[Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa F, acrilico su tavola, 25×40 cm 2020]
L’Evento di cui questa figurazione è la rappresentazione figurale è dato da un galleggiare di forme larvali che nuotano nella processualità autofagocitatoria del linguaggio figurale. Tessere di una sequenza di RNA che nuotano nella processualità figurale di un Virus virale. Non sono propriamente delle cose quanto delle tessere, segmenti di RNA, simulacri iridescenti, accattivanti albedini di sostanze un tempo floreali diventate esiziali e virali. Da questo mondo di figure-segmenti umbratili e larvali è scomparso l’uomo e sono scomparse le cose. E ci chiediamo: Dove sono finite le cose? Dove si nasconde l’uomo? Domande forse inutili, che non ha senso più porsi dopo la fine dell’umanesimo, ma che non possiamo non continuare a porci. «La domanda dov’è la cosa?, è inseparabile dalla domanda dov’è l’uomo? Come il feticcio, come il giocattolo, le cose non sono propriamente in nessun posto, perché il loro luogo si situa al di qua degli oggetti e al di là dell’uomo in una zona di nessuno che non è più né oggettiva né soggettiva, né personale né impersonale, né materiale né immateriale, ma dove ci troviamo improvvisamente davanti questi X in apparenza così semplici: l’uomo, la cosa».1
(Giorgio Linguaglossa)
1Giorgio Agamben Stanze, p. 69
.
Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)
Mario M. Gabriele
caro Giorgio,
essere poeti, e tu lo sai, non è cosa facile nel senso che bisogna essere prima critici di se stessi e poi costruire o de-costruire il linguaggio secondo le ragioni del fare poesia. Un giorno sul Corriere della Sera di venerdì 2 Luglio 2004, apparve un breve intervento di Giuliano Gallo con il titolo: “Faziosità, il male oscuro che spacca l’Italia”. Riferendosi al volume edito dal Mulino e curato da Ernesto Galli della Loggia e Loreto Di Nucci dal titolo DUE Nazioni. Qui si percepiva veramente un’Italia spaccata in due, anche se non vi appare il potere editoriale con tutte le sue filiali autarchiche, creando una “divisività” che ha dominato decenni e decenni di storia economica e culturale. In questo libro Paolo Mieli si sofferma, con una certa tristezza, sul fatto che “non stiamo producendo niente di nuovo, consapevole che ormai tutti i paesi hanno imparato a dividersi e a schierarsi senza volersi distruggere”.
E allora come la mettiamo nell’attuale Epoca del Covid19? La scomparsa del critico e dello scrittore ha portato a esautorare un paradigma poetico alternativo al dominio imperante del 900. Cercare punti di riferimento della fine della poesia elegiaca o di fine corrente letteraria, è molto difficile.
Secondo De Sanctis il vero declino della poesia italiana comincia a delinearsi nel Cinquecento mettendo all’ombra Ariosto, Machiavelli, e Guicciardini, dando appena un’ancora di salvezza ad Alfieri e Parini, “ma la direzione del diagramma poetico restava quella della decadenza”. Allora possiamo affermare, con Enzo Siciliano, che per il poeta resta sempre il buio in sala. Qui, non vorrei dimenticare Edoardo Sanguineti, con il quale ebbi un lungo discorso in trattoria, in occasione di una edizione a Campobasso del premio di Poesia Nuovo Molise, in cui lo stesso critico confessò che non era più tempo di Avanguardia mancando fronti culturali che si contendono una spinta al cambiamento.
Basta andare in libreria. Gli scaffali non si piegano sotto il peso di libri di poesia rimasti sempre un’arte marginale nell’epoca dei consumi. Tutto questo non ha permesso ai poeti della Nuova Ontologia Estetica di neutralizzarsi dentro apparati linguistici informali e contrastanti, che se pure esistenti tracciano la via al “senso vietato” di Deleuze proiettando il verso in un principio antropico ultimo, con la speranza di svilupparsi intelligentemente verso un paradigma che contenga al suo interno il coraggio di superare la fase di stallo del Post Covid 19, che è una vera macelleria.
Giorgio Linguaglossa
caro Mario,
scrive il paleontologo Stephen Jay Gould: «riavvolgiamo la videocassetta e, accertandoci di aver cancellato tutto ciò che è accaduto, riportiamoci a un certo tempo e luogo nel passato […]. Poi giriamo di nuovo il film e vediamo se la ripetizione è uguale all’originale».
Stanza n. 3
Duchamp è con la pipa. Madame Hanska è nuda. Siedono attorno ad un tavolo.
Hanska distribuisce le carte da gioco.
Duchamp deglutisce.
«Ecco a Lei. Io adesso Le darò le carte.
Tredici carte di Picche. Le disponga in fila, non importa l’ordine.
È la fila delle cause.
Scelga poi le tredici carte di Cuori. Le mescoli bene.
Disponga in fila sotto le carte di Picche una carta di Cuori.
E solo una sotto ogni carta di Picche.
Accade che nella stessa posizione delle due file si presenti in alto
una carta di Picche e in basso una carta di Cuori
con lo stesso valore.
Due Sette in terza posizione. Due Re in decima o quel che capita».
«La relazione di concordanza è un modello formale
della relazione di causalità:
Il Sette di Picche “causa” il Sette di Cuori,
Il Re di Picche “causa” il Re di Cuori, etc.
Il principio di identità simula il principio di ragion sufficiente.
È la rappresentazione del principio eziologico.
Se c’è il Sette di Picche sopra, c’è il Sette di Cuori sotto.
Se non c’è il Sette di Picche sopra, non c’è il Sette di Cuori sotto».
[…]
L’unghia smaltata di K. agguantò al volo un calice di Campari
che oscillava negli stagni Patriarsci.
Il direttore d’orchestra depose la bacchetta, i musicisti se la filarono,
il pubblico prese a fluire.
Zlatan Ibrahimovich prese a calci un pallone e fece goal.
«C’è un agente morboso», disse K. rivolto ad Azazello.
«Se c’è, c’è il morbo», rispose quest’ultimo.
Il quale tirò fuori dal taschino della giacca un ipotocasamo nuovo di zecca,
e con quello cominciò a frinire, a fare saltelli.
«Se non c’è?», chiese amabilmente Azazello, dopo una giravolta.
«C’è la guarigione», replicò K. passeggiando rumorosamente con i mocassini nuovi
made in Italy.
Il berretto verde di K. ebbe un sussulto.
«Il cosiddetto principio di concordanza.
Sono i risultati delle tre carte, caro Cogito.
Nient’altro che un gioco di prestigio.
Tuttavia, la poesia nasce da un lancio di dadi
su un piano inclinato…
Il Covid19?, un elemento della perturbazione che concorre
con la perturbazione generale…
Quella parte del tutto che vuole costantemente il male e invece concorre
a produrre costantemente il bene…
Al di là del principio del bene e del male.
Ovviamente.»
*
Nella poesia di Mario Gabriele e, in generale, nella poesia della nuova ontologia estetica, ciò che è fondamentale è il gioco stesso, non i giocatori. La poiesis diventa il libero campo di azione del gioco del linguaggio. In tal senso, si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo, fintantoché lascia fuggire l’uomo nella vertigine delle significazioni che gli fanno obliare il rischio e la posta in gioco del suo rapporto con il linguaggio.
È nota la diffidenza che Heidegger ha sempre nutrito nei confronti del linguaggio ordinario. Le sue riflessioni sul linguaggio non coincidono con la teoria ermeneutica della «metaforicità fondamentale» del linguaggio elaborata da H.-G. Gadamer.
È nella misura in cui la poiesis riesce a prendere le distanze dal linguaggio ordinario che può ritrovare il gioco del linguaggio e, con ciò, il gioco della metonimia, della metafora e della estraneazione. Nel linguaggio compreso come Sage, il mostrare prevale sempre sull’indicare. Ora, questo privilegio del mostrare (die Zeige), implica una nuova e diversa valutazione del linguaggio non inteso soltanto in senso riduttivo come polisemia o per le sue qualità di ambiguità semantica, concetti che ci condurrebbero all’esterno del discorso critico e poietico. Proviamo a pensare il linguaggio come stazione apotropaica, evento, linguaggio come aver luogo e basta. Il pensiero essenziale, quello dell’Ereignis, è essenzialmente pluricentrico, la messa in evidenza della policentricità non significa la confessione dell’impotenza di un pensiero che avrebbe fallito a dirsi nell’univocità del concetto o nella polisemia del discorso poetico della tradizione, ma è ben di più, molto di più.
Il discorso poetico non è un in-differente, un indifferenziato, non è una proprietà neutrale del linguaggio ma ha la funzione di preparare l’incontro con quell’Inatteso («Bereitschaft für das Unvermutete» di Heidegger) che è cancellato dal linguaggio ordinario, che è interamente sussunto nel dominio dell’opinione e del «si dice». Continua a leggere