Archivi del giorno: 12 Maggio 2020

La bellissima Lettera a Silvia Romano della somala Maryan Ismail: ”mi sarei convertita esattamente come lei, in un nano secondo ma la sua non può essere stata una scelta di libertà, in quella situazione. silvia ha conosciuto l’Islam pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa, che a Mogadiscio provoca 600 morti innocenti, che violenta le nostre donne e bambine, che recluta soldati ragazzini. non è Islam, è nazi fascismo, adorazione del male. Vi dico io cos’è l’Islam…”

Silvia Romano all'aeroporto di Ciampino

Silvia Romano all’arrivo all’aeroporto di Ciampino, Roma con i suoi familiari

Maryan Ismail

Lettera a Silvia Romano

Ho scelto il silenzio per 24 ore prima di scrivere questo post.
Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L’aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa.
Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosidetto volto “perbene” . Gente capace di trattare, investire, fare lobbing, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.
Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi.
Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa.
Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo fb. Sapevo a cosa stava andando incontro.
Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura , l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare?
Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche , yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda.
Comprendo tutto di Silvia.
Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere.
E in un nano secondo.
Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti.
Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito ( che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura.
La sua non è una scelta di LIBERTA’, non può esserlo stata in quella situazione.
Scegliere una fede è un percorso così intimo e bello, con una sua sacralità intangibile.
maryan-ismail a Silvia RomanoE poi quale Islam ha conosciuto Silvia ?
Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti?
No non è Islam questa cosa.
E’ NAZI FASCISMO, adorazione del MALE.
E’ puro abominio.
E’ bestemmia verso Allah e tutte le vittime.
I simboli, sopratutto quelle sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta.
Quando e se sarà possibile , se la giovane Silvia vorrà , mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti.
Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego,macawis, kooffi.
I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall’italiano).
Ho l’armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia.
Adoriamo i colori della terra e del cielo.
Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci , di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni.
Abbiamo anche parti terribili come l’infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale) , ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano.
Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno.
Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo..
Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato.
Della fierezza e gentilezza del popolo somalo.
E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro.
In Italia nessun politico al tempo del terrorismo avrebbe agito in tal modo nei confronti degli ostaggi liberati dalle Br o da altre sigle del terrore.
Ti abbraccio fortissimo cara Silvia, il mio cuore e la mia cultura sono a tua disposizione..
Soo dhowaw, gadadheyda macaan.
🌹❤️🇸🇴 🇮🇹

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Foto di Kim Jong un, Teorema, poesia inedita di Carlo Livia, Mauro Pierno, Commento di Giorgio Linguaglossa

Dittatore

[Foto di Kim Jong un. Direi una foto-pop. La foto pop di una pornostar. La tranquilla banalità del porno è ben visibile in questa fotografia, addirittura ingenua, direi igienizzata, scattata e studiata con meticolosa precisione dal suo staff pubblicitario per dare ai sudditi coreani una immagine normale del dittatore impegnato a sbrogliare gli affari di stato,  con il gatto nero che osserva qualcosa fuori quadro, la carta geografica con isole e oceano azzurro, la grande tavola con scritture e cifre in geroglifici coreani, i telefoni bianchi in fila, il retro di un porta fotografie, un innocuo monitor, un tavolo in cristallo, carte e scartoffie, una biro e, infine, il faccione del dittatore un po’ obeso chino nell’atto della scrittura con la pappagorgia pendula e il taglio dei capelli come va di moda oggi in tutto il mondo presso i giovani… Non è possibile nessun commento a questa fotografia, è essa che commenta se stessa, il commentatore non è più necessario perché non c’è niente da commentare, l’evidenza è auto evidente, si mostra perché è. Al pari del nostro aspirante dittatorello che chiede «pieni poteri» a torso nudo da una spiaggia del Papeete beach. L’istante esce dalla storia per abitare la storialità. L’istante diventa eternità, l’eternità del banale normale. «A quest’ora l’Eternità è quasi deserta», scrive Carlo Livia in una sua poesia. (g.l.)]

Carlo Livia

TEOREMA

(Per coloro che si incontrano nei sogni)

A quest’ora l’Eternità è quasi deserta.

La notte liturgica, piangendo, si offre al branco.
Passa una pioggia nuda, senza pensieri.
Due cieli isterici, con i capelli del pazzo.
Un morto solitario, stralunato, insegue la sposa per le scale.
Il giardino proibito, fuggito dai teatri, cerca nelle cisterne la rugiada delle fanciulle.

(Voce bianca, tremante, inginocchiata davanti al Cosmo):

Lo scopo dello schianto è addentrarsi nella Dea.
Dovunque si sente l’animale triste, che vuole l’opposto. Dice che hanno nascosto l’ala spezzata dell’Universo nel congegno psichico, sorvegliato dalle macchine.
In sogno ricevo la Ferita. E uccido le belle penombre cinesi.
È caduta la scatola nera che contiene la morte. L’ho voluto io. Sono io il segreto, il segno sbagliato, che sfugge.

(Forma azzurra, disanimata dal lungo esilio):

La Signora delle vallate convoca il delirio nel clavicembalo.
Nell’androne, angosce navigabili. Pianto di serpi, dal fondo dell’oltredio.
La settima luna, sul miracolo bagnato.
Clessidre cieche, furiose, piene di morti.
Il risvolto del sogno è il prezzo della Croce.
Per sfuggire al Santo, molti bevono il nero che non c’è.
La Sposa torna nell’alabastro, velata dal profumo di danze.
Gioca all’addio, nel vagone spento.

La macchina sognante spaventa le consustanziazioni.
Padroni cadono come pietre, quasi blu.
L’occhio dell’amplesso cresce, suscitando tendaggi e girasoli monumentali.
L’interno dell’eremita contagia il Limbo. Ragazze postume si addentrano nel sacrario, nude come primavere. L’addio del cielo si copre di spine, per accarezzare quelle cosce.
La nostalgia sciolta nell’acqua benedetta dice – Amore, vieni con la corona di spine.
La caduta del guscio spalanca membra sature d’abisso. Costringe a gettarsi nelle fiamme.

Se ti penso il pascolo pullula di numeri e astronavi.
Se ti parlo la brezza abbandona le statue
e lascia morire celebri corsieri.

(Riflessione nell’acqua sottile):

The mind enclosed in the soft machine reclines at the fake dusk.
Shattered sky, why don’t you play anymore?

Il mandorlo presagisce l’estasi dei gendarmi.
Paradiso confuso in oscuri colombai.

Morirò nel filone rotto della tua anima.
Bel marmo silenzioso di garofani.

Invece di carezze
il vento porta frange di tristezza
tagliate da una scure.

Un jardinier cruel surgit dans le silence de la guitare
et il fond dans le vaisseaux aux cheveux laches.

Gli occhi dei risorti corrono sulle grondaie
perdendo pomeriggi scandalosi.

Dame di velluto ondeggiano nei salici
appena bagnate dal mistero.

L’odore di serpenti devoti staziona davanti all’incesto.

Les amants entrent dans l’image qui tombe
sur les escaliers tourmentes par les prophetes.

Donne fulve e inesplorabili tramontano a distesa
in stelle di mare ammobiliate di verdi silenzi.

Perché sogni per sempre dietro grandi ventagli
impazziti nella strana quiete degli angeli.

[Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. Con Progetto Cultura, nel 2020 è uscita la raccolta, La prigione celeste.]

La poesia di Carlo Livia si nutre quasi esclusivamente di Figurazioni (la Sposa, la Fanciulla, l’Eternità, i Padroni, il Sogno, il Giardiniere, l’Angelo, gli angeli, la Signora, la Ferita, il Paradiso, la Dea, l’Universo, la Clessidra, la Croce, il dado, il pazzo, il morto, le ragazze, i silenzi etc.). È ovvio che qui le figurazioni sono delle vere e proprie personificazioni. L’astratto diviene concreto e il concreto, astratto. C’è scambio di attanti. Shifter. Deviazioni, sostituzioni, salti, peritropè… Tutti espedienti retorici che attingono alla tradizione letteraria, non solo poetica, che, però, nella scrittura di Livia diventano elementi di una poesia post-metafisica e, se mi è concesso di dire, post-pop, una sorta di allegria di naufragi presenti e prossimi venturi. C’è tutto un mix di ingredienti della Controriforma e chiesastici fino a un repertorio di derivazione surrealistica reinventato di sana pianta. Nei suoi momenti migliori Livia è un autore di indubbia caratura, unico nel panorama della poesia di oggi in Italia. Quando rinuncia ai toni tenui e preraffaelliti attinge esiti, a mio avviso, ancora più alti. E anche quando sopprime quasi integralmente gli aggettivi, come in questa poesia.
Livia è un poeta che proviene da una sua personalissima metafisica, e da lì attinge il suo repertorio e le sue figurazioni.

Mauro Pierno

La pagina elettronica ha le sinapsi allungate

una silhouette a basso costo,
le code dei cavalli arrugginite.
La scopa, Hansel,
ha in dotazione un aspiratore elettronico
ed un pettine per crani calvi
e sdentati.

*

Quella la pioggia
ha un corpo pieno di lentiggini
si dispera nei punti degli incontri
lascia asole piccolissime.
Si contraddistingue dai pois del giorno
sempre più rotondi.
Dopo il temporale la censura del tempo
sfiora nelle strade i cammini.

[Nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Scrive poesia da diversi anni, autore anche di testi teatrali, tra i quali, Tutti allo stesso tempo (1990), Eppur si muovono (1991), Pollice calvo (2014) e altri dei quali ne ha curato anche la regia. In poesia è presente nell’antologia – Il sole nella città – La Vallisa (2006), fra le raccolte più significative, non tutte edite, possiamo ricordare Intermezzo verde (1984), Siffatte & soddisfatte (1986), Cronografie (1996), Eduardiane (2012), Gravi di percezione (2014). È presente in rete su Poetarum Silva, Critica Impura, Pi Greco Aperiodico di conversazioni Poetiche. Le sue ultime pubblicazioni sono Ramon (2017) e, nel 2018, in collaborazione con Francesco Lorusso sulla rivista letteraria incroci è uscita la silloge, 37 Pedisseque istruzioni. La sua scrittura è presente anche sulle pagine innovative del gruppo NOE di Roma e parte dei suoi versi si possono leggere sul Blog “L’ombra delle parole”. Da anni promuove in rete il blog “ridondanze”. È in corso di stampa, con Progetto Cultura, Compostaggi.]

Giorgio Linguaglossa

Questa ultima poesia postata da Mauro Pierno mi convince in pieno. Più che di poesia completa, parlerei di un frammento di poesia, che forse verrà in seguito o forse non verrà affatto e rimarrà allo stato di frammento. Mauro riesce bene a mio avviso quando si limita a stilare dei frammenti, senza capo né coda, disorganizzati e disarticolati. Una cosa però la possiamo dire: che da questa poesia quello che è scomparso è il famigerato Soggetto. Non ce n’è più traccia.

Il secolo che da poco si è concluso non ci sta alle spalle, ma ci viene incontro, nel nuovo millennio che si annuncia, con l’onda d’urto delle questioni che sono giunte a conflagrazione. Il Novecento non è solo il nome di un periodo storico segnato da eventi dirompenti: i totalitarismi, Auschwitz, la bomba atomica, la cortina di ferro, il crollo del muro di Berlino, la globalizzazione, la crisi del Politico, la Sars, il Covid19, l’impoverimento della classe media internazionale, i populismi, le sfide della tecnica, il post-umano, la devastazione ambientale, una costellazione cui, con grande preveggenza, Nietzsche diede il nome di nichilismo, «il più inquietante degli ospiti».

Il Novecento è il nodo inestricabile di tutti questi problemi, e di quelli ad essi strettamente intrecciati, in primo luogo la crisi irreversibile del Soggetto moderno,che oggi con urgenza chiedono di essere pensati, tornando a scandagliare quella che indubbiamente è stata una straordinaria stagione
del pensiero, di cui non possiamo non riconoscerci gli eredi e la cui potenza di interrogazione è ancora ben lungi dall’essersi affievolita.

Il Novecento non allude alla mera delimitazione di un arco temporale, aperte e ineludibili rimangono le sue domande, alle quali la poesia non può sottrarsi.

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