Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)

Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Caro Lucio,
Con il Covid19 noi viviamo una condizione di smobilitazione degli assoluti, come accade nell’«ontologia della guerra» di Lévinas, laddove questa si propone di rendere «irrilevanti» le categorie della morale mediante il richiamo alla disillusione operata dalla guerra, al fine di consentire la più profonda e radicale disambiguazione degli interessi degli uomini proprio della ratio dell’Homo sapiens.
Con la distanziazione sociale viviamo in uno stato di disambiguazione prossimo allo stato vegetativo. Il controllo della coscienza è stato interrotto, e così gli affetti familiari e interpersonali. Lo «stato d’eccezione» profetizzato da Agamben è diventato, paradossalmente, uno stato di necessità, una condizione normale di vita. Qui non è in gioco la volontà dittatoriale del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come sostengono i leghisti e i fascisti, ma per una situazione di oggettiva necessità determinata dalla enorme diffusione del virus. Viviamo nello stato di disambiguazione che ci ha rivelato il virus, e ci scopriamo totalmente irretiti nella falsa coscienza, nella «zona grigia» dell’esistenza e del linguaggio.
Anche in altre epoche storiche il virus della peste ha determinato uno sconvolgimento delle relazioni sociali e un distanziamento sociale degli individui. Ma, da solo, a mio avviso, il virus non produce Evento. Evento è invece la ripercussione nell’economia del virus, la stagnazione e la conseguente depressione economica con conseguente disoccupazione per decine di milioni e, forse, centinaia di milioni di persone nel mondo.
Voglio dire che l’Evento virus Covid19 ha prodotto spavento di massa. Ma, appena il virus diminuirà la sua visibilità, riapparirà il conformismo di massa in un assetto sociale indebolito dalla crisi economica e impoverito. La disambiguazione delle coscienze verrà alla luce. Lo spavento di massa si tramuterà in rabbia sociale e, di qui il passo ad un totalitarismo di un cialtrone che reclama «pieni poteri» sarà breve.
Il Covid19 è, paradossalmente, un Evento che non è un Evento. Mi spiego. Per essere visibile un Evento non deve essere visibile, ma invisibile. Quando scoppia, l’Evento diventa visibile, ma già da tempo erano in essere le condizioni perché l’Evento si verificasse, ma gli uomini non avevano fatto caso alle tracce dell’evento prossimo venturo che si stava preparando.
Quando il Covid19 sarà sconfitto, gli uomini continueranno a vivere come prima, peggio di prima. I ricchi continueranno ad arricchirsi e i poveri ad impoverirsi. Il problema è il modello di sviluppo del capitalismo. È quel modello che ha determinato l’insorgenza del virus e della pandemia che occorrerà modificare. E il primo passo da fare è che i ricchi paghino più dei poveri, questo mi sembra ovvio. Mi sembra ovvio che occorrerà che le forze democratiche rivendichino la necessità di una tassa sulla ricchezza per riequilibrare le diseguaglianze introdotte dalla crisi economica.
Io non penso all’evento come ad uno «stato meditativo» come tu dici. Questo significherebbe privatizzare e soggettivizzare la nozione di Evento. L’evento è ben di più di una questione del soggetto, è una questione epocale che però gli uomini del presente non vedono, non riescono a scorgere.
Tu hai fatto il nome di una poetessa, Maria Rosaria Madonna, che ha presagito con le sue poesie la «perturbazione», l’Evento. Nelle sue poesie si percepisce, oggi più di ieri, l’approssimarsi di un qualcosa di oscuro che si sta abbattendo sugli uomini. Ma Madonna è stata una Cassandra, ed è rimasta inascoltata.
(Giorgio Linguaglossa)

Poesie di Maria Rosaria Madonna (1940-2002)

da Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Progetto Cultura, Roma, 2017 pp.332 € 18.00

Sono arrivati i barbari

«Sono arrivati i barbari, Imperatore! – dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani – sono già
alle porte della città!».
«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».
E che farà adesso l’Imperatore che i barbari sono alle porte?
Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono in Senato
con la bianca tunica e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli?
Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede l’Imperatore al funzionario dell’erario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede l’Imperatore al funzionario annonario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
si chiedono meravigliati i senatori.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».

Parlano la nostra stessa lingua i Galli?

Si sono riuniti in Senato il Console
con i Tribuni della plebe
e i Legati del Senato… c’è un via vai di toghe
scarlatte, di faccendieri
e di bianche tuniche di lino dalle dande dorate
per le vie del Foro…
Qualcuno ha riaperto il tempio di Giano,
il tempio di Vesta è stato distrutto da un incendio
alimentato dalle candide vestali,
corre voce che gli aruspici abbiano vaticinato infausti presagi
che il volo degli uccelli è volubile e instabile
e un’aquila si sia posata sulla cupola del Pantheon
che sette corvi gracchiano sul frontone del Foro…
corrono voci discordi sulle bighe del vento
trainate da bizzosi cavalli al galoppo…
che il nostro esercito sia stato distrutto.

Caro Kavafis… ma tu li hai visti in faccia i barbari?
Che aspetto hanno? Hanno lunghe barbe?
Parlano una lingua incomprensibile?

E adesso che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederà di onorare i nuovi barbari?
O reclamerà l’uso della forza?
Dovremo adottare una nuova lingua
per le nostre sentenze e gli editti imperiali?
Che cosa dice il Console?
Ci ordinerà la resa o chiamerà a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le magnifiche sorti e progressive?
Che ne sarà delle magnifiche sorti e progressive?

Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, dice il Console che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua

Strilli Madonna Non adularmi

Gif Antonioni 3

Autodifesa dell’imperatrice Teodora

Procopio? Chi è costui? Un menagramo, un bugiardo,
un calunniatore, un furfante.
Non date retta alle calunnie di Procopio.
È un bugiardo, ama gettare fango sull’imperatrice,
schizza bile su chiunque lo disdegni; è la bile
dell’impotente, del pervertito.
Ma è grazie a lui che passerò alla storia.
Sono la bieca, crudele, dissoluta, astuta Teodora,
moglie dell’imperatore Giustiniano, la padrona
del mondo orientale.
E se anche fosse vero tutto il fango che Procopio
mi ha gettato sul volto?
Se anche tutto ciò corrispondesse al vero? Cambierebbe qualcosa?
È stata mia l’idea di inviare Belisario in Italia!
È stata mia l’idea di un codice delle leggi universali!
E di mettere a ferro e a fuoco l’Africa intera.
Soltanto i morti sono eterni, ma devono essere
morti veramente, e per l’eternità affinché siano tramandati.
Un tradimento deve essere vero e intero perché ci se ne ricordi!
Voi mi chiedete:
«Che cosa penseranno di Teodora nei secoli futuri?».
Ed io rispondo: «Credete veramente che i posteri abbiano
tempo da perdere con le calunnie e le infamie di Procopio?
Che costui ha raccolto nei retrobottega di Costantinopoli
tra i reietti e i delatori della città bassa?».
Ebbene, sì, ho calcato i postriboli di Costantinopoli,
lo confesso. E ciò cambia qualcosa nell’ordito del mondo?
Cambia qualcosa?
Il potere delle parole? Vi dirò: esso è
debole e friabile dinanzi al potere delle immagini.
Per questo ho ordinato di raffigurare l’imperatrice Teodora
nel mosaico di San Vitale a Ravenna,
nell’abside, con tutta la corte al seguito…
E per mezzo dell’arte la mia immagine travalicherà l’immortalità.
Per l’eternità.
«Valuta instabile», direte voi.
«Che dura quanto lo consente la memoria», replico.
«A dispetto delle calunnie e dell’invidia di Procopio».

Strilli Maria Rosaria Madonna Alle 18 in punto

La reggia che fu di Odisseo

Che cosa vogliono i proci che frequentano
la reggia che fu di Odisseo?
E che ci fa sua moglie Penelope
che di giorno tesse la tela con le sue ancelle
e di notte tradisce il suo sposo
nel letto dei giovani proci?
Sono passati dieci anni dalla guerra di Troia
e poi altri dieci.
I proci dicono che Odisseo non tornerà
e nel frattempo si godono a turno Penelope
la loro sgualdrina.
Si godono la reggia e la donna del loro re
sapendo che mai più tornerà.
Forse, Odisseo è morto in battaglia
o è naufragato in qualche isola deserta
ed è stato accoppato in un agguato.
La storia di Omero non ci convince
non è verosimile che un uomo solo
– e per di più vecchio –
abbia ucciso tutti i proci, giovani e forti.
La storia di Omero non ci convince.
Omero è un bugiardo, ha mentito,
e per la sua menzogna sarà scacciato dalla città
e migrerà in eterno in esilio
e andrà di gente in gente a raccontare
le sue fole…

*

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.

Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.

Alle 18 in punto il tram sferraglia

Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.

In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.

Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.

foto donna con corvo
Gli angeli sono come gli uccellini

Gli angeli sono come gli uccellini
volano via al primo battere delle mani,
i dèmoni invece stanno immobili
appollaiati sui rami degli alberi
emettono il loro singhiozzo disperato.
Essi non possono fuggire… maledetti
dall’eternità sono condannati a star fermi.
Per sempre.

*
Ci sono parole che dormono
il loro sonno eterno e non è bene
svegliarle. Ci sono altre parole invece
che improvvisamente risorgono
a vita nuova dopo un sonno eterno…
magari in un’altra lingua, un altro mondo…
E questa è la vera resurrezione
della carne… la sola, unica e vera.

*

Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, ed io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
aggiungiamo altro bene, non per questo
avremo più male o più bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…

Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wehrmacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione in un lager.

Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
E così sia.

Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002) Progetto Cultura, 2018 pp. 148 € 12.00

Gif scale e donna

… Quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (opera scritta dal 1945 al 1950 e pubblicata negli Stati Uniti nel 1997) e Sessioni con l’analista (1967)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale, una sorta di terra di nessuno? Ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) si presenta di nuovo oggi dinanzi alla fine dell’età dell’umanesimo? Possiamo formulare questa ipotesi? – (In verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi).

Appunto di Maria Rosaria Madonna

Ho ritrovato, tra le mie carte, questo appunto inedito di Maria Rosaria Madonna degli anni Novanta, destinato ad un articolo sulla rivista “Poiesis” che poi non trovò luogo. L’ho riletto più volte. Non so bene cosa significhi ma credo che possa benissimo andare d’accordo con la poesia di Letizia Leone.

(Giorgio Linguaglossa)

La poesia è linguaggio dell’insolenza e della fraude. Non credete ai falsi untori del perbenismo. Forse la poesia è più assimilabile al cannibalismo dello Spirito che ad altre attività del corpo mentale. Un ricordo sublimato e civilizzato di quell’ancestrale rito cannibalico. In ultima istanza, la poesia non può essere rapportata alla poesia se non dal punto di vista puramente storico sistematico; nella sua essenza è attività di fagocitazione di mondo, internalizzazione degli oggetti del mondo tramite il sistema segnico-simbolico qual è il linguaggio. Forse, alla base della Musa, v’è una fissazione della libido allo stadio della cloaca, ciò che nell’età adulta si converte in sublimazione, conglomerato degli oggetti internalizzati in spirito linguistico, in fame di mondo, seppure di un mondo ridotto a lacerti fonematici che rammenta il mondo reale come lo specchio da toeletta rammenta lo specchio ustorio.
Dunque, è chiaro, la poesia può sorgere soltanto come risvolto negativo della prassi. La poesia è risvolto negativo della prassi e specchio ustorio.
L’ostinazione onanistica al volo poetico (un privilegio o una dannazione?), con il senso di colpa che l’accompagna, rivela l’intima natura requisitoria dell’attività artistica, il legame intermesso e rimosso delle pulsioni subliminali che le ricollega al pene simbolico. Di qui la strafottente diffusione di essa pratica ai giorni nostri, pratica di massa, onanismo di massa. Di qui l’accusa, di matrice zdanoviano-pretesca all’attività poetica quale mansione insulsa e parassitaria ai fini della compagine del «Nuovo Mondo».
Forse, il «Nuovo Mondo» che abbiamo costruito si regge proprio sulla grande menzogna di una estetica di matrice zdanoviano-pretesca.

*

La poesia di Maria Rosaria Madonna pone la poiesis più in alto della possibilità, anzi, essa è il punto più alto con cui si dà la possibilità di fronte alla realtà. In questa accezione, la poiesis è quella che salva la vita al giovane tenente italiano che recita il primo canto dell’Inferno ad un ufficiale della Wehrmacht (degno di nota è sapere che si tratta di un fatto realmente accaduto).
Dunque, Madonna, contrariamente a tutte le poetiche riduzioniste e minimaliste del tardo novecento che accreditano all’arte una funzione inutile e imbelle, rivaluta la funzione e il posto dell’arte rivendicando il suo sommo potere di salvare la vita degli uomini.
Fine degli uomini, per Madonna, è il pensiero della poiesis, la sola che può riscattare la vita dalla morte.

Se il «fine dell’uomo è il pensiero dell’essere, l’uomo è fine del pensiero dell’essere, fine dell’uomo è fine del pensiero dell’essere», come dice Heidegger, sicché, in definitiva, il fine ontologico dell’uomo costituirebbe la sua fine, con questa deduzione è però ignorato il fatto che, come appare evidente sin da Sein und Zeit, ove la possibilità dell’esistenza autentica si riveli solo nell’anticipazione della propria morte, la “potenzialità” d’essere dell’uomo non può che proiettarsi in una negatività totale. Nel diventare autentica l’esistenza dell’uomo non si approprierebbe di nulla. Essa permarrebbe nel campo della possibilità, la quale si rivela essere, per Heidegger, «la maniera più originaria e fondamentale di caratterizzare ontologicamente» la realtà umana. Appare dunque evidente che, stabilito quale carattere dell’autenticità il possibile, l’esistenza autentica non può ascriversi ad alcuna struttura teleologica.

(Giorgio Linguaglossa)

A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942, Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con dodici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trovano adesso la luce alcune poesie di uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento. Alcune sue poesie inedite sono apparse nella Antologia  di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (2016) e, nel 2018, sempre con Progetto Cultura, Roma, esce Stige, Tutte le poesie (1990-2002)

35 commenti

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35 risposte a “Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)

  1. gino rago

    Il mio omaggio-contributo, umano e poetico, a questa pagina intensa che Giorgio Linguaglossa riserva a Maria Rosaria Madonna con un mio tentativo
    di pop-poesia.
    Gino Rago
    *
    Il Signor L. porta Stige. Tutte le poesie a Maria Rosaria Madonna

    Nebbie sulla laguna. Venedig. Sotoportego brumoso.
    Carnevale-Bolshoi. Marie Laure Colasson danza sulle punte.

    Nebbia sulla laguna. Venedig. Un sotoportego.
    Il filosofo marxista e il Signor L.* bevono un’ombra.
    […]
    Una voce di contralto. Tchaikovsky su una nera gondola.
    Liszt e Vivaldi giocano a scacchi.

    Alberi senza rami. Fumi dagli immondezzai.

    Morti e vivi. Immagini di piogge nella pioggia.
    Materia irredenta. La peste viaggia sulla laguna.
    […]
    Cabaret Voltaire. Zurigo. 1917.
    La signora Hennings e la signora Leconte rubano il sac crocodile a Marie Laure Colasson.

    Fuggono per le calli veneziane, parlano in francese,
    Ma poi litigano e si accapigliano per la refurtiva e per un bellimbusto

    In comune, entrano in una stamberga.
    C’è un’orchestra di balalaiche, cosacchi che ballano. Fracasso, urla concitate.

    Daniil Charms strappa aTzara il manifesto dadaista
    E lo getta nel cestino dei rifiuti. Dice:

    «Sta bene lì», poi si volta verso Franco Paolo Intini il quale lancia fiamme,
    Uno sciame di protoni di rubidio sulla poesia del novecento.
    […]
    Lord Pompeius da Budapest, scrive:
    «Amleto non è morto, birra e crauti a volontà…».

    Geneviève è stata amata alla follia da Chodasevic.
    Stanza d’albergo. Parigi.

    Una coperta, fa freddo, il poeta è malato, pidocchi, tosse convulsa.
    Il poeta se ne sta andando, scrive un biglietto a

    Edith de Hody dans les prisons militaires allemandes de Clermont-Ferrand,
    La quale scrive a Gino Rago settant’anni più tardi:

    «Mio caro, non la conosco, e lei non mi conosce, ma la amo,
    Sono follemente innamorata del suo sosia, Achamoth».
    […]
    Il Veneziano anonimo e Goldoni parlano attraverso i rumori.
    Joseph Roth non sosta mai dove i treni si fermano.

    Al centro della Marketplatz passa con fracasso un tram.
    Il Signor L.* porta Stige. Tutte le poesie

    A Maria Rosaria Madonna che nel frattempo è morta.
    Sulla ghiaia del prato il trolley fa scintille
    *

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  2. Marina Petrillo

    MADONNA. POETA DELL’ADE

    Di anime come quelle di Madonna, sconosciamo tutto. Si rivelano in diagonale, per brevi tratti; si ritraggono ai margini di un sentire rivolto all’Ombra. Un ardore le plasma, misto di superbia e solitudine. Di natura luciferina,nello spazio angusto della redenzione.
    Sconosciute, dileguano in parole altre, prossime ad un distacco scrosciante in catarsi. Nella sublime punizione data dal non-essere, transitano sicure. La Forma che utilizzano per esprimere ciò che è, si schiude in crogiolo di atomi frammisti in cui il Tutto viene celato.
    Lettere criptiche,l’ Aleph della conoscenza sussurrata in forma medianica, adiacente al piccolo Male sovrastante il Bene. L’osservazione cifrata verso un cielo foriero, sempre, di accadimenti in moniti; sospensioni del dire in perturbanti ossimori. Il linguaggio ricrea se stesso, si storce, perseguita la Fonte e torna ad esistere. Si cala nel precipizio di una scissura della mente: essere o svanire. Pietrificare l’orma del proprio vissuto o tacitare la spessa coltre dell’intelletto in impronunziabili parole tramutate in Verbo.
    Caino e Abele si parlano, solo per un attimo, prima che la notte, in ardore, possegga l’animo di Caino. Il fuoco di Abele volge verso l’alto, in lode divina; quello di Caino, caluginoso, serpeggia , basso , in lingue difformi. Tutto il Creato parla ad Abele; il fratello è percosso dal silenzio prolungato di Dio. In lui vive l’infantile dolore di chi non viene riconosciuto. Visto. La contraddizione del mortale data dalla propria nascita.
    In Madonna si accalcano immagini da ogni tempo, sature di morte: ma alcun tempo le contiene. Solo spiragli prima del nulla scelto per incarnarsi casualmente in una epoca volgare, a cui sdegnoso, il poeta non riconosce essenza.
    Si prepara alfine in rito sacro, all’amplesso con la parola. Discorre con l’oltretomba che è qui. Presenze la erudiscono e l’incanto giunge inudibile nella sua perfezione: si nutre di latinismi , neologismi onirici auscultati in mattini presaghi di storia. Mito. Una messe non sapienziale ma coeva ad uno stato di esaltazione continua che la porta a dialogare con i trapassati. Con il vissuto di tutte le vite trascorse, ora che non ha più identità alcuna e, messaggera di auree parole storpiate e difformi, indica Demoni rivelatori della loro mistica presenza e Angeli persi e distanti nell’empireo delle Idee.
    Non v’è amore alcuno, solo strappi di umanità transitori, arrendevoli figure colte nella posterità degli eventi; nell’intralcio di un tempo superato dalla dimensione della carne, peccato ingiurioso dell’ assenza.
    Poiché Madonna non esiste se non nella parola coniata come moneta fuori corso, ancestrale ancilla condannata alla mortalità dell’involucro terrestre. Non vive l’Anima. Solo tonfo privo di disperazione. Trasferta attraverso il rugginoso Stige delle epoche condannate all’oblio. Compreso il presente.

    Omaggio Maria Rosaria Madonna con uno scritto che prese forma due anni fa, dopo la lettura di Stige .
    La laguna fumosa del poeta Gino Rago precipita i personaggi in dodecafonia dell’ azione. Soggiogati a puro movimento, muovono passo nella creazione che li ha ideati, marcescenti al barlume del riscatto, nell’atemporale che scompone e non ripristina ordine. Un fascinoso turbine che annota nella lista
    “morti e vivi”; tutto è irredento, in fermo immagine . Sappiamo della morte all’interno di essa, nel limbo già Ade.
    Marina Petrillo

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    • gino rago

      Intenso, erudito, pertinente questo denso commento di Marina Petrillo, che ringrazio:
      “La laguna fumosa del poeta Gino Rago precipita i personaggi in dodecafonia dell’ azione. Soggiogati a puro movimento, muovono passo nella creazione che li ha ideati, marcescenti al barlume del riscatto, nell’atemporale che scompone e non ripristina ordine. Un fascinoso turbine che annota nella lista “morti e vivi”; tutto è irredento, in fermo immagine . Sappiamo della morte all’interno di essa, nel limbo già Ade”.

      Confido a Marina Petrillo e a Milaure Colasson, la quale chiamo direttamente nelle pop-poesie in forma di “storie-di-una-pallottola”, che la idea scatenante di questo mio recentissimo ciclo poetico post-platani-sul-Tevere… è dovuta all’incontro tumultuoso, lacerante, folgorante con Isadora
      Duncan, la fondatrice della danza moderna danzatrice come Madame Colasson, soprattutto per l’atto finale della Duncan, strangolata da una sciarpa di seta…
      Isadora si congedò dai suoi amici con la frase:«Je vais à l’amour».

      Pensava di poter avere una rinascita, grazie a un nuovo amore…
      Ma la sua lunga sciarpa di seta si impigliò alla ruota della Bugatti del suo nuovo amore, dopo la fine del rapporto travolgente con Esenin, di quasi venti anni più giovane di lei.
      La lunga sciarpa di seta la strangolò.
      Calò il sipario sulla vita che tanto le aveva dato ma che le aveva tolto molto, tanto di più.

      Gino Rago

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  3. Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)


    La «struttura patica» e la «struttura tragica» nella poesia di M.R. Madonna (1942-2002)

    «Pathos non significa che c’è qualcosa che agisce su di noi, e tanto meno che qualcosa è compreso e interpretato in quanto qualcosa. Significa, infatti, al tempo stesso molto meno e molto di più di tutto questo, visto che si sottrae all’alternativa di causalità e intenzionalità in tutte le sue forme tradizionali (…).
    Pathos significa invece che siamo colpiti da qualcosa in maniera tale che questo “da che cosa” non può né essere fondato in un qualcosa di anteriore, né essere risolto in un qualche scopo perseguito posteriormente (…). Il pathos è un evento, ma un evento di tipo particolare che accade a qualcuno».1

    Nella poesia di M.R. Madonna coabitano una «struttura patica», una «struttura tragica» e un «colore emotivo di fondo» che conferiscono il tono emotivo stabile della sua poesia, un tono inconfondibile, oserei dire unico nel panorama della poesia italiana di fine novecento. L’ho detto e ripetuto: non ho dubbio alcuno nel dichiarare Madonna la più grande poetessa del secondo novecento italiano.

    «Quando la filosofia dipinge in chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere, la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo».2

    In Maria Rosaria Madonna c’è la chiara consapevolezza che nella attuale fase di civiltà l’ordo rerum equivale all’ordo idearum, che «il reale è razionale», che ci troviamo in un ordine mondiale dominato dal capitale (l’ordo idearum), che il «nemico», i «barbari» paventati da Madonna siamo noi, nient’altro che noi, che il significato è stato totalizzato dal capitale, e quindi de-istituito in quanto significato, de-rubricato, e questa de-istituzione comporta come conseguenza la sua traduzione e introiezione nella psiche di ciascuno di noi ma in termini invertiti. Il sistema capitalistico totalizza il significato, i significati e, in questo modo, li capovolge e li stravolge. Di qui la «struttura tragica» della poesia di Madonna, una struttura antropologica e ontologica storicamente determinata tipica della attuale fase del capitalismo mondiale. Chi è il colpevole, si chiede Madonna. Quando è iniziata questa gigantesca menzogna? Madonna addita Odisseo e le sue malefatte, è in lui che si cela l’embrione delle malefatte dell’umanità, il sistema globale ha un progenitore: Omero, è lui il primo responsabile della Grande Menzogna per il fatto che ci fa narrato una contraffazione degli eventi, ha capovolto l’ordine assiologico degli eventi facendo di un disertore grassatore come Odisseo il più astuto stabilizzatore della società borghese che istituisce il dominio attraverso la morte data ai giovani proci. Omero ci ha propinato questa fake new come veridica narrazione degli eventi. A questa situazione della Grande Menzogna Madonna non vede altra via di uscita che percorrere fino in fondo il tragitto che separa l’uomo dall’autodistruzione, dalla distruzione d’Occidente. Il capitalismo è in viaggio, deve terminare il suo viaggio con l’autodistruzione. Prima o poi interverrà un Evento X che ristabilirà l’ordine (l’ordo rerum) attraverso una gigantesca uccisione di proci, battezzando questa profilassi con l’eufemismo del ristabilimento della civiltà e dell’ordine costituito (l’ordo rerum). Il nocciolo di verità che il capitalismo globale reclamizza è lo svuotamento del significato. Al posto del significato c’è una scatola vuota con dentro il nulla. Giunta a questa conclusione, Madonna chiude il quadrato della sua «visione tragica» perché non è possibile andare oltre questa consapevolezza. Del resto, anche la poiesis risulta un facere privo di significato, accecata com’è dalla luce abbagliante di questa raggiunta consapevolezza.

    1 B. Waldelfels, “Tra pathos e risposta”, in Id., Fenomenologia dell’estraneo
    (2006), trad. it. a cura di F. G. Menga, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 51.
    21 Ivi, pp. 49-51
    2 G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1965, pp. 14-17

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  4. Mariella Bettarini

    Grazie sempre a voi tutti e molti auguri, con un saluto caro da

    Mariella Bettarini

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  5. posto qui una pop-poesia di Gino Rago

    Gino Rago
    Storia di una pallottola n. 6

    Marie Laure Colasson accende la sigaretta elettronica
    nel salone congressi dell’Hotel Excelsior.

    Ha i nervi a pezzi, non riesce a completare una “dissipazione”.
    Con la mano destra sfiora il manico di madreperla del revolver,
    con la sinistra tira fuori rossetto e specchietto dalla Birkin.

    La Colasson: «Non credete nella Memoria…
    è un deposito di bagagli, di oggetti smarriti».
    Entra Tristan Todorov: «Madame Colasson, Lei ha torto:
    Il problema della memoria è che il passato
    è una scatola vuota…
    Affinché possa servirci occorre che venga riempita».

    Il Covid19 interroga i topologisti di Mediolanum
    i quali si alterano, litigano e strappano i manifesti dei formalisti russi.
    Mimmo Rotella di soppiatto stacca le locandine
    delle Opere in programma alla Scala.

    Pietro Citati parla dell’armonia del mondo,
    e dell’opera d’arte.
    «Ippocrate dice che il sangue ha sede nel cuore, il flegma risiede nella testa,
    la bile gialla nel fegato, la bile nera invece nella milza.
    La melanconia dipende dalla bile nera…».

    Il dottor Ingravallo irrompe nella sala congressi dell’Hotel Excelsior,
    strappa il revolver dalla mano di Marie Laure Colasson.
    «Madame, la dichiaro in arresto».

    Parte un colpo.
    La pallottola colpisce un carrello della spesa
    del supermarket di via Galvani, corre verso il cesto della biancheria,
    coglie lo spigolo del frigorifero della cucina dell’Hotel di fronte,
    attraversa il cassetto del comodino, sfiora l’anta di un armadio
    dove c’è Carlo Emilio Gadda davanti al lavandino che si rade la barba.

    Marie Laure Colasson ripone il revolver nella borsetta.
    Chiama qualcuno con il cellulare.
    «Dottor Ingravallo è un sogno!, non sono io l’assassina, mi creda
    ma il poeta Gino Rago.
    È lui l’autore di tutto questo trambusto!»

    Marc Fumaroli ama l’arte della conversazione,
    conversa amabilmente con il Signor Shakespeare e il Signor Brodskij.

    «Il mio gatto Proust, solo lui capisce i miei sogni!»,
    si lamenta Madame Colasson, la quale è ancora impegnata nella destrutturazione
    delle sue “Strutture dissipative”.

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  6. milaure colasson

    Gino caro,

    ho letto la storia n. 6 della famosa pallottola, è intrigante, fortemente umoristica come piace a me e come penso debba essere una poesia moderna. Io in questo serio gioco (perché il gioco è cosa serissima) ti ammiro e ti ringrazio.
    Però devo farti presente che non sono io l’assassina, ma sei tu che hai sparato… non sfuggire alle tue responsabilità… prima o poi il commissario Ingravallo ti scoprirà e ti metterà in gattabuia.
    E poi quella pallottola chissà quante ne combinerà. Aspettiamo i prossimi eventi. Io ho fiducia nella legge e nel commissario Ingravallo.
    All’attacco!
    Ah, dimenticavo, se questa è la nuova poesia pop o pop-poesia – io cambierei il nome in top-poesia, la cosa mi convince di più.

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    • gino rago

      Un commento di Marie Laure Colasson sul mio ciclo poetico delle
      “Storie di una pallottola” (pop-poesia o, come suggerisce la stessa Madame Colasson, topo-poesia)
      *
      Commento di Marie Laure Colasson

      L’unité stilistique, la structure de la poésie de Gino Rago n’est ni le mot ni le rapprochement de deux termes surprenants, c’est la phrase telle qu’elle ne se connaît pas encore tant qu’elle ne s’est pas incarnée sur la page, la phrase créant sa propre pensée, sa propre invention, sa dérive infinie hors les normes du descriptif ordinaire. Le risque encouru est évidemment l’arbitraire, ce qu’on pourrait appeler la sortie du sens, ce qui ne se produit pas dans ces poèmes qui relancent leurs strophes dans des directions toujours nouvelles à l’aide de rythmes extrêmement variés.
      Où sommes-nous ? Je ne sais si nous le saurons jamais, et Gino Rago pas davantage. Les temps se confondent, les lieux nous habitent puis nous quittent, la poésie se donne à la prose des jours. Ce qui s’est passé, c’est aussi ce qui n’est pas advenu, ce qui n’a pas été écrit, la tenue d’un journal intenable.

      (Marie Laure Colasson)
      * 
      L’unità stilistica, la struttura della poesia di Gino Rago non sono né la parola né la vicinanza tra due termini sorprendenti, ma la frase ancora sconosciuta finché non si ritrova incarnata sulla pagina, la frase creatrice del proprio pensiero, della propria invenzione, la sua deriva infine fuori dalle norme del descrittivo ordinario. Il rischio incorso è ovviamente l’arbitrario, che si potrebbe chiamare uscita dal senso, il che non avviene in queste poesie che rilanciano le loro strofe in direzioni sempre nuove aiutate da ritmi estremamente vari.
      Dove siamo? Non so se lo sapremo mai, forse non lo sa nemmeno Gino Rago . I tempi si confondono, i luoghi ci abitano poi ci lasciano, la poesia si dà alla prosa dei giorni. Quello che è successo è ugualmente quello che non è avvenuto, quello che non è stato scritto, la tenuta d’un diario difficile da condurre.

      (trad. par Edith Dzieduszycka)
      *

      Magnificamente tradotta in italiano da Edith Dzieduszycka, che ringrazio sentitamente, la densa nota di Marie Laure Colasson coglie, come meglio non può esser fatto, l’essenza dei sei polittici da me proposti come sei storie di una pallottola, storie nelle quali la Colasson entra come protagonista, sì, ma senza mai invadere la scena, senza mai rubare spazio, respiro e fiato agli altri personaggi…

      Una presenza forte, la sua, che mai si fa ingombrante, ma su ciò si potrà discettare più diffusamente in altre sedi e in altri tempi.

      Qui e ora mi preme evidenziare che una nota critica come questa di Marie Laure Colasson che coglie il centro del bersaglio senza deragliamenti è possibile pensarla e scriverla, per me, per le lunghe, fedeli, consapevoli frequentazioni con il mondo di Antonin Artaud…

      Si ha conferma che ogni lettrice/lettore vede nell’altrui poesia soltanto ciò che è in grado di vedere, e mi fermo qui, si parla a nuora perché suocera intenda.

      Gli esiti estetico-formali dei miei polittici, esempi di pop-poesia, svelati nella loro vera essenza dalla nota della Colasson, sono un risultato, uno dei risultati possibili, da ricondurre, fin dal primo fulmine dell’incontro, a questa dichiarazione di poetica (che desidero proporre integralmente) di
      Tomas Tranströmer:

      «Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra parti della realtà che lelingue e i modi di veder convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, culture e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha l’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi con il mondo, di raggiungere scopi limitati, concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e verso la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una controtendenza nei confronti di questo processo. Le poesie sono meditazioni attive che non voglio addormentare ma ridestare».

      Da qui, dopo tantissimi tentativi di scrittura, non potevo non approdare a questo risultato, un esito sul quale Giorgio Linguaglossa scrive:

      “Il disallineamento fraseologico, la compresenza di salti e sovrapposizioni temporali e spaziali, l’intervento e la compresenza di interferenze e l’impiego di Avatar, Icone, Luoghi e personaggi svariati danno alla poesia della nuova ontologia estetica una mobilità e una imprevedibilità assolutamente originale.

      Nella NOE non c’è più il «soggetto» che commenta, glossa, legifera o delegifica intorno ad un oggetto, anzi, l’oggetto si è liofilizzato, è diventato polistirolo liquido, si è atrofizzato e non se ne trova più traccia… se non nelle discariche, nei rifiuti urbani e suburbani, nei retrobottega del Monte del Banco dei Pegni, nei retrobottega dei rigattieri e nei magazzini di Porta Portese…”

      Gino Rago

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  7. gino rago

    Sempre a proposito di pop-poesia ( o di top-poesia, secondo Madame Colasson) ricordo a hoc un pensiero sempre verde di Mario Lunetta sul compito estetico-etico di uno scrittore ( o di un poeta) soprattutto in un tempo di pandemia come questo.
    Mario Lunetta così scrive:

    «Compito di uno scrittore (o di un poeta) è di creare contraddizioni all’interno del senso comune egemone, di produrre enzimi fantastici indigeribili, di creare sconcerto nei confronti dell’universale obbedienza.
    Uno scrittore (o un poeta) che non sia scomodo e non procuri fastidi alla digestione del dominio delle menti, non è uno scrittore, è un addetto al servizio delle pulizie».

    E Madame Colasson ha estratto dalla sua birkin quel commento fulminante sulle mie storie-di-una-pallottola proprio in armonia con l’idea lunettiana del compito di un poeta all’interno di una comunità, in uno spazio e in un tempo ben caratterizzati come questi nostri…

    Del resto, nelle arti verbali o non verbali, Saramago seppe dir la sua a proposito di apripista (pochissimi) o di seguaci-epigoni…

    Gino Rago

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  8. Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)


    Problema n. 1
    Terminavo la mia riflessione sulla poesia di Maria Rosaria Madonna con queste parole:
    «Il nocciolo di verità che il capitalismo globale reclamizza è lo svuotamento del significato. Al posto del significato c’è una scatola vuota con dentro il nulla. Giunta a questa conclusione, Madonna chiude il quadrato della sua «visione tragica» perché non è possibile andare oltre questa consapevolezza. Del resto, anche la poiesis risulta un facere privo di significato, accecata com’è dalla luce abbagliante di questa raggiunta consapevolezza.»

    Problema n. 2
    Il tragitto che ci divide dalla «visione tragica» di Maria Rosaria Madonna dei tardi anni novanta alla «visione non-tragica» della pop-poesia di oggi (all’incirca trenta anni), si consente di misurare la quantità di strada percorsa in questo trentennio e la impossibilità di conservare una «visione tragica» nella attuale fase del capitalismo globale. Il nuovo capitalismo planetario ha tappato la bocca a qualsiasi ipotesi di pensiero «tragico» o di «poiesis tragica», e la poiesis, se vuole sopravvivere, deve mettere in scena un diverso scenario: una poiesis che rappresenti la impossibilità di attingere una «dimensione pubblica» ma che si limiti a presentare «questioni private» come quelle decisive e significative Il trionfo del «privato» e della «privacy» legittima tacitamente questo spostamento della problematica dalla «dimensione pubblica» alla «dimensione privata». Molti romanzi e opere poietiche di oggi sono infatti niente altro che vicissitudini del privato, pettegolezzi, piccole narrazioni dell’io, cioè Kitsch.

    Problema n. 3
    La poesia di Gino Rago, mia, di Vincenzo Petronelli, di Marie Laure Colasson, di Lucio Mayoor Tosi, di Ewa Tagher e degli altri compagni di strada è una poiesis che è diventata consapevole della impossibilità della «visione tragica» e della impresentabilità della «dimensione privata». Se chiamarla pop-poesia o top-poesia (come suggerisce la Colasson) è in fin dei conti una questione nominale.

    Conclusione.
    La poiesis della «dimensione privata» che si fa oggi in quantità industriale è semplicemente Kitsch, discarica di rifiuti quale è diventata la vita privata nella «dimensione privata».

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  9. Il divino è in essere (verbo), non altrove. Se così è anche luciferino. L’idea che senso-contenuto possa essere compreso in altro senso contenitore mi manda in confusione. Ma capisco che laddove non vi sia differenza, là spariscono alto e basso, quindi anche ogni legge o categoria. E questo, sinceramente mi fa sentire meglio.
    Penso che tutto sia semplice, ma difficile da spiegare. Che la sola vetta da scalare sia la punta del naso. E che altrove sia rinuncia la divino; il quale è ciò che è, conforme a se stesso, in ogni piega dell’Essere. Anche Pop, se gli va.

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  10. 5a stesura della poesia

    Così… me ne sono andato

    Così… me ne sono andato, non esistevo più. E mi sono accorto che ero felice.
    Poi mi sono risvegliato, ho aperto gli occhi»,
    disse Xabratax ingollando un tramezzino.
    Il parrucchiere François finì di tagliare la zazzera al ministro degli esteri,
    il quale se ne andò senza pagare.
    Un elicopter-money si alzò in volo e fece cadere banconote da 50 euro
    sulle teste dei cittadini a piazza del Popolo.

    «Sì, in casa ho un busto di Mussolini – replicò il filosofo Žižek –
    Però non mi è chiaro come faccia un drone a localizzarmi».

    «Either you’re the butcher or you’re the cattle» [o sei il macellaio, o il bestiame]
    rispose Mister Bim,
    ma l’interlocutore era andato al bagno a fare la pipì…

    Cianfax fece un giro attorno al tavolo.
    «Tutto quello che ci circonda, comprese queste sedie, è una produzione della mia mente, una creazione del mio pensiero».
    Žižek non replicò.
    La lampadina riprese a tossire.
    Entrò una femboy di polistirolo liquido e silicone in calzamaglia nera
    e diede un bacio ad Azazello.

    Petit déjeuner dans un hôtel à New York.
    Sur fond de télévision allumée en permanence.
    Deux grands écrans plats encadrent cette petite salle à manger
    où les hôtes sirotent leur café et mâchent leurs bagels.
    Les images d’actualité défilent en boucle,
    les commentateurs commentent, leurs mots bourdonnent en bruit de fond.
    Nous écoutons distraitement.

    Il cavaliere solitario siede sulla riva del mare.
    Gioca a scacchi con la Morte.
    È una inquadratura della famosa scena del film Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1956).
    La Morte dice: «Cinque mele rosse».
    Il Cavaliere replica: «Nella prima stanza ci sono cinque sedie rosse. Nella seconda stanza ci sono cinque sedie rosse. È la stessa stanza, o è un’altra stanza?».
    La Morte esita, fa un passo di lato.

    Una Signora dice che è la controfigura di Ursula Andress.
    Si presenta al filosofo Žižek.
    Invece è una ladyboy di Rekjavik, una famosa pornostar,
    adesso sta orinando davanti alla webcam.

    Il Cavaliere di Coppe cita Wittgenstein: «Il mondo è una scacchiera
    e noi gli scacchi».
    Il Cavaliere ha dato scacco matto alla Morte,
    e adesso dovrà vivere per l’eternità.
    Ma si pente, torna indietro,
    rinuncia all’eternità per un breve segmento di felicità.

    Lilly Gruber grida alla telecamera: «Ridatemi il mio vero volto!».
    Xabratax gridò: «L’imperfezione del nulla è il reale!»,
    e si richiuse nel loculo da dove era improvvidamente sortito.

    Il tenente Sheridan appende la giacca sull’attaccapanni,
    dice che Ingravallo non capisce niente.
    Marilyn ritornò sulla scena con il famoso vestito rosso che si sollevava al vento.
    Ci fu un gran fracasso di telecamere.
    Un gabbiano beccò la testa di un corvo. E sparì.

    È la scena finale di À bout de souffle di Godard (1960):
    Jean Paul Belmondo viene raggiunto dalla pallottola di un poliziotto.
    Fugge. Caracolla. Inciampa e muore sull’asfalto.
    Le ultime parole…
    Scusate, ho dimenticato le ultime parole.

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  11. milaure colasson

    Egregio Signor Gino Rago,

    poeta della top-poezia, Le devo comunicare il mio disappunto per la girandola di eventi che ruotano attorno alla pallottola uscita per errore manifesto dal revolver a tamburo un tempo di mia proprietà…. ma non posso essere stata io a premere il grilletto perché trenta anni fa ho regalato la pistola a Jannik e quindi non ne sono più in possesso.
    Questa storia della pallottola mi ha impedito di dormire sonni tranquilli in questi ultimi tempi e, per di più, sono perseguitata dalla polizia italiana e da quel figuro del commissario, il Dr. Ingravallo che non mi dà tregua e mi insegue ovunque vada, con mascherina o senza. Le confesso che la faccenda diventa sempre più ingarbugliata perché in effetti ho ritrovato, l’altro giorno, nella mia Birkin, in modo misterioso e inspiegabile, il piccolo revolver con il manico di madreperla.
    Chi l’ha ficcata nella mia borsetta?
    Che cosa devo pensare?
    E’ lei o il Dr. Ingravallo o, addirittura, il prof Linguaglossa il quale negli ultimi tempi sembra essersi evaporato…
    Le confesso che tutta questa faccenda mi lascia molto perplessa.
    Forse tutto ciò è opera di una cellula di Al Shabbab o di qualche servizio segreto di qualche potenza straniera…
    Non è escluso che chiederò l’intervento e la protezione della Ambasciata di Francia di Piazza Farnese.
    Lei capirà, devo in qualche modo tutelare il mio nome e la mia onorabilità.

    Con profonda stima.

    Madame Colasson

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    • gino rago

      Storia di una pallottola n. 7

      Nebbia sulla laguna. Venedig. Un sotoportego.
      Il filosofo marxista e il Signor L.* bevono un’ombra.
      Sono melanconici, la bile nera li divora:
      “Bisogna distribuire la ricchezza, pochissimi ricchi,
      troppi poveri”. Fumi e Nebbie sulla laguna. Venezia.

      Sotoportego brumoso.Carnevale-Bolshoi.
      Marie Laure Colasson danza sulle punte,
      con un panno di seta si asciuga il sudore, dalla Birkin
      tira fuori un biglietto.

      “Madame Colasson, Lei è sotto la nostra protezione,
      l’Ambasciatrice di Francia in Italia ha convocato a Piazza Farnese
      il Prefetto e il Questore di Roma
      per l’affaire della pallottola. Il commissario Ingravallo
      non riesce a trovare il capo di questo gnommero.
      La matassa si aggroviglia, l’agente Popov fa il doppio gioco.
      Al Shabbab non c’entra. Riceverà a breve altre notizie,
      usi mascherina e guanti di lattice”.

      Un agente dei Servizi Speciali di via Pietro Giordani entra
      nell’appartamento di fronte.
      Jannik apre la cassetta degli attrezzi:
      viti, chiodini, pentolini, metri, fettucce, spaghi,
      tenaglie, martelli, trapani, seghetti,
      punteruoli, pialle, guarnizioni di gomma, pappagalli
      e un revolver con il manico di madreperla.

      Parte un colpo, la pallottola sfiora l’agente, infrange i vetri del bar
      fulmini e saette, buca i cornetti, colpisce in pieno i tamponi
      per il Covid-19, entra nello studio di Carlo Emilio Gadda
      mentre rilascia un’intervista ad Arbasino…

      Madame Colasson tira fuori dalla Birkin il profumo Roma
      di Laura Biagiotti, scrive poche righe su un biglietto:

      “Il commissario Ingravallo non smette di perseguitarmi,
      forse è colpa del corona virus, di queste vite sospese sull’abisso…”

      *

      Seconda versione

      Storia di una pallottola n. 7

      Nebbia sulla laguna. Venedig. Un sotoportego.
      Il filosofo marxista e il Signor L. bevono un’ombra.

      Sono melanconici, la bile nera li divora.
      «Il capitalismo è alle corde» dice Žižek.
      «Però, c’è ancora molto da fare», dice il Signor L.
      «Convocherò il prof. Satanasso il quale ha un altro asso nella manica,
      potrebbe sempre tirar fuori dal cilindro un secondo Covid, no?».

      Fumi e Nebbie sulla laguna. Venezia.
      Sotoportego brumoso. Carnevale-Bolshoi.

      Marie Laure Colasson con la mascherina nera danza sulle punte.
      Il foulard di seta rossa di Isadora Duncan sventola dalla decapotabile.
      Albergo di San Pietroburgo. Il poeta russo Sergej Esenin si taglia le vene dei polsi.
      Scrive la sua ultima composizione.
      Una lettera d’addio per il poeta Anatolij Marienhof, suo amante.

      Dalla Birkin Madame Colasson tira fuori il lapis d’avorio
      Scrive a Isadora Duncan: «Guardati dalle idi di aprile».

      “Madame Colasson, Lei è sotto la nostra protezione,
      l’Ambasciatrice di Francia in Italia, Madame Starobinskij,
      riceve a Piazza Farnese il ministro degli Interni e il Prefetto di Roma
      per l’affaire della pallottola.
      «Questo commissario Ingravallo è un irresponsabile» è la protasi del discorso.

      – Per intanto, Ingravallo viene trasferito a Campobasso.
      «O gnommero si ingarbuglia, la matassa si aggroviglia» –

      «L’agente Popov fa il doppio gioco.
      Al Shabbab non c’entra. Riceverà a breve altre notizie,
      usi mascherina e guanti in lattice piuttosto».

      Un agente del Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani entra
      nell’appartamento di fronte, al numero civico 20.

      Jannik apre la cassetta degli attrezzi:
      viti, chiodini, pentolini, metri, fettucce, spaghi,
      tenaglie, martelli, trapani, seghetti,
      punteruoli, pialle, guarnizioni di gomma, pappagalli
      e un revolver con il manico di madreperla.

      Parte un colpo.
      La pallottola sfiora l’agente, infrange i vetri del bar
      “fulmini e saette” di via Pietro Giordani,
      buca un cornetto alla crema, colpisce in pieno il tampone
      per il Covid-19 del dott. Civitillo, esce dalla porta d’ingresso
      ed entra nello studio di Carlo Emilio Gadda
      il quale sta rilasciando un’intervista ad Arbasino…

      Madame Colasson tira fuori dalla Birkin il profumo “Roma” di Laura Biagiotti,
      scrive poche righe su un biglietto:

      «Madame Starobinskij, il commissario Ingravallo si è innamorato di me,
      quel citrullo non smette di perseguitarmi…»

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  12. Pop o non pop… come quando dipingo, non mi importa di avere un soggetto. E’ il modo di dipingere che diventa soggetto. Il segno è il contenuto. Estetica è guardare da distanza, sovrintendere. Ma non è.
    Non so se accade qualcosa di simile in poesia; in questo informale di Giorgio Linguaglossa… “La coscienza promossa al rango di evento”, “il senso si sottrae alla molteplicità delle interpretazioni”… frasi che leggo in giro. Scoppio della forma pensiero… che però non si traduce in nuova struttura formale. Gli a-capo sono del verso libero, anche troppo diligenti.
    Parole in libertà non c’entrano, è il pensare che va a soqquadro. Come in giardino lasciato in rovina, metterci qualche diamante… mica uno può dare attenzione alla rovina. Pop è dire cose complicate in modo facile, magari con parole che fuggono da ogni parte ma che poi tornano. E tornano nuove. Sveglie. Altrimenti è scrittura informale. Pensiero informale. Per un pubblico di filosofi assenti.

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  13. La top-pop-poesia erede della destrutturazione della «visione tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna

    Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)


    caro Lucio,

    scrive il filosofo Slavoj Žižek:

    «Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.
    Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.
    Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1

    La «struttura tragica» di Madonna ha bisogno dell’oggetto. È sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo. Non sono d’accordo con la tesi di Slavoj Žižek per il quale la nozione freudiana di pulsione di morte può essere utilizzata egualmente anche per una civiltà del post-umanesimo del capitalismo globale, anzi, sono propenso ad ipotizzare che la pulsione di morte svanisce nella «merce», cioè nel «valore di scambio». La nuova civiltà dell’epoca della tecnica o cibernetica sembra aver fagocitato la pulsione di morte, annullandola nella «merce». Il feticismo della merce conterrebbe al suo interno la pulsione di morte rimossa, se non addirittura cancellata. Questo è l’aspetto inquietante delle società post-democratiche, che il capitalismo è esso stesso il prodotto della tecnica e causa esso stesso della tecnica. La risposta data da Duchamp di riabilitare l’oggetto, il ready made, rende evidente ciò che fino ad allora era rimasto occultato sotto le pastoie ideologiche e apologetiche del «bello». Siamo ancora oggi inchiodati al ready made di Duchamp. Tutta l’arte di questi ultimi decenni è appena un codicillo al ready made di duchampiana memoria, ma esserne consapevoli è già un piccolo passo per oltrepassare il ready made, per andare oltre la parola come segno.

    Io penso invece che lo scacco matto del capitalismo globale è proprio l’aver rimosso la pulsione di morte, per averla addomesticata e per averla cancellata e rigenerata sub specie della «merce»; la merce sarebbe la resurrezione della pulsione di morte con segno invertito. La pulsione di morte è il motore segreto di cui si alimenta il capitalismo che lo convoglia sulle merci come un mana, un sortilegio che accalappia tutti gli umani post-umani. Qui ci viene in soccorso un pensatore certo non marxista come Heidegger il quale scrive: «l’essere svanisce nel valore di scambio». E, con l’essere, anche la pulsione di morte svanisce nel valore di scambio.

    Già Marcuse nei tardi anni cinquanta affermava che oggi le categorie psicologiche sono diventate categorie politiche. Che io chioserei così: oggi le categorie del politico sono diventate categorie della nuova psicanalisi e dei versanti cognitivisti della psicologia contemporanea.

    La pop-poesia che stiamo facendo ha questa chiarissima consapevolezza, questa auto evidenza, che «l’essere svanisce nel valore di scambio» e che tutte le categorie della retorica della vecchia poiesis sono diventate categorie della nomenclatura psicologica; psicologismo ed estetismo si equivalgono e sono equipollenti nella inanità complessiva del pensiero filosofico sotteso.

    Così, il «soggetto» della nuova pop-poesia diventa una «pallottola» sparata non si sa da chi e contro di chi. E qui il commissario Ingravallo fa cilecca perché le sue categorie indagatorie fanno cilecca, si rivelano carta straccia. E non potrebbe non essere altrimenti.
    La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della pop-poesia o top-poesia che dir si voglia.
    Penso che la pop-poesia abbia scoperto la valenza gestuale del linguaggio, a prescindere dal significato e dal senso. Cioè il linguaggio ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non vedeva, che anzi occultava e faceva di tutto per occultarlo, eppure un pensatore come Wittgenstein lo aveva chiarito da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è parte di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. E una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La pop-poesia è linguaggio gestuale e figurato allo stato puro. Ma ciò non significa che sia senza significato o senza senso come pensava l’ontologia del linguaggio poetico del novecento, al contrario, nella pop-poesia la valenza e la potenza del linguaggio figurato e gestuale ne viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.

    Scrive Wittgenstein:

    «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. — Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto diverse sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente non quando facciamo filosofia».2

    1 Slavoj Žižek e Glyn Daly, Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Intervista a Žižek, Dedalo, 2004 p. 92
    2 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche § 11

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  14. Con dedica a M.R. Madonna.

    Abbiamo tre corde di acciaio.
    Abbiamo consonanti di piombo.
    Abbiamo brioches,
    Abbiamo dazzi, siluri, razzi e mazze da baseball.
    Abbiamo tazze, tovaglie e stoviglie.
    Abbiamo cortisone, dpcm e mascherine.
    Abbiamo guanti di velluto, di cotone, di gomma.
    Abbiamo i morti, la fame, la tragedia, abbiamo la Russia, l’America, l’estuario.
    Abbiamo il bivio, L’Africa, l’Europa.
    Abbiamo forbici, materazzi, federe, cuscini.
    Abbiamo giovani, abbiamo vecchi, pallottole cugini, nipoti, amanti.
    Abbiamo cucchiai, forchette, pugnali.
    Abbiamo echi, susine, ciliegie.
    Abbiamo forni.
    Abbiamo lividi, strappi, supposte.
    Abbiamo fame.
    Abbiamo guerra, incenso, pudore.
    Abbiamo…

    Grazie OMBRA.

    caro Mauro,

    mi sono permesso di riscrivere la tua poesia con la iterazione di “Abbiamo” ad inizio di ogni verso, che mi sembra molto forte come effetto. Così mi sembra un j’accuse contro il verbo “avere”, che costituisce il nocciolo duro sul quale si basa il capitalismo. Ho letto che in alcune lingue il verbo “avere” non esiste e viene sostituito con delle perifrasi basate sul verbo “essere”. Ne deduco che presso quei popoli che non hanno nella loro grammatica il verbo “avere” non sia possibile edificare il capitalismo. Me lo sto chiedendo.
    Un saluto

    Giorgio Linguaglossa

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  15. milaure colasson

    penso che oggi non si possa mantenere una “struttura tragica”, non ci sono le condizioni oggettive, storiche per la manutenzione di una resistenza frontale contro il sistema di dominio planetario quale è il capitalismo, ma ciò non significa che non possiamo fare poesia in modo diverso e serio, cioè critico.

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  16. ROTOLI del MARE NOSTRUM

    Encefalogramma del Mare Nostrum in coma.
    Il sottofondo di piccione più gazza e ola di zizzania.
    Due gatti con la copertina del “Manifesto del Partito Comunista” sulla pelle.

    La sceneggiatura era pronta. Ancora per un giorno il grigio avrebbe resistito.
    Spavento notturno e comica del giorno seguente.
    Una vipera soffiante sul balcone di Giulietta

    Vennero fuori dei rotoli che raccontavano come era finita l’epoca (omissis).
    Di quale si trattasse s’era perso il frammento. Alcuni come questi erano isolati

    “C’è la cronaca per le strade. Cane da tartufo
    Che s’ accontenta di un Boletus satanas.”

    Altri ancora parlavano di un’ala e 129 morti in un giorno.
    Se ne descriveva il rombo. Il passaggio sui tetti e come vennero sfiorati gli embrici.
    La fine sulle antenne.

    Un marziano si eccita a una battuta di Stan Laurel.

    Anche il giorno successivo cadde lo stesso aereo.
    Alla stessa ora, per bocca di un mezzobusto di nome Omer
    L’annuncio del disastro e le misure intraprese:

    129…!

    La chiusura degli aeroporti si era rivelato inutile.
    L’allerta del pronto soccorso, il potenziamento nelle prefetture.

    La Regina versò due cent nell’aorta di un industriale di lamette
    Il cuore si riaccese e il barbiere tornò a radere la barba al Presidente.

    I frammenti più consistenti parlavano di cianuro grandinato sul Mare Nostrum
    Antonius concepì uno scacco matto ma non volle metterlo in pratica
    Batman non potè evitare la caduta dell’ aereo successivo

    129…!

    -Finirà per atterrire i boccioli del melograno.
    Gli appestati stanno uscendo dai fotogrammi
    Anche il Nulla dagli occhi della strega
    Persino Bergman toglie la danza dall’ultima scena
    E nutre seri dubbi sulla fuga in Egitto.

    In geroglifico il fumetto di Tutankhamon con il mento fuori asse:
    -Obelisco in vendita.
    Un affare.

    (Francesco Paolo Intini)

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    • caro Francesco Paolo Intini,

      le proposizioni delle tue composizioni intendono raffigurare gli «stati di cose» in modo speculare nel linguaggio mediante la configurazione di proposizioni che rimandano alla configurazione degli oggetti così come sono o possono essere nel mondo. Indicare un oggetto con il linguaggio lo si può fare mediante la costruzione di una proposizione, ma, di fatto non è detto che ad una proposizione linguistica corrisponda sempre un oggetto nello «stato di cose», allora, in questo caso la proposizione designa una immagine che in sé non è né vera né falsa, infatti lo statuto di verità o di falsità compete alla esistenza speculare dei corrispondenti oggetti nel mondo.

      Indicare un oggetto significa insieme indicare il campo delle sue sintassi possibili. Ma ciò è quanto dire che la forma di raffigurazione del nostro linguaggio, per poter salvaguardare il principio di sensatezza e quindi di raffiguratività della proposizione, deve in linea di principio escludere la possibilità di connessioni insensate tra oggetti. Una volta indicati gli oggetti — i significati del linguaggio — la forma del mondo segue da sé, perché è già data la totalità delle situazioni possibili e la forma dello spazio logico
      che le contiene.

      Ciò che è vero delle proposizioni e degli stati di cose (il loro essere sospese tra le possibilità del vero e del falso, dell’essere e del non essere) non vale invece per i nomi e per gli oggetti: qui una simile alternativa non sussiste, e ciò è quanto dire che gli oggetti del mondo esistono necessariamente — dato il nostro linguaggio. Il punto è tutto qui: comprendere una proposizione significa intendere che cosa accada se essa è vera, — e ciò è quanto dire che il presupposto della sensatezza non decide nulla circa l’esistenza o la non esistenza dello stato di cose della cui possibilità l’immagine si fa garante. Ma l’ipotesi della sensatezza avanza un diverso presupposto per i nomi: per essere un nome, un segno deve stare per un oggetto, e ciò è quanto dire che una volta che siano stati dati i nomi del linguaggio si è anche detto quali siano gli oggetti che necessariamente sono. La loro esistenza è, in altri termini, necessariamente implicata dalla sensatezza del linguaggio.

      Dati questi significati, ogni possibile situazione nel mondo avrà come suoi costituenti gli oggetti denotati dai nomi, ed al variare delle situazioni nel mondo non farà eco un qualche mutamento degli oggetti, ma solo la variazione delle loro possibili combinazioni.

      È in questo senso che Wittgenstein ci invita a parlare degli oggetti come della sostanza del mondo. I fatti sono accidentali: il loro consistere in
      una connessione di oggetti li espone necessariamente alla possibilità
      dell’essere altrimenti. Gli oggetti, invece, non possono mutare ed esistono necessariamente: sono appunto, per dirla con Spinoza, «quod in se et
      per se concipitur». Dati questi significati e questi nomi, abbiamo anche
      deciso una volta per tutte quali siano gli oggetti del mondo e quindi anche i possibili stati di cose che possono accadere.

      È possibile un fraintendimento: un certo ordine proposizionale ci inviterebbe infatti a pensare che gli oggetti del mondo esistano alla stessa stregua in cui esistono o accadono gli eventi del mondo. Ora, di un qualsiasi fatto ha senso dire che è, proprio perché è comunque sempre pensabile che non sia: uno stato di cose è una connessione di oggetti e nulla vieta che una simile connessione venga meno o sia alterata.

      Sembrerebbe infatti impossibile negare che gli oggetti esistano, ma non sembrerebbe ancora necessario astenersi dall’affermarne l’esistenza. Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi conto che le cose stanno proprio come abbiamo detto: dire di un oggetto “a” che esiste non significa evidentemente nulla di più di questo — che il segno “a” è davvero un nome del nostro linguaggio e ha quindi un significato.

      Sul terreno del linguaggio è quanto dire che degli oggetti del mondo non si può affermare né che sono, né che non sono, poiché il loro esserci è la condizione di possibilità su cui poggia la natura significante dei nomi e il carattere raffigurativo della proposizione. Dire di un oggetto “a” che non c’è
      vuol dire soltanto che il nome “a” non è un affatto nome e che — quando
      l’abbiamo pronunciato — credevamo forse di fare qualcosa e di denominare, ma in realtà non facevamo nulla di più che emettere un innocente versetto a-significante e a-veritativo.

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  17. Caro Giorgio,

    nel momento in cui ti rendi conto che non è tua la colpa se il mondo è quello che è, diventi un angelo… E smetti di recitare il mea maxima culpa.
    Dopodiché fai quello che può fare un angelo risvegliato al sogno di questo mondo!
    Non a caso le pagine de L’Ombra delle parole finiscono in basso sul volto luciferino di Salman Rushdie. Quell’immagine porta la tua firma.

    La mia perplessità è un’altra: ci sono voluti anni per mettere a punto un discorso critico sulla scrittura a frammenti, anni per creare in distici (tra l’altro, allo scopo, penso io, di stabilire una situazione d’obbligo alla poesia, non divagante ma per aprire gli occhi, svegli nel sogno), anni per la struttura a polittico (come per allargare confini), per poi ripiegare sul verso libero, anche se in forma di casamatta, cioè di architettura non per upper class… ora Pop, tra Rushdie e il Tarantino di Pulp Fiction, la più avanzata cinematografia. Tutto questo mentre sento crescere, nel mio piccolo mondo, il bisogno di riordinare (il mio stupore nell’accorgermi di stare nel marasma con simil doppi ottonari e novenari)… Abbiamo riaperto le danze?

    A Silvia.

    Ora spunta Silvia Romano. Sì, quella rubata dall’Isis.
    Ma sei ancora dei nostri?

    Certo, cattolica e musulmana. Come tanti non credenti.

    L’affare fatto si sgrana in profili di madame al super più
    della cronaca in bocca al lupo. Travaglio di mimose.

    Che dire del tutto in piena autonomia e stando attenti
    nel condividere il polso dove scorre segreta verità

    se non che viva in pace, anche lei tra i non morti
    di questa parabola di spie? Vada dal parrucchiere,

    si faccia le meches, scriva un bell’articolo su Repubblica,
    una lettera d’amore anche. Che tanto la gente dimentica

    e muore in fretta. Cartolina: non è bello qui,
    dove adesso trema l’inchiostro disoccupato sul foglio?

    Le margherite scoppiano di salute, i gatti si mangiano
    la spesa in tanti bocconcini, e c’è pure il Parmigiano amico,

    quello delle superstar che sgambettano su allevamenti
    di bestiame al massacro; ed è questa l’opera d’arte,

    il fine di tutti i mezzi; quello di tingersi nei colori
    della propria tribù, la sacrosanta alleanza capitanata

    da Covid-19, il nuovo server delle giurisprudenze
    timbro in ceralacca su promesse di mantenimento

    dello stato in battibecchi di foruncolosi graffitisti
    anche loro in cerca di michelangiolesca meraviglia.

    Eccetera. Poi sorride lo smalto sui denti.

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  18. caro Lucio,

    come apparirà chiaro leggendo la poesia di Intini o di Gino Rago, nella nuova ontologia estetica, la forma grammaticale non è una eco visibile di un pensiero invisibile che si trova nella cellula monastica dell’io del poeta. Al contrario, è la forma grammaticale che determina ciò che io penso, è la struttura grammaticale e la struttura sintattica che determinano ciò che io penso. L’io è quindi un epifenomeno. Ecco spiegato perché nella nuova ontologia estetica l’io è quasi assente, o, se è presente, è presente come un io tra i tanti. Il significato è un evento secondario del linguaggio, direi un evento terminale, l’evento primario sta a monte del significato e, a rigore, a monte del linguaggio, alla sorgente del linguaggio. L’evento è l’atto sorgivo del linguaggio.

    Per Wittgenstein il significato non è un evento mentale: Quando Wittgenstein nelle sue osservazioni filosofiche, analizza il grido «Lastra!» che il muratore dice al manovale di passargli una lastra, cioè che qualcuno deve portargli una lastra, vuole far capire che tutto dipende dal modo in cui quel grido è usato, dal contesto in cui accade e, più in generale, dall’insieme delle relazioni che sussistono tra i parlanti, non da ciò che eventualmente passa per la mente di chi parla. Ma ciò è quanto dire che non possiamo fare riferimento al pensiero per considerare incompleta una forma linguistica: ciò che pensiamo, per Wittgenstein, non determina il significato delle nostre parole.

    Quando metto sotto accusa il capitalismo internazionale non mi passa per la mente un giudizio già preso perché so che ciò che io chiamo il mio pensiero è una diretta conseguenza dello stato delle cose che il capitalismo determina nel mondo. Io non sono un populista che mescola patate e pomodori e arsenico, io mi limito ad argomentare che le patate e i pomodori sono cose diverse dall’arsenico, anche se tutti e tre questi prodotti sono manufatti del capitalismo. Il marxista comunista che esprime un pensiero critico sa che il significato che noi diamo alle nostre parole è un epifenomeno del linguaggio che viene impiegato. Ma una poesia di Intini o di Gino Rago o di Marina Petrillo sono cose diverse proprio in quanto manufatti distinti, ma sono tutti prodotti del sistema capitalistico e del pensiero critico che si innerva nel linguaggio.

    Wittgenstein ci dice che un gesto linguistico ha un significato non già in virtù dei pensieri che attraversano la mente di chi parla, ma in ragione della sua
    appartenenza ad un determinato «gioco linguistico». Ne segue che alla forma grammaticale del linguaggio non è affatto chiesto di rispecchiare i
    pensieri che abitano e sgomitano nella nostra mente mentre la esterniamo, poiché il senso di una proposizione dipende dall’uso che se ne fa in una circostanza determinata. E ogni nuova circostanza determina un nuovo «gioco linguistico», e così il «gioco» va avanti e il «significato» delle parole cambia, si modifica. Ciò che pensiamo non determina il significato delle nostre parole. Il significato è determinato dal «gioco» di innumerevoli fattori che intervengono all’interno del campo del linguaggio.

    Scrive Wittgenstein:

    «quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? — Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti di impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici (come potremmo dire) sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola «gioco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: comandare e agire secondo il comando — Descrivere un oggetto in base al suo aspetto e alle sue dimensioni — Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) — Riferire un avvenimento — Far congetture intorno all’avvenimento — Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova — Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi — Inventare una storia; e leggerla — Recitare in teatro — Cantare in girotondo — Sciogliere indovinelli — Fare una battuta; e raccontarla — Risolvere un problema di aritmetica applicata — Tradurre da una lingua in un’altra — Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare».1

    1 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 23.

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    • Ma tu pensi davvero che io abbia avuto un pensiero a monte, o peggio una opinione in merito alla vicenda di Silvia Romano, tale da dover essere comunicata in poesia? Questa mia è una risonanza, un prestito, un guazzo figurativo, una restituzione dovuta a quanto nella mente ho recepito della bagarre pseudo politica di questi ultimi giorni.
      Di solito evito la poesia dedicata, ma ho avvertito il momento favorevole al non senso. In momenti così posso scrivere qualsiasi cosa. E’ accaduto.
      Il non senso è scrittura che si fa con il vuoto, non può darsi con alcun progetto. Quindi, per restare nel tuo pensiero, il non senso sfugge al sistema capitalistico, come a qualsivoglia ideologismo. Caro Giorgio, io non mi pre-occupo di essere di sinistra, penso di essere l’unico comunista sereno che esiste al mondo. Non indugio su l’istinto di morte perché so che morte e vita, una forza e l’altra, sono Yin e Yang che si intersecano, e una va nell’altra sicché l’immagine a me non pare affatto divisa, o contrapposta. Anche questo è “pensiero critico che si innerva nel linguaggio”.

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  19. caro Lucio,

    io alle poesie con dedica non ho mai dato credito. Si tratta di poesia-a-tesi, e la poesia, la Musa rifugge da ogni tesi, foss’anche la più nobile. In questo senso la tua poesia è bella, ma è troppo «direzionata», alla fine non dice niente di più di quel che dice, rientra nel «significato» che volevasi dismettere e far uscire dalla finestra.

    Se leggi la prima e poi la seconda versione della “Storia di una pallottola” di Gino Rago qui sopra, ti accorgerai che nella prima stesura la poesia era troppo fedele al «significato», nella seconda invece si è liberata del e dal «significato» e il risultato è senz’altro migliore.

    Questa strenua lotta al significato contraddistingue tutta la poesia della nuova ontologia estetica, è una lotta incessante perché il «significato» ci circonda da ogni parte e ci soffoca e la Musa muore soffocata dai truismi.

    Tu dici che «il non-senso sfugge al sistema capitalistico»? Io invece penso che il sistema capitalistico è il regno del non-senso complessivo perché è fondato sulla legge del plusvalore e della accumulazione del capitale che, in sé è un non significato, è un atto di fede. Nient’altro. È una religione e, come tutte le religioni, è basato su un atto di credenza, cioè di fede. Se cessa la credenza nella bontà della accumulazione del capitale cessa di colpo anche il capitalismo. Ma queste cose le ha ben spiegate Agamben (per ultimo).

    Io penso che quando tu fai poesia per scherzo, dissipi le tue migliori qualità. La poesia non è uno scherzo, e anche quando assume la forma di un divertissement, dice cose molto serie.

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  20. Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)


    La parola poetica. Problemi.
    Carlo Livia
    02:14 (5 ore fa)
    a me

    Lo scenario simbolico da cui promana la parola poetica è ricco di echi profetici. La profezia non è solo previsione del futuro, ma annuncio di un avvenire impossibile, che viene annientato nell’atto della nominazione. È un errare, rivestendosi di infinite mediazioni simboliche, incontro a ciò che si può indicare, ma non nominare, incapace di radicarsi, stabilirsi, definirsi in un significato immutabile. Vera patologia del linguaggio, si realizza in una violenta, straziante revoca in giuduzio del potere di ogni semiotica, che trascende in un dominio ad essa estrinseco ed eteronomo, sancendo i limiti cognitivi, l’abisso invalicabile tra logica ed ontologia.
    Parola che sovverte e dissolve il suo potere semantico, realizzandosi nell’atto impredicabile della fusione mistica, in cui annienta forme e codici, rende vana la fine, sterile il niente, instabile ogni confine. Priva di significato immanente, lo realizza nel movimento del suo tendere ad una ipotetica, futura ermeneusi, affidata ad un processo di conversione e purificazione del pensiero in cui solo può trovare senso e dimora.

    È la parola con cui Baudelaire sovverte etica ed estetica, in cui Rimbaud, genio profetico impaziente e irresponsabile, come solo l’adolescenza può essere, sogna una nuova metafisica, e Mallarme’ compone la sua trasfigurata trascendenza vuota.

    La decomposizione delle strutture morfo-sintattiche, la divaricazione e decontestualizzazione frastica, la violenta eteronomia e incongruenza semantica, che domina nella poesia contemporanea, descrive questo aporetico percorso di attrarre e comprendere nella lingua ciò che resta ad esso ineludibilmente estrinseco e inattingibile, e viene distrutto nell’atto dell’espressione. Come nel principio di indeterminazione di Heisenberg, il tentativo di individuare le particelle sub-atomiche, necessita di un processo che ne altera la natura.

    In “Alice nel paese delle meraviglie”, del geniale scrittore e filosofo del linguaggio, il rev. Charles Dogson, in arte Lewis Carroll, è descritta l’origine ideologica della violazione linguistica che predomina nelle poetiche avanguardistiche. Appena attraversato lo specchio, una delle prime azioni che compie Alice è leggere in un libro una poesia che comincia così :

    “Era brillostro, e i tospi agiluti
    Facean girelli nella civa;
    Tutti i paprussi erano melacri,
    Ed il trugon striniva…”

    Come si vede una sequela di parole inesistenti. Qualche capitolo più avanti, la protagonista incontra Humpty-Dumpty, un grosso uovo in bilico su un muro, che pretende di spiegare il senso di quelle parole, alle quali, naturalmente, dà una una lettura altrettanto bizzarra.
    “Quando uso una parola, le do il significato che voglio” sostiene.
    “Ma bisogna vedere se è possibile dare alle parole il senso che vogliamo” dice Alice.
    “Il problema è stabilire chi comanda” ribatte Humpty-Dumpty.

    Questa discussione sintetizza la diatriba sull’origine e il predominio dell’uomo sul linguaggio, che attraversa i secoli. La tesi anarchica, che presume le parole solo “flatus vocis”, come uno strumento a disposizione del parlante, presente fin dal nominalismo medievale, diventa la visione dissacrante e trasgressiva dell’esistenzialismo e dell’espressionismo, simbolismo, ermetismo poetico. Se “non ci sono più fatti, ma solo interpretazioni” (Nietzsche”), il linguaggio è privo di sacralità e destituito di ogni potere veritativo.

    Al contrario, la funzione semantica-epistemologica inalienabile della parola sorge nella metafisica platonica, in cui le parole-idee costituiscono la dimensione eterna e immutabile dell’Essere, viene integrata nel pensiero teologico cristiano ( “In principio era il Verbo” San Giovanni), anche se l’incarnazione, la “kenosis” divina ne esprime il rovesciamento, e culmina nell’idealismo tedesco, in cui lo spirito si identifica col pensiero, l’ontologia con la logica.

    “Il linguaggio è la casa dell’Essere”, sancisce Heidegger nella “Lettera sull’umanismo”. Forse sarebbe più legittimo dire la casa del pensiero, ma questo identificare pensiero ed essere dimostra lo schierarsi dalla parte del trascendentalismo idealista. Anche “die Sprache spricht” (la lingua parla, cioè ci parla, dominandoci) esprime lo stesso intento. Ma la concezione del filosofo della parola è più complessa, precisandosi in particolare dopo la “svolta” degli anni trenta, nell’analisi della lingua poetica, in cui solo l’Essere si rivela con maggiore chiarezza. Non viene più indicata come “Sprache” in forma oggettiva, ma “Sage“, cioè dire, gesto e dinamismo espressivo, (unterwegs zur Sprache) che trova la realizzazione nel percorso verso la propria autenticità (“Ereignis“). La parola della poesia è “ascolto” del Dire originario, in sostanza la formalizzazione fenomenologica-esistenzialista della Grazia della teologia cristiana, che l’uomo ha solo la libertà di accogliere, ma di cui non può fare uso come di uno strumento di suo dominio, ma come di un aprirsi alla luce “Lichtung” in cui la verità si ri-vela come “Dichtung“, che è il mostrare indicando, non nominando, perché appunto indica l’inafferrabile nel linguaggio.

    Nell’introduzione al “Trattato logico-filosofico Wittgenstein afferma: “Volevo indicare i confini di un’Isola, e mi sono trovato di fronte alle frontiere dell’oceano”. Studiando i limiti del potere della lingua, si scopre l’abisso ontologico (“Abgrund“) da cui scaturisce. Forse un’integrazione delle due opposte visioni descritte. Sul confine le due dimensioni si uniscono, pur rimanendo separate.

    Da dove nasce il potere del linguaggio, se non da un’origine intrinseca, trascendente? Ma come può materializzare pensiero, etica, geografia assiologica, come avviene nelle visioni dei poeti, se la sua natura subordina la scelta del soggetto? Insomma come può coincidere la libertà e la necessità immanente nel gesto espressivo?
    È la grande intuizione dell’aporia intrinseca alla relazione pensiero -linguaggio indicata da Jan Wigotskj, che ne prospetta la soluzione facendo emergere il potere del linguaggio, che non è solo un complesso di segni e codici, dalla dimensione affettiva che precede e determina la psiche. Ogni espressione logica è inevitabilmente impregnata di pathos, dell’elemento che la produce e orienta, come il vento (l’emozione) che muove le nuvole (i pensieri) da cui nascono le gocce di pioggia (le parole), cioè l’elemento esperibile, comunicabile del pensiero.

    Analogamente nel surrealismo necessità e libertà coincidono nella creazione poetica che scaturisce dall’inconscio, in cui non esiste causalità, ma la necessità di passioni ed emozioni, in cui il soggetto è libero e insubordinabile ad ogni legge eteronomia, ma vincolato alla propria autenticità e integrità. Come nell’amore e nella poesia.

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  22. caro Carlo Livia,

    interessante questa tua ricognizione della metafisica occidentale sul problema della parola e della parola poetica, condivido anche la tua provocazione rivendicando la centralità del surrealismo… in Italia non abbiamo avuto un movimento surrealista in poesia, questo è il guaio, e infatti la poesia italiana degli ultimi sessanta anni rivela tutte le sue lacune e insufficienze, la post-lirica italiana monodica assomiglia ad una litania del tutto prevedibile. Ci sono stati degli oppositori a questa stagnazione culturale come Mario Lunetta, grandi poeti come Maria Rosaria Madonna ma nel complesso si è trattato di singole personalità e per di più isolate. C’è da costruire una nuova poesia che abbia un pensiero filosofico non provinciale ed è quello che stiamo facendo con l’Ombra. Certo c’è da reinventarsi un linguaggio post-surrealista… ci stiamo provando, vedo intorno a noi un profilo piatto, piccoli compitini, piccoli poeti che tentano in tutti i modi di auto storicizzarsi.
    Quando proposi ad un editore di pubblicare una Antologia della poesia italiana dal 1945 ad oggi, compresa la copertura finanziaria dell’impresa, sai quale è stata la risposta? Un «no grazie» in quanto se l’avesse pubblicata si sarebbe procurato un grandissimo numero di nemici e l’editore voleva dormire sonni tranquilli.

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  23. Maria Rosaria Madonna, Covid19, l’Evento, l’Ontologia della guerra, la zona grigia del linguaggio poetico del tardo novecento e la Rottura della tradizione poetica: La poesia di Maria Rosaria Madonna, da Stige. Tutte le poesie (1985-2002)


    Versione n. 6

    Storia del Covid19

    «Questo è il Re, si può muovere così e così»
    «Questa è la Regina, si può muovere così e così»
    «Questo è il Fante, si può muovere così e così»
    «Questa è la Torre, si può muovere così e così»
    «Questo è il Cavallo, si può muovere così e così»
    «Questo è quanto», disse Azazello.
    Il quale guardò dalla finestra la pioggia fitta, prese l’ombrello tricolore, lo aprì
    e uscì sotto il sole cocente.

    «Ecco, io per esempio, in una poesia di Giuseppe Gallo, trovo “cespuglio di ginestre” che, per un lapsus, è diventato “cespuglio di finestre”.
    Ebbene, preferisco di gran lunga “cespuglio di finestre”, perché segna un allontanamento dal significato corrivo della prima versione: “cespuglio di ginestre”.
    Affacciarsi dal balcone e scorgere in lontananza un “cespuglio di finestre”, lo trovo in linea con il nostro imperativo di prendere le distanze dai significati»,
    disse il poeta Linguaglossa.

    Anche «il quadrato rotondo prende le distanze dal significato», replicò un interlocutore striminzito e altissimo presente in quel momento negli stagni Patriarsci.
    «Whatever it takes!», replicò il Signore con il papillon bordò.
    Detto questo, Azazello si leccò i baffi, fece dietro front.
    E scomparve.
    Un attimo dopo anche il signore altissimo fu inghiottito dal nulla.

    «Qual è lo scopo del pensiero? Trovare una via d’uscita dalla trappola»,
    disse Wittgenstein.
    Un gatto saltellò sulla tastiera della calcolatrice. Premette i tasti 25, X e 30.
    Il risultato fu 500.
    «Questo è un inganno!», replicò il filosofo «Non si può dimenticare
    ciò che non si può ricordare».
    E tornò ai suoi quaderni.

    Il cardinale Tarcisio Bortone accusò la stampa di «procurato allarme».
    La femboy thailandese indossò la mascherina bianca con la bandiera tricolore.
    Vennero chiusi alberghi, bar, ristoranti, luoghi pubblici.
    Venne istituito il contact tracing anche per le crossdresser di via Solferino.
    Furono sospese messe e funerali.
    Fu dichiarato lo «stato di emergenza».
    La gente fece man bassa di carta igienica dai supermercati.
    Dalle farmacie scomparvero mascherine e gel disinfettanti.
    Il governatore del Veneto, Zaia, disse che «i cinesi mangiano i topi vivi», quello della Lombardia, Fontana, mise una taglia sul virus.

    In via Gabriello Chiabrera il furgone dell’accalappiacani si scontrò contro una autoambulanza.
    Un gabbiano beccò la testa di un corvo morto sul cofano di una Peugeout.
    I malati di Covid19 vennero trasferiti nelle RSA.
    Vennero sospese pure le partite di calcio.
    Un politico cialtrone disse che il contagio era portato dai migranti sui barconi.
    Un critico d’arte invece appurò che trattavasi di una lieve influenza.
    I medici andavano alla ricerca del paziente Zero.
    Vennero proibiti gli assembramenti e le manifestazioni pubbliche, alcuni legulei sporsero denuncia contro il Presidente del Consiglio.
    La Chiesa, per voce della Congrega dei Vescovi, espresse disappunto per la chiusura dei luoghi di culto.
    Il mercato del pesce venne bannato e disparvero anche le prostitute dalle strade.
    Un cardinale accusò il divorzio e l’aborto, qualche prete dichiarò venuta la punizione divina per le pratiche contro natura…
    Ci fu persino una protesta di squillo e crossdresser davanti a palazzo Chigi.

    Da una porta di Borgo Pio uscì il cardinale Tarcisio Bortone a braccetto con il gatto Azazello.
    Si diressero agli stagni Patriarsci dove ordinarono un succo di albicocca.
    Un bicchiere si riempì di liquido giallastro con della schiuma sopra.

    Il Covid19 saltellò qua e là, poi si diresse verso il succo di albicocca e venne inghiottito dal gargarozzo del cardinale il quale qualche giorno dopo venne portato in sala di rianimazione in stato confusionale.

    Un corvo prese a beccare nel «cespuglio di ginestre» citato dal poeta Gallo presso la sede del Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani e rimase stecchito.
    Il poeta di Milano scrisse su un quotidiano che la «società letteraria» era defunta.
    Un altro poeta di Genova scrisse che il «bello» era morto.

    Il giorno 23 aprile la società “Word and Flat” s.r.l. con sede fiscale in Lussemburgo incassò 25 milioni di euro come anticipo per delle mascherine chirurgiche, mai arrivate, provenienti dalla Cina.

    Un branco di gabbiani affamati si levò in volo verso il Campidoglio.
    I cassonetti delle immondizie tornarono vuoti.
    Come un tempo.

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  24. Pingback: L'Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internazionale

  25. Simone Carunchio

    La Madonna non tradisce mai!! Una delle più belle pagine dell’Ombra da quando seguo la rivista, davvero! Gli spunti sono davvero tanti e interessantissimi. In particolare la serietà del gioco.

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