Poesie di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo, Commenti impolitici di Giorgio Linguaglossa, Ciò che resta lo fondano i poeti, materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate

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Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 50×50, acrilico, 2010

Francesco Paolo Intini

Francesco Paolo Intini (Noci, 1954) vive a Bari. Coltiva sin da giovane l’interesse per la letteratura accanto alla sua attività scientifica di ricerca e di docenza universitaria nelle discipline chimiche. Negli anni recenti molte sue poesie sono apparse in rete su siti del settore con pseudonimi o con nome proprio in piccole sillogi quali ad esempio Inediti (Words Social Forum, 2016), Natomale (LetteralmenteBook, 2017), e Nei giorni di non memoria (Versante ripido, Febbraio 2019). Ha pubblicato due monografie su Silvia Plath (Sylvia e le Api. Words Social Forum 2016 e Sylvia. Quei giorni di febbraio 1963. Piccolo viaggio nelle sue ultime dieci poesie. Calliope free forum zone 2016) – ed una analisi testuale di “Storia di un impiegato” di Fabrizio De Andrè (Words Social Forum, 2017).

LUMACHE VS LUCCIOLE

Ampere in libertà
maniaci per le strade.

Al fulmine segue
Un calcolo tra catodo e anodo.

La chiocciola è fuori guscio.
Scivola il Sole sul muco

Uomini con la mascherina trattengono il fiato
non c’è mai stata più poesia di ora,

e in effetti al coro di antenne
segue un sussulto di Terra.

Il commercio di sillabe fu implacabile
Un saliscendi nella spiana di Cheope

una farfalla al prezzo di cento Nobel
in fondo si trattava dello stesso DNA

E non si poteva aspettare che spuntassero mammiferi
Da una marmitta catalitica

Nacque la Fontana e fu chiaro
Lo stimolo di scrivere alla vescica

La vite scrisse tralci sui muri
Inneggiando a Marx- Engels

Trovammo il dirigibile appollaiato sul camino
Il nostro salvadanaio tintinnò minestra

Per un po’ ci si era calmati perché avevamo
La medicina contro la peste

E dunque si trattava di prendere fiato.
Per colazione ceci e bucce di patate.

Non era molto stretto l’interno di calcare
Doveva bruciare idrogeno sulle nostre teste.

Tutto un susseguirsi di levatrici
per un aborto spontaneo.

Non è uno scherzo avere il 1848 a portata di mano
E lasciarlo scorrere come un granello di rosario

Venimmo a guardare il 2048
Putti di Leonardo nel Verrocchio.

una neve di polistirolo ghiacciava i paesaggi
Il tempo germogliava volti di pomodoro.

Ci arrestarono perché avevamo mani di bambini
al posto dei crani e rosette nelle unghie

la fisica, la chimica uscirono dai libri
e furono messi a contare sillabe di viti.

Nessun tralcio doveva eccedere i dieci viticci
Il corrispettivo dell’ ossigeno nei polmoni.

Anche la luna non doveva esagerare con la gravità
Un giro nel cortile e di notte in cella.

Per quante ce ne sarebbero state
Fu prevista una dose di neon.

Nelle stazioni cani lupo strappavano il culo
A chi si attardava a salire sui treni per il 2020.

Il raccordo pulsa senza articolare una sillaba
E di molto le sopravanza nel bisogno.

Affacciarsi ai finestrini e nella grave
Le dita del ghiacciaio.

La vita appartenne ai motori,
i Watts alla digestione.

Quando si tratterà di esistere giungerà un fascio di luce
Un rapido susseguirsi di pallottole sull’olfatto.

Gli occhi spuntano dai guard rail.
Pesci sulla cima della Sfinge.

Arrivò l’ amore delle Assicurazioni.
Esponemmo i crocifissi per essere guardati.

Piccoli bruchi sul filo spinato.

Dai numeri estrapolarono i teschi
Sbattevano i denti. Forse parlavano i fari.


D’altronde le auto non chiedono al sorpasso
Di azionare un tir.

la catalisi mischia il sangue. La farfalla
governa i passi di una prostituta.

Giorgio Linguaglossa

“Veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi.”
“la pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento.”
“L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.”
“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.”

Caro Francesco Paolo Intini,

Questi aforismi di Adorno, tratti da Minima moralia del 1951 sono il miglior commento che io possa fare alla tua poesia. Ai quali ci aggiungerei quest’altro di mia produzione: «Le parole hanno dimenticato le parole».

*

«Ciò che resta lo fondano i poeti» (Hölderlin)

E infatti, ciò che resta sono i materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate…

Acutamente Ewa Tagher afferma che le sue poesie «sono errori di manifattura», errori della catena di montaggio delle parole biodegradate, fossili inutilizzabili… Sono queste parole che richiedono la distassia e la dismetria, sono le cose combuste che richiedono un nuovo abito fatto di strappi e di sudiciume. Non siamo noi i responsabili.

Bandito il Cronista Ideale di un Reale Ideale, resta il cronista reale di un reale reale. Il «reale» del polittico» è dato dalla compresenza e complementarietà di una molteplicità di punti di vista e di interruzioni e dis-connessioni del flusso temporale-spaziale e della organizzazione sintattica e metrica. La forma-poesia della nuova poesia diventa così un «polittico distassico» che contiene al suo interno una miriade di disallineamenti fraseologici, disconnessioni frastiche, di interruzioni, di deviazioni sintattiche e dinamiche, di interferenze e rumori di fondo.

È il «reale» che ha frantumato la «forma» panottica e logologica della tradizione della poesia novecentesca, i poeti della nuova ontologia estetica si limitano e prenderne atto e a comportarsi di conseguenza.

Marina Petrillo

Marina Petrillo è nata a Roma, città nella quale vive da sempre. Ha pubblicato per la poesia, Il Normale Astratto. Edizioni del Leone (1986) e, nel 2016, a commento delle opere pittoriche dell’artista Marino Iotti (Collezione privata Werther Iotti), Tabula Animica, opera premiata nell’ambito del Premio Internazionale Spoleto art Festival 2017 Letteratura. Sta lavorando ad un’opera poetica ispirata a I dolori del giovane Werther di Goethe. Sue poesie sono apparse su riviste letterarie. È anche pittrice.

A baldanza si insinua l’ultimo detto
presago di silenzio.
Non devia del corso suo il canto.

Procede ad orma infrante duttile
all’imminente commiato dall’esistere.

Invisibile alla nullità imperante
naufraga in altra dimensione

senza porre diaframma tra il Sé
e il congiunto suo riflesso.

Attende in sospinto moto l’impresso
lascito e annulla ogni presenza.

Varca il pendio in periplo costante
sino a smarrire l’orientato senso .

Alcun filosofo attende
poiché Poesia attarda in fiacca veste.

Del non smisurato Verbo, Musa.

*

Tutti i mondi si completano a vicenda.
Il raggio divino scende nelle coscienze ad illuminare
le vette dello Spirito.

Siamo nell’assente dormiveglia sino
a quando, toccati dalla tragedia,
non cediamo campo all’invisibile assenso.

Lì ogni cosa tace e dal vuoto nasce
la costola dell’Assoluto Presente. Inquietudine volge
al paradosso e ogni gesto torna a lenta consapevolezza.

Si può morire nell’istante. Si muore all’istante agognato
poiché inesistente. In nullità si procede, buio nel buio,
per giungere all’assoluto.

Il sistema di dominio della ratio si autocelebra nella totalità chiusa del «mondo amministrato». La deposizione della potenza destituente del «mondo amministrato» è una via obbligata per una poiesis critica.

Un pensiero meramente a-sistematico è acritico. Il concetto di totalità di cui il sistema è l’espressione filosofica ha, infatti, una duplice valenza. Il modello di totalità che si è realizzato in Occidente da un punto di vista storico-sociale è quello di una totalità agonistica e intimamente auto contraddittoria che oggi chiamiamo biopolitica, in cui il singolo corrisponde al tutto, afferma Adorno, in base ad una «disarmonia prestabilita». E, tuttavia, il concetto di totalità incamera in sé, come télos, anche il suo opposto: l’idea di una totalità conciliata è una idea utopica, nella quale l’antagonismo tra il tutto e le parti e tra le singole parti è finalmente risolto. In questo orizzonte destinale anche il sapere viene sottoposto alle esigenze della tecnica e smembrato, efficientizzato. La critica non liquida semplicemente il sistema. Semmai è il sistema che liquida la critica. Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.

Scrive Adorno:

«Il frammento che non ospiti in sé un momento di compensazione rispetto a questa dinamica disgregatrice, si rivela non solo impotente, ma rischia di scadere in un cattivo particolare – per questo occorre, afferma Adorno – ricostruire l’istanza utopica che era posta nel cuore dell’esigenza di totalità dell’idealismo anche quando se ne rifiuta il concetto.
Ciò che è giusto nell’idea di sistema: non accontentarsi delle membra disiecta del sapere, bensì procedere verso il tutto, anche se il tutto si rivela essere il falso»1.

E nella Dialettica negativa: «Solo i frammenti in quanto forma filosofica potrebbero far tornare in sé le monadi illusoriamente progettate dall’idealismo. Essi potrebbero essere rappresentazioni nel particolare della totalità irrappresentabile in quanto tale».2
La totalità adorniana viene evocata nella forma benjaminiana della costellazione:

«l’espressione dinamica della costellazione coincide quindi da un lato con la possibilità dell’oggetto di darsi, mostrando la sua eccedenza rispetto all’ente della conoscenza, e dall’altro con quella del soggetto di svilupparsi come altro dal suo essere identità che crea altre identità».3

La totalità che i frammenti intendono restituire come potenza destituente e come indice della propria costellazione non è il «positivo» o il «trascendente» della filosofia tradizionale. Positiva la totalità lo è solo nel senso di imporsi come mero factum sul particolare e nello stesso senso essa è trascendente rispetto a questo perché non è fissabile in alcun punto come tale, e tuttavia, per lo stesso motivo, la totalità è lungi dall’essere impalpabile, è anzi, dice spesso Adorno, l’ens realissimum.

1 Th. W. Adorno, Vorlesung über Negative Dialektik , cit., p. 177.
2 Ibid., p. 167.
3 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., pp. 27-28

Giorgio Linguaglossa

sul concetto di parallasse

È molto importante la definizione del concetto di «parallasse» per comprendere come nella procedura della poesia di Francesco Paolo Intini, ma non solo, anche nella poesia di Marie Laure Colasson e altri poeti della nuova ontologia estetica in misura più o meno avvertita, sia rinvenibile in opera questa procedura di «spostamento di un oggetto (la deviazione della sua posizione di contro ad uno sfondo), causato da un cambiamento nella posizione di chi osserva che fornisce una nuova linea di visione.»

The common definition of parallax is: the apparent displacement of an object (the shift of its position against a background), caused by a change in observational position that provides a new line of sight. The philosophical twist to be added, of course, is that the observed difference is not simply ‘subjective,’ due to the fact that the same object which exists ‘out there’ is seen from two different stations, or points of view. It is rather that […] an ‘epistemological’ shift in the subject’s point of view always reflects an ‘ontological’ shift in the object itself. Or, to put it in Lacanese, the subject’s gaze is always-already inscribed into the perceived object itself, in the guise of its ‘blind spot,’ that which is ‘in the object more than object itself,’ the point from which the object itself returns the gaze *

* Zizek, S. (2006) The Parallax View, MIT Press, Cambridge, 2006, p. 17.

14 commenti

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14 risposte a “Poesie di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo, Commenti impolitici di Giorgio Linguaglossa, Ciò che resta lo fondano i poeti, materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate

  1. gino rago

    Il pensiero di Severino, da poco scomparso, secondo cui “Il poiētēs è il più grande positivo perché porta all’essere le cose dal nulla”, sento di adottarlo in pieno nel caso delle poesie di Marina Petrillo e di Francesco Paolo Intini,
    accanto alla idea di Brodskij del rapporto debitorio/creditorio tra parola e immagine di cui i due, Petrillo e Intini, sanno fare sapiente uso, nella comune, tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse può non essere un granché, ma è in ogni caso sempre qualcosa di importante, soprattutto nel Grande Gelo della stagnazione etica ed estetica che in molti/molte ha congelato le parole.

    (gino rago)

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  2. Un verso nelle mani che funge da pensiero
    sfiora lieve le labbra di una mitragliatrice

    sui fogli i fori combinati
    di un papavero

    o se preferite di una scocca
    disegnano pari pari un papavero e una scocca.

    Alla parete dal finestrino
    un papavero e una scocca.

    Grazie OMBRA.
    (Abbraccio Marina Petrillo e Francesco Paolo Intini)

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  3. L’idea della parallasse come chiave interpretativa mi sembra del tutto adeguata. Un esempio viene da questi versi inediti:

    Lingue di fuoco, forma d’uomo.
    Il dio della prigione.

    Lo stretto di un cilindro.
    Attraversarlo, tornare nella madre.

    Passarono i giorni.
    L’interno di un problema.

    L’ispirazione originaria è venuta dall’osservazione del riccio che abita la mia casa, una variante della lumaca silenziosa, rappresentato nel polittico odierno. Ma c’è anche una bambina che ogni tanto viene a visitarlo, curiosa di sentire la sua voce o perlomeno di vederlo camminare. In realtà tutto ciò che fa è chiudersi non appena gli si avvicina un dito o di sbuffare clamorosamente risentito. In quanto al movimento è tutto molto semplice. Dopo aver tracciato con i suoi odori il territorio, esegue un unico numero: infilare il suo corpo di bruco esagerato, in uno stretto cilindro di cartone e trascinarlo in tutte le direzioni. Si potrebbe pensare ad un calcolo sbagliato che la sua piccola mente non sia in grado di eseguire, ma può anche leggersi un atteggiamento tragico, un’ostinazione che si protrae fino all’esaurimento delle forze, con inevitabile riposo nella sua capiente casetta a fine corsa.

    Cosa è rimasto di tutto questo nei versi precedenti? Un’ombra forse, di certo non c’è modo di pensare al mio Kirby (il suo nome) ma piuttosto a Freud, al mito della caverna di Platone, al mondo tragico.
    È questo mutare sembiante in funzione di una parola cambiata o di un nome omesso la chiave di tutto. La nuova prospettiva ha le caratteristiche di un livello diverso di significato.
    Nella parola dunque si riconosce la natura di gesto, lo stesso del baffo sulla Gioconda o della rottura del Grande Vetro.

    Nel complesso il polittico appare come un DNA mutato nei confronti delle proteine che mandano avanti la vita cellulare e quella del corpo.
    Dove originariamente c’erano enzimi sintetizzati correttamente che eseguivano azioni razionali ed inseriti in un quadro di fini, si ritrovano proteine\immagini sbagliate frutto di informazioni sbagliate a carico della matrice che funziona come se non ci fosse una direzione negli scambi di calore e dunque una direzione del tempo.

    La poesia polittico è una poesia tragica che tenta l’impossibile rivalutazione e beneficio del calore non utile, della plastica bruciata nei cassonetti, dei gas combusti che stendono il loro mantello sul pianeta?
    È la poesia che accetta la mutazione dei geni nel suo lavoro di demolizione degli automatismi impersonali della tecnica?
    C’è del tragico nel voler andare contro le leggi della termodinamica che costituisce il fascino della poesia e attira come una forza sconosciuta e nello stesso tempo antica.
    L’enigma è grande come la contraddizione di un cancro che non porti necessariamente a morte.
    La bambina è paffuta, ha la sapienza di chi conosce solo i propri giochi e pensa che un riccio con le spine irte e minacciose sia un peluche che parla il suo linguaggio, un piccola gemma del non-IO con cui ci si potrà accordare. Nessuna idea invece del muro che la separa dall’ indole dell’animaletto e da quella degli uomini.
    Ma per tutto questo la parola\gesto ancora non c’è . Io penso che sia impegnata in un lavoro contro le direttrici portanti del successo e del potere personale come unici valori possibili per l’uomo moderno, per cui anche il suo racconto prende vie traverse, nonché contrarie e talvolta apparentemente assurde e miracolose da abolire il tempo e far avvenire gli avvenimenti al contrario.

    “Unità e armonia sono al tempo stesso le proiezioni distorte di uno stato conciliato, per una prassi della vita quotidiana che impone il dominio attraverso l’auto-controllo degli impulsi e dei pensieri.” (cit.da questo articolo)

    Anche il più sprovveduto dei generali sa che per vincere una battaglia, anche solo con sé stesso, occorre un’idea in più, talvolta stravagante specie quando l’ esercito che si ha di fronte è infinitamente più potente.

    (Francesco Paolo Intini)

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  4. La farfalla/ governa i passi di una prostituta.

    In questo semplice verso di Francesco Paolo Intini abbiamo un esempio mirabile della procedura poetica del poeta pugliese. Intini compie un «gesto» che parrebbe inconsulto ma che è, invece, premeditato e consapevole, inocula nella poesia italiana un formidabile virus, una sorta di Coronavirus che attacca le cellule del verosimile e del referente consolidato dalla prassi del linguaggio referenziale, uccidendo, strangolando le cellule del consenso condiviso della poesia del verosimile e del referente condiviso.

    Ritengo questo coronavirus pericolosissimo per la sopravvivenza della poesia di accademia, quella che si fabbrica in miliardi di esemplari in tutto il globo. Il signor Intini si guarda bene dal profferire parola che lo possa tradire, preferisce compiere il «gesto» di sottecchi, in sordina, evitando la luce dei riflettori, ma noi l’abbiamo scoperto e identificato. Adesso abbiamo una diagnosi precisa e attendibile dell’assalto del Coronavirus alle cellule del corpo della tradizione della poesia accademica, dobbiamo metterlo in quarantena, isolare il focolaio del virus. Dobbiamo isolare e annientare il Coronavirus, fare piazza pulita degli untori della poesia accademica alla Intini.

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  5. gino rago

    Omaggio ai poeti del polittico in distici da parte mia e da parte della eccellente traduttrice in francese dei miei versi, Edith de Hody Dzieduszycka

    Gino Rago
    La Muse des chiffons

    “Rien n’est plus opaque
    que la totale transparence.
    Le corps est couleur et odeur.
    Les soupirs des ondes rappellent le vent.
    Maintenant seulement j’éclos. Une rose entre les doigts.
    “Prends-la”.
    Je m’aperçois en cet instant seulement que l’arthrite déforme les mains.
    Tout a commencé par une chute.
    […]
    Extraire le mystère.
    Vivante tu te meus dans ton propre corps.
    Mais des bancs de nuages rident
    les visions rationnelles.
    […]
    Se retirer? Si. Se retirer.
    Mais des formes usées du poétique.
    Et se refaire un vêtement.
    […]
    Un habit tout neuf de paroles
    pour la fête et pour tous les jours.
    Se confectionner quelque chose de neuf
    dans l’atelier avec des chutes d’étoffe. Neuve est
    la poésie faite avec les coupons.
    Qui interroge encore l’oracle?
    Qui pose des questions radicales?
    Elle entre comme une Reine dans la salle des miroirs
    la Muse des chiffons.”

    (Trad. di Edith de Hody Dzieduszycka, Roma, 2018)

    (gino rago)

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  6. gino rago

    Al fine di evitare o di impedire che la scrittura poetica in distici venga intesa come mera e fredda “tecnica” appunto di scrittura, credo che giovi ricordare che il distico non è buono per tutte le stagioni, si addice a certi tipi di componimenti mentre per altri può essere addirittura una gabbia, una camicia di forza.
    Voglio dire semplicemente che il distico, come il frammento, devono appartenere alla Weltanshauung dell’autore/autrice già all’atto nascente di una sua poesia, per essere credibile nella sua autenticità una poesia deve essere sentita già in distici prima ancora dell’atto di scriverla.
    La Muse des chiffons, a esempio, non l’ho sentita già in distici e sarebbe stata una forzatura costringerla, comprimerla nel distico.

    (gr)

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  7. Mediante la abolizione di ogni comunicazione verso l’esterno, il linguaggio è diventato se stesso, una potenza detonante di esprimibile che non significa più nulla, che finalmente si è liberato della gravezza della soma di dover significare qualcosa di «utile» all’ontogenesi e alla filogenesi della specie. E invece è accaduto il contrario: quel linguaggio così dipendente dal referente e dal significante si è mutato in porcospino con tutti gli aculei irti, inutili armi della persuasione di massa dei giorni nostri. Intini scopre che la poesia non deve affatto più persuadere nessuno, che la sua migliore prestazione sta nel non dover persuadere nessuno in nessuna circostanza mai, perché il linguaggio mente, è una riserva inesauribile di menzogna e di monete false. E il miglior modo di far parlare il linguaggio è depotenziare le infrastrutture che asserviscono il linguaggio all’uso dell’utile e del comunicabile all’interno della comunità politica.

    Ricondotto alla sua muta capacità di parlare, il linguaggio di Intini viene, infine, salvato. Non redento ma salvato. Il linguaggio salvato si mostra così irredento. Non c’è null’altro in esso che la propria disutile potenza detonante di espressione. Ciò che mostra è semplicemente l’esistenza del linguaggio, che la vera essenza del linguaggio risiede nella epoché dall’onere di ogni referenza, nella sospensione di ogni sua utilità pragmatica. Rende evidente che esiste un medium in cui può aver luogo la comunicazione, e che quello che viene comunicato non è questo o quell’altro, bensì, prioritariamente, la comunicabilità stessa libera e liberata.

    Allora si scopre che, come scrive Agamben, siamo in presenza «non [di] uno stato, ma [di] un evento del linguaggio»,1 e che il linguaggio ha a che fare «non con una grammatica o un’altra, ma con un factum loquendi in quanto tale»,2 allora interrogare questo factum – «leggere ciò che non è mai stato scritto» (Agamben) – “equivale anche a riflettere su cosa significhi essere un «animale politico», secondo la definizione di Aristotele, precisamente in quanto «animale che ha il linguaggio». E rivolgersi alla pura esistenza del linguaggio, liberata dalla forma di ogni presupposizione, vuol dire prendere in considerazione una comunità inconcepibile: una «comunità che viene», senza identità, definita soltanto dalla sua esistenza nel linguaggio in quanto irriducibile, assoluta potenza”.3

    Alla fine, alla fine del percorso della loro destinazione storica «le opere, consegnate al loro gesto supremo, come creature immerse nella luce dell’Ultimo Giorno, sopravvivono al rovinare del loro involucro formale e del loro significato concettuale».4

    1 G. Agamben, Mezzi senza fini, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 92
    2 Ibidem
    3 D. Heller-Roazen, Leggere ciò che non è mai stato scritto, in Giorgio Agamben, Ontologia e politica, Quodlibet 2019 p. 55
    4 G. Agamben, Kommerell, o del gesto, in La potenza del pensiero, Neri Pozza, 2005, p. 241

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  8. Ewa Tagher

    I lavori di Francesco Paolo Intini e Marina Petrillo con i commenti che ne sono seguiti, mi ha riportato alla mente una lettura di qualche giorno fa.
    A proposito di frammenti, scarti, rimasugli, scorie radioattive e al loro rapporto con “l’archeologia del domani”, a proposito di NOE, vorrei sottoporre alla vostra attenzione una poesia di Wislawa Szymborska dal titolo “Archeologia”:
    “E allora, poveruomo,
    nel mio campo c’è stato un progresso.
    Sono trascorsi millenni
    da quando mi chiamasti archeologia.
    […]
    Mostrami il tuo nulla
    che ti sei lasciato dietro,
    e ne farò un bosco e un’autostrada,
    un aeroporto, bassezza,tenerezza
    e la casa perduta.

    Mostrami la tua poesiola
    e ti dirò perchè
    non fu scritta nè prima nè dopo.

    Ah, no, mi fraintendi.
    Riprenditi quel ridicolo foglio
    scribacchiato.
    A me serve soltanto
    il tuo strato di terra
    e l’odore di bruciato
    evaporato nella notte dei tempi”.

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  9. Scrive Giorgio Agamben:

    Nei termini della logica contemporanea, potremmo dire, allora, che il senso della rivelazione è che, se vi è un metalinguaggio, esso non è un discorso significante, ma una pura voce insignificante. Che vi sia il linguaggio è altrettanto certo quanto incomprensibile, e questa incomprensibilità e questa certezza costituiscono fede e rivelazione.

    La principale difficoltà insita in un’esposizione filosofica concerne questo stesso ordine di problemi. La filosofia non si occupa, infatti, soltanto di ciò che è rivelato attraverso il linguaggio, ma anche della rivelazione del linguaggio stesso. Un’esposizione filosofica è, cioè, quella che, di qualunque cosa parli, deve dar conto anche del fatto che ne parla, un discorso che, in ogni detto, dice innanzitutto il linguaggio stesso. (Di qui l’essenziale prossimità – ma anche la distanza – fra filosofia e teologia, almeno altrettanto antica quanto la definizione aristotelica della filosofia prima come theologiké.)

    Ciò si potrebbe anche esprimere dicendo che la filosofia non è una visione del mondo, ma una visione del linguaggio e, in effetti, il pensiero contemporaneo ha seguito con fin troppo zelo questa via. La difficoltà sorge qui, però, dal fatto che – com’è implicito nella definizione che Gaunilone dà della voce – ciò che è in questione in un’esposizione filosofica non può essere semplicemente un discorso che abbia il linguaggio come tema, un metalinguaggio che parli del linguaggio. La voce non dice nulla, ma si mostra, proprio come la forma logica secondo Wittgenstein, e non può pertanto diventare tema di un discorso. La filosofia non può che condurre il pensiero fino al limite della voce: non può dire la voce (o, almeno, così sembra).

    Il pensiero contemporaneo ha preso risolutamente coscienza del fatto che un metalinguaggio ultimo e assoluto non esiste e che ogni costruzione di un metalinguaggio resta presa in un regresso all’infinito. Il paradosso della pura intenzione filosofica è, tuttavia, proprio quello di un discorso che deve parlare del linguaggio ed esporne i limiti senza disporre di un metalinguaggio. In questo modo essa si urta proprio a ciò che costituiva il contenuto essenziale della rivelazione: logos en arché, la parola è assolutamente nel principio, è il presupposto assoluto (o, come Mallarmé scrisse una volta, il verbo è un principio che si sviluppa attraverso la negazione di ogni principio). Ed è con questa dimora della parola nel principio che una logica e una filosofia coscienti dei loro compiti devono sempre di nuovo misurarsi.

    Se c’è un punto sul quale le filosofie contemporanee sembrano trovarsi d’accordo è proprio il riconoscimento di questo presupposto. Così l’ermeneutica assume questa irriducibile priorità della funzione significante affermando – secondo il motto di Schleiermacher che apre Verità e Metodo – che «nell’ermeneutica c’è un solo presupposto: il linguaggio», o interpretando, con Apel, il concetto di «gioco linguistico» in Wittgenstein nel senso di una condizione trascendentale di ogni conoscenza. Questo a-priori è, per l’ermeneutica, il presupposto assoluto, che può essere ricostruito e reso cosciente, ma non può essere oltrepassato. Coerentemente a queste premesse, l’ermeneutica non può che porsi come orizzonte di una tradizione e di una interpretazione infinite, il cui senso ultimo e il cui fondamento devono necessariamente restare non detti. Essa può interrogarsi su come avvenga la comprensione, ma che ci sia comprensione è ciò che, restando impensato, rende possibile ogni comprensione. «Ogni atto di parola», scrive Gadamer, «nell’atto del suo accadere, rende, insieme, presente il non detto a cui esso, come risposta e richiamo, si riferisce». (Si capisce, quindi, come l’ermeneutica, pur richiamandosi a Hegel e a Heidegger, lasci nell’ombra proprio quell’aspetto del loro pensiero che chiamava in causa il sapere assoluto e la fine della storia da una parte, e l’ Ereignis e la fine della storia dell’essere dall’altra.)

    In questo senso, l’ermeneutica si contrappone – ma non in modo così radicale come potrebbe sembrare – a quei discorsi, come la scienza e l’ideologia, che, pur presupponendo più o meno consapevolmente la preesistenza della funzione significante, rimuovono questo presupposto e ne lasciano agire senza riserve la produttività e il potere nullificante. E, in verità, non si vede in che modo l’ermeneutica potrebbe convincere questi discorsi, almeno nella misura in cui essi siano divenuti nichilisticamente coscienti della loro infondatezza, a rinunciare al proprio atteggiamento. Se il fondamento è, comunque, indicibile e irriducibile, se esso anticipa già sempre l’uomo parlante, gettandolo in una storia e in un destino epocale, allora un pensiero che ricordi e prenda cura di questo presupposto sembra eticamente equivalente a quello che, abbandonandosi al suo destino, ne esperisce fino in fondo (e non c’è, in verità, fondo) la violenza e l’infondatezza.

    Non è perciò un caso se, secondo un’autorevole corrente del pensiero francese contemporaneo, il linguaggio è, sì, mantenuto nel principio, ma questa dimora nell’ arché ha la struttura negativa della scrittura e del gramma. Non c’è una voce per il linguaggio, ma esso è, fin dall’inizio, traccia e autotrascendimento infinito. In altre parole: il linguaggio, che è nel principio, è la nullificazione e il differimento di se stesso, e il significante non è che la cifra irriducibile di questa infondatezza.

    È legittimo chiedersi se questo riconoscimento del presupposto del linguaggio che caratterizza il pensiero contemporaneo possa veramente esaurire il compito della filosofia. Si direbbe che qui il pensiero consideri chiuso il suo compito proprio col riconoscimento di quanto costituiva il contenuto più proprio della fede e della rivelazione: la situazione del logos nell’ arché. Ciò che la teologia proclamava incomprensibile per la ragione è ora riconosciuto dalla ragione come suo presupposto. Ogni comprensione è fondata nell’incomprensibile.

    Ma non resta in ombra, in questo modo, proprio quello che dovrebbe essere il compito filosofico per eccellenza, e, cioè, l’eliminazione e l’«assoluzione» del presupposto? Non era forse la filosofia il discorso che si voleva libero da ogni presupposto, anche dal più universale dei presupposti, che si esprime nella formula: vi è il linguaggio? Non si tratta appunto per essa di comprendere l’incomprensibile? Forse proprio nell’abbandono di questo compito, che condanna l’ancella a un matrimonio con la sua padrona teologica, consiste la difficoltà presente della filosofia, così come la difficoltà della fede coincide con la sua accettazione da parte della ragione. L’abolizione dei confini fra fede e ragione segna anche la loro crisi, cioè il loro reciproco giudizio.1

    1 G. Agamben, La potenza del linguaggio, Neri Pozza, 2005, p. 26

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  10. gino rago

    Prendo la palla al balzo da Ewa Tagher, e dalla “poetica delle interferenze” della sua ricerca poetica, verso una “archeologia del futuro”
    per ri-proporre:

    Lo scintillio del bronzo appena fuso

    Lo scintillio del bronzo appena fuso
    o le sue patine-fuochi d’artificio…

    Non più.
    Né la levigatezza del marmo senza vene.

    La materia grezza. La pietra.
    La colata di cera rappresa.

    La ruggine sul ferro.
    I rottami, gli avanzi, i detriti.

    I rimasugli di fonderie, gli scarti,
    gli scampoli nelle sartorie,

    i vetri rotti negli angoli delle vie,
    le parole delle «nuove» poesie…

    Perché siamo uomini del dopo Hiroshima
    in filiformi tralicci di gabbie.

    Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
    Nessuno cerca il suono che manca,

    a meno che il suono non significhi niente:
    ni-ente, non-ente.

    Tutti vogliono un nome,
    perché ogni nome è una benedizione.

    Ma che cos’e un nome?
    Un occhio che brilla tra passato e futuro.

    E invece è una maledizione,
    la nostra maledizione.

    Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
    Le «nuove» parole sono gli stracci,

    tu apri la porta senza bussare:
    un mucchio di cenci in un sacco di iuta.

    (tratta da
    Gino Rago, I platani sul Tevere diventano betulle, Edizioni Progetto Cultura, Roma,
    Sez.1
    Il Vuoto, il Tempo, gli scampoli, la plastica,
    gli stracci, gli specchi, le piazze
    )
    (gino rago)

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    • caro Gino,

      rileggendo la tua poesia non posso fare a meno di notare che c’è nella tua voce, nell’incipit, un residuo di umanesimo, c’è ancora la nostalgia per il mondo del passato. Io direi che la tua procedura ha l’imprinting di una archeologia del passato. Anche il titolo: Lo scintillio del bronzo appena fuso, rimanda all’agambeniano logos en arché, il logos che sta all’inizio di tutto rimanda al mistero dell’enunciato. Noi non sappiamo da dove venga la parola con cui inizia una poesia, è un mistero e, come tale, non è sciolto, non può essere sciolto ma può essere vissuto, attraversato. Forse c’è una «voce», forse la voce precede la lingua umana, sta prima della lingua. La voce ci riporta allo stupore di quell’atto arcaico del thaumatezein, dello spavento o della meraviglia, dello stupore che coglie il vivente davanti alla natura efferata; la voce è quindi parente del dominio che inaugura il logos, o che il logos inaugura.

      Il mistero richiede una liturgia (leitourgia significa opera, prestazione pubblica, da laos, “popolo”, ed ergon “fare come energia”), e la poesia non è nient’altro che una liturgia, un «fare» che accompagna e introduce un mistero. In ciò la poesia è parente stretta della festa, delle festività in onore del dio che è venuto o che sta per arrivare.

      La festività che tu celebri è quella degli stracci, dei sacchi di juta, dei cenci, tu scrivi:

      Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
      Le «nuove» parole sono gli stracci

      e come darti torto? Quali altre parole possiamo usare oggi? Proprio per il rispetto che si deve alle parole, noi, tu richiami al rispetto per le parole del nostro tempo: «Limature. Vinavil. Sagome. Legno. Cenci. Stracci. Scampoli. Detriti. Rottami etc.». Il tempo delle DemoKrature e del sovranismo ha portato in auge le parole del volgo, dell’odio, dell’efferato, mi sembra normale che un poeta consapevole del nostro tempo impieghi le parole del volgo, per il nuovo «volgare» della nostra epoca efferata.

      Eravamo nel 1994, nel corso di una presentazione a Roma del quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, a Giuliano Manacorda che ci attaccò pubblicamente tentando di irriderci per la nostra aspirazione di andare al fondo delle ragioni della crisi delle parole, risposi all’accademico con voce irritata che noi cercavamo le parole «vere», «pesanti», che non sapevamo dove trovarle ma che eravamo in cammino… E così si chiuse quella penosa presentazione.

      Stiamo ancora a questo punto. Stiamo ancora cercando le parole «vere», «pesanti», «tenaci», e abbiamo scoperto che le parole che cercavamo le abbiamo sotto gli occhi in ogni istante della nostra giornata, quelle della barbarie dilagante di oggi.
      Archeologia del passato o archeologia del futuro? Non so, forse in entrambe le archeologie.

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  11. gino rago

    ho fatto copia-incolla dalle ultime bozze de i platani sul tevere diventano betulle e ho combinato un pasticciaccio brutto.. il vero titolo del componimento, compreso nel “ciclo degli stracci, degli scampoli, dei cenci, delle plastiche…” sez. 1, del mio libro che sta per vedere tra non molto la luce è “lo scintillio del bronzo appena fuso” e non, come erroneamente da me stesso riportato, “lo scintillio del piombo appena fuso”, mi scuso con tutte/tutti, sul tema delle interferenze, poi, “interferenze” non soltanto linguistiche, forse è il caso di fare ritorno…
    (gino rago)

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  12. Poesie di Francesco Paolo Intini, Marina Petrillo, Commenti impolitici di Giorgio Linguaglossa, Ciò che resta lo fondano i poeti, materiali combusti, le scorie radioattive, il compostaggio, materiali inerti, non riciclabili, biossido di carbonio, scarti della combustione, scarti della produzione, le parole sporcificate


    Ricevo e pubblico da Maurizio Malta:

    maurizio malta
    09:34 (4 minuti fa)

    IL VACCINO INTERNAZIONALISTA

    In questi giorni non si parla d’altro che dell’epidemia di corona virus. La paura la fa da padrona. E qualche sciacallo ne approfitta per guadagnare punti nei sondaggi.

    L’Italia è il primo Paese a bloccare i voli dalla Cina, i negozi affiggono cartelli e le mascherine sono esaurite. Si guarda con diffidenza chi ha i tratti orientali.

    Industriali, politici ed economisti fanno i conti preoccupati su quanto la crisi inciderà suI ciclo mondiale. E’ quasi una prova generale: quanto è facile che attecchisca il razzismo.

    Ma i fatti hanno la loro forza, a patto che vengano impugnati: scopriamo che è impossibile arrestare l’intreccio e il movimento di merci, persone, notizie. Un mercato mondiale portato storico di secoli di sviluppo. Anche l’oggetto più semplice per arrivare sino a noi attraversa diversi confini ed è frutto della collaborazione di molti.

    Se avessero destinato meno miliardi a costruire missili e portaerei e dirottato più fondi alla ricerca medica, oggi staremmo a festeggiare le vittorie scientifiche contro l’epidemia.

    Ma non possono: la legge del profitto e della concorrenza li obbliga a farsi la guerra tra loro e sprecare tempo e risorse. Basterebbero solo 4 Md l’anno per guarire 59 milioni di bambini denutriti.

    Nel 2017 ne sono morti 6 milioni. La metà entro il primo mese di vita e la maggior parte entro i 5 anni. E non per virus sconosciuti, ma a causa di morbillo, malaria, polmonite, semplice dissenteria.

    Eppure non ci sembra che ciò attiri l’attenzione mondiale, crei indignazione. Anche per un solo venerdì.

    Il nostro mondo tecnologico ed altamente sviluppato avrebbe già Ia risposta a questo massacro, ma non può darla, avviluppato com’è nel suo caos e nelle sue contraddizioni.

    E’ ora di procedere oltre. Doveva arrivare un virus a ricordarci che siamo un’unica specie e che l’individualismo è solo un’ideologia buona a nasconderti la forza che possono avere le persone quando lottano per la stessa causa.

    Ed invece siamo ancora prigionieri di scontri, tensioni, odio nei confronti dei migranti, guerre commerciali e militari.

    A 150 km dalle nostre coste uomini donne e bambini finiscono in lager pagati con i soldi italiani e della UE con l’unica colpa di aver voluto correre il sogno europeo.

    La polizia carica i profughi nei campi greci, in Serbia gli sparano. Negli Usa separano le famiglie catturate lungo il Muro e schiaffano bambini in prigione. Russi, turchi, cinesi o indiani non ci vanno più leggeri. Sono le leggi dell’imperialismo unitario.

    Sono i confini ad essere malati, le frontiere cicatrici che sfregiano il Pianeta e la storia degli uomini.

    Le tragedie del Grande Medio Oriente sono li a ricordarcelo: un milione di morti dall’inizio del secolo.

    Il virus del capitalismo, delle sue crisi, delle sue contraddizioni soffoca l’ulteriore evoluzione della nostra specie.

    L’internazionalismo è già nei fatti, in questi mesi abbiamo visto riempirsi le piazze del mondo: perché diventi una forza ha bisogno delle energie di una classe mondiale. Partendo dal suo cuore europeo.

    RELAZIONE –DIBATTITO
    VENERDÌ 14 – ORE 21
    “Armi, acciaio e malattie nel secolo dell’Asia”

    Circolo Operaio Tiburtina
    via di Porta Labicana 37 {San Lorenzo}

    Circolo Operaio Gianicolense
    C.ne Gianicolense 197

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  13. Siamo nell’assente dormiveglia sino
    a quando, toccati dalla tragedia,
    non cediamo campo all’invisibile assenso.
    – M. Petrillo

    Quando si tratterà di esistere giungerà un fascio di luce
    Un rapido susseguirsi di pallottole sull’olfatto.
    F.P.Intini

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