[Marie Laure Colasson, La Cosa, Struttura dissipativa, 2020, acrilico, 50×40]
.
Il quadro raffigura l’evento di un «corpo in brandelli» come «nuda cosa». Tracce di una cosa misteriosa che è scomparsa, sottrattasi al nostro sguardo. Nuda cosa come corpi neutri, al di là del godimento e al di qua del soggetto, al di là del significante e al di qua del segno. Finché c’è il soggetto il corpo non può esserci. Se c’è un corpo, non c’è il soggetto. Il corpo è e non è, non viene incontro a nessuno. Il corpo è in quanto non è.
Agamben afferma che le cose non sono fuori di noi, nello spazio esterno misurabile, come gli oggetti neutrali (ob-jecta) di uso e di scambio, ma sono invece esse stesse che ci aprono il luogo originale a partire dal quale soltanto diventa possibile l’esperienza dello spazio esterno misurabile, sono cioè esse stesse prese e com-prese fin dall’inizio nel topos outopos in cui si situa la nostra esperienza.
L’«evento di un corpo» lo si raggiunge attraverso il «fantasma di un corpo». Si ha evento in quanto si ha un fantasma. È chiaro che qui ci si muove in un campo mondano del tutto privo di trascendenza. Un corpo abita la condizione in cui attualmente si trova. La sua condizione è quella che è, quello che fa è fare qual-cosa di quello che si è. Il corpo che conosciamo è il corpo che parla, che si esprime attraverso un sintomo che qualcuno deve interpretare; ma se il corpo diventa un sintomo, cioè un segno, allora il corpo reale svanisce, e rimane solo il significante di qualcos’altro. Nel corpo reale questo continuo slittamento di senso (di per sé inarrestabile, come quello scoperto da Saussure negli anagrammi), si arresta. Il corpo reale smette di essere sintomo, cioè linguaggio, e diventa quello che Lacan con un neologismo definisce «sinthomo», cioè un corpo che vive fino in fondo la corporeità che è. Il «sinthomo» per Lacan è allora il corpo che è passato «al livello del reale». Il nastro di Mœbius esibisce questo movimento: Il passaggio dal corpo-sintomo al corpo-«sinthomo» è di per sé un processo del tutto normale. Si tratta di vedere quello che era da sempre lì, il corpo nudo, brandelli di corpo nudi che galleggiano su un fondale di oscurità. Un corpo fatto a brandelli, brandelli di corpo, tracce di corpi dimenticati, rimossi. Tracce di tracce. Come sul nastro di Mœbius, ci si accorge che allontanandosi in una direzione dopo un tragitto che può essere anche molto lungo, si torna al punto di partenza. I brandelli di corpo che galleggiano sull’0scurità sono in viaggio, si preparano alla «traversata del fantasma». Si scopre così che non esiste un punto di partenza, o un punto di vista, e che siamo sempre stati nello stesso posto. Si scopre soprattutto che tutto è lì in vista, che non c’è un segreto, perché nel magico quadro di questa struttura dissipativa l’interno diventa immediatamente l’esterno, e vice-versa. Nel quadro non c’è né interno né esterno, c’è un corpo-superficie in brandelli. È questa la caratteristica dell’«evento di corpo», del «corpo in brandelli» che non ha bisogno dell’Altro, ma nemmeno lo teme; non ha bisogno di un significato né di un significante, che vive la vita che vive, una vita amebiotica perché essa è l’unica vita che gli è dato di vivere, di cui può fare esperienza.
(Giorgio Linguaglossa)
Cari Ewa Tagher, Giuseppe Gallo,
l’epoca del liberalismo democratico corrisponde ad una forma di poiesis nella quale lo scrittore, l’artista o creatore (parola da prendere con doppie pinze) esternava la sua, diciamo, visione del mondo o, più semplicemente, delle cose. Bene, quest’epoca è finita. Chiusa. La concessione che ha fatto il liberalismo democratico a ciascuno di dire e fare quello che voleva è sfociato nel postruismo, nel populismo e nel banalismo. Quel tipo di poiesis è diventata oggi una apologia delle cose come sono.
Leggiamo una poesia di un autore che ha pubblicato tutti i suoi libri nella collana bianca Einaudi:
Avrebbe minacciato un benzinaio
con la pistola carica
di un proiettile d’oro.
Cineasta e poeta, orafo e orco!
Ma cosa contestare a quest’accusa,
l’arma o la sua pallottola?
Cosa rivendicare,
santa Romana Chiesa o l’usignolo?
Quel colpo mai sparato
traversa la sua opera
piegandola ad un duplice ossimoro,
fantastico e fantasma
di violenza e pietà,
di sangue e alloro.
Si tratta di un commento, di una libera glossa, come si conviene all’epoca del liberalismo. Un commento dove il «poeta» fa mostra della sua intelligenza causidica e didattica che finisce non si capisce bene se in un messaggio bonifico e/o bonificato, tanto è gratuito e confuso.
Bene. Una poesia di questo tipo è semplicemente postruismo. Apologia del banale, quel banale che l’ideologia del liberalismo ha insufflato in ogni dove.
Io invece sono dell’opinione che questo tipo di poiesis possa essere rubricata nel truismario e nello sciocchezzaio dell’epoca del liberalismo pusillanime senza reticenza alcuna.
(Giorgio Linguaglossa)
Marina Petrillo
(Oltre il tempo lineare, l’indice di immortalità)
Transfugo l’indice di immortalità
dissimula la morte in baccello germinato
a soluzione insatura.
Silenzi vegliano estinti atomi.
Rarefazione dell’amore inaudito all’attesa
di un eterno sonno varcato ad unità.
E’ graffito il lascito dell’acerbo frutto.
Si palesa ogni ombra tra gli arabeschi
storditi in umano strepito.
Inclina il tempo a pallido schianto
tra innevati apici sommessi all’indugiare della notte
in sé avvolta, schiva alla resa in liturgia.
Diagramma infallibile l’armonia tra i mondi
riconvertita sponda in gematria numerica
il cui assillo precede teoremi in cerulo assioma.
Il finale della poesia di Marina Petrillo mi sembra un degno preambolo alla dichiarazione di intenti per la fine della poesia con grazioso referente con vista sul mare della datità delle cose e dei corrispondenti significati stabili. Chi volesse una poesia con il grazioso referente in vista, si legga il mio commento precedente.
riconvertita sponda in gematria numerica
il cui assillo precede teoremi in cerulo assioma.
Per me la poesia finisce qui.
Dal punto di vista del significato, possiamo dire che questa poesia non ha significato, e quindi sta mallarmeanamente fuori della poesia dell’umanesimo con il significato in vista sul mare della datità dei significati stabili. La Petrillo sta ben attaccata al suo cordone pneumatico che la tiene avvinta alla parola come desiderio, questa è la sua fortuna, o misfortuna per gli eletti della poesia che vuole un significato stabile consegnato alla glossa.
Per fortuna l’epoca del liberalismo e del neorealismo o neoverismo che ne è l’ideologema profondo è finita con il Covid19. Alla poiesis la Petrillo chiede altro, per fortuna, il sogno di una perfetta coincidenza fra la parola e la cosa, che si riduce nella seduzione di Thanatos, nel lutto come emblema della autosufficienza e auto assoluzione della parola per il lutto di non essere stata in grado di attingere l’Assoluto.
«Il vincolo pneumatico, che unisce il fantasma, la parola e il desiderio, apre infatti uno spazio in cui il segno poetico appare come l’unico asilo offerto al compimento dell’amore e il desiderio amoroso come il fondamento e il senso della poesia»1.
«Nel corso di un processo storico che ha in Petrarca e in Mallarmé le sue tappe emblematiche, questa essenziale tensione testuale della poesia romanza sposterà il suo centro dal desiderio al lutto e Eros cederà a Thanatos il suo impossibile oggetto d’amore per recuperarlo, attraverso una funebre e sottile strategia, come oggetto perduto, mentre il poema diventa il luogo di un’assenza che trae però da quest’assenza la sua specifica autorità. La “rosa” nella cui quête si sorregge il poema di Jean de Meung, diventa così l’absente de tout bouquet che esalta nel testo la sua disparition vibratoire per il lutto di un desiderio imprigionato come un “cigno” nel “ghiaccio” del proprio spossessamento»2.
(Giorgio Linguaglossa)
1 La «gioi che mai non fina», in Stanze, Torino, Einaudi, 1977, pp. 151-152
2 Ibidem p. 154
Giuseppe Gallo
Scrive Giorgio Linguaglossa:
“C’è nel soggetto un congegno autoimmunitario che lo mette in condizione di prendere le distanze dalla propria soggettività, a trattare sé come un altro. In tal modo il soggetto decostruisce la propria soggettività. Il soggetto è sempre in decostruzione, lo è costitutivamente, nella misura in cui in esso opera una pulsione di auto destrutturazione come condizione per la trasformazione della soggettività”.
A proposito, quindi, di “congegno autoimmunitario” del soggetto suggerisco alcune riflessioni.
Una scrittrice cinese, Yiulyn Li, laurea in medicina, emigrata negli Usa, e pubblicata da Einaudi e da NNE, confessava: “Quando rinunciai alla scienza confidavo ciecamente nella scrittura per annullare il mio io”. Il problema sembra ripresentarsi: -Abbiamo noi, come uomini , il diritto di dire ancora “io”? E i nostri testi devono registrare tale domanda o è semplice ritorno a un’istanza esistenzialistica?
Il suo testo, quello della cinese Yuyn Li, è edificato sul diritto di dire ancora “io”… che diritto ha, chi vive, di dirlo e dunque di esistere? Se la scrittura è morte o continuo suicidio, che diritto ha l’io di esistere e di continuare a sopravvivere?
“Solo ciò che è senza vita può essere immune dalla vita”.
“Mi piaceva il concetto alla base del sistema immunitario. Il suo compito è quello di individuare e aggredire il non-io”
“Come può il vuoto più assoluto dare vita a un pieno?
“Dentro di me c’è un vuoto”. Ecc., ecc.,..
È il vuoto che riempie le sue pagine… Questo vuoto lo può avvertire solo nel momento in cui intravede se stessa in qualche altro elemento o meccanismo. Distinguendo, per esempio, fra “macchina” e “uomo”. La macchina è piena, completa, agisce e interagisce autonomamente; l’uomo, invece, continua a dissipare se stesso, a non avvertire di sé la completezza.
Ewa Tagher suggerisce che “Tra il reale e la comunicazione del reale, l’esperienze del reale, l’elaborazione del reale, non vi è più alcun nesso. La narrazione del reale è così spiazzante e inconsistente, che solo una nuova poesia potrà trovare le parole per farlo”. Credo che questo sia un problema “reale”. Andiamo per ordine e cominciamo a chiederci: quali sono gli strumenti più adeguati per afferrare tale spiazzamento”? Oppure, è la scrittura la controparte della scienza? O la scienza è la soluzione per ritornare all’evento originario della parola, non perdendosi nelle fregature retoriche e ordinarie del linguaggio?
Possiamo rovesciare il discorso per essere più chiari?. Chi ha diritto di parola, oggi, non è l’uomo, ma la macchina, il robot, l’altro uomo o l’altrove distopico dell’uomo. Si prenda, ad es., il tentativo di correggere alcuni tratti dei genoma quando questi presentano alcune variazioni che trasmettono malattie. La scienza è già in grado di innestare in ogni Dna porzioni corrette. Catapultare, allora, sugli android e sulla tecnologia quelle tematiche che le spalle dell’uomo non riescono più a sorreggere? Mitizzare queste nuove figure, questi novelli esseri, e farli parlare al posto degli umani? Dare loro il linguaggio e la parola, ma non come mimesi e pretesto, ma come avviso reale del nostro disfacimento di uomini.
Tanto ormai lo sappiamo tutti, che per non far morire l’uomo, bisognerà far agire le macchine e delegare a loro il compito della nostra salvaguardia, (anche Intini, credo, abbia espresso insinuazioni simili) solo esse, infatti, hanno e avranno sempre di più, la capacità di non debordare dai nostri desideri più consoni alla civiltà e al progresso, vedasi oggi la lotta contro la pandemia del Covid-19. Se l’umanità rimanesse ancora impigliata nel pensiero e nelle azioni del genere umano e delle potenze economiche e politiche, come oggi queste concepiscono se stesse, il trapasso, il decadimento e la fine di tutto sarebbero sempre più prossimi e inevitabili… quindi è inutile pensare e ripensare al futurismo, al dadaismo, all’ermetismo, modernismo, alla pop art, al post modernismo, ecc,… al mondo come è stato finora; è tutto tempo perso!
Ci sono problemi molto più urgenti. E questo tipo di analisi va fatta, non la si può rinviare ulteriormente. Bisogna raccordarsi con i tempi, tagliare ciò che è ancora legato alla mitologia del cuore e dell’anima, della natura e della teologia, all’universo antropologico, ecc. Il mondo non è più lunare o sublunare, sembra che cominci ad avverarsi l’infinito bruniano e il suo ricorso ad una specie di nuova dislocazione dell’uomo al suo interno. L’uomo è ormai una “COSA” , come l’astronave in cui viaggia nell’universo, come la sua mente che non esiste se non nei prodotti e di cui ha quasi nostalgia perché ormai non ha la possibilità più di contenerli…
Può un uomo essere ciò che l’uomo è stato finora? O ha finora prodotto? Non credo. Così il problema ritorna. Bisogna trovare e qualificare la parola in senso attuale, senza infingimenti e perplessità. La perplessità, i dubbi, le remore sono solo e soltanto lamentazioni di carattere fiabesco e non più, nemmeno, di natura poetica. Se ne deduce che bisogna tuffarsi nella vita reale e quotidiana, in quella materiale degli oggetti di consumo e di uso, in tutti gli strumenti per le nostre operazioni e attività. In questi decenni si è constatata una divaricazione fra ciò che esiste nella nostra esperienza e ciò che esiste nel pensiero, quando fantastichiamo, quando immaginiamo, quando esprimiamo sentimenti, quando scriviamo, ecc. Da una parte le azioni hanno il loro riquadro, le loro quattro pareti, i luoghi degli avvenimenti, ma questi luoghi e questi ambienti e questi giardini e queste stanze e questi alberi e questi mari e questi panorami e questi confratelli non corrispondono più all’esperienza che li ha elaborati e che ancora permangono nella fantasia e nell’immaginario collettivo. Infatti, la letteratura, ha nell’alfabeto il proprio sistema immunitario: intercetta la vita, prima, poi l’attacca e la porta sulla pagina.
Chi scrive annulla la vita, creando poi l’illusione che sia la vita all’ennesima potenza sprigionata in chi legge. Vedasi i suggerimenti di Linguaglossa quando afferma che abbiamo bisogno di liberare la poesia e di fondare nuovi rapporti: “la nostra petizione di una nuova ontologia è quindi petizione per una nuova polis, per nuove leggi e per nuovi cittadini”. Anche qui ne consegue che noi non dovremmo annullare la vita, ma approfondirne la portata, non dico il senso, ma le sue latitudini… E magari urlare come Munch nel momento in cui gli pare di essere sommerso dal sangue dell’orizzonte e della natura. In quell’ urlo, ha suggerito qualcuno, c’è anche l’impossibilità del dire, sia dell’inizio che della fine, ma è anche l’urlo di chi esiste ed è vivo, indipendentemente dal passato e dal futuro.
Quella bocca spalancata manifestando “l’impossibilità di ogni dire; o anche la radicale impotenza” di ogni discorso, testimonia ciò che abita dentro ogni poeta prima della parola. Così tutta la poesia umana, diventata discorso, non fa altro che tradire il nostro urlo aurorale. Ma questa impossibilità di dire perché collegarla solo all’uomo e non anche alle sue macchine?
Ovvero, io considererei quel fantasma di Munch come il prolungamento dell’uomo che è stato “passato” e si appresta ad essere “futuro”, ma sempre con i piedi nel presente: ovvero un uomo qualunque, un oggetto tra gli oggetti, una macchina fra le macchine…
caro Giorgio,
ieri ho letto su FB un interessante commento del poeta Giuseppe Conte (non il primo ministro), come se avessi letto una tua pagina, ossia un resoconto analitico dell’attuale situazione politico-economica e di quella che verrà, fatta di miseria universale e di potere misterioso e anonimo, in grado di mutare anche la guerra atomica, con un semplice virus che gli scienziati stanno analizzando in ogni parte del mondo.
.L’uomo è un Lucifero che mostra tutti i suoi denti canini. Si apre di nuovo il conflitto tra il Bene e il Male in un dualismo fortemente anticonciliativo.
Finiscono le riflessioni critiche, il tessuto concettuale della- Sofia- come saggezza e scienza. .Diventeremo le colonie umane di un potere oscuro. che neutralizzerà la Cultura, la Scienza, la Poesia, con i vari punti di avanzamento, dominati da una Bioetica studiata per disumanizzare gli aspetti connessi alla vita, per una nuova identità genetica.
“La storia dell’uomo, secondo Fromm, è cominciata con un atto di disobbedienza, ed è tutt’altro che improbabile che si concluda con un atto di obbedienza”, perchè non ne avremo le armi, la forza, il comando,le capacità organizzative.
E’ una battaglia persa sin dall’inizio contro questi occulti registi del Potere, che hanno attivato una nuova formazione dell’industria e dell’essere umano..Questo è ciò che riesco a immaginare nel prossimo futuro, non per fantasia, ma per come si sta evolvendo il post Covid19, detronizzando tutto il sistema su cui poggia l’umanità. Su questa linea concordo con i tuoi commenti che vanno registrati come un nuovo universo di parole per illuminare la catastrofe di un misfatto senza vie d’uscita.
caro Mario Gabriele,
io penso che quando qualcuno si alza la mattina e dichiara di voler prendere le difese del «sacro», beh, sospetto che quel signore mi voglia propinare una fregatura; sospetto che chi si arroga il diritto di parlare in nome del «sacro» è un aspirante dittatorello, forse inconsapevole perché vuole opprimere coloro che sono fuori del «sacro» o che non riconoscono quel «sacro» di cui qualcuno si vanta di aver battezzato in proprio.
il poeta in questione scrive, redarguendo gli uomini che vivono: “Senza il senso del sacro e l’amore per la natura”. Ma come si permette di parlare in nome e per conto del «sacro»?, chi lo ha autorizzato?
Io penso molto semplicemente che c’è bisogno nel mondo di oggi di comunisti, quel mondo dove 85 persone detengono la ricchezza di tre miliardi di umani (come reiteratamente afferma il poeta in questione), l’unico modo per ristabilire un minimo di giustizia sociale e logica sia togliere ricchezza ai ricchi per darlo ai poveri. Mi sembra un pensiero elementare. Ebbene, su questo pensiero elementare è basato il mio essere comunista, lo ero anche negli anni settanta quando il poeta in argomento era iscritto, a suo dire, nel partito liberale.
Nessuno ha il diritto di parlare in nome del «sacro». Chi parla lo deve fare a nome proprio, il «sacro» non è una proprietà privata o un legato ereditario di una singola religione… il «sacro» è proprio di tutti gli uomini di tutte le religioni e anche dei senza religione.
Parlare agli uomini tutti ciascuno come persona singola e a nome proprio. Questo mi sembra il modo più consono di essere cittadini del pianeta terra.
Celebrato il rito, agli aspersi fiori in rovinio
permane mistero del proprio germinare.
Sorgiva pluralità demanda a coefficiente instabile
adorne agorà smarrite al periodo assiale.
Boris Pasternak scompone l’eterno :
crinale malverso ai despoti gemmati a ignota letargia.
Utopia veste in ricamo Evento, azzerato a trionfo
nascente in nucleo indomito, di cui ogni atomo è inganno.
Il foglio giace, non i versi che ognuno, inconscio, declama.
Si osserva ogni grandezza rapinosa al guado
intentando lotta con il bardo incarnato a specie.
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Nel 1946, Boris Pasternak, inviso alla dittatura stalinista, legge i suoi versi. Uno dei fogli scritti, cade. I presenti, uno ad uno, continuano a declamare i componimenti, in liturgia collettiva.
Immaginare quel momento immortale, farlo riemergere dal tempo, è piccolo tributo che condivido con voi poeti.
Grazie, Marina Petrillo
Cari amici de L’Ombra, l’intervento postato nei fogli precedenti si chiudeva, più o meno, con queste parole: ” Così tutta la poesia umana, diventata discorso, non fa altro che tradire il nostro urlo aurorale. Ma questa impossibilità di dire perché collegarla solo all’uomo e non anche alle sue macchine?”, ebbene, in questi giorni ho letto la risposta di Umberto Galimberti a un suo lettore che gli proponeva il seguente problema: “L’uomo è un gigante o un nano con o senza tecnologia?”. Il filosofo, confermando la propria critica nei confronti delle strutture tecnologiche delle nostre società moderne, metteva in risalto anche la loro dimensione “claustrale”… “dal mondo tecnicamente impostato non usciremo non per abitudini, non per comodità, non per inerzia o per cattiva volontà, ma perché non abbiamo un altro mondo che non sia quello predisposto per noi dalla tecnica. Perché la tecnica, a seguito della sua espansione, non è più uno strumento nelle mani dell’uomo… ma è il nostro ambiente… Ora la tecnica… non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità. La tecnica “funziona”. E siccome il suo funzionamento è diventato planetario, l’uomo è stato ridotto a semplice “funzionario della tecnica”. (La Repubblica, supplemento D, 9 maggio 2020, p.98)
Io, nel mio intervento di cui sopra, avevo tentato di andare anche oltre, tralasciando la dimensione “burocratica” e concentrando l’attenzione sulla dimensione, diciamo, “esistenziale” dell’uomo moderno, tanto da ricordare che l’Uomo era diventato “un uomo qualunque, un oggetto tra gli oggetti, una macchina fra le macchine”, un loro duplicato o una loro moltiplicazione. Galimberti, poi, alludendo ad Heidegger, rimetteva in piedi il concetto di “pensiero calcolante”, quello che domina nell’era tecnologica. Pensiero capace solo di calcolare secondo lo schema dell’utile e dell’inutile e aveva, in modo perentorio affermato: “Abbiamo un pensiero alternativo al pensiero calcolante? No, non l’abbiamo!” (Ivi) e così chiudeva ogni varco e ogni spiraglio di liberazione. E quindi non c’è politica, non c’è religione, non c’è arte, non c’è etica, né economia se non all’interno di questa funzionalità produttiva e consumistica.
Ora, quello che mi sembra ossessivo è che noi ci poniamo domande, producendo anche conati poetici, all’interno di un sistema già antiquato. Quanti decenni sono che sopravviviamo nell’era tecnologica? Quanti decenni sono che rievochiamo “La pulsione di morte” (Todestrieb) come “motore segreto di cui si alimenta il capitalismo”, secondo quanto suggerito da Linguaglossa? Quanti decenni sono che puntiamo l’attenzione sul valore “gestuale” dell’atto pittorico a cui ci invitava lo stesso M. Tosi?
Nessuno ricorda i tentativi di Action poetry? Di una poesia totale e radicale?
Oggi mi sembra di essere in vena di scetticismo e mi pare che a volte io scriva “per dimostrare”, come suggeriva Turgenev. Qualcun altro avverte la mia stessa titubanza?
Per chiudere accludo un atro sfogo “familiare” di Jerry
Jerry che voleva scrivere…
Un giorno che c’era un bel sole
e gli alberi grondavano d’oro
Jerry ebbe il desiderio di scrivere e poetare come il Padre.
Prese un foglio di carta e scrisse:
-Io sono poeta come mio Padre.
Il sole si spense.
Rilesse ciò che aveva scritto e gli parve di non avere scritto la verità.
E siccome era sempre sincero con se stesso,
cancellò e scrisse:
-Io sono un poeta.
Gli alberi inaridirono.
Rilesse ancora e anche questo non gli parve vero del tutto.
Allora cancellò di nuovo e scrisse:
-Io vorrei essere un poeta…
Così il sole e gli alberi sopravvissero.
All’infinito.
Giuseppe Gallo
Poesia meravigliosa, Jerry.
“Io vorrei essere un poeta…”.Nel sopravvivere di sole e alberi. All’infinito.
Marina P.
Anche le tue, Marina! Dove l’infinito è materia che pulsa di vitalità misteriosa…
Giuseppe Gallo
caro Giuseppe Gallo,
non dobbiamo scrivere per dimostrare nulla a nessuno, hai ragione. La poiesis che vuole stilare glosse, chiose, commenti, didascalie, spiegazioni, argomentazioni pro e contro, preghiere, urlo, asserzioni, asseverazioni, denegazioni interrogazioni… tutta questa congerie di poiesis ricade all’indietro, nella vecchia ontologia del novecento.
Noi dobbiamo fare un passo ulteriore, verso una nuova ontologia.
Ad esempio, nella “Storia di una pallottola” di Gino Rago, non c’è nulla di tutto quanto sopra detto, siamo fuori della poesia ragionamento, forma per eccellenza dell’epoca liberal democratica. Oggi quella poiesis è invecchiata, non è più idonea, non è più all’altezza della sfida che i tempi ci impongono. Accettare la sfida che i nuovi tempi ci pongono implica dismettere un vecchio e inadeguato modo di pensare la poiesis.
E poi, una precisazione. Io nel mio commento precedente sostenevo che il capitalismo sembra aver rimosso, cancellato la freudiana pulsione di morte (Todestrieb).
Scrivevo:
Non sono d’accordo con la tesi di Slavoj Žižek per il quale la nozione freudiana di pulsione di morte può essere utilizzata egualmente anche per una civiltà del post-umanesimo del capitalismo globale, anzi, sono propenso ad ipotizzare che la pulsione di morte svanisce nella «merce», cioè nel «valore di scambio». La nuova civiltà dell’epoca della tecnica o cibernetica sembra aver fagocitato la pulsione di morte, annullandola nella «merce». Il feticismo della merce conterrebbe al suo interno la pulsione di morte rimossa, se non addirittura cancellata. Questo è l’aspetto inquietante delle società post-democratiche, che il capitalismo è esso stesso il prodotto della tecnica e causa esso stesso della tecnica. La risposta data da Duchamp di riabilitare l’oggetto, il ready made, rende evidente ciò che fino ad allora era rimasto occultato sotto le pastoie ideologiche e apologetiche del «bello». Siamo ancora oggi inchiodati al ready made di Duchamp. Tutta l’arte di questi ultimi decenni è appena un codicillo al ready made di duchampiana memoria, ma esserne consapevoli è già un piccolo passo per oltrepassare il ready made, per andare oltre la parola come segno.
Io penso invece che lo scacco matto del capitalismo globale è proprio l’aver rimosso la pulsione di morte, per averla addomesticata e per averla cancellata e rigenerata sub specie della «merce»; la merce sarebbe la resurrezione della pulsione di morte con segno invertito. La pulsione di morte è il motore segreto di cui si alimenta il capitalismo che lo convoglia sulle merci come un mana, un sortilegio che accalappia tutti gli umani post-umani. Qui ci viene in soccorso un pensatore certo non marxista come Heidegger il quale scrive: «l’essere svanisce nel valore di scambio». E, con l’essere, anche la pulsione di morte svanisce nel valore di scambio.
Nella raccolta L’ospite ingrato di Franco Fortini si trova il celeberrimo:
«Carlo Bo. / No».
Considerato che «Carlo Bo» è il titolo, si può dire che «No» è il testo poetico più breve, e più cattivo, che sia mai stato scritto.
Fortini nutriva qualcosa di acido verso Carlo Bo, da lui considerato la quintessenza del critico istituzionale e conformista. Ecco un altro epigramma a lui rivolto:
«A Carlo Bo non piacciono i miei versi. / Ai miei versi non piace Carlo Bo».
Io, per parte mia, proverò ad imitare il celeberrimo epigramma di Fortini:
«Poesia italiana?/ No».
Credo di essere stato sintetico.
È stato scritto, non da me ma da Luigi Ballerini:
«Il pubblico della poesia (esperto, curioso ed eccitabile come dovrebbe essere), che da tempo si va pericolosamente assottigliando, sta avvicinandosi all’estinzione. Se la situazione non è delle più rosee per la poesia lirica […], per l’invettiva, scelta come manifestazione emblematica di una poesia socialmente responsabile, essa è addirittura catastrofica. Il rumore ha sostituito il senso».
Cfr. L. Ballerini, Il mondo non è un cavallo. Osservazioni sull’inadeguatezza dell’invettiva contemporanea e sulla necessità di una nuova strategia programmatica, in «Il Verri», 54, febbraio 2014, pp. 24-49: la citazione è a p. 44. Questo intervento riprende quello presentato dallo stesso Ballerini al convegno Savage Words. Invective as a literary
genre, University of Los Angeles, 5-7 febbraio 2009».
Non c’è dubbio che l’assottigliarsi dell’invettiva nel tardo novecento e in questi ultimi anni va di pari passo con l’assottigliarsi del contenuto culturale del genere poesia e la sua sostituzione con contenuti velleitaristici propri di una minuscola corporazione che non ha nulla di significativo da dire ai contemporanei tranne il proprio ininfluente narcisismo. L’assottigliamento dell’invettiva è quindi la spia di un profondo disagio e di una crisi di rappresentatività del genere poesia: non c’è più nulla di significativo da prendere ad oggetto dell’invettiva, non c’è più un contenuto da criticare…
Poi c’è il genere dell’invettiva al popolo e all’Italia, come quella pubblicata da Pasolini il 14 novembre 1974 sul “Corriere della sera”:
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato «golpe» […].
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei
primi mesi del 1974.
Io so i nomi del «vertice» che ha manovrato […].
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti […].
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire
tutto ciò che succede […]
ma questo è ormai un genere defunto, defunto proprio con Pasolini. Dopo di lui la realtà, quella cosa chiamata Italia sembra essere evaporata nell’indistinto, come del resto la sua poesia, tanto che non c’è più neanche bisogno di alcuna invettiva o epigramma nei confronti di una «cosa» che non c’è più…
Giorgio Linguaglossa risponde a Giuseppe Gallo e mette giustamente in evidenza che noi non siamo ch dobbiamo scrivere per dimostrare nulla a nessuno, hai ragione.
A- Giorgio Linguaglossa:
– “La poiesis che vuole stilare glosse, chiose, commenti, didascalie, spiegazioni, argomentazioni pro e contro, preghiere, urlo, asserzioni, asseverazioni, denegazioni interrogazioni… tutta questa congerie di poiesis ricade all’indietro, nella vecchia ontologia del novecento.
– Noi dobbiamo fare un passo ulteriore, verso una nuova ontologia.
– Ad esempio, nella “Storia di una pallottola” di Gino Rago, non c’è nulla di tutto quanto sopra detto, siamo fuori della poesia ragionamento, forma per eccellenza dell’epoca liberal democratica. Oggi quella poiesis è invecchiata, non è più idonea, non è più all’altezza della sfida che i tempi ci impongono.
– Accettare la sfida che i nuovi tempi ci pongono implica dismettere un vecchio e inadeguato modo di pensare la poiesis.”
B- Wittgenstein (ce lo ricorda Carlo Livia):
– «Volevo indicare i confini di un’Isola, e mi sono trovato di fronte alle frontiere dell’oceano».
C- Lao-Tze:
– «Quella che il bruco chiama la fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla».
Conclusioni:
– Combinando le energie nascoste nei punti A, B, C,
e
– Ricordando che un tempo visse un uomo che non possedeva una casa e che girava oziando, interrogando, chiacchierando dentro e fuori le mura della città, mai sazio di curiosità riguardanti eventi e pensieri umani, sempre senza fiducia in tutto ciò che sentiva come “scolastico”, parlava di conciatori, di asini da soma, di fabbri e di calzolai, e che poi d’improvviso allentava il passo, si fermava per la strada e avveniva quello che abbiamo appreso da Alcibiade: le parole di quest’uomo senza casa “ci incantavano, ci possedevano…”.
– Precisando che quest’uomo visse tra il V e il IV secolo a.C.
e che
– dalle sue parole ( che forse non ha mai pronunciato ad Atene) nasce l’arte della conversazione europea
e che
– quest’uomo era Socrate,
devo ammettere che il passo è breve rispetto alla pop-poesia (o top-poesia, secondo Milaure Colasson).
Con la pop-poesia sto (stiamo) cercando di riscoprire
– il «paesaggio verbale» che fa da sfondo alla nostra civiltà, alla scoperta di
– un possibile rimedio proprio contro quel deficit di parola,
contro quell’afasia che per me (per noi) è il vero e il più insidioso
– Mal-du-Siècle.
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Gino Rago
IMPORTANTE!!!
E’ la versione giusta che annulla il mio commento precedente.
A- Giorgio Linguaglossa:
– “La poiesis che vuole stilare glosse, chiose, commenti, didascalie, spiegazioni, argomentazioni pro e contro, preghiere, urlo, asserzioni, asseverazioni, denegazioni interrogazioni… tutta questa congerie di poiesis ricade all’indietro, nella vecchia ontologia del novecento.
– Noi dobbiamo fare un passo ulteriore, verso una nuova ontologia.
– Ad esempio, nella “Storia di una pallottola” di Gino Rago, non c’è nulla di tutto quanto sopra detto, siamo fuori della poesia ragionamento, forma per eccellenza dell’epoca liberal democratica. Oggi quella poiesis è invecchiata, non è più idonea, non è più all’altezza della sfida che i tempi ci impongono.
– Accettare la sfida che i nuovi tempi ci pongono implica dismettere un vecchio e inadeguato modo di pensare la poiesis.”
B- Wittgenstein (ce lo ricorda Carlo Livia):
– «Volevo indicare i confini di un’Isola, e mi sono trovato di fronte alle frontiere dell’oceano».
C- Lao-Tze:
– «Quella che il bruco chiama la fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla».
Conclusioni:
– Combinando le energie nascoste nei punti A, B, C,
e
– Ricordando che un tempo visse un uomo che non possedeva una casa e che girava oziando, interrogando, chiacchierando dentro e fuori le mura della città, mai sazio di curiosità riguardanti eventi e pensieri umani, sempre senza fiducia in tutto ciò che sentiva come “scolastico”, parlava di conciatori, di asini da soma, di fabbri e di calzolai, e che poi d’improvviso allentava il passo, si fermava per la strada e avveniva quello che abbiamo appreso da Alcibiade: le parole di quest’uomo senza casa “ci incantavano, ci possedevano…”.
– Precisando che quest’uomo visse tra il V e il IV secolo a.C.
e che
– dalle sue parole ( che forse non ha mai pronunciato ad Atene) nasce l’arte della conversazione europea
e che
– quest’uomo era Socrate,
devo ammettere che il passo è breve rispetto alla pop-poesia (o top-poesia, secondo Milaure Colasson).
Con la pop-poesia sto (stiamo) cercando di riscoprire
– il «paesaggio verbale» che fa da sfondo alla nostra civiltà, alla scoperta di
– un possibile rimedio proprio contro quel deficit di parola,
contro quell’afasia che per me (per noi) è il vero e il più insidioso
– Mal-du-Siècle.
*
Gino Rago