[Lucio Mayoor Tosi, Trittici, acrilico 2018]
Entre la lettre et le sens, entre ce que le poète a écrit
et ce qu’il a pensé , se creuse un écart, un espace, et comme tout espace,celui-ci possède une forme. On appelle cette forme une figure.
(Gérard Genette, Figures)
Giorgio Linguaglossa
L’Evento e la Metafora come processualità autofagocitatoria del linguaggio
a) La metafora è un atto di predicazione. La teoria della nominazione è del tutto insufficiente per spiegare la metafora.
b) La teoria della deviazione in sé non spiega in modo esauriente l’emergenza di una nuova congruenza di significato.
c) La nozione di un senso metaforico implica una diplopia del referente propria del discorso poetico.
C’è una tesi secondo cui l’enunciato poetico anche se non contiene alcuna parola che sia direttamente metaforica, anzi che evita accuratamente la metafora, può avere una risonanza metaforica che risulta dall’insieme non metaforico. Non discuto sulla plausibilità di questa idea della metafora, che però andrebbe indagata e approfondita, io penso che è il linguaggio, quando è in vita, ad essere naturalmente metaforico, pur contro l’intenzione di ogni enunciato, pur contro ogni intento azionatorio del linguaggio. Per Levinas il linguaggio non è un sistema di nomi che designano un insieme di oggetti già presenti nel pensiero. Parlare è piuttosto «dare un senso figurato, designare al di là di ciò che è designato» e non semplicemente associare un segno a cose, qualità, azioni e relazioni. «La metafora», afferma in modo significativo Levinas, «è ciò che sostituisco all’idea di nome».1 Levinas fa un passo oltre il concetto tradizionale della metafora come nominazione, e ipotizza che la metafora mostra le «figure» del linguaggio, che sono quelle entità che eccedono, vanno oltre la significazione del linguaggio costituito, lo ampliano in quanto lo de-costituiscono. Eccedendo continuamente la fissità di un significato in relazione ad un altro, il linguaggio diventa un orizzonte di significati possibili in rapporto alla struttura intenzionale e inintenzionale del «gioco» nel quale ogni parola è una «figura» di altro. Ogni «figura» abita uno spazio in cui si disloca al di là della messa in scena di somiglianze e di dissimiglianze.
Proprio intorno a questo punto – l’intreccio inevitabile di ontologia, linguaggio e metafora – si articola uno dei passaggi decisivi della lettura decostruttiva di Derrida di Totalità e infinito, in particolare a partire dal sottotitolo dell’opera levinassiana, Saggio sull’esteriorità. Se Levinas, intende mostrare che la vera esteriorità non è spaziale, che c’è un’esteriorità assoluta, infinita, quella dell’Altro, non-spaziale perché lo spazio è il luogo dello Stesso, tuttavia egli deve far uso dell’espressione «esteriorità» per dire questo rapporto non-spaziale. L’opera di Levinas mostrerebbe, suo malgrado, la necessità del pensiero di «abitare la metafora in rovina», l’inevitabilità della metafora, che implica anche l’inevitabilità dell’ontologia: «Prima ancora di essere procedimento retorico nel linguaggio, la metafora sarebbe l’insorgenza del linguaggio stesso. E la filosofia non è altro che questo linguaggio; nel migliore dei casi e in un senso strano del termine, non può che parlarlo, dire la metafora stessa, il che significa pensarla nell’orizzonte silenzioso della non-metafora: l’Essere» (J. Derrida, Violenza e metafisica , cit., p. 143). Tuttavia questa complicità fra metafora e ontologia sarà messa in questione successivamente da Derrida in La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico (in Id. Margini della filosofia , tr. it di M. Iofrida, Torino 1997).
L’arte, come luogo della trascendenza e del gioco, per Levinas non impedisce, anzi, consente il ritorno a sé e all’essere: non è una legge, o un comandamento. Al contrario, la metafora ponendo l’al di là, finisce per legittimare il radicamento nell’essere, abroga ogni tentativo di evasione dall’essere, è il miglior antidoto alla trascendenza. La sentenza appare definitiva: «Ogni metafora resta nell’immanenza».
Heidegger si esprime così, evitando di restare impigliato in soluzioni definitorie del problema:
«Il carattere poetico (Der Dichtungscharakter) del pensiero è ancora velato.
Là dove si mostra, somiglia a lungo all’utopia di una ragione semi-poetica.
Ma la poesia pensante è in verità topologia dell’Essere (des Seyns).
Ad essa dice la dimora del suo essere essenziale (die Ortschaft seines Wesens).»3
Voler espungere la metafora dal linguaggio è un mestiere di Sisifo, nessuno può riuscirci. Ma anche esprimersi con un linguaggio integralmente metaforico è destinato al fallimento, la metafora non si lascia dominare, non si presenta all’appello dell’alzabandiera. Non risponde a chi non si corrisponde. Metaforico è il rispondimento e l’interrogativo, che si danno sempre all’unisono.

Lucio Mayoor Tosi
Voler costringere il linguaggio ad un intento azionatorio-predicatorio è già in sé un atto intimidatorio che la lingua tende ad espellere come un corpo estraneo. Al contrario, la metafora è l’azione del linguaggio che riconosce l’Estraneo, il non-nominato. Nominando il non-ancora-nominato il linguaggio dimostra di essere in vita, di non essere morto. E questa nominazione è, propriamente, l’atto della metafora.
La metafora è il gioco di specchi che fa apparire, rende manifesto, il gioco del linguaggio. Proprio come due specchi posti l’uno di fronte all’altro, essi riflettono il nulla che si cela al loro interno. E questo nulla è la metafora.
Nella Erörterung (la ricerca del Luogo) è coinvolto il problema della metafora. Si tratta della sfiducia del pensatore tedesco nei confronti del linguaggio ordinario. Per l’ultimo come per il primo Heidegger, il linguaggio ordinario resta sotto il segno dell’anonimato del man, dell’opinione, della chiacchiera e del senso comune, che promana sempre già da una concezione impropria e deietta della vera natura del linguaggio. Il linguaggio ordinario è ordinario proprio perché esso non è che l’uso della lingua; in questo uso, le parole sono destinate a logorarsi, all’usura permanente. L’uso delle parole implica la loro usura. Le «parole» (Worte) diventano «vocaboli» (Wörter). In ciò consiste la morte del linguaggio. Questa usura comincia quando le parole sono rappresentate come dei «recipienti» destinati a ricevere un certo contenuto significante. Il senso che riempie così le parole è già un’«acqua stagnante», dice Heidegger. A questa immagine dell’acqua stagnante, il filosofo tedesco oppone l’immagine del pozzo e della sorgente.
L’Ereignis, nella concezione di Heidegger, presenta una somiglianza inquietante con la metafora, concepita come uno scarto del linguaggio. Scarto come qualcosa che viene espulso dal linguaggio per poi farvi ritorno. In questa accezione Ereignis e metafora sono intimamente collegate nel linguaggio, esse si rimandano dall’uno all’altra come in un gioco di specchi e di maschere. Si corrispondono: dove si dà l’uno c’è anche l’altra. La metafora raccoglie ciò che viene scartato dal linguaggio. La metafora che fa ritorno al linguaggio è l’evento a cui il linguaggio stesso si dà, così il circolo del linguaggio viene ripristinato e la lingua può continuare a vivere. Si tratta del circolo metaforico che è in vigore in ogni atto di linguaggio. Possiamo allora dire che in questa processualità autofagocitatoria del linguaggio riposano insieme l’Ereignis e la metafora. E il gioco di specchi può continuare.
La poesia in quanto ha la funzione di preparare l’incontro con l’Estraneo, con l’a-topon sotto tutte le sue forme, esige un’apertura massima dello Erörterung e della visione come apertura all’Inatteso che è compreso nel linguaggio come suo attore fondamentale.
L’aspetto iconico della metafora è proprio del modo di essere del linguaggio, infatti, l’essenza dell’«icona verbale» non è quella di copiare o di riflettere un originale, ma di far vedere-apparire il non-nominato e di imprimere la sua immagine in un elemento che le è estraneo. La funzione iconica del linguaggio non è una semplice funzione descrittiva, poiché essa deve fare precisamente altro rispetto a riprodurre la realtà, deve varcare la soglia della significazione del linguaggio ordinario, compiere un passaggio essenziale, nominare l’Estraneo.
Il linguaggio poetico è Sage (Dire originario) in quanto mostra, fa apparire (die Zeige) la parola. L’uomo non è padrone del linguaggio; Il linguaggio non è uno strumento. Per Heidegger non c’è che il «gioco» del linguaggio, il linguaggio «gioca» con gli attori che lo abitano. Questa idea del linguaggio come «gioco» non deve essere confusa con l’idea dei «giochi linguistici» del secondo Wittgenstein. Per Heidegger ciò che è importante è il gioco stesso, non i giocatori. In queste accezione si può dire che il linguaggio si prende gioco dell’uomo e, giocando con lui, lo rende umano al più alto grado, lo umanizza. Gli uomini che sono «giocati» dal linguaggio sono i poeti, coloro che si lasciano «giocare». L’Ereignis è il «luogo dei luoghi», il luogo dove «gioca» la metafora.
La metafora è il luogo dove si svolge sempre di nuovo il «gioco» della Identità e della Differenza. C’è l’Ereignis perché si dà la metafora. E, viceversa, c’è la metafora perché si dà l’Ereignis.
Il luogo in cui si danno le nozze concubine tra l’Ereignis e la metafora è il discorso poetico.
1 E. Levinas, Note filosofiche varie, in Quaderni di prigionia e altri inediti, tr. it. a cura di S.Facioni, Milano 2011, pp. 233. Cfr. Levinas: au-delá du visible. Études sur les inédits deLevinas, des Carnets de captivité à Totalité et Infini, Cahier de philosophie de l’Université de Caen, n. 49/2012, a cura di E. Housset e R. Calin; C. Del Mastro, La métaphore chez Levinas. Une philosophie de la vulnérabilité, Bruxelles 2012
2 E. Levinas, Note filosofiche varie, cit., p. 336
3 M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens, Pfullingen 1954 – Dall’esperienza del pensiero.1910-1976, tr. it. di N. Curcio, Genova 2011, p. 23.
La relazione di coappartenenza tra l’essere e il linguaggio
Come abbiamo detto, il linguaggio è in relazione di coappartenenza con l’essere, non si pone rispetto all’essere dall’esterno, ma dall’interno, per questa ragione il linguaggio è cieco rispetto all’essere, non lo può vedere. Però la metafora è la modalità con cui il linguaggio si riferisce alla realtà. In tale accezione si può parlare di evento creativo del linguaggio, per cui la «verità metaforica» si trova in relazione profonda con la «verità dell’essere» perché si fonda sulla sospensione e sulla epoché del modo diretto e descrittivo di dire la realtà. Scrive Paul Ricoeur:
«Ciò che viene annullato è la referenza del discorso ordinario, applicata agli oggetti che rispondono ad uno dei nostri interessi, il nostro interesse di primo grado per il controllo e la manipolazione. Sospesi questo interesse e la sfera di significanza che comanda, il discorso poetico lascia essere la nostra appartenenza profonda al mondo della vita, lascia-dirsi il legame ontologico del nostro essere agli altri esseri e all’essere. Quello che così si lascia dire è ciò che chiamo la referenza di secondo grado, che in realtà è la referenza primordiale».19
Per Ricoeur gli enunciati metaforici rimodellano la realtà, la ridescrivono, stabiliscono una corrispondenza tra il «vedere-come» sul piano del linguaggio e l’«essere-come» sul piano ontologico. Così il filosofo francese può affermare che il discorso poetico è retto dalla funzione metaforica del linguaggio, che
«porta al linguaggio un mondo pre-oggettivo entro il quale ci troviamo già radicati, ma anche un mondo nel quale noi progettiamo i nostri possibili più propri.Bisogna dunque spezzare il regno dell’oggetto, perché possa esistere e possa dirsi la nostra primordiale appartenenza ad un mondo che noi abitiamo, vale a dire un mondo che, ad un tempo, ci precede e riceve l’impronta delle nostre opere. In una parola, bisogna restituire al bel termine “inventare” il suo senso, a sua volta,sdoppiato, che vuol dire, ad un tempo, scoprire e creare».20
La procedura metaforica infrange, va al di là del linguaggio descrittivo fondato sul dualismo soggetto-oggetto, e stabilisce il circolo ermeneutico, una relazione circolare tra essere e linguaggio. Si dice l’essere mediante la procedura metaforica. La funzione strumentale propria del linguaggio descrittivo concepisce il mondo come manipolabile. La funzione metaforica sospende l’abitudine a considerare il linguaggio esclusivamente per la sua funzione strumentale. Con la funzione metaforica emerge un nuovo universo dove la realtà e la verità si trovano in una relazione speculare.
È la configurazione dell’esperienza temporale dell’uomo ciò che consente la configurazione metaforica del linguaggio.
19 P. Ricœur, L’immaginazione nel discorso e nell’azione, in AA. VV., Savoir, Faire, Espérer. Les limites de la raison, Pubblications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles1976, pp. 212-213. Questo testo è stato incluso in Du texte à l’action, Paris 1986)., pp. 212-213.
20 P. Ricoeur, La metafora viva, cit., p. 405
Francesco Paolo Intini
«Non esiste un sistema che non sia instabile
e che non possa prendere svariate direzioni».
(Ilia Prigogine)
L’ORA DELL’ He
…
Luna ridens. Lo zoo frustato dal vento.
Straripano le foibe
e tra i denti una gengiva provoca la lingua.
Un mamba in giro per la città.
La boccuccia di un bruco mette spavento
Perché non c’è gelso da mangiare.
Sul ramo si discute di scorbuto
I bambini graffiano radici.
…
13 dicembre 1969, zero Celsius della geometria euclidea.
Occorre fare perno sullo zero assoluto.
La paura messa in cima ai potenziali,
il fluoro da ossidare. Reagiranno le vetrine?
Scontro di placche sotto la val padana
Il monte Bianco schizza sangue sull’ Adriatico
Nel breviario di aguzzino l’abc delle consolazioni.
Un getto raggiunge Atene. Rimbalza peste.
A dirla facile, il bubbone ricuce il petto
Ritornano in sede i denti estinti.
Nemmeno il tempo per un ricovero
che zampilla una budella.
…
Qualcuno ha messo mano all’onnipotenza.
I microbi ci ripensano questa volta.
La malafede dei microscopi fa pendant con la vergogna.
Non piace essere a grandezza d’uomo.
Donne non hanno pace tra i prigionieri.
Il latte scarseggia tra mammelle.
Si trova scampo nell’ aria liquida
Forse tra gameti ci si intende meglio.
Ma qui passano aerei che atterrano nelle banche
I bimbi tornano negli uteri. Un caveau abortisce topi.
L’invasione dei sogni ha il rumore di locuste.
Così gratuito da competere sui mercati.
Non ci sono facce che occupano il risveglio
lo stomaco manda a dire che unico è l’intestino.
…
Kennedy parla sulle porte Scee.
Cambia sesso il campo magnetico.
Le cassette postali però respirano
Urlano in mutuo. Minaccia l’RCA.
Conosce l’inchiostro il posto degli indirizzi.
Si diventa kalashnikov a ogni stretta di mano.
Ingioiellarsi di formiche, sostenere il jazz con un sms
Il valore della mortalità alla portata degli angeli.
…
Ci sarà un concerto d’api. Pink Floyd in lattina.
Chitarre bottinatrici e punti ristoro per le bottiglie.
Per farla breve tutto è già in ambra. I nostri Io
pretesi sani. Coleotteri sul collo di Proserpina .
Il femminile recita in troiano.
I voli da e per, cancellati.
Una particina da borsa, fatta brillare.
Il puzzle della bomba alla mimosa.
Trovare il modo per uscire da Guernica
Nella bocca del cavallo la vagina.
Credevi che avrebbero messo la tua faccia
su un passaporto?
Un cordone attraversa il Muro.
Si respira plasma stamattina.
Lingue mute nell’ attraversare, prossime al vagito
o dentro l’elica di un Jumbo al parto asciutto.
(Inedito)
Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).
La lettura e rilettura attente di questi recenti distici propongono un Francesco Paolo Intini come il WERNER ASPENSTRÖM della NOE.
*
WERNER ASPENSTRÖM
3 poesie
1- TEORIA DELL’ALIMENTAZIONE
Quando la fantasia si è saziata di fantasie
cresce l’appetito per la realtà.
Allora riassapora il pane duro come pietra.
Ora quasi ci accontentiamo delle pietre.
.
.
2- LA SARDINA IN METRÒ
Non voglio lavarmi con quel sapone.
Non voglio lavarmi i denti con quel dentifricio.
Non voglio dormire su quel divano letto.
Non ho bisogno di quella carta igienica.
Non sono interessato a questa polizza assicurativa.
Non ho la minima intenzione di cambiare la marca di sigarette.
Non ho voglia di vedere quel film.
Mi rifiuto di scendere a Skärholmen.
La sardina vuole che si apra la scatoletta verso il mare.
.
.
3- LA CAVALLETTA
Alba,
Arrivare fino a venti.
Una cavalletta si sveglia
e vuole sorprendere il mondo.
Le erbe gialle al bordo della strada
hanno lo stesso nome di Giovanni.
Molto prima del Verbo era il Principio.
*
Ho provato a mettere insieme gli ultimi versi delle 3 poesie. Ecco il risultato che intercetta in pieno l’atmosfera intiniana:
“Molto prima del Verbo era il principio.
La sardina vuole che si apra la scatoletta verso il mare.
Ora quasi ci accontentiamo delle pietre.”
*
Se a questi 3 versi aggiungo il pensiero più famoso del grande poeta scandinavo:
“Il tempo non cicatrizza gli oltraggi del tempo”,
sorprendente è l’esito estetico finale,
eccolo:
“Molto prima del Verbo era il principio.
La sardina vuole che si apra la scatoletta verso il mare.
Ora quasi ci accontentiamo delle pietre.
Il tempo non cicatrizza gli oltraggi del tempo.”
*
(gino rago)
.
Grazie a Gino Rago per questo parallelo con un poeta del mio stesso sangue. Bello scoprire che la Scandinavia è Puglia e che i ghiacciai scavano doline sulle Murge. Quella volta che dormii accanto ad un ghiacciaio lassù, in pieno agosto sentivo aria di casa. Anche qui ci sono fiordi e sottoscriverei tutte le poesie che sono andato a leggere a cominciare da quelle sull’Ombrahttps://lombradelleparole.wordpress.com/2017/02/14/werner-aspenstrom-1918-1997-sei-poesie-verso-una-nuova-ontologia-estetica-traduzione-di-enrico-tiozzo-da-antologia-di-poeti-svedesi-contemporanei-edizioni-bi-bo-1992-con-un-commento-impolitico-d/ Confesso la mia ignoranza. Spero di colmarla volta per volta.
Ahimè è pur vero che qui leggo:
Per me qualche volta il tempo esiste,
qualche volta no.
Il frutto che cade si ferma a metà strada
tra ramo e erba e chiede:
Dove sono?
E dunque non è detto che sia semplicemente andare avanti, seguire una traiettoria irreversibile. Basta mettersi nelle sue uova e nascere istante per vedere il mondo capovolgersi.
Che fine ha fatto Newton?
Esercizio, ginnastica yogging è tutto quel che serve per vedere quel frutto ritornare sulla pianta. Ridiventare seme e poi scomparire nel nulla.
Alla faccia dell’entropia dell’universo:
Il principio precede il verbo.
Il verbo precede il principio.
ciao
e Grazie Ombra
“Qualcuno ha messo mano all’onnipotenza”.
E’ felice ogni avverso limite posto a schianto del commiato dal duale. Sentenzia il non-detto progredito a conoscenza sapienziale.
Soffio imperituro del cui trasmutante aspetto non è dato sembiante.
Si delinea il vasto orizzonte nell’istante decifrato ad assenza.
Mirabile, accende fiamma il nuovo intersecarsi degli eventi a stridore ridesti. Pone commiato, in minimale forma, ogni paradigma o codice prossimo allo zero.
Se soggiace a sua natura ogni cosa, il mito dell’esercizio umano alla pazienza, sprigiona la sua linfa caustica, come dogma irritante.
Dermatite dell’Assoluto in stille di tempo vanificato a teorema.
Indulge il passo e tarda ogni approdo.
Sentirsi estranei al vuoto è percorrerlo in multiverso; estendere il lungo addio oltre l’invisibile, sudditanza al peregrinare di ciclo in ciclo, come se l’Umano dettasse il suo sconcerto.
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Per trama antesignana all’ordito
il cosmo non agita alcun gesto.
Silenzioso assioma balbettato
da eventi insidiosi eppur perfetti.
Il tacitato rullio del pensiero, intercetta
la spiraliforme eclissi della parola.
Vuoto ponderato ad azione.
Attrito postumo all’impatto
quando non v’è stupore nella visione
ma opposta sintesi in idea.
Fossimo nella vibrante Rete Universale
non avremmo che misterioso Codice supremo.
Al battere continuo alla porta dell’assoluto
risponde, in segnale, l’indice di immortalità.
Marina Petrillo
Questo tipo di poesia era già presente in Tommaso Ottonieri. nel 2003, cioè 16 anni or sono.
Una spirale linguistica più che poetica, si era cristallizzata in quel periodo assieme a Durante e Frixione e ad ad altri esponenti della “scuola napoletana” in un esercizio di sperimentazione.iperrealistica e selvaggia.
Tommaso Ottonieri, ha gestito un barocchismo pirografico di quantità e qualità estreme, fatte di verboritmi e di modelli operativi e di prototipi della forma nella designificazione e nell’agrammatismo presenti In Ipertrofica In Esplicit e in Lipotronica remix.
Alcuni autori presenti nella rivista, e mi riferisco in particolare ad Intini hanno varietà linguistiche diverse concepite in camere chiuse e separate per meglio estetizzare,la forma come terapia d’urto del proprio inconscio.
Contini nella sua Enciclopedia del Novecento del 1977 immetteva un termine tecnico nella poesia, ossia “l’espressionismo letterario”, che mi sembra faccia parte di questi testi nell’era della scrittura multimediale e psicosomatica.
Ottonieri? Non so. La mia latitanza è durata un trentennio circa, dall’epoca della gioventù fino al 2010 e dunque infinita è la letteratura che ho da recuperare- prima e più di adesso mi occupavo di quella scientifica del mio settore- ma ci rifletterò. Il mio problema però è: Dinnanzi ai limiti stessi della razionalità scientifica che va avanti per errori e lampi di genio e ad una impotenza assoluta nonché inadeguatezza nel far fronte all’emergenza umana da parte della parola poetica, che poesia è possibile all’epoca della tecnica cioè lo stesso del covid-19 da cui è corrosa e messa in ginocchio? Se in questo momento il metodo scientifico mostra tutta la sua debolezza di fronte all’urgenza di un problema universale, che ci facciamo noi, quale il nostro ruolo? Penso che avremo da lavorare parecchio e riflettere su come parola scientifica e parola poetica possano integrarsi o andare in direzioni opposte. Quali saranno per esempio gli scenari dopo che si sarà raffreddata la lava del vulcano ops! dopo che sarà scomparso il virus?
Lascio la parola al grande Leopardi:
…Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Etc.
…( Canti, la Ginestra o il fiore del deserto di G. Leopardi)
Ciao e grazie
Rispondo alle sue cortesi risposte e all’ampia problematica che potrebbe sorgere nel connubio tra poesia e scienza. Il problema che si pone è ampio ma non impossibile a realizzare. Questo, per quanto riguarda la scienza. Tutt’altra cosa è la funzione della poesia quale linguaggio interconnesso con la scienza. Noi fusione di entrambe le categorie.
Scrive Edoardo Boncinelli su Micromega n. 7- 2010 pag. 195: “Il nostro cervello è molto veloce, ma non è troppo logico, ha una logica, come dire sospesa, una logica approssimata. Ci sono stati molti progressi, molte aggiunte, ma la logica è rimasta essenzialmente la stessa di quella di Aristotele”.
Quindi il linguaggio poetico non può che essere indicativo su tematiche scientifiche da cui possono nascere testi biconici, con citazioni e formule accademiche, in grado di rivelare il principio antropico o qualcosa di questo genere.
La prospettiva che si pone in questo caso è certamente avventurosa, isolazionista, fondamentalmente tecnica, dove l’ identità tra scienza e poesia è diversa l’una dall’altra. Non a caso Marina Cvetaeva sulla genesi del processo creativo, porta l’arte alla luce della coscienza e non all’arbitrio dell’artista, che potrebbe mettere in forse il senso stesso della poesia.
La metafora si presenta in uno inter-spazio, in uno Zwischen, in un framezzo, come in questo verso di Marie Laure Colasson:
Una bianca geisha entra nel bar
La poesia della nuova ontologia estetica si situa in quell’essere-in-mezzo, quello Zwischen di cui ci parla Heidegger. Quel framezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere.
Al poeta è assegnato il posto nel “framezzo”, egli è il mediatore tra gli dei e gli uomini, tra il «non più» degli dèi dipartiti e il «non ancora» del dio che ha da venire (Heidegger). Che io aggiornerei così: il poeta è il mediatore tra l’essere e il nulla, rivela il nulla dell’essere e l’essere del nulla. Per questo il poeta moderno non può che essere profondamente nichilista, anche contro la sua volontà e la sua intenzione. Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere.
Vera aspirazione della poesia è quello essere di casa e rendersi familiare (Heimischwerden) un’inquietante estraneità in cui comunque ci si trova spaesati (Unheimischsein), vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare andando a ritroso.
Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.
Mia madre posa una forbice sui tasti del pianoforte.
Sono due miei versi che non significano nulla di concreto, non hanno un referente, come del resto anche nelle poesie della NOE non c’è nulla del concreto-presente. E forse questo è il modo migliore per poter essere concreti e presenti nel presente-passato e nel presente-futuro. Questo non significare nulla è forse il miglior modo per significare qualcosa di impellente che non può essere detto con il linguaggio del presente, quello della comunicazione.
Un tentativo di Poesia all’epoca del Covid-19
Gino Rago
Chi ha fatto sparire Jimmi Hoffa?
Atelier di Marie Laure Colasson.
Ritagli di stoffa, fotografie, pubblicità, post-it, adesivi, detersivi.
Strutture dissipative.
Entra nella sala degli specchi una Regina.
La Musa degli stracci.
[…]
Thomas Bernhard, in cantina:
«Tutti qualche volta alzano la testa.
Credono di dover dire la verità,
O quella che sembra la verità.
Poi di nuovo incassano la testa nelle spalle…
E questo è tutto».
[…]
A Piazza Mastai
Sei bottiglie di Dalmore vanno in cerca dei personaggi.
Un messaggio da Stoccolma,
Il Signor T. al mio amico di Istanbul*:
« La strada dei poeti non finisce mai,
L’orizzonte corre sempre in avanti».
[…]
Agosto sull’attenti davanti al sole.
Il meriggio entra nel nido del cuculo.
La chiesa gotica. Un protestante sotto il campanile,
L’organo a canne smette di suonare.
Una coppia di rane, un salto nello stagno,
Il suono dell’organo continua nell’acqua.
Foresta dell’Amazzonia. La farfalla sbatte le ali,
Crollano le borse da Tokio a Francoforte.
[…]
Fidel Castro ai fedeli di Cuba:«Chi ha fatto sparire Jimmy Hoffa?
I trasportatori di New York ancora non lo sanno».
L’uomo di Dublino con la mascherina:
«Sono l’Irishman. Ho ucciso io Hoffa.
Conosco la multinazionale del crimine,
I suoi tentacoli nel mondo.
A dicembre scoppierà una bomba a Milano.
I colonnelli usciranno dalle caserme».
In Heidegger «il rapporto tra l’indicare e l’indicato» (symbola) viene reso attraverso il verbo sostantivato das Zeigen (il mostrare), che, come tale, porta in sé le tracce di un significato che viene mostrato come dis-velare (aletheia); attraverso il sostantivo die Zeichen (segni), e il verbo zeichen (indicare) la struttura del linguaggio viene pensata in base al paradigma rappresentativo, cioè il linguaggio come phoné semantikè, mera espressione esteriore di un significato che la precede.
È ovvio che il linguaggio poetico si incentra nel verbo «mostrare» (das Zeigen), infatti, la poesia di Gino Rago si apre con una «presenza»:
Entra nella sala degli specchi una Regina.
La Musa degli stracci.
Chi è questa «Regina»? Ma è l’artigiana degli «stracci», Marie Laure Colasson, nel suo «Atelier»:
Atelier di Marie Laure Colasson.
Ritagli di stoffa, fotografie, pubblicità, post-it, adesivi, detersivi.
Senza molti preamboli, e saltando tutti gli elementi estranei al discorso poetico (verbi, aggettivi, avverbi) viene presentata d’un subito la Phania, la manifestazione, una «struttura dissipativa».
La poesia è un «polittico» e, in quanto tale, ad ogni riquadro, salta da una «situazione» all’altra senza un ordine prestabilito o una regia dall’esterno. La regia del poeta è semmai tutta interna alle «cose» che vengono esibite alla piena visibilità. Il significato dis-velato non precede il linguaggio ma viene trovato dal linguaggio. Nel secondo riquadro del «polittico» incontriamo Thomas Bernhard colto nel momento caravaggesco di un istante. Subito dopo il riquadro si chiude ed ecco che ci viene incontro il terzo riquadro, ma visto dall’interno di una «situazione»:
A Piazza Mastai
Sei bottiglie di Dalmore vanno in cerca dei personaggi.
Sono le «bottiglie Dalmore» che vanno in cerca dei «personaggi», e non il contrario (umoristico ribaltamento del titolo della omonima commedia di Pirandello), indicazione derisoria e amara di un mondo che si è capovolto.
Degno di evidenza è che nel «polittico» non accade nulla, non c’è nessuna azione e quindi non c’è nessun discorso sulla azione, la poesia non argomenta nulla, ma si limita a presentare le «cose». Le «cose» sono, e quindi esse significano qualcosa.
Siamo entrati in una metafisica della presenza, abbiamo abbandonato la metafisica della rappresentazione-descrizione dall’esterno di un io posto e presupposto. Qui siamo già entrati nell’epoca del Coronavirus, della nuova metafisica. Questa è una tipica poesia dell’epoca della fine della metafisica.
M. Heidegger, Der Weg zur Sprache, 1959; trad. it.di A. Caracciolo, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1990, 1973, pp. 191-92.
Giorgio Linguaglossa penetra in ogni sintagma del mio polittico, entra come un Re nell’Atelier di Marie Laure Colasson, accoglie da Re della ermeneutica la Musa degli stracci. Coglie l’eliminazione in atto di preamboli e truismi nei miei distici, spazio assoluto per i sostantivi pronti a farsi immagini e metafore cinetiche: farfalla e rane, ali e stagno, Fidel Castro e Jimmi Hoffa, bomba prevista a Milano, i colonnelli pronti a lasciare le caserme, Bernhard, bottiglie di Dalmore, personaggi, Milaure Colasson nel suo Atelier, l’Irishman e le borse che crollano per un battito d’ali d’una farfalla in Amazzonia, il tutto che si tiene nella interferenza. Ecco dove possono condurre le poetiche del frammento se il poeta del covid-19 si concentra sul sintagma nominale e introduce la, così la direi, “Estetica-della-Interferenza”, anche questa trattata a lungo da L’Ombra delle Parole…Nella poetica del polittico in distici di Linguaglossa e Rago, di Colasson e Gabriele, di Tosi e Intini, di Tagher e Cataldi, di Gallo, Talia, Pierno e qualche altra/altro su questa scia, non c’è nulla, proprio nulla, né di improvvisato né di casuale, quando per rafforzare il pensiero estetico di Francesco Paolo Intini la parola scientifica dialoga con la parola filosofica e le due parole scientifica e filosofica sanno dialogare con la parola poetica. Mi fermo qui.
(gino rago)
Una sola stella.
di Lucio Mayoor Tosi
Aperta la bocchetta dell’aspiratore, un gioco da ragazzi.
Anche la canna dei fumi, è sistemata.
Luna a sinistra, in parte nascosta dall’aletta del cargo.
E’ una bella sera, se così si può dire. Restano pochi murphy.
Domattina le sentinelle si attiveranno, ne arriveranno altri.
L’esposizione al sole sveglierà le menti. Troveremo presto
un nuovo orizzonte. Il sopra e il sotto. Quindi anche il tempo.
Tra il neo sulla spalla e il seno. Pianeti sconosciuti. Distanze
incalcolabili.
Scrivere in una sera un intero libro di poesie. Si può fare.
Come costretti a cantare per sempre l’inno del paese.
Prendersi a schiaffi davanti a un mazzo di mimose.
Robespierre in A2. Coppa gelato e pastis.
Due rubicondi davanti all’altare della biancheria d’asporto.
Le gambe sotto il tavolino del bistrò. Le mani tue, le mie.
Astaroth, Belzebù. Con radice di gelso. Occhio pregnante.
E dunque la saliva.
Freddo e malcapitato inverno. Epatite dei monchi.
Nel frantumato raccolto noi due, quale sia il braccio.
Quale nube di sospiri e tavole.
Vogliamoci bene. Togliamoci le cravatte. Spertichiamo
l’inverosimile. Chi sei tu, chi sono io.
I nostri cervelli hanno forma diversa. Anche le mani.
Gauloises e tintarella. Che ci stiamo a fare qui, insieme?
Teniamo compagnia a quest’uomo impaurito.
Ha le stringhe marce per quanto ha camminato
strascicando i piedi sul volume otto-negletti.
Abbandonati al loro destino, come si suol dire
quando le palpebre fanno da paralume: la corte
a sonagli aspetta solo che passi un rinoceronte
a travolgere le sembianze. Ahimè! Se tu non fossi qui
io neppure potrei esserci. All’origine del cartesiano.
Devo poter muovere un braccio.
Uno scheletro in pizzeria. Moncherino in bocca
allo squalo bianco.
– Interrompiamo la spesa. Comunichiamo i nomi
dei vincitori del concorso “Ammazzete, una reliquia”.
Quattro involtini napoletani seduti al cloroformio:
– Chi di voi sa cosa fece Cagliostro ai debitori di spade,
prima che lo spartissero mari e fiumi da ogni parte?
L’anello del tuo fidanzamento con me. La scarpiera
dove tieni l’accendino. Il libro di tutte le fiabe.
Il flauto di amici in partenza per boschi e valli d’or.
Diverse cucchiaiate di budino crema e caramello.
Senza dire mi-raccomando, ti voglio bene. L’abitino
di chiffon, tratto da un libro di scavatrici nascoste
nel basso fondo di promesse ancora da formulare.
Quel modo di sollevare lo sguardo in amicizia.
Come sulla vetta di una montagna, a un passo
dal niente che sovrasta.
Approvati, ciascuno partirà per la propria atmosfera.
Ma collegati da pistilli trasparenti. Pensieri di lingua
mortale e follia. I senza-radici, le figlie del vento!
Ahi, come lacrime in Portofino. Sul ciglio della strada
scostarsi dalle guance. Ragnetto, muschio profumato.
Alloro. – Segui l’orma all’orizzonte.
Avvia il motore ancora freddo, all’ex discoteca.
Pronto a nuove superfici da percorrere. Fermo
in te stesso – Centro di rieducazione per schiave
superstar, trasferite nel tempo, da un secolo all’altro
degli squilibri di natura. / Elegiaco signor Dei Tali,
deponga le sue scritture sulla sedia, all’ingresso!
Nè maschi né femmine. Neutrini, bambini. Ringraziamo
il giorno per essersi presentato puntuale.
Gioiscono e arrossiscono per ogni nonnulla che si mantenga
nella matematica degli eventi futuri a rapporto.
Nell’abitacolo scorre un fiume di lucette scomparse, a risalire
le braccia, ridiscendere e stare. Sebbene in nessun posto
siano ferme. Intorno è cielo di rondini e nubi sparse.
Vale la pena di lanciarsi in un grido – raro, di fenicottero
accanto a una festosa fontana. Sugli scalini. Paese di naviganti,
Re di cespugli e vertici di aghiformi.
[…]
Vita è sollevare rifiuti dal dicastero delle perdite continue,
prima che sia troppo tardi, e uscire di senno al parking.
Scrollati di dosso i faraoni, senza più dinastie da mantenere
con fatica, ora senza ragione alcuna defluire.
Vivi, come per sempre innamorati di quel niente
che non si lascia dire.
Meglio fermarsi qui. Eravamo in stand by ormai
da diverso tempo. Fammi le condoglianze. E’ morto
l’anello mancante, l’idea partorita nel vagone dismesso
di uno spezzato piacersi. Come baciarsi tra sconosciuti
sul ballatoio. Tutti sposi. Riprendo il cappello,
trascrivo la marca sul registro. Diversi lasciti e il sospeso.
Le parole sono sempre sole. Parole e luce.
Non hanno forma e nella mente nemmeno suono.
Sono memorizzate nell’apparato costitutivo del corpo.
Cappuccette bianche, una simile all’altra.
Piacciono alla lingua dei mentitori, quelli che indossano
maschere da velieri nei loro teatri: l’extra-ordinaria vicenda
della ragione sconfitta da se medesima. In tante salse e tragedie.
Di notte, una ventata di ore tre primaverili. Essenza di buio
in buio di luce gialla. Al tepor dei villici.
Come tra una guerra e l’altra deporre i nostri figli;
tra le azzurre scansie di un vetrofoglio pieno di coloranti.
Entrano continuamente parole future. Come a casa loro.
Una ragazza tiene stretta la piega del tovagliolo.
Altri si ubriacano. Così sono i poeti. I maestri del mondo.
Che lavorano gratis. Per maledizione divina. Per aver ripetuto
il suono di una stella irregolare. Forse perché viva
tra le morte. Una sola stella. Meno di un’abat-jour.
La chicca dei granelli che sempre davano spettacolo.
da mayoorblog.wordpress.com
Il concetto, dovuto a Prigogine, di “strutture dissipative” soggette a “biforcazioni” periodiche non lineari porta un contributo enorme alla comprensione scientifica del nostro mondo, permettendo di descrivere il processo evolutivo di qualunque sistema aperto, in qualunque punto del nostro universo. Tale processo si ripete milioni di volte ogni minuto nelle nostre cellule; presiede anche all’evoluzione dei regni della natura, dei pianeti, delle galassie, e in particolare… della nostra coscienza di esseri umani.
La metafora può essere anch’essa pensata come una «struttura dissipativa» soggetta a biforcazioni e deviazioni non lineari che opera all’interno di un «sistema aperto» per eccellenza quale è la lingua. In ogni lingua in ogni momento della sua vita il «processo conglobativo» quale è la metafora si ripete milioni di volte presso ogni atto di linguaggio e presso ogni parlante, talché possiamo tranquillamente affermare che anche e soprattutto nel linguaggio poetico, come vediamo in queste due poesie di Gino Rago e Lucio Mayoor Tosi è in opera il processo dissipativo della metafora.
Cinque anni fa, all’inizio del “grande progetto” non potevamo immaginare dove ci avrebbe portato la pratica del frammento, con le sue interruzioni, le deviazioni del discorso; la libertà espressiva che ne sarebbe derivata, spesso a costo di apparire superfciali e irresponsabili. Ma questa disobbedienza, a ridosso dell’istante, si è rivelata proficua nel fare emergere identità soggettive, a discapito di fattori ereditati e del loro richiamo. Non ci si piò più confrontare a nulla, se non al nascosto insito nell’idea di poesia. Solo quando viene Dante alla finestra, ecco, un po’ mi vergogno del disordine…
E’ importante riflettere sull’ascendenza e risultanza ideologica di questo tormentare, violare, decomporre linguaggio e ordine logico, tentando di comporre una nuova sintassi e semantica trans-razionale, aperta alle suggestioni dell’inconscio, ” l’incessante mormorìo della bocca d’ombra ”
( Andrè Breton ).
Più che sudditanza a proclami e indicazioni teoriche, scialbo prodotto di laboratorio, assume valore se indica un’ineludibile tensione verso una nuova metafisica, un’istanza ad una rappresentazione e comprensione olistica dell’essere, come nel misticismo laico e nichilista del simbolismo francese di Mallarmè e Rimbaud, o in quello russo, espresso nella religiosità inquieta e visionaria di Blok, Bulgakov, Solovev.
FONDU LENT
luna nera tu tocchi la follia senza vergogna
la morte invecchia sulla foglia
canticchiando felice
la logica fugge a cavallo
– poveretta –
cerca ancora il senso dell’esplosione
congelata nel corpo delle deliziose assenze dei sobborghi
il Fiore supremo è un inguine di fanciulla
i pontefici sorridono
o rivières o saisons
salvatemi dall’estetica che ingiallisce senza figli
il sarcofago è pieno di palpiti e rossori
nuvole
incontinenze d’amore
la plupart du temps
quegli dèi sono troppo stretti per il desiderio
di navate che nasce dal tuo corpo
quanti peccati stellari purificano gli spigoli
la santa solitudine
del macchinario cosmico
salgo in un angolo di rugiada
senza specchi
con troppi fili annodati senza scopo
è il sogno del viale in dissolvenza
chiarore d’angeli che sussurra
non finiremo nella scarpata
Per quanto riguarda la poesia di Francesco paolo Intini mi limito ad una sola osservazione: la sua è una poesia che predilige la «metafora in rovina». Intini preferisce costruire i suoi «polittici» rigorosamente con parole che sono fuoriuscite dal circuito comunicativo, pattizio, concordatario, fiduciario; preferisce l’impiego di parole «in rovina», pezzi di ricambio difettosi e usufritti, parole in contumacia che sono finite dallo sfascia carrozze, parole difettate che sono state espulse dal circuito riproduttivo e rappresentativo della civiltà telematica.
Questa poesia ci dice qualcosa di significativo del nostro mondo, qualcosa che ha a che fare con l’ontologia, la nostra ontologia. Ci dice che il nostro mondo luccicante di vetrine è «in rovina».
Penso che la poesia della nuova ontologia estetica sia profondissimamente estranea alla impalcatura ideologica della poesia di Ottonieri e di Frixione ed altri che negli anni novanta restavano impigliati a ideologemi neoavanguardistici obsoleti già al loro sorgere.
La NOE non si può capire se la si osserva con gli occhiali della vecchia metafisica.