Marina Petrillo
Multiverso
Se dovesse lasciare questo piano di esistenza
vorrei vederla piccola, rannicchiata sul pavimento
intonare un canto,Angelus della dipartita
benevole al gesto dell’insidioso andare,
Paradigma brama bellezza in archetipo
se muove l’insoluta perfezione ad attimo.
Lì perviene il presente in dubbio
opalescente al nastro annerito del pianeta.
Hölderlin canta l’Essere, la sua pace d’oro.
Dimenticanza, perdono. Nube che viaggia che viaggia innanzi alla serena luna,
Smemore ogni tratteggio nell’indiviso multi verso
o diafanità tralucente la parola.
Alla preghiera antica, torna il coro
degli esseri senzienti declinati ad Uno.
Lieve tocco in stilla apparsa in sogno
primo gesto non contemplato ad inizio
per cui il Big Bang è tonfo della sua fine.
Giorgio Linguaglossa
cara Ewa Tagher,
giunti, come parrebbe che stiamo, al punto culminante della Crisi, abbiamo il dovere di percorrere con lo sguardo la crisi per abbracciare, con un colpo d’occhio, con l’occhio della crisi, l’arte che è stata fatta in questi ultime decadi. E derubricare quel modo di fare poiesis. E la poesia? Che cosa si penserà di noi tra cento, duecento anni? Che cosa si citerà di significativo della crisi di questi anni?
Vorrei attirare l’attenzione dei lettori su questo punto: sulle conseguenze nel discorso poetico della assunzione di questa pratica e di questa petitio principiis: una pratica della differenza e della contraddizione.
La nuova fenomenologia poetica vuole liberare la differenza dalla differenza per dare luogo a un discorso poetico che preveda e consenta la differenza, la contraddizione, la dialettica senza negazione, la dialettica negativa. Un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica, come è stato fatto finora, che riesca a liberarsi dall’assoggettamento alle categorie, che vogliono costringere lo sguardo che osserva dall’alto in basso secondo l’ideologema di un io plenipotenziario e panottico che crede ingenuamente di tutto abbracciare e tutto governare, che squadra l’oggetto e lo descrive, o crede di descriverlo.
La ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti. La poesia della nuova fenomenologia del poetico ha questa spiccata consapevolezza, che quel logos, quella ragione è inappropriata a rappresentare ciò che sfugge alla rappresentazione, l’origine non rappresentabile della rappresentazione.
Ewa Tagher
Gentilissimo Linguaglossa,
Lei scrive: ”un discorso poetico che dica sì alla differenza, alla contraddizione; un discorso poetico del molteplice, della molteplicità che non si limiti alla omogeneizzazione fonologica e stilistica” e ancora “la ragione è in se stessa l’atto che differenzia, che mette in opera quell’Unter-scheidung (differenza), figlia dell’Ent-scheidung (decisione), che realizza la Scheidung, il taglio dei significati e dei significanti, la moltiplicazione dei significanti”. A me sa cosa viene in mente? Una visione: il trittico “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch, che non a caso è un polittico, ancora ammirato, seppur vecchio di oltre 530 anni. E perché ancora molti ne rimangono estasiati? Proprio perchèélì avviene quanto Lei auspica per la poesia contemporanea: sulla tela si agitano “moltiplicazioni di significati”, rovesciamenti, significanti dai doppi, tripli significati. Lasciando da parte le intenzioni di Bosch (purtuttavia poco chiare anche agli studiosi), la sua opera affascina i contemporanei proprio perché è di difficile interpretazione e perciò richiede uno sforzo, occorre richiamare alla mente tutte le possibili metafore per comprendere i gesti delle piccole figure nude, prigioniere in gusci d’uova. Ecco, io mi auguro che la Nuova Ontologia Estetica, il Cambiamento di Paradigma, così come Lei auspica, diventi il Nuovo Giardino delle Delizie, un lavoro al quale fra 100, 200 anni altri possano guardare incuriositi, stimolati, invaghiti.
Marina Petrillo
Sento che giunge, non so cosa sia.
È una lingua di fuoco azzurra, creante, a scendere e a soffiare la vita.
Abita il cielo dell’onnipotente pensiero tralasciando ogni altra forma.
Non giace immobile il mare e torna in risacca
dopo aver compiuto traccia del suo esodo.
In ipotesi estatica, trae luce il Verbo, a solstizio armonico,
come se sottili lettere ambissero nuovo lemma.
Ad aereo suono risponde la compagine alfabetica, assorta
in emisferi dello spirito limitrofi alla linea iniziale.
Contemplare l’ombra a sua luce è espediente noto.
Non lasciare adito a supponenti orchestrazioni filosofiche
ma allo spazio derivante da conoscenze eterne,
ne è la traduzione in diagramma plurimo.
Si dissolve il pensiero, algoritmo dimostrabile in sequenza
tendente al non finito.
Essere sulla soglia non contempla l’azione dell’entrare
se il passo non si attiva e le sinapsi non determinano la funzione di controllo. Procede il ripetersi di azioni conclamate ad avvio della coscienza,
non suffragate da eventi coerenti all’agire stesso.
Riflessioni animano spazi verbali ma non vi sostano se, combacianti a specchio, negano il respiro in asfissia della coscienza
Resta immobile il respiro e in sua apnea,
giunge un suono tramutato in parola.
Indaga il suo doppio e lì permane a scrutare i cieli possibili.
I più imponderabili.
Contraddizione in termini mai sazia di indizi lessicali.
L’alfabeto muto dell’appartenenza
la semplicità della rete in fibra, fare centro al primo colpo!
La messa cantata annullata,
solo due visi pallidi in pompa magna.
A quell’ora predisposta fuori dell’uscita.
Lo stesso prezzo lo stesso cartellino.
La menzogna della calze lunghe,
Raggiodiluna allenta le briglie.
Quelle scommesse così rarefatte,
non indicate vi prego le praterie.
E le parole quante volte appese.
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo stoppino.
Giuseppe Gallo
Giorgio Linguaglossa chiede un parere sulla trascrizione in terzine della poesia di Marina Petrillo. Il suo tentativo ha il pregio di rendere più chiari i contenuti, le immagini e i significati che sottostanno al testo. Linguaglossa introduce un principio di ordinamento linguistico nel cuore del vaticinio e della profezia. Un risultato consimile si sarebbe ottenuto anche attraverso una trascrizione in distici e l’isolamento di qualche verso. Così, però, la scrittura della Petrillo perde quell’aura di sapienza sacerdotale che la percorre e attraversa tutta. La scrittura della poetessa, fascinosa e misticheggiante, è l’ avvenente trucco di una vestale del Verbo, sotto il segno
di una “contraddizione in termini”, dove termini significano “respiri in apnea” che producono parole… e “indizi lessicali” per delineare gli argini di un territorio imperscrutabile.
caro Giuseppe Gallo,
la poesia di Marina Petrillo è a mio avviso un esempio probante di poesia dell’età tecnologica in quanto adotta le strategie della retorica al meglio e in profondità, proprio quella retorica che ha contraddistinto il novecento, proprio quella retorica che ha accompagnato il feretro della civiltà dell’umanesimo. Proprio in questi giorni lo spettacolo dei fascismi di ritorno (è inutile girarci attorno, qui bisogna chiamare le cose con il loro nome), fenomeno eclatante e inquietante in Italia, in Europa e nel mondo sembra convalidare la nostra ipotesi che siamo un paese alla deriva e all’avanguardia del fascismo in Europa.
La fine dell’umanesimo significa, per chi ancora non l’avesse capito, la fine di quel modo di fare poiesis come l’abbiamo conosciuta nel novecento e in queste ultime due decadi. Quella poiesis è risultata Kitsch, ancella del conformismo. Marina Petrillo, e questa è la sua prerogativa, reimpiega la retorica della antica poiesis per sfornare un nuovo modello di poesia. In fin dei conti, la retorica è nient’altro che tecnica, rientra nella tecnica e non ne è mai uscita.
Per pensare adeguatamente la tecnica è necessario aprire gli occhi sul fatto della natura e della tecnicità dell’uomo, della immediata mediatezza dell’esistenza umana: l’uomo è per natura un essere artificiale, la tecnica non solo non è la negazione dell’umanità, ma è anzi l’espressione della sua più profonda essenza,l’esplicazione dei fondamenti della sua costituzione materiale.
Heidegger ha notoriamente interpretato la nostra epoca come epoca del Gestell (apparato impersonale/dispositivo/impianto) che si impone portando aconcepire il mondo intero non più soltanto come Gegenstand aperto dinnanzi al Subjekt ma addirittura come Bestand pronto all’impiego (in cui persino il Subjekt diventa impiegato, nel migliore dei casi, come impiegante).
Il pensatore tedesco ha fatto della tecnica, ancora più radicalmente, non tanto solo uno dei più importanti eventi del nostro tempo, quanto soprattutto l’Ereignis a partire dal quale nel nostro tempo le cose possono e-venire e av-venire, a partire dal quale nel nostro tempo ogni accadimento e ogni atto diventano possibili e pensabili. Saremmo di fronte al La Tecnica maiuscola per eccellenza, al modo in cui il Seyn si dà in questa epoca, al modo il cui l’Essere per noi si “epocalizza” in quanto modo dell’aletheuein , al modo in cui la temporalità per noi si temporalizza.
Gentili Giuseppe Gallo e Giorgio Linguaglossa,
nel silenzio che alcuni scritti abitano, si manifesta un mondo di pensiero e riflessione poetica in sé compiuto.
L’evento si muove aereo, quasi in assenza di forza di gravità.
Le parole, geometria nello spazio, ingenerano una progressione data non solo dalla successione logica ma dalla profondità.
Si integrano i segni convenzionali in libere associazioni, come se trasformassero in reazioni chimiche il vuoto indugiare.
L’aura di sacro esprime e risolve la natura dell’accadimento, diviene coincidente al processo del pensiero stesso. Catalizzatori di memorie, i processi associativi, come microchips della coscienza in sua espansione.
In tale prospettiva, si è in un prisma che induce nuovo riverbero, senza estenuazione.
Come per l’opera pittorica citata da Ewa Tagher, “Il giardino delle delizie” di Bosch, in cui l’esoterico prende forma attraverso una messe infinita di indizi in un processo di amplificazione visiva.
Una moltiplicazione dei linguaggi, campo di ricerca al quale attingere. Frattali energetici dove sublimare contenuti.
In un approfondimento di pochi giorni fa, caro Giorgio, hai sottolineato l’importanza del significato di ” evento” che sento di condividere.
Con l’Ereignis (Evento) si interrompe quel gioco linguistico per cui qualcosa come un significante sta, in quanto segno, per qualcos’altro, cioè per un altro significante, poiché non c’è nulla, al di fuori dell’Ereignis. È l’Ereignis che precede e fonda il significante e il significato, e quindi il linguaggio. Ora, conformemente a questa premessa, costruire una poesia dal punto di vista dell’Evento significa sottrarsi al vincolo di una poesia basata sul significante e sul significato e sottrarsi al punto di vista che questo necessariamente comporta.
Ringrazio Giuseppe Gallo, sposando la sua tesi, poiché lo scritto, per il potenziale che evoca, necessita della funzione fondamentale che lo anima, non ultimo l’interrogativo iniziale tratto dal Libro di Giobbe: “Ma la sapienza da dove si trae?”.
L’Evento (l’Ereignis) si mostra nella sua essenza non in modo chiaro ed evidente (il modo del conoscere della ratio), ma al modo dell’accenno, dell’invio, dell’improvviso presentarsi e/o assentarsi. L’assentarsi dell’evento dissimula e rivela il suo passar via, il suo prendere delle strade secondarie e laterali perché quelle principali, i boulevards, sono troppo affollati, e sopraggiunge quando siamo impegnati in faccende domestiche o siamo invischiati nella dimenticanza, con ricordi dimenticati, quando siamo distratti dalle cose, non quando siamo in attesa della ultimità, ma quando siamo soggiogati dalla falsa coscienza del tran tran quotidiano.
È vero che l’Evento si manifesta a partire da una iniziativa dell’uomo, ma l’uomo non può obbligarlo a manifestarsi: l’esempio biblico della torre di Babele, della conquista del cielo da parte dell’uomo è emblematica, ma è anche vero che l’Evento non ha bisogno di consultare le intenzioni degli uomini per presentarsi o, comunque, per assentarsi.
Ecco, io per esempio, in una poesia mi sembra di Giuseppe Gallo, trovo quel «cespuglio di ginestre» che, per un lapsus, è diventato un «cespuglio di finestre». Ebbene, io preferisco di gran lunga «cespuglio di finestre», perché segna un allontanamento dal significato usuale e un po’ scontato della prima versione «cespuglio di ginestre». Affacciarsi dal balcone e scorgere in lontananza un «cespuglio di finestre», lo trovo in linea con il nostro imperativo di prendere le distanze dai significati ossificati e calcificati.
Che cos’è l’Evento? Penso che è anche questo: lo scollarsi definitivo di antichi significati dalle parole consunte e il sorgere di nuovi significati che non avevamo previsto.
…diciamo meglio è dal “cespuglio di ginestre”
concetto dell’esattezza materiale – vera esistenza fisica ( la materializzazione del linguaggio) obsoleto
o se si vuole anche come afferma Linguaglossa “ossificato e calcificato”
che si possono materializzare le miriadi di immagini ,
inesattamente poetiche -lapsus- che vivificano il senso della parola.
Aggiungo anche che la poesia nasce sempre da un angolo nascosto di osservazione.
Dalla materialità di uno spazio isolato
da un nascondiglio che ci fa osservatori privilegiati.
All’Ombra delle parole, infatti.
ed io lo nacqui!
grazie OMBRA.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/05/08/al-punto-piu-alto-della-crisi-e-la-poesia-in-grado-di-rispondere-con-una-proposta-di-alto-profilo-la-poesia-dal-punto-di-vista-dellereignis-commenti-e-poesie-di-ewa-tagher-marina-petrillo-giuse/comment-page-1/#comment-64100
Storia del Covid19
«Ecco, io per esempio, in quella poesia di Giuseppe Gallo, trovo quel “cespuglio di ginestre” che, per un lapsus, è diventato un “cespuglio di finestre”. Ebbene, io preferisco di gran lunga “cespuglio di finestre”, perché segna un allontanamento dal significato usuale e un po’ scontato della prima versione «cespuglio di ginestre».
Affacciarsi dal balcone e scorgere in lontananza un “cespuglio di finestre”, lo trovo in linea con il nostro imperativo di prendere le distanze dai significati.
Whatever it takes!»,
Detto questo Azazello si leccò i baffi, fece dietro front, e scomparve.
Il cardinale Tarcisio Bortone accusò la stampa di «procurato allarme».
Vennero chiusi alberghi, bar, ristoranti, luoghi pubblici.
Furono sospese messe e funerali. Fu dichiarato lo «stato di emergenza», la gente fece man bassa di carta igienica dai supermercati, dalle farmacie scomparvero mascherine e gel disinfettanti. Il governatore del Veneto, Zaia disse che «i cinesi mangiano topi vivi», e quello della Lombardia mise una taglia sul virus. Vennero sospese pure le partite di calcio. I malati vennero trasferiti nelle RSA. Un politico cialtrone disse che il contagio era portato dai migranti sui barconi, un critico d’arte invece appurò che trattavasi di una lieve influenza. I medici andavano alla ricerca del paziente Zero. Vennero proibiti gli assembramenti e le manifestazioni pubbliche e alcuni legulei sporsero denuncia contro il Presidente del Consiglio. La Chiesa, per voce della Congrega dei vescovi espresse disappunto per la chiusura dei luoghi di culto. Il mercato del pesce venne bannato e disparvero anche le prostitute dalle strade. Un cardinale accusò il divorzio e l’aborto, qualche prete dichiarò venuta la punizione divina per le pratiche contro natura…
Da una porta uscì il cardinale Tarcisio Bortone a braccetto con il gatto Azazello.
Si diressero verso gli stagni Patriarsci, ordinarono un succo di albicocca.
Un bicchiere si riempì di liquido giallastro con della schiuma sopra.
Il Covid19 saltellò qua e là, poi si diresse verso il succo di albicocca e venne inghiottito dal gargarozzo del cardinale il quale qualche giorno dopo venne portato in sala di rianimazione in stato confusionale.
Un corvo prese a beccare nel cespuglio di ginestre accanto alla abitazione del Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani e rimase stecchito.
Il poeta di Milano scrisse sulla Stampa che la «società letteraria» era defunta.
Il giorno 23 aprile la società “Word and Flat” con sede fiscale in Lussemburgo incassò 25 milioni di euro come anticipo per delle mascherine, mai arrivate, provenienti dalla Cina.
Un branco di gabbiani affamati si levò in volo verso il Campidoglio.
I cassonetti delle immondizie tornarono vuoti.
Come un tempo.
Carissimi Linguaglossa e Pierno, molto spesso, nella scrittura a stampa o nella ricopiatura di altri testi, si incorre in refusi o “lezioni” di vario genere. Lo sanno molto bene gli studiosi di incunaboli di fronte alla fatica di dover scegliere una linea interpretativa di alcuni lemmi. Quante “glosse si sono appuntate ai margini delle pergamene da parte dei miniaturisti, o da specialisti moderni, per suggerire la corretta trascrizione di un termine, ecc. Leggo, per es., nelle “Note alle singole poesie ” di Lavorare stanca, Edizione Einaudi, 1973, p. 147, che “Alla quinta lassa, 6° verso, una faccia recisa ( in corsivo), era nelle copie manoscritte e dattiloscritte, “una faccia decisa”. Cominciamo a trovare “recisa” nell’edizione Solaria. Per una correzione d’Autore che non ci è arrivata o per un errore di stampa?” Io propendo per un errore tipografico. Ma Pavese non corresse mai il refuso ritenendolo molto più efficace e moderno dell'”originale” -decisa-. Quante volte la correzione automatica dei moderni sistemi di scrittura ci hanno indotto a seguire strade e suggerimenti non richiesti. Nel nostro caso il termine “finestre” che sostituisce il termine “ginestre”, originato da Mauro Pierno, è dovuto al fatto che sulla tastiera la F e la G sono proprio contigue. Nel momento in cui Mauro si è accorto dl refuso per correggerlo io sono intervento affermando che anche “continuando a dipingere un cespuglio di finestre” trovava il mio consenso. Questo perché
“un cespuglio di finestre” come suggerisce Linguaglossa, sconvolge l’ordinaria logica quotidiana e mette in risalto un quid “fantastico” molto più vivace e nello stesso tempo molto più contemporaneo. Vorrei aggiungere che spesso interviene anche l’inconscio. Rime o concetti, che nel tempo diurno apparivano di difficile soluzione, trovano emersione nella vita notturna. Non mi resta, allora, che ringraziare Pierno per il suo “infortunio” poetico e Linguaglossa per aver ampliato lo spettro semantico delle “finestre”.
Giuseppe Gallo
https://www.c41magazine.com/talking-to-the-universe
Incredibile come questo esempio illustri a meraviglia la potenza della parole e dunque dell’uso che se ne può fare in poesia. Un cambio di consonante è in grado di azzerare una bella frase che però nulla comunica a Giorgio Linguaglossa come anche al sottoscritto, in una che crea un nuovo mondo. Da dove nasce questa energia? Cos’è che si sta manifestando attraverso un lapsus? Penso al combinato delle parole di una frase come a una pianta che nasce e si consuma con l’uso per poi generare qualcos’altro. Ma è semplicemente un lampo in cui si manifesta una nuova combinazione di immagini? Se torniamo indietro vediamo il ruolo dello stesso caso nelle mutazioni genetiche e fa si che nell’arco di miliardi di anni si passi da una specie all’altra in un gioco di adattamento continuo, speculare a quello della creazione.
A VIENNA
Vennero a Vienna. Ciascuno dei congressisti
aveva l’ impact factor dell’angelo sulla porta.
Le scaramucce d’inizio secolo proseguirono
fino a cambiare l’ unità di Tempo.
Non si poteva distinguere il rumore del mare dall’esercito di Napoleone
Se non per le metafore tramandate di padre in figlio:
Ma allora ci si poteva fidare anche delle altre!
I fumetti di Stanlio e Ollio e quelli di Totò e Peppino
le quattro forze fondamentali.
Il Logos ce l’aveva fatta a creare relazioni stabili
Grazie Mercati per aver risparmiato le metafore!
I caduti giravano nei numeri e dunque s’indebitavano con l’ aritmetica
Il cartoon di Caravaggio a riempire le casse di uva e mele.
Girava una marcia di Schubert ma prevalse Woodstock.
Piccole api ronzarono a meraviglia
contro i panzer del sistema internazionale delle misure.
(Francesco Paolo Intini)
Simone Regazzoni anima da anni il dibattito italiano sulla contaminazione tra la filosofia e la cultura di massa sperimentando in primapersona nuove sfide contro l’accademismo. Dai saggi popfilosofici come La filosofia di Dr. House e Pornosofia, al suo primo romanzo, Abyss, un action-thriller sulle dottrine non scritte di Platone, fino al soggetto per una serie tv sul Segreto di Michelangelo.
L’intervista che segue è la sintesi di numerosi incontri pubblici avvenuti in occasione degli appuntamenti di Popsophia, festival del contemporaneo.
https://www.academia.edu/9792795/Popsophia._Teoria_e_pratica_di_un_nuovo_genere_filosofico_XVI_2014_III_?email_work_card=title
La parola “popsophia” è entrata di diritto nel dibattito contemporaneo. Tuttavia il suo significato non è univoco e condiviso, è impigliato in pregiudizi e fraintendimenti. È necessario un passo indietro teorico? Che cos’è quest’ossimoro che mette insieme due termini opposti?
Regazzoni:
Nella domanda c’è già una risposta: la popsophia è un ossimoro. In greco, oxymoron vuol dire “acuta follia”. C’è, infatti, dell’acuta follia a mettere insieme termini in apparenza così distanti e inconciliabili come il pop, cioè il popolare, e la filosofia, la disciplina in apparenza elitaria, almeno se la si pensa in termini di disciplina accademica riservata ai professionisti del pensiero. Ma se si esce da questa visione angusta e mortifera, che concepisce la filosofia come un discorso fatto da cerchie ristrette di filosofi per cerchie ristrette di altri filosofi che non sempre si capiscono tra di loro, ecco che allora l’ossimoro non sarà più tale.La filosofia fin dall’origine si è posta il problema del “popolare”:pensiamo all’uso platonico del genere letterario diffuso dai “discorsi socratici” o ancor di più alla diatriba cinico-stoica per cui è stata evocata la formula di “filosofia popolare”. Per non parlare di ciò che accade durante l’illuminismo. Certo è che però non si può risolvere la questione della pop filosofia dicendo che esiste da sempre e che quindi non c’è nulla di nuovo, che la pop filosofia è filosofia nel senso originario del termine. Può funzionare strategicamente, in un primo momento, come strategia di legittimazione .Ma nulla di più. La pop filosofia nasce nello spazio postmoderno e risponde a un cambiamento in atto nei saperi, nella cultura, nei media. Il divenire pop della filosofia è una risposta a questa trasformazione in atto.
Perché la filosofia deve rispondere a questa trasformazione? Qualè il cambiamento avvenuto nel nostro tempo a cui la pop filosofia deve rispondere?
Regazzoni:
Nel secondo dopoguerra lo spazio della cultura va incontro a una trasformazione radicale, a un cambio di paradigma: la distinzione,fino a quel momento invalsa, tra una supposta cultura alta fatta di oggetti nobili, e una cultura bassa, volgare e popolare non sussiste più. Inizia quella forma di democratizzazione della cultura esorcizzata dai filosofi chiamata cultura di massa.
La filosofia deve rispondere a questa trasformazione radicale,evitando ogni possibile esorcismo. Inutile continuare a vivere nel fantasma di una “cultura alta” come unico spazio in cui muovere l’interrogazione,stigmatizzando tutto il resto come una degenerazione che rischia di “rendere stupidi” i giovani. C’è una generazione che è cresciuta con la cultura di massa, io stesso sono figlio di questa cultura: non è un caso che la pop filosofia trovi la sua prima declinazione in una nuova generazione filosofica che è nata a contatto non soltanto con i classici, ma anche con la cultura di massa. La pop filosofia, quindi, risponde alle trasformazioni in atto nella cultura del nostro tempo, interroga le nuove questioni che circolano nello spazio pubblico e le sottopone alla prova del pensiero. Emergono le prime obiezioni: se la filosofia comincia a occuparsi di serie tv, di Harry Potter o, peggio ancora, del porno, non rischia di svilirsi,di perdere il suo valore? Questa, però, non dovrebbe essere una preoccupazione del filosofo. Un “buon pensiero” non si definisce come tale a partire dall’oggetto che interroga. Non è l’oggetto a stabilire se ho articolato un ragionamento che si può definire “buono”, ma è l’articolazione del ragionamento stesso. Interrogarsi sugli oggetti della cultura di massa – anche quelli in apparenza meno nobili – non intacca lo statuto di scientificità della filosofia. Ma se ci fermassimo qui, diremmo solo che la pop filosofia è una forma rigorosa di filosofia (intendendo con “rigorosa”, al fondo, una forma saggistico-argomentativa) applicata alla cultura di massa.
Questa è sicuramente una forma di pop filosofia, presente in particolare in ambito anglo-americano. Ma per parte mia ha poco o nessun interesse. La mia idea di pop filosofia è radicalmente diversa. Bisogna pensare con la cultura di massa, con le serie tv, con la fiction.
Dico “pensare con” perché non credo che sia interesse della pop filosofia applicare dei pensieri già preconfezionati alla cultura di massa. Certo, lo si può fare, come divertissement a cui si dedicano i filosofi dopo le attività serie, ma ha poco a che fare con la creazione di un pensiero. Si tratta, invece,di capire se è possibile pensare con e attraverso la cultura di massa, se è possibile produrre un pensiero nuovo nel rapporto con il pop. In questo senso credo che oggi la pop filosofia debba privilegiare rispetto alla forma del saggio una certa contaminazione con la fiction.
Che cosa accade in questo passaggio dalla filosofia alla pop filosofia?Come si struttura un pensiero che si lascia interrogare dal pop?
Regazzoni:
In realtà, altre discipline – ben prima della filosofia – si sono occupate della cultura di massa. Negli anni ’60 sociologi come Edgar Morin, semiologi come Umberto Eco si sono interessarsi di cultura di massa distruggendo le resistenze dell’intellighenzia “colta”. La filosofia, però, non deve ripercorrere questa strada già battuta. Per questo credo che il momento dei saggi filosofici “su” serie tv o prodotti pop sia chiuso e ormai senza interesse alcuno. Piuttosto, la pop filosofia deve trovare una modalità specifica senza aver paura di contaminare il proprio lessico. Lavorando sulla propria pratica di esposizione, infatti, può diventare essa stessa un oggetto di cultura di massa e circolare nello spazio pubblico. Come un Blockbuster o una serie tv. Questo è il lato provocatorio e rischioso della pop filosofia. La filosofia “s’imbastardisce” diventando pop filosofia. Ma l’imbastardimento, nel senso della contaminazione, della commistione di generi diversi, non è qualcosa di pericoloso da esorcizzare: può essere foriero delle creazioni migliori, più originali, più fruttifere. La purezza, in tutti i campi, rischia di essere sterile. La pop filosofia deve oggi abbandonare la classica scrittura saggistica e incorporare (e creare) stili diversi, come la pop-art che ha inserito gli oggetti della cultura di massa all’interno delle proprie creazioni diventando essa stessa un’opera della cultura di massa.
La pop filosofia riesce a riconoscere, all’interno della cultura di massa, le opere che meritano di essere interrogate dal pensiero? A quali
nuovi canoni estetici appigliarsi?
Regazzoni:
Nello spazio della cultura di massa troviamo opere con uno statuto estetico e un valore intrinseco di artisticità paragonabili a quelle che consideriamo, semplicemente perché già canonizzate, “opere d’arte”. Purtroppo c’è ancora un pregiudizio che si fonda su un’equivalenza errata tra il valore di un’opera e la sua fruizione elitaria. Di conseguenza, un’opera che ha un apprezzamento da parte di un vasto pubblico non èun’opera di grande valore artistico.Eppure, le “opere d’arte di massa” possiedono una qualità estetica chenon ha nulla da invidiare alle opere d’arte classiche, ma hanno un’incidenza nello spazio pubblico che è incommensurabile rispetto al passato. Ildiscrimine rispetto all’arte del passato è quel “di massa”: queste opere d’arte sono pervasive nello spazio globale. L’esempio principe è la serialità televisiva americana.
Certo, se c’è un oggetto perturbante per il filosofo questo è la televisione. Il filosofo, secondo il suo habitus culturale nello spazio pubblico, è colui chenon guarda la televisione. Il filosofo ostenta quest’ostilità nei confronti dellatelevisione come un elemento che lo caratterizza come intellettuale. In realtà, ci troviamo di fronte a un oggetto perturbante – la televisione– che non ha prodotto l’“istupidimento di massa”, ma ha generato la formadi arte visiva più significativa e rivoluzionaria degli ultimi dieci anni. Anche i Cahier du cinema, la rivista che ha accompagnato lalegittimazione del cinema come opera d’arte, ha dedicando la sua copertina a Mad men dichiarando che la nuova serialità americana ha superato il cinema sia per impatto sulle masse sia per qualità estetica. La televisione deve diventare uno spazio di pensiero della filosofia. Invece è ancora considerata, come nei film horror, un luogo da cui fuoriescono mostri. Ma il mostruoso è tale soltanto perché è qualcosa di nuovo e inedito: bisogna creare nuove categorie per interpretarlo.Non c’è una differenza qualitativa tra Martin Heidegger che, nell’Origine dell’opera d’arte, interroga un quadro di Van Gogh e un filosofo contemporaneo che, nell’epoca della riproducibilità tecnica e della serialità televisiva, interroga una fiction. È solo questione di cornici e di codici sociali: la serie tv fa parte della tradizione culturale del nostro tempo anche se non è ancora “canonizzata”. La nuova serialità americana, quindi, è una vera e propria “opera d’arte di massa”.
Ma quali sono le caratteristiche che la rendono una novità culturale assoluta, incomparabile con le opere d’arte del passato? La pop filosofia può azzardare una definizione di questo nuovo oggetto di studio?
Regazzoni:
La definizione di opera d’arte che fornisce Heidegger – “la messa in opera di una verità come esposizione di un mondo e ritrarsi di una terra” – è utilizzabile anche per parlare di serie tv. Traducendo in termini pop il linguaggio esoterico heideggeriano: un’opera d’arte è tale quando ha la capacità di costruire un mondo talmente articolato da permetterci di abitarlo durante la sua fruizione.La serialità americana ha questa capacità di esporre un mondo e di renderlo abitabile. I mondi della fiction entrano a far parte della nostra quotidianità, diventano intrinseci al nostro vissuto: rimaniamo talmente legati che aspettiamo con ansia la puntata successiva per rientrarvi dentro.
Umberto Eco ha parlato di “mondi possibili” che vengono messi inscena: questo è il nostro mondo, il mondo reale in cui abitiamo, e quelli sono i mondi fittizi, possibili ma non realizzati, che fruiamo durante la visione di una serie tv. Questa definizione, a mio avviso, è troppo debole. La fiction, intesa come opera d’arte in senso heideggeriano, è la “messa in atto di una verità”. I suoi mondi sono mondi “in atto” che disarticolano l’idea di mondo come realtà unica e monolitica e ci inducono a pensare la realtà come un sistema complesso fatto di più mondi. Il “mondo” non è la realtà esterna nella sua materialità su cui si depositano, come fatti inessenziali, le rappresentazioni della serialità.
La fiction di massa non si affianca a un mondo già costituito, ma incide sulla sua strutturazione. Non si tratta uno schermo che si accende per qualche secondo e poi scompare, come i sogni che la mattina spazziamo dalle stanze della nostra mente per metterci in contatto col mondo reale. Queste finzioni entrano nel tessuto del mondo “reale” e gli danno una piega nuova che prima non aveva. La finzione, intesa in questo modo, è qualcosa di più di una finzione: ha una portata di verità. La pop filosofia, quindi, è una forma di sapere che si occupa delle opere d’arte di massa che hanno una qualità artistica e, in più, hanno una portata di verità che produce un pezzo di mondo con cui ci relazioniamo.
La fiction, intesa in questo modo, obbliga la filosofia a confrontarsi con qualcosa di qualitativamente diverso dall’arte “tradizionale”. Ma qual è la differenza rispetto al cinema? Non si tratta, anche in questo caso, della creazione di un “mondo” abitabile dallo spettatore?
Regazzoni:
Una delle caratteristiche che rendono della serialità americana rivoluzionaria è l’idea di narrazione: in una serie tv viene narrata più di una storia, nello svolgimento si incontrano molteplici narrazioni che si rapportano tra di loro. Le opere cinematografiche raccontano una sola storia: un protagonista si muove da un punto ideale a un altro e muta in questo passaggio. Al massimo troviamo più storie che, però, evolvono in un tempo e in uno spazio limitato. La serialità americana, invece, è multilineare. Fino all’esempio estremo di Lost dove i protagonisti e le storie si moltiplicano e lo spazio-tempo esplode. Lo spettatore si perde, ma impara ad abitare questa erranza. Si tratta di un oggetto nuovo che sfida ciò che la narrazione ha prodotto fino ad oggi: narrazioni corali che hanno bisogno di un tempo dilatato per svilupparsi. Non solo: la serie ha una durata incompiuta che non prevede un termine prefissato. Sono opere ontologicamente aperte che possono andare avanti anni, se il pubblico le gradisce, o smettere subito, se il pubblico non le gradisce.
Questa forma di narrazione “aperta”, quindi, prevede una forma diversa di fruizione da parte dello spettatore.
Regazzoni:
Un film dura in media 90 minuti, mentre una serie tvpuò durare 6-7 stagioni: 120 ore spalmate su 6-7 anni. Siamo di fronte aqualcosa che – solo dal punto di vista dell’attenzione richiesta allo spettatore– è incommensurabile con il passato. Nell’epoca della riproducibilità tecnica, dice Benjamin, le opere d’arte sono secolarizzate e si fruiscono in maniera distratta. Eppure, con la tanto vituperata televisione, ritorniamo a una fruizione di tipo rituale, al vero e proprio culto. La temporalità del nostro mondo, infatti, si articola insieme alla temporalità della serie tv. Ogni settimana, per esempio, c’è la serata dedicata alla visione rituale dell’ultima puntata della nostra serie preferita. Oppure, quando si avvicina il Natale, la puntata della fiction che seguiamo è sincronizzata su quel periodo dell’anno. Ogni serie è legata a un periodo di tempo preciso, rimane iscritta nell’immaginario della generazione che l’ha fruita “in diretta”. Ci contaminiamo, insomma, con questi personaggi che hanno la forzadi bucare lo schermo e penetrare all’interno del nostro tempo. Neanche i filosofi sono immuni da questo processo. Ricordo che il filosofo più importante nella mia formazione, Jacques Derrida, non si perdeva una puntata di Dallas. Anche se non ha mai scritto su Dallas – e, probabilmente, avrebbe provato ribrezzo alla sola idea di farlo – Derrida nelle sue opere ha confessato che guardava molta televisione: non ha esorcizzato la televisione, ma l’ha iscritta nel suo pensiero. Una volta, negli Stati Uniti, gli hanno chiesto: “Che cos’è la decostruzione? La decostruzione è una sit-com?”. Lui era inorridito di fronte a una simile domanda. Eppure dei suoi allievi americani stanno lavorando sul rapporto “sit-com e decostruzione”…
Ai margini della grande serialità c’è il genere televisivo più bistrattato: la sit-com. Eppure, se prendiamo esempi come Friends o Will&Grace, le sit-com hanno introdotto un’educazione sentimentale alternativa a quella tradizionale.
Regazzoni:
La sit-com, un prodotto che nasce via radio e poi arriva alla televisione, è apparentemente il prodotto più frivolo della cultura di massa. Un conto sono le serie tv, si dice, e un conto sono le sit-com, dove c’è poco di “artistico”. Eppure la sit-com non è altro che la reinvenzione del genere dialogico-comico, che ha una rispettabile tradizione filosofica che va dalla diatriba alla satira. È un ingranaggio perfetto, un macchinario estremamente complesso e raffinato dove gli attori producono battute in tempi di fruizione strettissimi.
In tempi condensati, 20-30 minuti al massimo, gli autori riescono a indurrela risata, quella che Lacan definisce “fettina di godimento”. La sit-com è un’opera d’arte che produce queste “fettine di godimento”catartiche e liberatorie spesso coadiuvate dalla risata di voice over, una proiezione del pubblico che sta già ridendo prima di ridere. Veniamo alla domanda scomoda: una sit-com può produrre l’educazione sentimentale contemporanea? Di certo, al di là del fatto che possa o meno, lo ha fatto e continua a farlo. Così come il cinema ha prodotto l’educazione sentimentale della generazione precedente. Come, ancora prima, lo hanno fatto i romanzi. All’inizio anche la letteratura è stata considerata “pericolosa”: l’educazione sentimentale scorretta veicolata dai romanzi può produrre comportamenti scorretti (nelle ragazze in particolare). La stessa paura che si ha oggi nei confronti della televisione. Ogni generazione ha i suoi timori rispetto a un cambio di paradigma culturale. Anche Platone nella Repubblica, spaventato dal tipo di paideia legata all’epica nell’Atene del IV secolo, voleva espellere i poeti dallo spazio pubblico. Il limite di questo ragionamento, però, è pensare che il soggetto che fruisce un’opera – anche se si tratta di un “mito d’oggi” come la fiction – sia un contenitore vuoto che percepisce un senso già strutturato e si comporta di conseguenza, un soggetto passivo che subisce input esterni che non è in grado di rielaborare. Dobbiamo mettere in discussione questo pregiudizio e parlare di uno “spettatore emancipato”. La televisione, infatti, non trasmette messaggi già elaborati e lo spettatore è qualcosa di più di una spugna inerte. Lo spettatore partecipa attivamente alla fruizione del testo audiovisivo, vi proietta i suoi fantasmi e i suoi desideri. L’opera d’arte come “apertura di un mondo” non è già pronta, c’è bisogno dello spettatore perché questo mondo “si apra”. L’educazione sentimentale, quindi, si produce nell’interazione tra l’opera d’arte e i soggetti che partecipano alla costruzione del mondo che mette in atto l’opera stessa.
In che forma e attraverso quali strumenti avviene questa interazione aperta tra fiction televisiva e “spettatore emancipato”?
Regazzoni:
Quando parliamo di fiction non dobbiamo pensare che la visione di questo prodotto sia legata soltanto alla scatola attorno alla quale si condensa quello che Umberto Eco ha definito il misterium televisionis che affascina e spaventa gli intellettuali. La televisione è solo una delle modalità in cui si esprime la fiction. La fruizione, oggi, passa attraverso altre modalità tecnologiche di riproduzione dell’immagine e produce un infinito commentario critico che amplificala narrazione.
Abbiamo una forma di interpretazione che non si limita a guardare il “testo televisivo” (inteso come vero e proprio testo semiotico), ma produce altre infinite scritture.
La televisione ha prodotto uno spettatore che non beve semplicemente le immagini, ma le rielabora producendo dei nuovi testi da interpretare. I giovani che guardano serie tv spesso scrivono in rete, producono fanfiction, elaborano altri testi, commentano le scene, le rimontano, le ritraducono in altre lingue. La fruizione diviene vera e propria riscrittura dell’opera. Ed è molto interessante per la filosofia analizzare queste nuove modalità di fruizione che sono in perfetta consonanza con il pensiero della decostruzione: la lettura di un testo è scrittura di altri testi, è interpretazione attiva.
Al contrario, la totale sfiducia nelle capacità interpretative degli spettatori ha dato nuovo vigore alle critiche. Le serie tv dell’ultima generazione non smettono di alimentare polemiche perché espongono al “male” e alla “crudeltà” senza esprimere un giudizio morale che orienti l’opinione del pubblico.
Regazzoni:
L’opera d’arte, non dobbiamo dimenticarlo, è “al di là del bene e del male”. Se ci chiediamo se il messaggio che veicola è “buono”, creiamo una limitazione alla sua libertà di interrogazione senza copertura che squaderna i problemi e ne esamina tutte le contraddizioni.Tentare di contenere la serialità con una “moralina”, come la chiamava Nietzsche, non funziona. Anzi, produce della “cattiva” arte. Le serie tv italiane, per esempio, peccano di piccola pedagogia e cadono in banalità moralistiche. Si diventa più buoni se si guarda Un medico in famiglia invece di Dr. House? Oppure si rischia soltanto di vedere una brutta opera d’arte televisiva?Poi ci sono i casi limite forieri di polemiche.
I soprano rappresentavano, in maniera complessa e articolata, la mafia italo-americana e lo spettatore si identificava con i protagonisti e con i loro problemi, entrava a far parte della famiglia mafiosa. In questo caso il soggetto si trova di fronte a un’opera d’arte che sonda la propria complessità, che indaga la fascinazione per un certo tipo di comportamenti. Se evitiamo di confrontarci con questa articolazione che comprende la nostra pericolosa attrazione per il male, lasciamo che questi problemi si ripresentino in forme non rielaborate e violente. Una serie come Dexter, per esempio, dove il protagonista è un serial killer e un poliziotto, pone questioni enormi che non possono essere eluse. Torna in mente Benjamin che si interroga circa la fascinazione del popolo per “il grande criminale” in rapporto alla legge e alla sua trasgressione. L’opera d’arte, insomma, è un modo di confrontarsi, senza sconti e senza la copertura della “moralina”, con il male innervato nel reale.