Video di Marie Laure Colasson, voce recitante Diego De Nadai, Poesie di Letizia Leone, Gino Rago, Riflessione di Antonello Sciacchitano, Composizioni di Lucio Mayoor Tosi

Marie Laure Colasson

da Les choses de la vie

Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps

Lilith fixe la vague sur le sable
Les pensées sortent en flottant

En flottant reviennent

Eredia retient un rayon de lune dans la main
L’univers explose sur la 5me symphonie de Beethoven

Des touches de piano jaunies par le temps
Injection goutte à goutte de la trahison dans les artères

Le mystère d’une phalange en Asie
Les paléontologistes se déguisent en stripteaseuses

Les perles se propagent sur les planets

Astrocinématographique confusionnel

Marie Laure retrouve son sac crocodile
Rapt de la fossette de Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure observent la geisha qui sort du bar

Eglantine défait sa robe aigue-marine

*

Una bianca geisha entra nel bar
Si arresta il tempo

Lilith fissa l’onda sulla sabbia
I pensieri escono galleggiando

Galleggiando tornano

Eredia trattiene un raggio di luna nella mano
L’universo esplode con la 5ta sinfonia di Beethoven

Tasti di piano ingialliti dal tempo
Iniezione goccia a goccia del tradimento nelle arterie

Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste

Le perle si propagano sui pianeti
Astrocinematografico confusionale

Marie Laure ritrova la sua borsa coccodrillo
Rapimento della fossetta di Maurice Ravel

Lilith Eredia Marie Laure osservano la geisha che esce dal bar

Eglantine disfa il suo vestito acqua-marina

Lucio Mayoor Tosi Tre Pezzi

Lucio Mayoor Tosi Tre Pezzi 1

Lucio Mayoor Tosi tre Pezzi 2

Possiamo dire che anche in questi trittici di Lucio Mayoor Tosi è in azione il virus della permutazione o della mutabilità. Anche la materia inorganica si trasforma, si adatta alle nuove circostanze dell’habitat, si rivela essere meta stabile e mutagena. Ho letto di una recentissima scoperta, è stato individuato un cristallo la cui struttura atomica muta con lo scorrere del tempo. È una scoperta straordinaria perché prima si credeva che una struttura atomica della materia non potesse mutare in alcun modo, e invece dobbiamo abituarci all’idea della mutabilità della mutazione. L’arte questo l’aveva predetto da molto tempo. Adesso noi sappiamo che abbiamo a che fare con una ontologia meta stabile, mutagena, che scorre nel tempo e che il tempo vede scorrere. E questo cambia tutto. Cambia la nostra visione delle singole cose elementari e la nostra visione dell’universo. Forse anche la teologia dovrebbe aggiornarsi e pensare ad un dio che abiti semplicemente il tempo, il quale è immobile (almeno fino ad ipotesi contraria), ma non mi meraviglierei se si dovesse scoprire che anche il tempo sia soggetto alla mutazione. Perché si dà l’essere degli enti finché si dà mutazione. E forse questa è la legge fondamentale dell’essere e del non essere. Quel «motore immobile» di cui discuteva Aristotele. (g.l.)

*

Letizia Leone

Signore e signori: gli Animali.
Isola emersa. I Robinson dell’Innocenza.
Una gabbia di tredici piani. L’Hotel per maiali.

La porta è imbottita dell’ombra
dei boschi di Guangxi. Il panorama ha
la coda incastrata nella porta.

«Le cupe sataniche officine». Che allucinazione Blake!
il tuo esoterismo è dietro la porta.
Ottocentoquarantamila maialini.

«La bocca insozzata dal grido di tutti gli evi»
Non è la Peste di Camus. Ne mestiere poetico
la macellazione. Delirare è orfico.

Hai usato la parola “Mangiatoia”
Il bue e dell’asinello. Le micro-apocalissi dell’io.
Poesie-coriandolo lanciate in aria.

Disarticolando migliaia di zampe ai pipistrelli.
Un pensiero fisso. Poeticamente frivolo.

Nostra Stella di Iside asfissiata.
Così in un lampo dalla Storia alla preistoria.

Per assestarsi nel movimento il suino dovrebbe calibrarsi
al moto di rotazione terrestre da ovest a est.

Vite brevi a suon di tamburo.
E infine un virus li scaraventò nell’Epica.

Lucio Mayoor Tosi Pezzo singolo 6

Lucio Mayoor Tosi, pezzo singolo

Gino Rago

Il baule di Marie Laure Colasson. Scarpette, abiti di scena,
Profumi, locandine, calici, draghi di cartapesta,

Scatole di trucchi, cassette di frutta, spille con cammei,
sciabole in plastica…
[…]
Comodino laccato, palloncini, accendisigari, carte da gioco.
Un milione di frammenti dalla finestra.

Una voce, un’onda, uno spiffero di vento.
«Il poeta è un lavapiatti sta là dietro in cucina.

Una statuina decapitata, un idolo, un totem, un Kao-O-Wang
Un sommerso, un avatar.
[…]
Milaure Colasson all’aeroporto di Fiumicino:
«Il posto dei poeti?».

«Nei retrobottega come addetti alle pulizie, sciacqua piatti,
addetti alla lavanderia delle parole, al pronto soccorso».

«Chi è Lei?»
«Non si sbaglia… chi sono?»

«Sono un posteggiatore abusivo».
Liz Taylor e Greta Garbo litigano con Marie Laure Colasson.

Vogliono entrare. Lei grida: «rex, relax, lunaflex, permaflex».

«Ha ragione Sono io, corvo tra i corvi di Zagòrsk,
Adescato come un pifferaio».

«Frigolit, Star, Tornegil. Bye-bye dallo specchio».

*

Per spiegare il principio di ragion sufficiente, che a ogni effetto attribuisce una causa, Antonello Sciacchitano propone il modello probabilistico delle concordanze, che sembra funzionale alle ideologie e ai deliri. Il modello utilizza materialmente le carte da gioco. Si dispongano le tredici carte di picche e le tredici carte di cuori su due file parallele e si contino le concordanze, cioè le ricorrenze nella stessa posizione di una carta di picche e di una di cuori con lo stesso valore. Il modello simula la relazione di causa ed effetto come relazione di identità. Per il calcolo delle probabilità la media delle concordanze è 1; inoltre una o più concordanze si verificano in poco meno dei due terzi dei casi, pur in regime casuale.
In conclusione, la probabilità che una causa produca l’effetto è a priori in gran parte effetto del caso. È una buona ragione per dubitare del valore scientifico del principio di ragion sufficiente, che invece ideologie e deliri apprezzano e giustificano grazie al modello di conoscenza dello scire per causas, esposto da Aristotele nel I libro della Fisica. (g.l.)

Antonello Sciacchitano

«Tutta la conoscenza scientifica è incerta; gli scienziati sono abituati a convivere con il dubbio e l’incertezza.»
(Richard Feynman)
*
In realtà, il principio di ragion sufficiente non è mai del tutto fasullo, perché ragiona per analogia, cioè per prossimità topologica tra l’essenza della causa (il “sette” nella serie delle picche) e l’essenza dell’effetto (il “sette” delle cuori); quindi non può sbagliare né sempre né molto, ammesso che nel reale esista qualcosa di simile alle essenze. Non stupisce che l’ontologia funzioni tanto bene e si ponga addirittura a fondamento dello scire per causas. Certo, poi ci sono clamorose e poco auspicabili conferme empiriche del principio di causa ed effetto: in questi giorni il virus Sars-cov-2 sta causando una pandemia.
Fate questo piccolo esperimento con un mazzo di carte da gioco. Si chiama gioco delle concordanze, o jeu de rencontre, ideato da Pierre Rémond de Montmort (1678-1719). Scegliete le tredici carte di picche e disponetele in fila, non importa l’ordine: è la fila delle cause. Scegliete poi le tredici carte di cuori, mescolatele bene e disponetele in fila sotto le carte di picche, una carta di cuori e solo una sotto ogni carta di picche: è la fila degli effetti. Può accadere che nella stessa posizione delle due file si presenti in alto una carta di picche e in basso una carta di cuori con lo stesso valore: due sette in terza posizione, o due re in decima o quel che capita.
La relazione di concordanza locale è un modello formale della relazione di causalità: il sette di picche “causa” il sette di cuori, il re di picche “causa” il re di cuori, ecc. Nel modello il principio di identità simula il principio di ragion sufficiente. In questo modo il modello dà una rappresentazione forte, addirittura ippocratica, del principio eziologico: se c’è il sette di picche sopra, c’è il sette di cuori sotto; se non c’è il sette di picche sopra, non c’è il sette di cuori sotto. Ippocrate diceva che se c’è l’agente morboso, c’è il morbo; se non c’è l’agente morboso, c’è la guarigione. I risultati della simulazione sono semplici ma danno da pensare.
Il calcolo delle probabilità prevede che in media avvenga esattamente una concordanza tra picche e cuori. Infatti, se i posti sono 13 e la probabilità di concordanza in ogni posto è 1/13, il prodotto è 13/13, cioè 1.*
Sodo è l’essere. L’essere è duro: o è o non è; non prevede forme intermedie di esistenza con variabilità più ampia di quella tra tutto e nulla. La dottrina ontologica nacque con Parmenide di Elea, nell’odierna Lucania. C’è una ragione linguistica alla base dell’assetto filosofico greco, giunto fino a noi. La lingua greca antica non ebbe la parola per dire “variabile”. Non sapeva dire, quindi non concepiva, la variabilità. L’essere era costante. Da qui l’approccio metafisico alla realtà, alla perenne ricerca dell’essenza ideale (ousia) che non varia e fa sì che le cose siano quel che sono, non potendo essere altro. Platone fu in gran parte un artefatto linguistico del greco antico: il suo idealismo fu il portato collettivo della lingua greca prima che intuizione individuale; il suo successo fu certo propiziato dallo spirito della lingua, che distingueva tra duale e plurale, ma non sapeva pelare la variabilità. Pretendendo bagnarsi due volte nello stesso fiume, Eraclito fece un buco nell’acqua. Dai Greci in poi la ragione porge l’invarianza dell’essere. Il logos è il principio di ragion sufficiente dell’ontologia; a ogni effetto il logocentrismo assegna una causa ben determinata come ragion d’essere. Il tramonto dell’occidente cominciò dall’alba, ben prima di quanto profetizzò Spengler; la miseria filosofica occidentale cominciò con il “divino Platone” di Freud. Meno divino, ma più convincente è David Hume che decostruì il principio di ragion sufficiente.
basta un solo quanto iperenergetico – un solo fotone ad alta frequenza – proveniente da chi sa dove (irrgendwoher): dal sole o da qualche lontano cataclisma distante miliardi di anni luce, perché si produca una mutazione in una catena di acidi nucleici e un virus [ad es. il Covid19] si trasformi da innocuo saprofita in pesante patogeno in grado di effettuare lo spillover dall’animale all’uomo e produrre una pandemia.

http://www.journal-psychoanalysis.eu/come-nasce-lideologia/

Lucio Mayoor Tosi

Leggo con particolare piacere questa poesia di Letizia Leone. È come l’aspettassi da un po’, in questo viaggio nella follia che è la poesia NOE. Una timidezza dichiarata, in pensiero di poesia fatto di monumentali giocattoli.
In questi giorni di attesa, di altra vita solitaria, non riesco a scrivere. Anche perché ho avuto un diverbio con Dante. Mi piacerebbe darvi l’elenco dei fantasmi che felicemente infestano la mia casa: genitori in fotografia e nonna Carolina. Ganesh, Osho, una piccola fotografia di Mariella Colonna sorridente (non la sopportavo ma è nata l’amicizia). Tranströmer viene raramente, non entra, sta sulla porta, mi dà una mano in parti difficili di vuoto. E’ di poche, anzi niente parole, solo gesti, movimenti. Anche Maria Rosaria Madonna non entra in casa, sta seduta sul davanzale della finestra (piano terra, la finestra dà sulla strada); ci capiamo a fatica, ne sa troppo più di me, ma ci accomuna l’animo. Se ne va sempre prima che mi spazientisca. Non sai se va se torna, bene così. A me non va di sentirmi abitato, quindi sono un medium renitente. Però vi saluta. Dante. In casa non ci è ancora entrato, lo vedo dalla finestra in cucina, in piedi, nei quattro metri di giardino che ho. È stato duro incontrarlo. Ti mette a posto le parole, sa come saltare gli articoli, peggio di un matematico. È stato difficile per me riuscire a comprendere, in sua presenza, come destrutturare. Perché io ho un sistema a volo, come che le parole apparissero in un film a cartoni animati di Walt Disney, come vedere spuntare una piantina di marijuana, dal seme alle dita. Da niente alle dita.
Quindi Dante. Dante e la poesia strutturata, di cui Lui vanta ogni traguardo. Come quando riesce a descrivere gli angeli, solo con parole!, vagamente umani:

*

Ben discerneva in lor la testa bionda;
ma nelle facce l’occhio si smarria,
come virtù che al troppo si confonda.
(…)
A noi venia la creatura bella
bianco vestita, e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.

*

Ma non è questo che annienta l’amor proprio di ogni poeta, ché quello si dà anche generosamente; piuttosto occorre una disobbedienza, un filo dolce, un gatto che si strozza. Le galline in fuga trotterellando, Virus Corona e mappa del tragicomio. Non stupidaggini, ma favole a convegno per inverarsi; e intorno al fuoco anche (le) centurie di cavalcanti… o anime di automobili assenti. Sicché ieri mi volo accanto (un) airone grigio. Mai così vicino prima d’ora.
Questo è il tempo di non dire sciocchezze, di rendersi utili: ché abbiamo finito con Auschwitz, per dire del dolore. Ora ci siamo dentro.
Un saluto a Marina Petrillo, che Dante tiene in grande considerazione.
Lucio Mayoor Tosi Sei Pezzi

Lucio Mayoor Tosi, 6 pezzi

Giorgio Linguaglossa

Penso, ho il sospetto che il valore (il principio) veritativo corrisponda in qualche modo al valore (il principio) retributivo e al valore (il principio) distributivo (tra le parole). Che il principio veritativo corrisponda sempre e in modo inderogabile in qualche modo al principio retributivo e al principio distributivo (tra le parole) è, penso, indiscutibile.
C’è una economia estetica che guida l’impiego delle parole. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di una politica del poetico che viene adottata senza alcuna consapevolezza, senza nemmeno ipotizzare o sospettare che quel tipo di scrittura corrisponda ad una politica del poetico.
Leggendo le poesie sopra riportate di Marina Petrillo, Francesco Intini, mia, di Gino Rago e quella di Letizia Leone, mi sembra chiarissimo che la nuova ontologia estetica è una vera fabbrica di poesia, fabbrica di consapevolezza del fare poiesis. L’idea guida è che la poiesis contenga un nocciolo, un principio veritativo (che contiene in sé un principio retributivo e distributivo), che le parole non possono essere «usate» ma che noi siamo «usati» dalle parole. Ditemi con quale modalità e frequenza usate i verbi e gli aggettivi e apparirà chiaro che tipo di poiesis state facendo. Ad un eccesso di aggettivi corrisponderà una poiesis ricca di inflazione, inflazionata, lemmaticamente gonfia. L’esempio del sonetto di Dante è eloquente e non aggiungo altro.
Io consiglierei a tutti gli aspiranti poeti di contare gli aggettivi delle proprie poesie e tirarne le conseguenze. E poi c’è l’altra questione della «torsione» del linguaggio. Marina Petrillo ha un modo tutto suo di «torcere» la grammatica e la sintassi, di adoperare un lessico antiquato per coniugarlo con un lessico nuovo; Intini procede per dis-interpolazione di fraseologie disallineate e dis-proprianti, la sua è una poesia che decostruisce di continuo il proprio linguaggio, si tratta di un vero e proprio lavoro del sospetto nei confronti del significato e del significante così come si sono costituiti nella tradizione poetica italiana. Si tratta di una decostruzione che va in profondità, che disabilità il linguaggio da ogni significazione acclarata e condivisa, un vero e proprio sisma di grado 9 della scala Mercalli. Di tutto il significato consolidato e condiviso della poesia italiana del secolo scorso e di questo ventennio pragmatico non ne rimane proprio nulla. La poiesis di Gino Rago invece mi sembra quella più ancorata al significato, c’è ancora un ricordo e un rimpianto per tutto ciò che si è perduto, ecco la ragione del genere della missiva da lui prescelto. La missiva serve a continuare un dialogo, pur se interrotto e minato dalla proliferazione delle abitudini comunicative.
Nella poiesia di Letizia Leone vedo che l’amica ha preso le distanze dalla propria poiesis, che la guarda dall’esterno, con sospetto. Adesso la sua poesia mi appare più libera, meno legata al significato del significante, meno adesiva e più reattiva.
È che occorre abituarsi a mettere tra parentesi il principio di non contraddizione. Le parole non obbediscono al principio di non contraddizione, non c’è alcuna regola che vige rispetto a questo principio che si può considerare, al massimo, come un principio di convenzione, di condivisione…
Questo aspetto, cioè la ricchezza e la diversità di ciascuna scrittura poetica, lo vorrei sottolineare proprio per ribattere alle insinuazioni provenienti da varie parti secondo le quali tutti i poeti della NOE scriverebbero allo stesso modo. Niente di più falso e superficiale, basta dare un’occhiata alle scritture poetiche qui e altrove presentate e trarne le conseguenze.

11 commenti

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11 risposte a “Video di Marie Laure Colasson, voce recitante Diego De Nadai, Poesie di Letizia Leone, Gino Rago, Riflessione di Antonello Sciacchitano, Composizioni di Lucio Mayoor Tosi

  1. La dis-speranza segna profondamente l’architettura del pensiero poetico e del pensiero pittorico di Marie Laure Colasson. Le immagini sono protagoniste assolute della sua poesia, quindi si potrebbe parlare di una poesia «figurativa», mentre, al contrario, la sua pittura è totalmente priva di Figurazioni. Come spiegare questa apparente contraddizione? L’apparente contraddizione si può spiegare nel senso che non c’è alcuna contraddizione, si tratta soltanto di sviluppi di codici linguistici diversi, ciascun genere segue i propri codici, il proprio lessico e le proprie grammatiche. Quanto alla dis-utopia e dis-topia, nulla di nuovo, l’arte più evoluta è fortemente dis-topica e dis-utopica, la differenza sta nella radicalità con cui ogni poeta o artista affonda la propria ricerca. E la Colasson è una artista radicale, che va alla radice dei propri assunti di partenza. La configurazione delle sue opere poetiche si caratterizza per l’assenza di qualsiasi orizzonte di attesa sul piano psicologico ed esistenziale e della speranza sul piano concettuale, la poesia e la pittura sono pratiche del presente, e nient’altro. La Colasson non gradisce che si parli del futuro o di una qualche purchessia ed usufritta connessione eventuale ad una pratica del futuro in pro dell’arte. L’ontologia che interessa la Colasson è quella fondata nel presente per il presente. Chiarito questo assunto possiamo leggere le sue opere poetiche e figurative con questa lente di ingrandimento. Quello che interessa la Colasson è una ontologia del positivo. Il mistero, se mistero c’è, si dà e si esaurisce nel detto. E li finisce il mistero. Non c’è alcuna ambiguità semantica nelle sue poesie, tutto è chiarissimo. Non c’è mistero perché il mistero chiede una risposta, chiede di essere svelato, attende un messia che lo riveli. C’è però l’Enigma, perché l’enigma non chiede di essere svelato o rivelato ma di essere frequentato ed abitato.
    E qui siamo nel pieno degli assunti della nuova ontologia estetica.

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  2. Mariella Bettarini

    Grazie di cuore, complimenti e molti auguri, con un saluto caro da

    Mariella Bettarini

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  3. Giorgio Linguaglossa
    Stanza n, 5

    «Ingehaltenheit in das Nichts*.
    Così, ho preso dimora nel Nulla», disse K.
    «Oggi la poesia è libera, nel senso che non deve nulla
    a nessuno.
    E non deve rispondere a nessuno. Giusto?».

    «Giusto».

    «Ora, vorrei porLe un quesito. E precisamente:
    Il legame che unisce il dentro con il fuori, il mondo e la poesia,
    il tempo e la temporalità».

    Cogito sbuffò del fumo di sigaro in faccia al Signor K.

    «Gioco preferibilmente con il Signor F. Il Re di Spade è il mio preferito.
    Poi viene il Re di Denari.
    Hanno entrambi paura della mia ombra.
    Che a sera si allunga sui marciapiedi, tra i lampioni e le grondaie».

    «È attraverso la luce che noi vediamo le cose,
    ma noi non vediamo la luce;
    o meglio, noi vediamo la luce indirettamente attraverso la visione delle cose.
    La luce è invisibile»,
    replicò Cogito fuori contesto.

    «Le persone sono felici perché non conoscono l’amore».

    Disse proprio così il Signor K.
    Poi il figuro piegò le sue nere ali dietro le spalle.

    «Per molti anni mi sono perduto nelle città.
    Ho supplicato Achamoth di rendermi la libertà,
    ma è stato inutile.
    Suonavano le sirene delle città, gli allarmi dei palazzi».

    «Il nostro compito è tracciare le linee interne delle cose»,
    replicò Cogito, ancora una volta fuori contesto.
    «Ella deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito».

    K. storse il labbro. Un dente d’oro fece la sua comparsa.

    «La metafisica sorge quando il linguaggio va in vacanza»,
    eccepì K.

    «La mia metafisica sorge quando tramonta la sua di metafisica»,
    opinò Cogito, il quale così proseguì:
    «Il senso del mondo deve essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non vi è in esso alcun valore – né, se vi fosse avrebbe un valore…».

    Il Drago ebbe un sussulto. Il mento leporino si agitò.

    «Ho paura, Cogito. La paura mi annebbia la vista.
    Parlo con un uccellino, gli accarezzo le piume…
    Mi dice:
    «Sistemare la carta nel vassoio. La carta non è quella giusta. Rimuovere la carta dal vassoio. C’è troppa umidità nella carta. La carta non è del tipo consentito. Provate a sostituire la carta. Altrimenti sostituite la stampante. Date a Cesare quel che è di Cesare. La pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento…»

    * «Intrattenersi nel Nulla», dizione di Heidegger

    La nascita di questa poesia la definirei così: è stata scritta seguendo un procedimento di archeologia delle opacità. Il linguaggio con il quale è costituita questa poesia segna una ulteriore tappa nella ricerca di una poesia senza-identità, cioè che può essere stata scritta da Chiunque e da Nessuno. Una poesia priva di carta di identità, dunque, nata dalla confluenza di linguaggi disparati (alti, bassi, cialtroneschi, nobili, sentenziosi e anonimi etc.), appunto perché il «luogo» della confluenza è un luogo-assente, l’io si è eclissato completamente nella zona-d’ombra dei linguaggi che confluiscono ed exfluiscono dal fiume del linguaggio che è, propriamente un non-fiume, che è un cerchio non-cerchio, in quanto non conduce in alcun luogo e non è in alcun luogo.

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  4. Editoriale n. 9

    L’ermeneutica segna lo spostamento del baricentro della trattazione dai problemi del senso verso i problemi del referente. In conformità con questa impostazione concettuale, tutta la poesia del secondo novecento e di questi ultimi anni ha perseguito il medesimo obiettivo: ha fatto una ricerca del senso impiegando un linguaggio referenziale.
    L’equivoco verteva e verte sul fatto che si è considerato il discorso poetico come equivalente, nella sua funzione, al discorso ordinario, senza capire che il linguaggio ordinario si limita a «servire» gli oggetti che rispondono ai nostri interessi sociali, il nostro interesse sociale è limitato al controllo e alla manipolazione degli oggetti nella vita quotidiana, ma la funzione del linguaggio poetico non può essere «servente» degli oggetti, questa sarebbe una grave miscomprensione della sua natura specifica e ci porterebbe fuori strada.

    Il discorso poetico lascia in libertà la nostra appartenenza al mondo della vita e al mondo della vita quotidiana, lascia-dirsi, lascia che vengano messe delle parentesi tra il pensiero e il linguaggio, tra il linguaggio e il linguaggio, lascia alla parola il compito di dire ciò che il linguaggio ordinario non può dire. Quello che così si lascia dire è ciò che Paul Ricoeur chiama la referenza di secondo grado, la referenza sganciata dal rapporto di controllo e di dominio degli oggetti e del mondo.

    Il discorso poetico della nuova ontologia estetica, comporta (in modi vari e con diverse sensibilità linguistiche) l’abolizione del linguaggio descrittivo-informativo. Ciò potrebbe far pensare alla famosa «funzione poetica» di Jakobson, ad un concetto di linguaggio poetico che rinvii soltanto a se stesso, ma la NOE ha compiuto un decisivo passo in avanti: è proprio tale abolizione che costituisce la condizione positiva affinché venga liberata una possibilità più profonda per attingere un referenza soggiacente, una referenza di secondo e terzo grado che coglie il mondo non più al livello degli oggetti manipolabili, ma ad un livello che Husserl designava con l’espressione Lebenswelt e Heidegger con In-der-Welt-Sein.

    Se osserviamo la struttura delle poesie della nuova ontologia estetica, ci accorgiamo che è lei, la struttura, che decide la disposizione, la frammentazione, la dislocazione e la cucitura degli enunciati: il loro ordine disordinato, o il loro disordine organizzato, il disallineamento degli enunciati e l’eterogeneità degli stessi, la loro natura disparatissima di varia provenienza di ordine culturale, in una parola: è la struttura che dispone della libertà o illibertà degli enunciati e delle immagini.

    Un aneddoto di distrazione esistenziale

    Un giorno uscii con due calzini diversi, uno blu e uno avana. Me ne accorsi quando fui in metropolitana accavallando le gambe. Davanti a me era seduta una signora vistosa, con permanente, biondizzata e profumata la quale puntò gli occhi sui miei due calzini. Ecco, mi accorsi allora che avevo messo i calzini invertiti. Avevo infranto una consuetudine condivisa inconsapevolmente dalla generalità attirando l’attenzione della bella signora. Così, un giorno, consapevolmente, uscii di casa con ai piedi due scarpe diverse, un mocassino testa di moro con la frangia e una scarpa con i lacci nera con in più due calzini di colore e di foggia diversi. Presi di nuovo la Metro e accavallai le gambe. Il risultato fu che tutti gli utenti della metro mi guardarono le gambe e i piedi. Ecco, non avevo fatto nulla di particolare, ma avevo infranto lo “schermo” di una condivisione sociale accettata inconsapevolmente da tutti. Penso che la poesia debba avere il coraggio di fare questo: di infrangere il conformismo di un linguaggio informativo, performativo, referenziale. E, per fare questo occorre una notevole dose di distrazione continuativa.
    Una distrazione esistenziale radicale può aiutare.

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    • «Le immagini hanno sostituito il mondo […] la rappresentazione è finita, l’ha già detto Hegel, l’ha detto Schopenhauer. […] Dietro l’artificio della fotografia non possiamo presupporre una realtà, anzi: è proprio attraverso l’artificio e la simulazione, che il mondo esiste»1

      L’esercizio borgesiano del paradosso deve essere portato all’interno della forma-poesia, perché è l’arte che è diventata paradossale ed antinomica. E non potrebbe non esserlo.
      Il paradosso dell’Occidente risiede nel fatto che l’Occidente si riflette in uno specchio che esso stesso ha costruito, ovvero nello schermo narcisistico del virtuale, dell’economia globale e della sub-cultura mediatica, venendone letteralmente risucchiato: non sa più qual è il riflesso e quale l’originale, il reale. La forma poesia non può restare estranea al problema della rappresentazione del reale diventato irreale come alienazione, rovesciamento, riconoscimento, peritropè.

      «La sola strategia possibile è quella dell’oggetto […] in quanto sfida il soggetto, in quanto lo rimanda alla sua posizione impossibile di soggetto […] l’oggetto non ha desiderio […] Esso è lo specchio. È ciò che rimanda il soggetto alla sua trasparenza mortale. […] Il cristallo si vendica».2
      Il tardo supercapitalismo liquida ogni forma di umanesimo e di soggettività e non si può più, come sognava di fare il popolo della fiaba del premoderno, tornare al di qua dello specchio (fare la rivoluzione), poiché si è già da sempre intrappolati, esiliati nell’immagine – . Non c’è più un altrove verso cui fuggire, ma soprattutto non c’è più una realtà a cui tornare – anche perché, secondo Baudrillard, non c’è mai stata: il ‘mondo’ è già da sempre una creazione culturale. L’Occidente ormai è lo specchio di se stesso, servo e padrone di se stesso, medesimo e altro, ipertroficamente sdoppiato. E lungi dall’essere contrapposto al Male, il Bene, di cui l’Occidente si ritiene il custode, si rivela essere solo una voce che esce dal suo ventre obtorto collo.

      Penso che la forma-poesia debba essere in grado di adottare strategie istrioniche, essere una machine-à-penser della iperrealtà nella quale viviamo in ogni istante della giornata.

      La cultura occidentale e la struttura significazionista del tardo capitalismo sono giunte al limite estremo, al punto di non ritorno. Il pensiero funziona come uno specchio rotto capace di catturare l’immagine segreta dell’Occidente, la sua rigidità cadaverica e la sua deformità rimossa.
      Grazie a questa sorta di lente ustoria, che brucia l’oscena uniformità del codice che governa il digitale, Baudrillard ci rinvia dal passato un’immagine capovolta, frantumata, rimpicciolita e imbruttita del presente in cui siamo immersi, e nel quale i media fagocitano la realtà, clonandola compulsivamente; se la specularità del virtuale dissolve la differenza tra oggetto e immagine riflessa, egli ci mostra il lato insopportabilmente patafisico di questa dissoluzione: la sua banale mostruosità, ma anche la sua inquietante, fatale perversione. La patafisica in quanto scienza delle soluzioni immaginarie, si è compiutamente avverata, non c’è più bisogno di essere patafisici, è la realtà che è diventata patafisica. La realtà si sottrae alle nozze concubine realtà-finzione, per questo non è più raffigurabile se non con dei salti quantici immaginativi, il linguaggio poetico e romanzesco va continuamente decostruito nel mentre che lo si pone in essere. In senso patafisico, dunque, l’esigenza di ‘reinventare il reale come finzione’ non equivale affatto al tentativo di sostituirlo con la precisione inconsistente dell’iperrealtà, ma consiste piuttosto nel farlo fulmineamente comparire e scomparire mediante la decostruzione e creazione del testo, in uno scambio simbolico istantaneo tra l’essere e il nulla. Non si tratta di una sostituzione segnico-virtuale della realtà, perché, come detto, la realtà è una costruzione simbolico immaginaria, ma è già, in quanto tale, frutto di una produzione culturale che Baudrillard chiama simulazione. Si tratta piuttosto di una sua dissimulazione letteralmente istrionica, poiché il reale viene confutato, distrutto e insieme ricostruito proprio nel non-luogo che lo ha riassorbito: nello specchio del web.

      Se la nuova ontologia estetica è in cammino verso la forma-polittico, una ragione dovrà pur esserci. Abbiamo scritto di recente che il «polittico» è un sistema instabile che fa di questa instabilità un punto di forza. Mi sembra una ragione sufficiente.

      1 J. Baudrillard: «La sola strategia possibile è quella dell’oggetto […] in quanto sfida il soggetto, in quanto lo rimanda alla sua posizione impossibile di soggetto […] l’oggetto non ha desiderio […] Esso è lo specchio. È ciò che rimanda il soggetto alla sua trasparenza mortale. […] Il cristallo si vendica». J. Baudrillard, Le strategie fatali, Milano 2007, p. 107. Per un’analisi di questo celebre passo si veda anche il saggio di D. Angelucci, Estetica fatale, infra, pp. 153-163.
      2 J. Baudrillard, Simulacres et simulation, Parigi 1980, p.181 Simulacri e simulazione, trad. it. di E. Schirò.

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      • A proposito delle immagini nella poesia vale la pena di considerare che l’immagine, la più oggettiva delle configurazioni linguistiche, in realtà sorge nel soggetto che la guarda quando la vede come riflessa in uno specchio. L’immagine non si dà senza lo specchio che la contiene e lo sguardo che si posa sullo specchio. Ed evapora non appena lo sguardo si distoglie dallo specchio.

        Agamben, nel libro Profanazioni, si interroga sulla natura delle immagini a partire dalla speculazione dei filosofi medievali, sottolinea che in particolare, per loro, le immagini riflesse negli specchi hanno una singolare caratteristica: esse non sono una sostanza, ma un accidente, dato che tali immagini non si trovano nello specchio come in un luogo, ma come in un soggetto.Questa riflessione porta il filosofo ad indagare la natura insostanziale dell’immagine e a ricavare da ciò una delle sue peculiarità, ovvero il fatto che essa è generata dalla presenza di chi la contempla: il suo essere perciò è quello di una continua generazione. Allo stesso tempo, quindi, l’immagine è un essere la cui essenza è la visibilità, la parvenza, risiede nel soggetto che la guarda.1

        Così come i cosiddetti segni dello zodiaco sono delle segnature che rimandano ad una relazione di somiglianza fra la costellazione e i nati sotto il segno,implicando una relazione fra il macrocosmo e il microcosmo, così la segnatura originaria, cioè la lingua, si definisce a partire da una somiglianza fra i nomi e le cose, ma proprio questo caso obbliga a intendere la somiglianza non certo come qualcosa di fisico, ma di immateriale. Ecco perché, come dicevamo all’inizio, per Agamben la lingua, in quanto scrigno delle segnature, è l’archivio delle somiglianze immateriali.

        1 G. Agamben, Profanazioni, Roma, Nottetempo, 2005, pp. 59-62

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  5. gino rago

    Un tentativo di esplorazione di un aspetto particolare della Letteratura del Novecento europeo:
    Il ‘900 Europeo dei suicidi
    *
    (un inedito)

    Storia di una-pallottola

    La volontà di fare di sé stessi un fuoco. Una rivoltella.
    Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

    Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
    Daniil Charms a distanza di chilometri

    sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
    «Forse è’ un alieno sulla mia testa o uno starnuto dal Cremlino…»

    La pallotola entra in un monolocale, si ficca in un’altra pistola.
    Parte il colpo. Scoppia il cuore di Vladimir Majakovskij.

    La pallottola-dei-poeti fuoriesce dalla spalla,
    Lascia la stanza:«Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa,

    Non mi fermano né il tempo né lo spazio
    Né le forze di attrazione della terra e della luna».

    Torino. Agosto. 1950. La pallottola-dei-poeti rompe i vetri
    Di una camera dell’albergo Roma.

    Cerca un’altra tempia.O un altro cuore. Afa. Nemmeno un’anima in giro:
    «Tardi, troppo tardi…»
    […]
    Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.
    Sulla copertina dei Dialoghi con Leucò:« Perdono a tutti e a tutti chiedo Perdono… Non fate troppi pettegolezzi».

    La Stampa. Prima pagina. Morto-suicida-Cesare-Pavese.
    La pallottola lascia di corsa la camera dell’albergo.

    Ha fatto in tempo a leggere su un foglietto non visto da nessuno:
    T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

    Un agente della STASI ruba i due foglietti.
    Con il primo treno parte da Torino in direzione di Berlino Est…

    *
    2 variante

    Storia di una pallottola

    Una rivoltella.
    Una pallottola entra nella tempia destra di Carlo Michelstaedter.

    Da Gorizia vaga per anni sulle trincee del Carso, sulle doline, sull’Isonzo.
    Daniil Charms a distanza di chilometri

    sente nell’aria come un sibilo ma non dà peso al fatto:
    «Il miagolio di un gatto o uno starnuto dal Cremlino?»

    La pallottola fa ingresso in un monolocale, entra nel tamburo
    del revolver col manico di avorio di Madame Colasson.

    Parte il colpo. Colpisce al cuore Vladimir Majakovskij.
    poi la pallottola fuoriesce dalla spalla, va in giro per un po’,

    lascia la stanza: «Ho un’altra missione, non posso arrestare la mia corsa».
    Entra nel boudoir di Madame Altighieri

    E colpisce alle spalle il generale d’Aubrey
    in partenza per la guerra di Crimea.

    Torino. Agosto. 1950. La pallottola rompe i vetri
    di una camera dell’albergo di Roma.

    «È tardi, troppo tardi…».
    Il poeta è già morto. Cartine di sonnifero dappertutto.

    Una copia dei “Dialoghi con Leucò”. Sulla copertina c’è scritto:
    «Non fate troppi pettegolezzi».

    Prima pagina de “La Stampa”. «Morto suicida Cesare Pavese».
    Lascia di corsa la camera dell’albergo.

    Ha letto su un foglietto non visto da nessuno:
    T. F. B… Su un altro foglio (Connie).

    Un agente della STASI ruba i due foglietti.
    Con il primo treno parte da Torino

    in direzione di Berlino Est… cerca al telefono
    il Signor Cogito. «È in casa Cogito?».

    «No, non è in casa. È uscito».
    E allora cambia strategia. Si reca ad Istanbul.

    Sull’Orient Express incontra Madame Altighieri,
    si innamora della duchessa e la uccide con un colpo

    di pugnale alle spalle…

    Ma non è questo quello che volevo raccontare,
    era un’altra storia, che però ho dimenticato…

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  6. gino rago

    Nella prima versione appare chiaro che inseguivo troppo “il significato” e questo procedere può diventare una gabbia, un freno inibitore alla libertà completa della nostra immaginazione.
    Nella seconda versione, grazie anche alla approfondita lettura dell’Editoriale di Giorgio Linguaglossa per il prossimo numero della Rivista Il Mangiaparole, rimuovendo il condizionamento dell’inseguimento del “significato” a tutti i costi, l’inedito ha guadagnato in libertà ed entra nello scenario Madame Colasson che capovolge, anzi stravolge la storia della morte di Vladimir Majakovskij: non più suicidio, ma omicidio (non importa se omicidio volontario o involontario) commesso da Madame Colasson. Il regime bolscevico ha nascosto a lungo questa verità? Sulla morte di Majakovskij ha diffuso un’altra notizia falsa fra le tantissime notizie false di regime? E chi si meraviglia delle tantissime “bugie di Stato” adoperate sia dai regimi totalitari sia dalle democrazie occidentali? Allora anche lo stratagemma, tipico di una poesia della NOE, di stravolgere una storia radicata nel tempo e nella memoria collettiva ‘inventando’ un’altra storia al posto della precedente è un gesto di coraggio estetico e dunque è anche un fatto etico, eticamente lecito,
    perché tutti noi d’accordo con Brodskij sappiamo che “l’Estetica viene prima dell’etica”.
    Accanto a Madame Colasson agiscono, per proprio conto, ma nello stesso tessuto poetico, come nel teatrino siciliano dei ‘pupi’ con i fili tirati da un unico puparo, anche Madame Altighieri la quale, con un salto acrobatico spaziotemporale, spara al Genarale d’Aubray sullo sfondo della Guerra in Crimea, per poi saltare a Torino nel 1950, un altro tempo, un altro luogo…con un agente della STASI, ( i cui tentacoli come sapevano tutti erano in grado di arrivare su chiunque e dappertutto, che forse deve redigere un rapporto al Signor Cogito), che a sua volta sopprime Madame Altighieri ma con un pugnale per non far troppo rumore perché viaggiano pugnalatore e pugnalata sullo stesso treno, il treno più elegante ed esclusivo del vecchio Novecento europeo (assassinio sull’Orient Express…). Per noi la scrittura non è lineare, consequenziale, perché non crediamo nel tempo premoderno né nei tempi moderni o postmoderni o ipermoderni, lo stesso dicasi per lo spazio.
    Perché?
    La risposta è anche qui, nella parte finale dell’Editoriale scritto da Giorgio Linguaglossa per il n.9 del trimestrale cartaceo Il Mangiaparole, perché:
    ” il «polittico» è un sistema instabile che fa di questa instabilità un punto di forza. Mi sembra una ragione sufficiente.

    Gino Rago

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  7. Les choses de la vie.
    Onda, sabbia e acqua marina, sono colori. Marie Laure presenta così il suo campo visivo, come di un acquario. Musica, emozione: tempo interno in “tradimento nelle arterie”, l’unico. Appena un sospiro.
    Una cosa bella. Che lei disfa, forse perché non ne vede lo scopo. C’è tanta di quella bellezza al mondo…
    In questa poesia, Marie Laure Colasson tocca aspetti dell’esistenzialismo ma, perché attenta a non identificarsi, lo raffredda.

    Stanza n.5
    E’ per me tra le poesie più riuscite tra le ultime di Giorgio Linguaglossa. Vanno di pari passo piacere estetico e piacere intellettivo. Mi guardo bene dal tentare di risolvere anche uno soltanto tra i tanti quesiti posti magistralmente dal nostro funambolico (…) Tanto la formula magica non gliela do. Ps. La sapessi…

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  8. Riflessione in margine delle poesie di Marie Laure Colasson e di Gino Rago

    Palinodia

    Palinodia, dal greco palin (di nuovo) e ode (canto), è un testo nel quale si contraddice ciò che si era affermato poco prima. Per estensione, fare una palinodia è contraddirsi volontariamente, ciò che suppone al principio una intenzione didattica. Si veda nel Fedro di Platone la celebre palinodia di Socrate.
    Il modo in cui funziona il pensiero poetico, è il modo con il quale si mette in opera, tramite un gioco di proiezione e di rifrazione, un sistema di inferenze, una sorta di auto legittimazione del soggetto che pensa attraverso la giustificazione dell’oggetto che cerca di afferrare il pensiero.
    Il pensiero poetico è un viaggio in viaggio. Possiamo dire che ciò che il soggetto trova alla fine di questo viaggio è se stesso, ma un sé che sarebbe sfuggito alle solite categorie, sociologiche e psicologiche, e che si sarebbe manifestato in ciò che esso è allo stesso tempo un proprio, un singolare, un intrasmissibile, il che non equivale ad universale.
    Lo stupore è una delle fonti della filosofia per i Greci. Crea una sorta di divario, di scarto tra se stessi e se stessi, tra un’emozione e il pensiero. È l’annuncio della dimensione soggettiva del testo. Questa è la base del punctum.
    Nella mitologia, Tyche (nell’antico greco Τύχη, «fortuna») è la divinità custode della fortuna, della prosperità e del destino di una città o di uno stato. Il suo equivalente romano è Fortuna e il suo equivalente germanico, Salvezza o Heil.
    Tyche decide il destino dei mortali, come giocare con una palla, rimbalzando qui e là, simboleggiando l’insicurezza delle sue decisioni. Nessuno dovrebbe quindi vantarsi della propria fortuna o negligenza per ringraziare gli dei per questo, altrimenti ciò comporta l’intervento di Nemesis.
    È associato a Nemesis e Agathodaemon («spirito buono»). Tyché Agatha è la moglie di Agathodaemon. Come altre astrazioni personificate, è anche classificata tra gli Oceanidi nell’inno omerico a Demetra.
    Il movimento del testo sarà di avanzare verso questo incontro senza poterlo determinare, prevedere o dire che avrà luogo. E il testo troverà la sua verità nel momento in cui svolge un simile incontro. Il telos del testo poetico appare quindi fin dall’inizio altamente problematico e auto contraddittorio.
    L’effetto immediato di Tyche è quello di uno svanimento del soggetto. La clinica psicoanalitica del trauma da questo punto di vista ci è preziosa: il travestimento travisamento del trauma in un altro regime linguistico e iconico ci informa di questo svanimento. È solo in una seconda fase che diventa possibile rientrare in qualcosa, vale a dire in qualcos’altro: è l’articolazione tra la Tyche e l’automaton che reintroduce la possibilità della metafora nel testo.
    Il mito per Roland Barthes è uno strumento della ideologia, realizza credenze di cui la doxa è il sistema, nel discorso: il mito è un segno. Il suo significato è un ideologema, il suo significante può essere qualsiasi cosa: «Ogni oggetto nel mondo può passare da un’esistenza chiusa, muta, a uno stadio orale, aperto all’appropriazione della società».1
    L’enunciato: «La bianca geisha entra nel bar», primo verso della poesia di Marie Laure Colasson ci proietta in una situazione mitica e irreale. L’irrealtà fa parte integrante del mito, è grazie ad essa che il mito infrange la doxa e può scrivere dei nuovi significati mediante la duplicazione del significante. L’enunciato finale «La bianca geisha esce dal bar» chiude il cerchio della significazione mitica. Chiude, sigilla il nuovo significato rappresentato dalla duplicazione del significante «geischa».

    1 R. Barthes, Mythologies, Seuil, 1957, p. 216 Miti d’oggi, tr. it. di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini, Pratiche, Parma 1987 p. 195.

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