglo-americano. Ma per parte mia ha poco o nessun interesse. La mia idea di pop filosofia è radicalmente diversa. Bisogna pensare con la cultura di massa, con le serie tv, con la fiction.
Dico “pensare con” perché non credo che sia interesse della pop filosofia applicare dei pensieri già preconfezionati alla cultura di massa. Certo, lo si può fare, come divertissement a cui si dedicano i filosofi dopo le attività serie, ma ha poco a che fare con la creazione di un pensiero. Si tratta, invece,di capire se è possibile pensare con e attraverso la cultura di massa, se è possibile produrre un pensiero nuovo nel rapporto con il pop. In questo senso credo che oggi la pop filosofia debba privilegiare rispetto alla forma del saggio una certa contaminazione con la fiction.
Che cosa accade in questo passaggio dalla filosofia alla pop filosofia? Come si struttura un pensiero che si lascia interrogare dal pop?

Lucio Mayoor Tosi, pop-composition
Regazzoni:
In realtà, altre discipline – ben prima della filosofia – si sono occupate della cultura di massa. Negli anni ’60 sociologi come Edgar Morin, semiologi come Umberto Eco si sono interessarsi di cultura di massa distruggendo le resistenze dell’intellighenzia “colta”. La filosofia, però, non deve ripercorrere questa strada già battuta. Per questo credo che il momento dei saggi filosofici “su” serie tv o prodotti pop sia chiuso e ormai senza interesse alcuno. Piuttosto, la pop filosofia deve trovare una modalità specifica senza aver paura di contaminare il proprio lessico. Lavorando sulla propria pratica di esposizione, infatti, può diventare essa stessa un oggetto di cultura di massa e circolare nello spazio pubblico. Come un Blockbuster o una serie tv. Questo è il lato provocatorio e rischioso della pop filosofia. La filosofia “s’imbastardisce” diventando pop filosofia. Ma l’imbastardimento, nel senso della contaminazione, della commistione di generi diversi, non è qualcosa di pericoloso da esorcizzare: può essere foriero delle creazioni migliori, più originali, più fruttifere. La purezza, in tutti i campi, rischia di essere sterile. La pop filosofia deve oggi abbandonare la classica scrittura saggistica e incorporare (e creare) stili diversi, come la pop-art che ha inserito gli oggetti della cultura di massa all’interno delle proprie creazioni diventando essa stessa un’opera della cultura di massa.
La pop filosofia riesce a riconoscere, all’interno della cultura di massa, le opere che meritano di essere interrogate dal pensiero? A quali nuovi canoni estetici appigliarsi?
[caro Lucio, la tua pittura mi sembra che cerchi di studiare la forma dell’ombra, le forme delle macchie da un punto di vista esterno, non privilegiato, non assoluto. Il vecchio astrattismo era legato alla visione della de-fondamentalizzazione del soggetto, qui tu invece mi sembri orientato a studiare ciò che resta del soggetto (che è scomparso, inghiottito: di qui le tue macchie), gli epifenomeni di un modo che è visibile soltanto attraverso le rifrazioni delle macchie e delle ombre… (g.l.)
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Lucio Mayoor Tosi
Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato. Se paghi contando le monetine sei un pezzente. / Aggrappiamoci a questa. Non è l’immagine di Un. E’ davvero
l’Immacolata – tazza di caffè con cherubini al soffitto. / Perdere ad ogni costo. Romanzo di Come Zucca. Con sopra l’immagine delle Dolomiti. Lo so, lo sai. Mezz’ora fermo sulla copertina del libro. Apri sulla piega in alto,
come l’unghia scorre. “Mio amato, troverai sul frontespizio il passaporto per l’Ungheria”. Quattro parole chiave. In lingua internazionale. Niente: “Fai le valige”. – Potrebbe essere tua moglie. – L’insulto”.
Uscendo ci si abbottona la manica. Dipende, se poeta trafitto dalle consuetudini. Altrimenti girovagare in cerca di sotterranee da scoprire. Quell’altra metafisica. Tra capelli e sandali: faccia di uno scaraventato altrove.
(maggio-nov 2019)
Regazzoni:
Nello spazio della cultura di massa troviamo opere con uno statuto estetico e un valore intrinseco di artisticità paragonabili a quelle che consideriamo, semplicemente perché già canonizzate, “opere d’arte”. Purtroppo c’è ancora un pregiudizio che si fonda su un’equivalenza errata tra il valore di un’opera e la sua fruizione elitaria. Di conseguenza, un’opera che ha un apprezzamento da parte di un vasto pubblico non èun’opera di grande valore artistico.Eppure, le “opere d’arte di massa” possiedono una qualità estetica chenon ha nulla da invidiare alle opere d’arte classiche, ma hanno un’incidenza nello spazio pubblico che è incommensurabile rispetto al passato. Ildiscrimine rispetto all’arte del passato è quel “di massa”: queste opere d’arte sono pervasive nello spazio globale. L’esempio principe è la serialità televisiva americana.
Certo, se c’è un oggetto perturbante per il filosofo questo è la televisione. Il filosofo, secondo il suo habitus culturale nello spazio pubblico, è colui chenon guarda la televisione. Il filosofo ostenta quest’ostilità nei confronti dellatelevisione come un elemento che lo caratterizza come intellettuale. In realtà, ci troviamo di fronte a un oggetto perturbante – la televisione– che non ha prodotto l’“istupidimento di massa”, ma ha generato la formadi arte visiva più significativa e rivoluzionaria degli ultimi dieci anni. Anche i Cahier du cinema, la rivista che ha accompagnato lalegittimazione del cinema come opera d’arte, ha dedicando la sua copertina a Mad men dichiarando che la nuova serialità americana ha superato il cinema sia per impatto sulle masse sia per qualità estetica. La televisione deve diventare uno spazio di pensiero della filosofia. Invece è ancora considerata, come nei film horror, un luogo da cui fuoriescono mostri. Ma il mostruoso è tale soltanto perché è qualcosa di nuovo e inedito: bisogna creare nuove categorie per interpretarlo.Non c’è una differenza qualitativa tra Martin Heidegger che, nell’Origine dell’opera d’arte, interroga un quadro di Van Gogh e un filosofo contemporaneo che, nell’epoca della riproducibilità tecnica e della serialità televisiva, interroga una fiction. È solo questione di cornici e di codici sociali: la serie tv fa parte della tradizione culturale del nostro tempo anche se non è ancora “canonizzata”. La nuova serialità americana, quindi, è una vera e propria “opera d’arte di massa”.
Ma quali sono le caratteristiche che la rendono una novità culturale assoluta, incomparabile con le opere d’arte del passato? La pop filosofia può azzardare una definizione di questo nuovo oggetto di studio?
Regazzoni:
La definizione di opera d’arte che fornisce Heidegger – “la messa in opera di una verità come esposizione di un mondo e ritrarsi di una terra” – è utilizzabile anche per parlare di serie tv. Traducendo in termini pop il linguaggio esoterico heideggeriano: un’opera d’arte è tale quando ha la capacità di costruire un mondo talmente articolato da permetterci di abitarlo durante la sua fruizione.La serialità americana ha questa capacità di esporre un mondo e di renderlo abitabile. I mondi della fiction entrano a far parte della nostra quotidianità, diventano intrinseci al nostro vissuto: rimaniamo talmente legati che aspettiamo con ansia la puntata successiva per rientrarvi dentro.
Umberto Eco ha parlato di “mondi possibili” che vengono messi inscena: questo è il nostro mondo, il mondo reale in cui abitiamo, e quelli sono i mondi fittizi, possibili ma non realizzati, che fruiamo durante la visione di una serie tv. Questa definizione, a mio avviso, è troppo debole. La fiction, intesa come opera d’arte in senso heideggeriano, è la “messa in atto di una verità”. I suoi mondi sono mondi “in atto” che disarticolano l’idea di mondo come realtà unica e monolitica e ci inducono a pensare la realtà come un sistema complesso fatto di più mondi. Il “mondo” non è la realtà esterna nella sua materialità su cui si depositano, come fatti inessenziali, le rappresentazioni della serialità.
La fiction di massa non si affianca a un mondo già costituito, ma incide sulla sua strutturazione. Non si tratta uno schermo che si accende per qualche secondo e poi scompare, come i sogni che la mattina spazziamo dalle stanze della nostra mente per metterci in contatto col mondo reale. Queste finzioni entrano nel tessuto del mondo “reale” e gli danno una piega nuova che prima non aveva. La finzione, intesa in questo modo, è qualcosa di più di una finzione: ha una portata di verità. La pop filosofia, quindi, è una forma di sapere che si occupa delle opere d’arte di massa che hanno una qualità artistica e, in più, hanno una portata di verità che produce un pezzo di mondo con cui ci relazioniamo.
La fiction, intesa in questo modo, obbliga la filosofia a confrontarsi con qualcosa di qualitativamente diverso dall’arte “tradizionale”. Ma qual è la differenza rispetto al cinema? Non si tratta, anche in questo caso, della creazione di un “mondo” abitabile dallo spettatore?

Lucio Mayoor Tosi, Liric Covid19
Regazzoni:
Una delle caratteristiche che rendono della serialità americana rivoluzionaria è l’idea di narrazione: in una serie tv viene narrata più di una storia, nello svolgimento si incontrano molteplici narrazioni che si rapportano tra di loro. Le opere cinematografiche raccontano una sola storia: un protagonista si muove da un punto ideale a un altro e muta in questo passaggio. Al massimo troviamo più storie che, però, evolvono in un tempo e in uno spazio limitato. La serialità americana, invece, è multilineare. Fino all’esempio estremo di Lost dove i protagonisti e le storie si moltiplicano e lo spazio-tempo esplode. Lo spettatore si perde, ma impara ad abitare questa erranza. Si tratta di un oggetto nuovo che sfida ciò che la narrazione ha prodotto fino ad oggi: narrazioni corali che hanno bisogno di un tempo dilatato per svilupparsi. Non solo: la serie ha una durata incompiuta che non prevede un termine prefissato. Sono opere ontologicamente aperte che possono andare avanti anni, se il pubblico le gradisce, o smettere subito, se il pubblico non le gradisce.
Questa forma di narrazione “aperta”, quindi, prevede una forma diversa di fruizione da parte dello spettatore.
Regazzoni:
Un film dura in media 90 minuti, mentre una serie tvpuò durare 6-7 stagioni: 120 ore spalmate su 6-7 anni. Siamo di fronte aqualcosa che – solo dal punto di vista dell’attenzione richiesta allo spettatore– è incommensurabile con il passato. Nell’epoca della riproducibilità tecnica, dice Benjamin, le opere d’arte sono secolarizzate e si fruiscono in maniera distratta. Eppure, con la tanto vituperata televisione, ritorniamo a una fruizione di tipo rituale, al vero e proprio culto. La temporalità del nostro mondo, infatti, si articola insieme alla temporalità della serie tv. Ogni settimana, per esempio, c’è la serata dedicata alla visione rituale dell’ultima puntata della nostra serie preferita. Oppure, quando si avvicina il Natale, la puntata della fiction che seguiamo è sincronizzata su quel periodo dell’anno. Ogni serie è legata a un periodo di tempo preciso, rimane iscritta nell’immaginario della generazione che l’ha fruita “in diretta”. Ci contaminiamo, insomma, con questi personaggi che hanno la forzadi bucare lo schermo e penetrare all’interno del nostro tempo. Neanche i filosofi sono immuni da questo processo. Ricordo che il filosofo più importante nella mia formazione, Jacques Derrida, non si perdeva una puntata di Dallas. Anche se non ha mai scritto su Dallas – e, probabilmente, avrebbe provato ribrezzo alla sola idea di farlo – Derrida nelle sue opere ha confessato che guardava molta televisione: non ha esorcizzato la televisione, ma l’ha iscritta nel suo pensiero. Una volta, negli Stati Uniti, gli hanno chiesto: “Che cos’è la decostruzione? La decostruzione è una sit-com?”. Lui era inorridito di fronte a una simile domanda. Eppure dei suoi allievi americani stanno lavorando sul rapporto “sit-com e decostruzione”…
Ai margini della grande serialità c’è il genere televisivo più bistrattato: la sit-com. Eppure, se prendiamo esempi come Friends o Will&Grace, le sit-com hanno introdotto un’educazione sentimentale alternativa a quella tradizionale.

Lucio Mayoor Tosi
Regazzoni:
La sit-com, un prodotto che nasce via radio e poi arriva alla televisione, è apparentemente il prodotto più frivolo della cultura di massa. Un conto sono le serie tv, si dice, e un conto sono le sit-com, dove c’è poco di “artistico”. Eppure la sit-com non è altro che la reinvenzione del genere dialogico-comico, che ha una rispettabile tradizione filosofica che va dalla diatriba alla satira. È un ingranaggio perfetto, un macchinario estremamente complesso e raffinato dove gli attori producono battute in tempi di fruizione strettissimi.
In tempi condensati, 20-30 minuti al massimo, gli autori riescono a indurrela risata, quella che Lacan definisce “fettina di godimento”. La sit-com è un’opera d’arte che produce queste “fettine di godimento”catartiche e liberatorie spesso coadiuvate dalla risata di voice over, una proiezione del pubblico che sta già ridendo prima di ridere. Veniamo alla domanda scomoda: una sit-com può produrre l’educazione sentimentale contemporanea? Di certo, al di là del fatto che possa o meno, lo ha fatto e continua a farlo. Così come il cinema ha prodotto l’educazione sentimentale della generazione precedente. Come, ancora prima, lo hanno fatto i romanzi. All’inizio anche la letteratura è stata considerata “pericolosa”: l’educazione sentimentale scorretta veicolata dai romanzi può produrre comportamenti scorretti (nelle ragazze in particolare). La stessa paura che si ha oggi nei confronti della televisione. Ogni generazione ha i suoi timori rispetto a un cambio di paradigma culturale. Anche Platone nella Repubblica, spaventato dal tipo di paideia legata all’epica nell’Atene del IV secolo, voleva espellere i poeti dallo spazio pubblico. Il limite di questo ragionamento, però, è pensare che il soggetto che fruisce un’opera – anche se si tratta di un “mito d’oggi” come la fiction – sia un contenitore vuoto che percepisce un senso già strutturato e si comporta di conseguenza, un soggetto passivo che subisce input esterni che non è in grado di rielaborare. Dobbiamo mettere in discussione questo pregiudizio e parlare di uno “spettatore emancipato”. La televisione, infatti, non trasmette messaggi già elaborati e lo spettatore è qualcosa di più di una spugna inerte. Lo spettatore partecipa attivamente alla fruizione del testo audiovisivo, vi proietta i suoi fantasmi e i suoi desideri. L’opera d’arte come “apertura di un mondo” non è già pronta, c’è bisogno dello spettatore perché questo mondo “si apra”. L’educazione sentimentale, quindi, si produce nell’interazione tra l’opera d’arte e i soggetti che partecipano alla costruzione del mondo che mette in atto l’opera stessa.
In che forma e attraverso quali strumenti avviene questa interazione aperta tra fiction televisiva e “spettatore emancipato”?
Regazzoni:
Quando parliamo di fiction non dobbiamo pensare che la visione di questo prodotto sia legata soltanto alla scatola attorno alla quale si condensa quello che Umberto Eco ha definito il misterium televisionis che affascina e spaventa gli intellettuali. La televisione è solo una delle modalità in cui si esprime la fiction. La fruizione, oggi, passa attraverso altre modalità tecnologiche di riproduzione dell’immagine e produce un infinito commentario critico che amplificala narrazione.
Abbiamo una forma di interpretazione che non si limita a guardare il “testo televisivo” (inteso come vero e proprio testo semiotico), ma produce altre infinite scritture.
La televisione ha prodotto uno spettatore che non beve semplicemente le immagini, ma le rielabora producendo dei nuovi testi da interpretare. I giovani che guardano serie tv spesso scrivono in rete, producono fanfiction, elaborano altri testi, commentano le scene, le rimontano, le ritraducono in altre lingue. La fruizione diviene vera e propria riscrittura dell’opera. Ed è molto interessante per la filosofia analizzare queste nuove modalità di fruizione che sono in perfetta consonanza con il pensiero della decostruzione: la lettura di un testo è scrittura di altri testi, è interpretazione attiva.
Al contrario, la totale sfiducia nelle capacità interpretative degli spettatori ha dato nuovo vigore alle critiche. Le serie tv dell’ultima generazione non smettono di alimentare polemiche perché espongono al “male” e alla “crudeltà” senza esprimere un giudizio morale che orienti l’opinione del pubblico.

Lucio Mayoor Tosi, Covidgarten
Regazzoni:
L’opera d’arte, non dobbiamo dimenticarlo, è “al di là del bene e del male”. Se ci chiediamo se il messaggio che veicola è “buono”, creiamo una limitazione alla sua libertà di interrogazione senza copertura che squaderna i problemi e ne esamina tutte le contraddizioni.Tentare di contenere la serialità con una “moralina”, come la chiamava Nietzsche, non funziona. Anzi, produce della “cattiva” arte. Le serie tv italiane, per esempio, peccano di piccola pedagogia e cadono in banalità moralistiche. Si diventa più buoni se si guarda Un medico in famiglia invece di Dr. House? Oppure si rischia soltanto di vedere una brutta opera d’arte televisiva?Poi ci sono i casi limite forieri di polemiche.
I soprano rappresentavano, in maniera complessa e articolata, la mafia italo-americana e lo spettatore si identificava con i protagonisti e con i loro problemi, entrava a far parte della famiglia mafiosa. In questo caso il soggetto si trova di fronte a un’opera d’arte che sonda la propria complessità, che indaga la fascinazione per un certo tipo di comportamenti. Se evitiamo di confrontarci con questa articolazione che comprende la nostra pericolosa attrazione per il male, lasciamo che questi problemi si ripresentino in forme non rielaborate e violente. Una serie come Dexter, per esempio, dove il protagonista è un serial killer e un poliziotto, pone questioni enormi che non possono essere eluse. Torna in mente Benjamin che si interroga circa la fascinazione del popolo per “il grande criminale” in rapporto alla legge e alla sua trasgressione. L’opera d’arte, insomma, è un modo di confrontarsi, senza sconti e senza la copertura della “moralina”, con il male innervato nel reale.
Ricevo e pubblico questa riflessione di Marie Laure Colasson
Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)
Il programma della top-poesia o pop-poesia sarà liberare la «differenza», dunque, per dar vita a un pensiero poetico privo di contraddizione, che contempli un nuovo concetto di dialettica, privo di positività: «un pensiero che dica sì alla divergenza; un pensiero del molteplice – della molteplicità dispersa e nomade che non limiti né raggruppi nessuna delle costrizioni dello stesso».
Questa la sfida lanciata da Deleuze, nel tentativo di liberarsi dall’assoggettamento delle categorie, che rappresentano lo sguardo che, dall’alto in basso, squadra esplicitamente la cosa (qualcosa o qualcuno che sia) per deciderne le sorti, per determinarne la fenomenologia, mettere agli arresti domiciliari la cosa. La categoria mette in evidenza mediante l’accusa e rende manifesto chiamando per ciò che si è, facendo sì che venga in luce all’aperto nella dimensione pubblica come ciò che è, ma così facendo lo determina e lo costituisce. La categoria giudica, cita in giudizio la cosa per appropriarsene, per affibbiarle un nome proprio che è proprio solo in quanto proprietà della categoria.
Scrive Giorgio Linguaglossa:
«Voler costringere il linguaggio ad un intento azionatorio-predicatorio è già in sé un atto intimidatorio che la lingua tende ad espellere come un corpo estraneo. Al contrario, la metafora è l’azione del linguaggio che riconosce l’Estraneo, il non-nominato. Nominando il non-ancora-nominato il linguaggio dimostra di essere in vita, di non essere morto. E questa nominazione è, propriamente, l’atto della metafora.
La metafora è il gioco di specchi che fa apparire, rende manifesto, il gioco del linguaggio. Proprio come due specchi posti l’uno di fronte all’altro, essi riflettono il nulla che si cela al loro interno. E questo nulla è la metafora».
«Non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni».
(Ilia Prigogine)
La pop-poesia o top-poesia è questa possibilità di prendere svariate direzioni.
In una certa misura, il mio intendimento e quello di altri autori, ad esempio di Francesco Paolo Intini, sono contigui, entrambi rifuggiamo dal significato, lo evitiamo come il Covid19. Per raggiungere questo obiettivo non esitiamo a interrompere la frase, a lasciare in sospeso il significato che il lettore si attendeva per sostituirlo con un altro, anche arbitrario o, semplicemente, casuale.
Leggiamo due distici di Francesco Paolo Intini:
Luna ridens. Lo zoo frustato dal vento.
Straripano le foibe
e tra i denti una gengiva provoca la lingua.
Un mamba in giro per la città.
È ovvio che qui l’obiettivo è rifuggire il più velocemente possibile dall’intento azionatorio-predicatorio e intimidatorio del linguaggio del significato a tutti i costi, con tutte le forze.
il disallineamento frastico, il dislivello tra i singoli sintagmi, l’interruzione di ogni enunciato, è questo il lavoro nel quale sono personalmente impegnata. Il significato deve essere bypassato, dribblato, eluso, solo così si può ottenere un significato ulteriore, citeriore, anteriore… Aprire una parentesi all’interno di ogni enunciato, e un’altra parentesi fuori dall’enunciato, e così via… fare del terrorismo, terremotare ogni enunciato, dissestarlo, de-costruirlo, smobilitarlo.
Fare del terrorismo all’interno di ogni enunciato è un lavoro serissimo, che appartiene al bagaglio di ciascun poeta.
Oggi non si può adottare un significato così come ce lo consegna il sistema delle emittenti linguistiche.
Verso la pop-poesia,
da La partenza degli Argonauti (2013) di Giorgio Linguaglossa a Storie di una pallottola di Gino Rago, passando per I platani sul Tevere diventano betulle (2020).
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Spunti e osservazioni di Gino Rago
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Peccato che il mio libro abbia visto la luce proprio al centro del tunnel delle nostre vite sospese, ma ciò non mi impedisce di progettare una qualche presentazione conviviale (come auspicano in tanti/tante a iniziare dallo stesso Giorgio Linguaglossa e da Letizia Leone), a Roma e non soltanto a Roma.
Volendo tracciare una sorta di scheda tecnica de I platani sul Tevere diventano betulle (Ed. Progetto Cultura, Roma, 2020) segnalerei che il mio recentissimo libro poetico consta di 5 Sezioni, in ciascuna delle quali affronto temi ben individuati, direi imprescindibili al modo ‘nuovo’ o se si vuole al modo “altro”di tentare di far poesia con lo sguardo teso verso nuovi paradigmi estetici e verso nuove basi ontologiche.
– Nella Sezione 1 mi confronto con il Vuoto, con il Tempo, con lo Spazio, con gli scampoli, con gli specchi, con gli stracci, con la plastica, con le piazze-agorà.
– Nella Sezione 2 stabilisco una sorta di dialogo a distanza con alcuni dei poeti-fiaccole sul mio nuovo cammino poetico (Tranströmer, Rózewicz, Herbert, Linguaglossa, Pessoa, Kristóf, Mandel’stam, Achmatova, De Palchi, Pecora, A.A.Alfieri, M. Gabriele, Seifert, L. M. Tosi, E. L. Manner, U. De Robertis, Brodskij…).
– Nella Sezione 3 mi confronto con il tema davvero arduo di Lilith, la prima compagna di Adamo…
– La Sezione 4 è tutta dedicata, in forma di epistolario, all’incontro con la poesia di Ewa Lipska.
Per Giorgio Linguaglossa, lo dice nel retro di copertina come meglio non si potrebbe: «Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un’altra, di un luogo in un altro.
Una autentica novità per la poesia italiana».
– La Sezione 5 merita un’attenzione a parte, vi si affaccia il ‘metodo mitico’.
Nella Sezione 5 del mio libro affronto il tema incentrato sul Ciclo di Troia, sulla storia scritta dai vinti e non più dai vincitori. Pronuncio la mia parola sulla sorte delle donne quando sono ridotte a bottini di guerra.
Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime,dei loro corpi umiliati, spogliati delle loro identità.
Ilio in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.
Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di sfilata di tre figure femminili emblematiche:
Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste in cui i fantasmi del mito «ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati», al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti indicibile realtà del presente. Da qui, il «metodo mitico», nel poemetto espresso per “frammenti”.
Cinque Sezioni, diverse per temi e per lingua, che sono 5 libri poetici diversi ma che confluiscono in uno stesso volume poetico. Questo aspetto del mio libro è stato acutamente colto, interpretato ed espresso, come meglio non era possibile fare, da Giorgio Linguaglossa nella intensa nota critico-ermeneutica che appare come retro di copertina del libro:
«Nella poesia di Gino Rago è rinvenibile una magistrale sicurezza di andamento processuale, una autentica novità per la poesia italiana. Il segreto di questa procedura risiede nello stile gnomico-colloquiale: un mix di parlato e colloquialità nello stile di una missiva indirizzata ad un interlocutore reale o non-reale mixato con dei linguaggi da bugiardino, un mix di didascalie cliniche, di prodotti commerciali, quasi dei referti medici in stile gnomico, un compositum che utilizza un linguaggio giornalistico leggero che confligge con lo stile gnomico e aforistico. Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un’altra, di un luogo in un altro.
Il libro è diviso in cinque Sezioni, ciascuna delle quali è composta con un movimento e una tonalità diverse dalle altre, ogni sezione è composta da una lessicalità individuale, e tutte insieme rimandano alla parentela relazionale del principio della concordia discordante, della oppositività di tutto con tutto. Nulla a che vedere con gli antiquati principi della ontologia novecentesca che puntava le sue fiches sulla roulette della ambiguità dei linguaggi e sul pluristilismo; qui non c’è convergenza di stili ma semmai c’è «divergenza», «difformità» tra varie morfologie di linguaggi disparati…
Qui siamo in un nuovo demanio concettuale del fare poesia».
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Tornando alla Sez. 4 de I platani sul Tevere diventano betulle, devo confidare che l’adozione dell’epistolario non è un espediente direi “tecnico”, ma una scelta estetico-formale.
Ho adottato la forma della lettera nella mia conversazione immaginaria con Ewa Lipska da un lato, per arginare o scansare il rischio delle trappole, dei trabocchetti beceri e insidiosi che l’Io poetante è stato ed è sempre in grado di spargere sul percorso del poeta del ‘900 e del post ‘900; dall’altro, per l’apertura degli occhi che ho ricevuto da Andrea Emo e dalla lettura di alcuni brani delle sue riflessioni filosofiche proposte da Giorgio Linguaglossa su numerose pagine de L’ombra delle parole.
Andrea Emo scrive: «La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presente mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.[…]».
Ho cercato subito di fare “mia” questa idea di Emo nel mio recentissimo fare poetico, sia nella Sez. 4 de I platani sul Tevere…, sia nei polittici successivi al libro e fino ad estenderla alle recentissime esperienze della pop-poesia (o della top-poesia, secondo il suggerimento di Milaure Colasson) in forma di Storie-di-una-pallottola).
Rinnovo i miei ringraziamenti a Giorgio Linguaglossa per i sentieri nuovi che ha saputo e sa indicarci per una poesia “altra” rispetto a quella novecentesca, oserei dire a partire da una composizione poetica congedata nei giorni lontani dell’anno 2013, e dintorni, che propose come “La partenza degli Argonauti*
*da Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento – Monitoraggio della poesia italiana contemporanea , Società Editrice Fiorentina, 2013).
Una poesia che trova l’ispirazione nell’opera omonima di Giorgio De Chirico, del 1909, La partenza degli Argonauti e che ri-propongo in distici:
Giorgio Linguaglossa
La partenza degli Argonauti
«Ci sono degli uomini sulla spiaggia»
«Sì, ci sono degli uomini»
«Ma che ci fanno quegli uomini sulla spiaggia?
giocano a palla? giocano a tennis?»
«No, non giocano né a palla né a tennis»
«E allora, che ci fanno quegli uomini sulla spiaggia
accanto alla nave dalla snella chiglia?»
«Oh, non fanno nulla. Sono e non sono»
«E che ci fa quel tizio che li accompagna con la tunica bianca
mentre suona la lira?»
«Ma quel signore è il poeta Orfeo che suona la lira!»
«Canta anche il signor Orfeo mentre che suona?»
«Sì, il signor Orfeo canta anche»
«E che cosa dice il signor Orfeo nel suo canto?»
«Dice che gli uomini stanno partendo»
«Stanno partendo?»
«Sì».
«E per dove?»
«Chissà chi lo sa»
«E lui sa?»
«No, lui non lo sa, ma canta»
«Canta ciò che non sa?»
«Sì»
«Ma è un bugiardo il signor Orfeo
se non sa quel che dice… dovremmo mandarlo
in esilio il signor Orfeo, bandirlo per sempre
dalla città! non credi?»
«Oh no, non credo, il signor Orfeo ha soltanto un compito
che deve limitarsi ad eseguire. Tutto qui»
«E quegli uomini lo sanno che Orfeo è un mentitore?»
«No, gli uomini non lo sanno…
E non lo devono neanche sapere!»
«E adesso, è pronta la nave?»
«Sì, adesso è pronta»
Perché ho inteso ri-pescare dai fondali del tempo La partenza degli argonauti? Perché ho inteso ri-proporla in distici?
Le risposte sono tante.
Qui e ora mi interessa segnalare un unico fatto come risposta sintetica:
con La partenza degli argonauti Giorgio Linguaglossa prende coscienza del fatto che non soltanto la metafisica, ma tutto del Dopo il Novecento tramuta in micrologia.
La partenza degli Argonauti registra il trionfo della micrologia come unica lingua dell’Occidente.
Domanda:
Che cosa è metafisica?
Il punto di vista in cui si è posta la questione del senso dell’essere non era più il tempo, ma il nulla (la critica del pensiero greco era così compiuta con il ritorno a Parmenide, l’inizio della filosofia occidentale – che ne costituiva anche la fine). Il pensiero occidentale, con Platone e Aristotele per primi, aveva poi preso un’altra via, nella quale l’essere nella sua originaria verità era stato obliato e restava essenzialmente nascosto (l’essere di Parmenide). L’essere è, il non essere non è. E quindi il senso originario dell’essere rispetto al nulla, l’essere, veniva semplicemente scambiato con l’ente, e ciò che ne usciva vittorioso era il nulla, in quanto veniva sottratto all’ente il suo autentico fondamento, l’essere dell’ente.
Nichilismo
Ne consegue che la verità dell’essere come fondamento viene scambiata con la verità dell’ente intramondano, viene ridotta alla certezza che l’uomo moderno ricerca attraverso la scienza, in tal modo l’ente viene abbassato alla mera strumentalità e abbandonato alla presa di possesso del soggetto, alla soggettività assoluta del pensiero moderno, che si manifesta, ad esempio, nella volontà di sapere assoluto in Hegel e volontà di volere, volontà assoluta in Nietzsche (ma l’epilogo di tutto questo è il nichilismo, la perdita della verità dell’essere e la nientificazione dell’essere dell’ente da parte della tecnica), dal momento che l’ente è ridotto a mero strumento del soggetto che ne prende possesso attraverso il sapere strumentale della tecnica.
L’uomo, «Luogotenente del nulla» (Heidegger)
In tal modo viene obliato, nella certezza di sé da parte del soggetto, non soltanto l’essere, ma anche il nulla. Il soggetto umano, l’uomo, diviene il luogotenente del nulla; per sfuggire al nulla bisogna presentificarlo, averlo presente di fronte a noi, e questo non può avvenire attraverso il pensare metafisico, che dovrebbe scoprire l’essenza del nulla, così come scopre l’essenza dell’essere è la questione della metafisica dell’essere in quanto essere è la questione della definizione, del che cosa è?, e questa questione non si può porre né per l’essere, né per il nulla, questo si mostra nel modo più chiaro per il pensiero del nulla, che rispondendo alla domanda sul che cosa esso è?, dovrebbe renderlo non più nulla, ma qualche cosa. Il nulla ci si manifesta piuttosto nell’angoscia, lo stato d’animo in cui il mondo e il tutto dell’ente scompaiono di fronte a noi.
Tutto ciò comporta uno scacco del pensare e del principio di identità, uno scacco della logica, e questo ci dovrebbe far ritornare ad un pensare essenziale che non sia più quello della antica metafisica, ma un pensare oltre la logica, in cui ci appare di nuovo nella non latenza (Unverborgenheit –) l’essere obliato, e con esso il nulla, anch’esso nascosto alla logica e al nostro pensare, pur se ad esso intrinseco.
L’essere, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non risponde al predicato, non rientra nel linguaggio nel quale sembra, tuttavia, in qualche modo, anche risiedere come all’interno di una dimensione illusoria (come un palazzo fatto di specchi che si riflettono l’un l’altro), nella quale l’io pensa di esserci; ma, allora questo è il luogo di un grande abbaglio se l’io della percezione immediata crede ingenuamente in ciò che vede e sente. Ed è appunto questo ciò che fa il linguaggio della poesia: far credere in quel grande abbaglio. Ma è, per l’appunto, un abbaglio, una illusione. Per questo la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità che filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare perché avrebbe messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo dei concreti e delle certezze, del nomos e del logos, parole altisonanti che all’orecchio della Musa invece suonano false e posticce. L’illusione è lo specchio della verità, anzi, è la verità che si guarda allo specchio.
L’io, per quanto manifesto, reperisce altrove il suo statuto ontologico: nella sua mancanza costitutiva, che lo costituisce come impalcatura del soggetto.
L’io mento, è la vera dimensione dell’io penso.
L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio, il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio, il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso, che dialoga con se stesso.
Il mondo dell’innominabile, delle petizioni cieche in quanto prive di parole che stanno nell’inconscio, una volta raggiunto il Realitätprinzip, e cioè la dimensione propriamente linguistica, ecco che indossa l’abito di parole. Ma non sono quelle le parole che la petizione chiedeva, sono altre che la petizione non aveva previsto, né avrebbe mai potuto immaginare.
La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivolava invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale, in quanto diventata ipoteca panlinguistica. Il linguaggio poetico, in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso per via della stessa logica differenziale che vedeva nel gioco dei rinvii la sua sola consistenza, si autonomizzava, si chiudeva su se stesso e diventava linguaggio che si ciba di linguaggio. Una dimensione auto fagocitatoria. Nella dimensione auto fagocitatoria scivola inevitabilmente ogni petizione panlinguistica.
Che lo si voglia o no, la poesia del novecento e del post-novecento, è stata colpita a morte dal virus del panlogismo, sconosciuto ad altre epoche e alla poesia di altre civiltà.
Nulla è più disdicevole dell’atteggiamento panlogistico proprio delle poetiche privatistiche e post-privatistiche che pretendono di commutare una ipoteca linguistica in petizione di poetica, in intermezzo ludico facoltativo.
C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile, che resiste alla irreggimentazione nel discorso poetico. Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale.
L’unica sfera in cui si dà Senso è nel luogo dell’Altro, nell’ordine simbolico.
Allora, si può dire, lacanianamente, che «il simbolo uccide la “Cosa”?».
Il problema della «Cosa» è che di essa non sappiamo nulla, ma almeno adesso sappiamo che c’è, e con essa c’è anche il «Vuoto» che incombe sulla “Cosa” risucchiandola nel non essere dell’essere. È questa la ragione che ci impedisce di poetare alla maniera del Petrarca e dei classici, perché adesso sappiamo che c’è la «Cosa», e con essa c’è il «Vuoto» che incombe minaccioso e tutto inghiotte.
È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica», solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta, solo una volta estrodotto il soggetto linguistico che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono, cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.
Pop critica e pop poesia sono due eventi interconnessi tra loro senza i quali non sarebbe possibile giustificarne la presenza. Il fatto è che non sono bastati un ventennio di proposizioni linguistiche,anche con la recente NOE, a stabilizzare la dimensione di un nuovo linguaggio dove alcuni soggetti poetici di ottima caratura, ed altri un po’ meno, provano ad autosperimentarsi da soli,con una fisionomia, mobile e policentrica, che ridimensiona il carattere specifico proprio di questa Ontologia. Si potrà, in questo caso, obiettare che tutti sono liberi di aderire alla Nuova Forma Poetica, solo se si lasciano a margine o si omettono completamente, certe baldanze formali, allo stato attuale. Non a caso diversi poeti stanno deviando i propri risultati verso la poesia pop-bitcoin, pop-corn, pop-jazz, fuori da tante contaminazioni stilistiche e con un proprio cliché che non vuole in nessun caso istituzionalizzarsi, ma creare una atopicità come vera natura di una nuova ritrovata forma progettuale della poesia,. Farsi vicino a questo senso di poetare significa per Giorgio Linguaglossa esprimere il massimo della sua sensibilità critica non abiurando la nuova Forma.
Mario M. Gabriele
dalla raccolta inedita Remainders
Un cocktail di Bull Shit inaugurò l’anno cinese delle candele.
Ci minacciavano Star Wars e L’Uomo che fuma.
Così rimanemmo al tavolo con Sara e Dora Moore
pensando allo scacco matto.
Cara Ketty, sono 14 anni che non mi muovo più dal letto
e ho le allucinazioni durante il giorno, disse Arianna.
C’è un esercizio, una specie di Yoga,
che si attacca al passato come il silicone.
A giudicare le cose come sono andate,
basterebbe che la luna se ne stesse un po’ in disparte.
L’occasione è buona
per dire Vorsicht vor dem Winter.
Sembra che Padre Michell, non voglia liberarci dal male
perché legati alla Passione, secondo Madame Bovary.
Sissy non si fa più sentire. E’ caduta nel disincanto
in una stanza di Prinsengracht 263.
Da inizio Gennaio fino alla quarantena
Ghebby ha seguito l’andamento dell’universo digitale.
Ne sa qualcosa Keurin dal suo paesino nella Brianza
che accomuna, mese dopo mese, remainders.
Nessuno sa come prendere un vagone,
ricordare La relatività con le 4 stagioni di Durell.
Kessy ha conseguito la laurea in modalità telematica
chiudendo l’esercizio accademico 2015-2016.
Oggi compie gli anni. Le presenterò mammy,
in photoshop, come quelle in bacheca a Bergen Belsen.
BOOKMARK THE PERMALINK.
thoughts on “TESTO INTEGRATO NELLA RACCOLTA INEDITA REMAINDERS”
milaure colasson says:
maggio 22, 2020 at 6:29 pm
caro Mario,
leggo adesso la tua top-pop-poesia, e devo dire che è straordinariamente viva e frizzante come uno spumante Brut della cantina Righetti del Friuli, Derrida ne sarebbe rimasto elettricamente colpito e, forse, anche Deleuze… so che in Italia questo genere di poesia non è molto amata, voi italiani i poeti li lasciate volentieri in uno sgabuzzino, meglio se in presenza di scope e di aspirapolveri, scolapasta e pentolame di latta colorata. Sai, penso che anche così la poesia possa, anzi, debba saper sopravvivere, a lato di scatole di fagioli e confezioni di spaghetti scaduti. La top-pop-poesia si nutre di scatolami e di mascalzoni, di pantaloni dismessi e di camicie verdi… tra bacheche di Bergen Belsen e cocktail di Bull Shit…
cara Milaure Colasson,
grazie del tuo graditissimo intervento che assembla, con profonda sintesi, una serie di approdi critici bene articolati e di diversa identità. E’ questa la condizione migliore per recepire e decodificare un testo poetico offrendo al lettore il meglio della propria sensibilità critica che, grazie al tuo buon esercizio poetico, rende l’interpretazione dei versi, meno ostica. Non c’è dubbio che abbia gradito il tuo punto di vista finalizzato ad una desemantizzazione della lingua tradizionale. Confesso, che qui, da parte mia e per la poesia o le mie poesie di diversa connotazione, non trattasi di modernismo post NOE, ma di una esigenza volta a trasferire nell’oggetto-verso, tutte le confluenze possibili, anche dicotomiche, ma che alla fine si energizzano e risorgono dal pantano dell’oblio, portando in superficie il rumore del Tempo. Grazie e un cordiale saluto. Mario.