La vasta area è facilmente visibile dal cielo tramite l’app Google Earth
(https://www.gogle.it/earth/download/gep/agree.html ).
È un luogo adatto alla meditazione.
Per qualche tempo e fino a poco fa l’area sottostante il grandioso quadrivio era abitata da Popoli nomadi che contrariamente a quanto si possa pensare, usavano come giaciglio di riposo i comuni materassi forse rottamati dal popolo degli stanziali. I giacigli abbandonati sono ben visibili tra le ampie arcate del viadotto.
La contemporaneità appare in tutta la sua grandezza.
L’insegna Mc Donald in fondo al viottolone certifica, non più l’avvento, bensì il completamento del nulla poetico.
Mi sono recato in Galleria Zelia Nuttal qualche settimana fa. Ho camminato quasi robotica mente in mezzo ai rifiuti urbani fra decine di murales, per un’ora, forse più. Confermo di aver provato l’effetto di inquietudine e respingimento forse simile a quello che prova Paola Renzetti! Ho pensato anche all’esistenza di luoghi ben peggiori di quanto stava davanti ai miei occhi. Il video che poi ho prodotto e che non mi sembra un granché eccezionale, tenta di figurarci la gran massa di collegamenti e stimoli a cui senza interruzioni è sottoposto il nostro cervello costretto a robotizzarsi contro natura umana. I computer in uso, pur essendo iper veloci, eseguono freddamente un’istruzione alla volta. Le istruzioni provengono singolarmente dai più disparati “luoghi”. Il “coordinatore” decide la precedenza senza peraltro “sapere” il significato dell’insieme prodotto.
Mi è sembrato di intravedere nella poesia di Mario Gabriele una simile disumana descrizione. Anche io, come Mario Gabriele, con il quale mi complimento a tutto cuore per l’audacia dei suoi scritti, integro il “cibo normale” con compresse di estratto da Biancospino e Olivo.
Un vero robot non riesce a piangere. Ecco. Almeno per ora.
Grazie a voi tutti per la disamina competente e accurata del prodotto pubblicato dall’Ombra delle Parole.
(Gianni Godi)
*
Ringrazio per questo nuovo excursus sulla mia poesia e di quanto scrive e riporta in immagini Gianni Godi dalla ”zona periferica di Roma Capitale”. Non sempre la Street Art produce effetti di meraviglia, e quando lo fa si rimane incantati per l’eccezionale riproduzione di immagini e cose.
Le facciate delle case acquistano un’altra estetica. “La contemporaneità”, scrive Gianni Godi, “appare in tutta la sua grandezza”. Nessuno se ne sta accorgendo ma il concetto di Arte sta veramente cambiando forma fuori dalle Pinacoteche.
Quello dell’Arte è un linguaggio potente e storico, così come avviene in poesia. Si slarga negli occhi con tutta la gigantografia scenica, cogliendoci di sorpresa attraverso la trasposizione di soggetti e cose. E’ il nuovo clima culturale a cui andiamo incontro e che determina una testimonianza dell’Arte nel rapporto diretto con la nostra sensibilità. Un esempio lo ha portato proprio Gianni Godi in un suo video con i suoi spettacolari Speech Reader mentre leggono un mio testo poetico.
(Mario M. Gabriele)
Due poesie di Mario M. Gabriele
1
Una casa di soli ologrammi.
Rimettiamo a posto le lettere da Londra.
Milly ha le allucinazioni.
Le dico che non sono né Piero, né Francesca.
Torno a cercare Elizabeth
per una serata tranquilla a bordo di kayak.
Un palazzo esotico lo vorrei con la scritta Hollywood.
C’era un grappolo di sogni nel torchio di novembre.
Maggy ha provato tutti i colori,
tranne il giallo di Klimt.
La Misericordia ha smarrito la strada.
Anaruddha ogni anno si strucca nel Gange.
Mare calmo, mare agitato.
Cerchiamo l’equivalente della tristezza.
Figura senza luce e ripiano.
Così è rimasta nonna Eliodora.
All’alba vennero turisti,
coriandoli di ragazze e black power.
Gli stagisti si fermarono alle citazioni.
Un oratore aprì il Convegno.
– Lasciate i documenti negli scaffali – disse.
– Domani, li bruceremo in un unico Fahrenheit. –
Il cellario fu preso dai gesti assolutori
dei Santi sui Cartelloni.
Gridò: – hanno sequestrato la casa.
La casa era tutto quello che avevamo! –
Caro Mister John, da questo luogo di paese-città
alla tua Portsmouth ce ne sono di storie secolari.
Passeremo le vacanze a Disneyland
o in qualche altro pezzo di questa terra.
Ti piace fare la gita?
oh yes, it’s my dream!
E nessuno ebbe più a formulare sentenze
e avvisi di warning.
2
La tua storia è passata come la Pop Art.
Mutazioni colorate esprimono il tuo volto.
Le collezioni autunnali nelle passerelle di Milano
mi riportano alla Ragazza Carla.
Ritrovo la retrospettiva del 65
e un asset-based economy.
Oggi, a fare da transfert è il Sedatol,
come sonno pseudobiologico.
I nostri nomi li ha ridotti il tempo
per economia di lessemi.
Il granturco si è messo da parte
e le Melinde tardano a riempire il mercatino.
Un penny e un nichelino
sono il tributo che vuole questa vita.
Mi rischiara l’autunno il pensiero fossile
come foglia di frassino ai bordi delle ciminiere.
Una generazione dietro l’altra
trova posto nel giardino di Spoon River.
Un certo modo di sentire le parole
passa per Evergreen e le Guerre Stellari.
Abitudine di July è rifare il viso di Marilyn
come nella serie colorata di Warhol.
Mi distruggo se penso a te sul far della sera.
Ci vuole solo un distico per scrivere un epitaffio.
Foto di Gianni Godi
Mi pare che in Gabriele vi sia la ‘narrazione, ma anche una capacità creativa che trasfigura l’evento quotidiano.
Pochi giorni fa ho chiesto a Mario Gabriele di selezionare due sue poesie dal libro in corso di stampa per Progetto Cultura che fossero in linea con quanto esibisce Zelia Nuttall Gallery (vicino casa mia, all’EUR). Il fatto è che la poesia di Gabriele, se la osserviamo con la lente di ingrandimento, è una poesia fatta di stracci, di rifiuti, di rottami, è un vero e proprio Museo Pompidou all’aperto. E quale miglior poesia di quella di Mario Gabriele per commentare il nostro modo di vita oggi nel supercapitalismo becero e cialtronesco come quello dell’Italia di oggi e, in particolare, di Roma?, della Roma della sindaca Virginia Raggi?
Io penso di essere fortunato del fatto di vivere a Roma. Vivo in una città che del degrado ne ha fatto una sorta di poetica e di estetica. La NOE non poteva nascere se non a Roma, anzi, Roma-Campobasso (città di residenza di Gabriele), due città di provincia dell’Impero mediatico-capitalistico che si estende dall’Alaska a Vladivostok. In questo impero mediatico cialtronesco, sovranista e postruista quale miglior osservatorio se non Roma?, l’Urbe cialtronesca e infingarda è un magnifico Emporio di sozzure e di mediocrità. Quindi considero la capitale all’avanguardia artistica dell’Italia di oggi.
Scrive Mario Gabriele:
Ci vuole solo un distico per scrivere un epitaffio.
Acutamente Lucio Mayoor Tosi in un commento ad un recente post ha detto che con il distico sembra che i versi vengano ad «incasellarsi», ed è vero, penso che il distico imponga, inconsciamente e consciamente una ferrea disciplina all’autore, richieda un cambio di passo, un incespicare, un andare a zig zag, un inciampare continuo tra scatole di birre di latta e bottiglie in plastica abbandonate e materassi dismessi e abbandonati.
Ecco il punto: il passo e il cambio di passo. Una poesia che non abbia in sé questo «passo» e questo «cambio di passo», è una poesia polifrastica generica come se ne legge a miliardi di esemplari. È il passo che detta il ritmo, e il ritmo detta il tipo di versificazione, non viceversa.
Prima viene il «soggetto polittico», bisogna lavorare sul «soggetto molteplice e moltiplicato», e solo in un secondo momento si potrà adire alla «poesia polittico», se è vero che la crisi del logos è la crisi del soggetto, è da qui che bisogna ripartire, è questo il luogo su cui occorre lavorare. È crisi del soggetto e del suo linguaggio. Ciascuno ne tragga le conseguenze quando preme il pennino sulla carta.
Per quanto riguarda la «forma-polittico», poiché qualcuno sussurra che si tratta di un espediente sperimentale, anzi, di un espediente, dico questo: che ha completamente frainteso la ragione profonda del «polittico», cosa difficilissima a farsi, molto ma molto più agevole è fare una filastrocca basata sull’io e sulle sue ubbie, come se ne producono alla catena di montaggio in miliardi di esemplari. Lì tutto è facile, basta mettere in riga qualche battuta di spirito, qualche molcedine del cuore, qualche aspirina per il mal di testa… ma questa non è, ovviamente, poesia, è chiacchiera, vaniloquio.
Pervenuta al suo momento finale, nel dominio tecnico planetario, la fine della metafisica e il trionfo della tecnica realizzano l’occultamento totale dell’essere. Che cosa significa questo? Che non è più possibile discernere con chiarezza gli enti che stanno intorno a noi, che non possiamo neanche discernere il Sé dall’io, che la nostra visione è diventata oscura, pur credendo ingenuamente e infantilmente di continuare a vedere le cose con chiarezza. Questa oscurità che è calata sui nostri occhi è come una cataratta che ci impedisce di vedere. E allora, l’unica cosa da fare è rimuovere con un intervento chirurgico questa cataratta. E aprire bene gli occhi, spalancarli, perché quello che vediamo non è quello che credevamo di vedere.
caro Giorgio, tu magnetizzi una poesia con la tua calamita critica, tutte le volte che in essa appaiono un distico, un polittico, un frammento,tali da annotarli come eventi ben riusciti.E’ un modo di arginare i punti deboli, con le frantumazioni nucleari delle parole indicandone i punti clou. Certamente il linguaggio non si costruisce ricorrendo a frasi di prima battuta, ma occorrono pale meccaniche per scavare nel fondo del subconscio dove pernottano le disgregazioni del nostro paesaggio interno dove le sintesi sono le forme più assolute ed epigrafiche del nostro esistere. Fuori da questi alloggi si rischia la neutralità della poesia che va ancora più emarginata ora che anche le librerie chiudono i battenti.
Un distico di Mario Gabriele:
Le collezioni autunnali nelle passerelle di Milano
mi riportano alla Ragazza Carla.
È chiaro che in questi due versi scritti con lo stile nominale viene certificato il decesso della poesia del verismo della Ragazza Carla (1960) di Elio Pagliarani. Quel tipo di poesia viene da Mario Gabriele posta nel dimenticatoio dei numismatici o, al massimo, nel cestino dove vanno a finire tutte le opere che accettano un concetto dia arte come mimetica del «reale», il che non sarebbe neanche fasullo se non fosse che si dà per scontato che cosa sia il «reale», il che è veramente ingenuo. Che cos’è il reale? Che cosa si intende per reale? Qual è la poesia che dobbiamo fare per essere all’altezza dei nostri tempi?
Ciò che qui viene certificato è quel tipo di poesia, quella mimetica di un certo reale, è deceduta. Ed è anche deceduta qualsiasi impostazione che pensa la poesia e l’arte con il concetto di verisimiglianza al «reale» per via orfica o mistica o minimalista. Il monumento all’orrore della Zelia Nuttal Gallery dell’EUR, è qui a dimostrarlo. Oggi un concetto mimetico della Zelia Nuttal Gallery lo trovi nella poesia di Gabriele, non certo in quella di Pagliarani o in quella dei neoveristi milanesi che ci parlano di Milano e dei suoi quartieri periferici con una elegia desublimata e postruista.
La poesia di Mario Gabriele ci aiuta a vivere all’altezza dei nostri tempi, ci sveglia dal torpore, ci dà una scossa elettrica.
Vuoi comprendere l’essenza vera di una civiltà? Vai nelle discariche, nei cimiteri dei rifiuti, negli immondezzai, secondo i versi, resi noti e diffusi da Giorgio Linguaglossa e da L’Ombra delle Parole, di
Tadeusz Różewicz
“Il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole…
gli immondezzai pieni di vita
e di sorprese.”
L’altro grande tema che s’impone oggi su L’ombra, con l’incontro fecondo Gabriele-Godi-Linguaglossa è il rapporto tra la fotografia e la letteratura.
L’arte della fotografia fin dal suo apparire ha esercitato intense influenze sulla letteratura, sia sul piano tematico, sia su quello della stessa qualità di scrittura, ne ha mutato modi-ritmi-attitudini e ne ha potenziato il senso della autocoscienza. Ma questo è un altro discorso che andrebbe affrontato altrove e in altro tempo.
(gino rago)
Marina Petrillo
(American Style)
Parallelepipedo giallo di anime infrante.
Vige idioma in odore di estraneità.
Si baratta l’eterno
per una Scuola Poetica americana.
Non più sostiene il vedovile verbo
fermentato a slang
se all’essere appartiene vivace
l’esodo dalle intelligenze.
Auspicare grazia da una parola inventata
tramuta il silenzio in breviario delle coscienze.
La nuvola attira magneti.
Denaro asceso a sua grazia.
Infisso sui trinitari bastioni dell’ovvio
abyssus abyssum invocat.
EUR–Nuvola di Fuksas-Roma Convention Center-
Fiera del Libro 2019
* * *
Improvvisare un racconto, come Cechov in punto di morte.
L’ombra si sottrae al segmento spazio temporale.
Il non-detto sussurrato nel giardino dei ciliegi
sorvola lo spazio scenico.
Nell’Uno si acquieta lo stato di presenza.
La lettera scritta ad Olga Knipper traduce
il commiato in ascesa.
Lo accoglie nel Canto di me stesso, il Poeta:
“Io sono vasto, contengo moltitudini”.
(Nella vastità del non-detto, ogni spazio è indescritto lemma)
Marina Petrillo
Un sillabario della sublimazione ispirato da “I dolori del giovane Werther”. Trasformazione alchemica giunta all’apice di un processo in cui l’amore suicida trasmuta in vita . Le epistole transitano nel detto sapienziale e il percorso sentimentale affiora in forma archetipica, esplorando l’aspetto divino insito nel viaggio esperienziale. L’esoterismo di Goethe nutre le molecole di un dialogo interiore in cui gli elementi si combinano e le fasi, nel senso immaginale (Mundus Imaginalis), contaminano una visione interiorizzata.
Il sogno depone il suo vanto in rarefatta armonia, associando all’immagine l’improvvisazione grafica, attraverso segni, guazzi, pittura steineriana, volti a ricomporre l’Alto Cielo di Amore.
Cattura l’immortalità a picco di senescenza
abiura ogni vanto, il giovane Werther
su dirupo avvolto in nebbia e mani sillabanti
della sublimazione, il graffio.
In sembianza parallela si attivano segni
a lamina d’oro, incavi da cui il nulla sgorga
corrosivo. Sceso è l’orizzonte a baluginio
confinante il radiante uni-verso.
In retro linea spira orizzontale
il vento e gocce transitano in mari
di cobalto cielo. Ecco il Re del mondo
giunto all’apice del Vuoto inclinare
l’asse del tempo in remota attivazione
e lì sperdere in baluginio la propria ombra stanca.
(Progetto in divenire)
cara Marina Petrillo,
leggendo le tue poesie ispirate al post di oggi e al nostro comune cammino poetico, mi è venuta in mente una considerazione, un pensiero: la nostra è l’epoca in cui i più potenti telescopi e il fior fiore di astronomi sono impegnati notte e giorno alla ricerca di altri pianeti abitabili nella nostra galassia. A pensarci bene è una follia, una follia andare alla ricerca di un altro pianeta dove andare ad abitare. E il bello è che è stato trovato a 100 milioni di anni luce di lontananza. Ma che senso ha?, mi sono chiesto. Ecco, la tua poesia è un po’ una risposta a questo Assurdo che oggi costituisce il nostro mondo, l’Assurdo di discariche a cielo aperto, di cassonetti di immondizia, del lerciume di strada e dalla Terra dei Fuochi che ammorba la vita a più di un milione di italiani (Giusto quindi il detto: “Prima gli italiani”! da parte dell’ex ministro della Mala Vita e della Propaganda, il cialtrone che bercia dicendo di tutto un lerciume innominabile), la tua poesia vive all’ombra del lerciume delle parole-abbuffate, dei tristi parolai di cui è pieno il nostro mondo… La tua poesia, così eterea e, apparentemente, sublime è invece ben radicata nelle nostre discariche, tra i cassonetti di immondizia stracolmi di rifiuti. D’altronde anche tu abiti qui all’EUR di Roma, quindi hai veggenza diuturna, diurna e notturna della Mala Vita malmostosa dell’Urbe. La tua poesia, cara Marina, si ciba come un corvo o un gabbiano, di questi rifiuti malmostosi, è parte integrante di questa grande discarica qual è diventato il nostro mondo.
E tu ne hai piena contezza.
Io dono
tu droni
noi droniamo
(voce del verbo dronare)
Anche in forma riflessiva
Io ti drono
tu mi droni
noi ci droniamo
Trump, con l’aiuto di un drone missila Soleimani.
L’Iran, per rivalsa missila un boeing (grande azienda americana) con a bordo ucraini e iraniani, tutti morti. Non porgi l’altra guancia, ma occhio per occhio.
Siamo pari, dice l’Iran. Siamo pari, risponde Trump.
E noi ci meravigliamo della “monnezza” a Roma?
La monnezza è una minna.
Dimenticavo di dire che le osservazioni poste in calce a questa poesia valgono anche per la poesia di Mario Gabriele la cui tecnica procedurale è analoga a quella di Marie Laure Colasson e, in genere, noto che la poesia della nuova ontologia estetica si sta orientando nella direzione di ricerca indicata.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2020/01/10/in-una-zona-periferica-di-roma-capitale-tra-leur-e-il-mare-sta-la-zelia-nuttal-gallery-foto-di-gianni-godi-poesie-inedite-di-mario-m-gabriele/comment-page-1/#comment-62527
Una poesia di Marie Laure Colasson
25.
Une blanche geisha entre dans le bar
Arrête le temps
Lilith fixe la vague sur le sable
Les pensées sortent en flottant
En flottant reviennent
Eredia retient un rayon de lune dans la main
L’univers explose sur la 5me symphonie de Beethoven
Des touches de piano jaunies par le temps
Injection goutte à goutte de la trahison dans les artères
Le mystère d’une phalange en Asie
Les paléontologistes se déguisent en stripteaseuses
Les perles se propagent sur les planètes
Astrocinématographique confusionnel
Marie Laure retrouve son sac crocodile
Rapt de la fossette de Maurice Ravel
Lilith Eredia Marie Laure observent la geisha
Eglantine défait sa robe aigue-marine
*
Una bianca geisha entra nel bar
Si arresta il tempo
Lilith fissa l’onda sulla sabbia
I pensieri escono galleggiando
Galleggiando tornano
Eredia trattiene un raggio di luna nella mano
L’universo esplode con la 5ta sinfonia di Beethoven
Tasti di piano ingialliti dal tempo
Iniezione goccia a goccia del tradimento nelle arterie
Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste
Le perle si propagano sui pianeti
Astrocinematografico confusionale
Marie Laure ritrova la sua borsa coccodrillo
Rapimento della fossetta di Maurice Ravel
Lilith Eredia Marie Laure osservano la geisha
Eglantine disfa il suo vestito acqua-marina
Commento di Giorgio Linguaglossa
Come è evidente in questa poesia, Marie Laure Colasson abolisce la funzione performativa e predicativa del verbo, abolisce il verbo, o lo presenta nella modalità riflessiva, in tal modo passa dalla modalità predicativa e performativa del linguaggio alla modalità del puro nomen, alla potenza del nome che non è predicativo di nulla. Il linguaggio annuncia se stesso in quanto libera il nome dalla schiavitù della referenza e diventa auto referente. Liberando la parola dal peso del referente esterno al linguaggio, restituisce al linguaggio la sua potenza denominativa, la parola diventa un atto, un gesto linguistico che esprime la mera potenza del significare e di non significare alcunché, tanto meno esprime l’autoreferenza di un segno o di un senso intrappolato in quel segno. La parola, libera dall’onere di essere segno, diventa nomen che esprime la potenza denominativa del linguaggio.
Il linguaggio decide di auto sospendere la propria capacità di significazione, decide di auto sospendersi, e diventa un sistema di enunciati realmente indipendenti dal segno e dal referente. Il linguaggio che si auto sospende acquista perciò potenza denominativa. Il linguaggio diventa un sistema di enunciati auto sufficienti e auto referenti e quindi al massimo grado significativi proprio in quanto non significano nulla tranne il proprio essere evento di linguaggio.
Riportato alla modalità della mera potenza, il discorso non ha, letteralmente, nulla da dire, il discorso poetico diventa totalmente inespressivo e intransitivo, si rivela essere mero luogo dove avviene il linguaggio e, in quanto tale, totalmente non-comunicativo poiché non c’è nulla da comunicare, nulla tranne che la propria presenza nel linguaggio, tranne l’evento del linguaggio che avviene nel linguaggio. Il linguaggio diventa mero «gesto», il quale, nella definizione di Werner Hamacher, è «ciò che resta del linguaggio una volta che il significato ne sia stato ritratto».1
cit in Giorgio Agamben, Ontologia e politica, Quodlibet, 2019, nota di Daniel Heller-Roazen, p. 54
Trovo notevole come Marie Laure Colasson sappia avvalersi delle parole gettate. Un lettore in grado di apprezzare questo nuovo, ora forse anche tipico procedimento della poesia di nuova ontologia estetica, di certo ne trarrà piacere.
“Il mistero di una falange in Asia
I paleontologi si mascherano da spogliarelliste”
Qui si sa di stare andando fuoripista, verso il nonsenso; che però è altra cosa rispetto alle parole gettate… sempre nel processo da vuoto a vuoto.
Qui si inventano geometrie, nuovi alambicchi per mettere allo scoperto parole che fino a ieri erano di generica epifania. L’intento non è quello di divertire con stravaganze, ma dire in assurdo e con rapida nominazione, l’indefinibile cambio d’immagine. In altra poesia non varrebbe la pena.
Le parole oggigiorno si sentono superflue. Tra quelle più adatte, la gran parte è disoccupata. Quando arrivano è perché già stanno allo sbando.
…
La genialità in “Parallelepipedo”, parola di Marina Petrillo. Lei, così precisa, avvalersi di una tal parola, non bastasse all’inizio, dice tutto della sua opinione su quando poi racconta; fino a “Infisso sui trinitari bastioni dell’ovvio / abyssus abyssum invocat”. Arrivo sempre un po’ in ritardo a capire, ma leggendo e rileggendo, questa poesia mi diverte sempre più… Ahimè, e ahi noi.
La seconda poesia testimonia il suo essere pittrice – “attraverso segni, guazzi, pittura steineriana” – ma vi ho scorto un verso che altamente segna l’evento (non l’immagine):
“su dirupo avvolto in nebbia e mani sillabanti
della sublimazione, il graffio.”
Ci si rende conto dell’immensa fiducia che i poeti hanno nelle parole escluse dal senso e dalla linearità del discorso. Il vuoto con cui vengono accolte, scelte, accudite. Se non è questa poesia ecologica, e per il bene del pianeta…
Cher Lucio ,je te remercie vraiment pour ton commentaire qui a une justesse plus que réfléchie .J’espère que tu comprends le français ,si ce n’est pas le cas ,tu me le dis et je t’écrirai en italien.
Je tiens également à te dire que ton travail de peintre me plait particulièrement .
Marie Laure Colasson
«Le parole oggigiorno si sentono superflue. Tra quelle più adatte, la gran parte è disoccupata», scrive Lucio Mayoor Tosi.
Trovo azzeccatissima questa espressione. Anche le parole, dopo l’uso forzoso e intensificato a cui le sottoponiamo nella nostra vita di relazione, diventano «disoccupate». Qui c’è una verità incontrovertibile. Le parole che sia la Colasson che Marina Petrillo adottano nella propria poesia sono rigorosamente scelte tra quelle che restano «disoccupate». Il lessico e il modus di costruire le fraseologie delle poetesse dianzi menzionate sono propri di chi fa della «disoccupazione» e della «inoperosità» il proprio esclusivo mestiere. Le parole sono scelte per il loro essere factum eloquendi, un fatto di elocuzione e nient’altro, flatus vocis che sconfina nel nulla. Il nichilismo di questo fraseggiare e strofeggiare è il sintomo più appariscente dell’usura cui sono sottoposte le parole della poesia di accademia.
E questo è proprio il procedimento della poesia della nuova ontologia estetica: riassumere nell’impiego le parole rottamate e usufritte. Non è un caso che entrambe le poetesse siano anche pittrici, abituate a strofeggiare e a maneggiare i colori, entità sfuggenti e dissimili l’uno dall’altro. Anche i colori di un quadro devono essere accuratamente scelti tra quelli «disoccupati», che sono stati estromessi dalla catena di montaggio del consenso cui sono sottoposti in ogni istante della nostra vita di relazione.
Proprio delle due poetesse è il rivolgersi alla mera esistenza del linguaggio, libere da ogni sospetto di pre-supposizione, da ogni ingerenza della sup-ponenza con cui il linguaggio viene usato nella generalità dei casi. Certo, si tratta di un linguaggio rigorosamente non-comunicazionale dal quale è stato espunto, accuratamente, ogni ingerenza dell’eventismo fasullo e accattivante con cui si fabbricano le poesie di mestiere. Si percepisce che in queste poetesse manca qualcosa, che non possiedono totalmente il linguaggio, che non hanno alcun rapporto di familiarità con il linguaggio, anzi, il loro linguaggio è quello di un Estraneo che parla una lingua incomprensibile e che dice delle cose irriconoscibili. Il loro è un linguaggio di gesti linguistici, gesti che accadono e che sono veri, reali solo nel momento in cui accadono, in cui il flatus vocis appare e scompare, quasi per dissimulare un difetto di parola che il linguaggio contiene, una approssimazione ineliminabile e inesauribile a qualcosa che sfugge…
Cher Linguaglossa j’espère que Zazie dans le métro va bien , c’est l’unique chose qui ne m’interesse pas
Bien à vous Marie Laure Colasson
Folgorato da un video. Niente a che fare con certe letture ad imitazione di Nando Gazzolo e Alberto Lupo dove arte e sentimento vengono mescolati a quelli buoni del poeta. Tramonti, foreste vergini e cime tempestose di you tube si susseguono sullo sfondo a comporre il sublime. C’è il metallo invece che rende bene l’anima dei versi nella loro eco di epoca saltata in aria, deflagrata in una nuvola di fuoco indifferente alle leggi della gravità. La forza di questo tipo di poesia sta nel mettersi in fase con il pieno- vuoto del mondo che entra in contatto con l’individuo. La poesia del distico è fatta di bianco e nero. Ciò che l’insieme degli anelli trasporta al lettore origina da questo modo di procedere del sistema nel nulla strappando il tempo al non-tempo in cui siamo immersi e dell’universo che ci contiene tutti. Intorno ad una civiltà c’è sempre la sua discarica. Nel film Apocalipto quest’ultimo è rappresentato da un campo di corpi senza testa, che circonda con uno iato la civiltà che fa uso della pietra per costruire le sue case e le piramidi su cui si consuma il sacrificio umano a un dio sanguinario. Al di là c’è il pieno della giungla che per il protagonista in fuga è tutto. Le due civiltà sono perturbate dall’arrivo dei primi conquistadores spagnoli, che interferirà distruttivamente con l’uno e con l’altro. Le teste mozzate di quel film rappresentano al meglio il nulla delle discariche, il blob di ogni evento, compresa la vita umana decerebrata a vantaggio di quella artificiale su cui si concentra ogni sforzo umano senza averne ribrezzo né orrore.
AL 2020ESIMO TENTATIVO
Nascono tigri nelle discariche.
Gli artigli di Marx le zanne di Chaplin.
Anelli di fumo raccontano democrazie
L’aquila nata dalla demenza senile.
Bruciano uno ad uno i fili
Rimane Teseo nella trappola di Berlino.
Il Minotauro corre su un SUV
Ubriaco consuma coca tra le gambe.
Ra-ta-ta-ta all’ Alexanderplatz, il bianco
Accelera le mosse, un varco nel 1547esimo.
Cortez sopravvive a un’operazione di bypass
Controlla i voli del millennio successivo.
Si tratta al 1945simo
L’occasione di trovarsi in un cubo di Rubik.
Accelera signora Goebbels il pasto
Cerca la chiave nel mazzo di carte.
Qualcosa si slega dalla riprovazione
Morfina dall’alto dei vestitini.
Dopo tutto l’anello successivo al tragico
Esige impiccati e desaparecidos.
Si tratterà di seguire una vipera nel suo cammino
il nulla talvolta si allarga all’utero.
Fili d’erba crescono per inginocchiarsi alla luce
corpi senza testa circondano la città del Sole.
Scorre lento il TNT, rapido l’artiglio del cianuro
Deposito di uova nella metropolitana..
E poi l’epoca è un sussulto di oceano.
Affidò la resurrezione al carrello di un Boeing
la luce ad una tigre
Pallottole uscirono dalle tempie.
L’ Atlantico sigillò i buchi.
(Francesco paolo Intini)
caro Francesco Paolo Intini,
C’è qualcosa. C’è la crisi. C’è la crisi che tutti attraversiamo come si attraversa una piazza ventosa. Ci diciamo: «il vento è questa cosa che diciamo crisi, che ci ostacola e ci sospinge indietro», e andiamo avanti. Il nostro andare è un andare contro vento, ma in modo inconsapevole. Ci siamo talmente accostumati a questo vento che ci ostacola e ci imbriglia, e non vediamo più il vento che sempre più forte ci colpisce con le sue raffiche.
«Crisi» in greco significa problema, ostacolo. Ma se non rimuoviamo l’ostacolo la crisi continuerà ad imperversare e a stordirci e a sfibrarci. Più pensiamo in modo positivo che il vento prima o poi cesserà, più pensiamo male e ci inganniamo. E facciamo il gioco della «crisi».
E allora, dobbiamo guardare bene in faccia questa «crisi» e indicarla, chiamarla con il suo nome e cognome. Dobbiamo rimuoverlo questo «ostacolo» che fa «problema». La nostra risposta è una nuova poesia che ha tagliato il cordone ombelicale con la vecchia poiesis e con la recitazione dei Nando Gazzolo e degli Alberto Lupo che mescidano pathos ed epifania. La nuova poesia non potrà più contenere né pathos né epifania. La poesia della nuova ontologia estetica è inter-fanica per eccellenza, questo penso lo abbiano capito i lettori, ed inter-patica. È una poesia raffreddata, ibernata. Anche questo penso sia chiaro.
Prossimamente, presenterò qui sull’Ombra degli Autori di poesia della vecchia ontologia estetica. rispettabilissimi autori che continuano, in buona fede, a fare la poesia del pathos e dell’epifania desublimata (ma pur sempre epifania).
Ecco, penso che sarà una buona occasione per recapitare e ribadire il nostro messaggio per una poesia inter-fanica e inter-patica.
Dopo la fine della metafisica rimane la tecnica.
Penso che dobbiamo guarire la ferita che la tecnica ci ha inferto con la stessa tecnica, impiegando il principio della omeopatia. Dobbiamo diventare omologi o omologisti. Fare del luogo della poesia un territorio omologo a quello della tecnica.
Il luogo che la poesia dovrà pensare è, dice Heidegger, der Sache selbst (la Cosa stessa); e qual è questa cosa misteriosa che la poesia deve pensare dopo la fine della metafisica? Risponderei che è il Dentro, ciò che deve essere dentrificato, e il Fuori, ciò che deve essere fuorificato.
Dentro e Fuori sono le due polarità che si scambiano di posto continuamente, entro le quali il pensiero poetico deve pensare la poesia come il moto del pendolo che va da un qui a un là. E in questo percorso del pendolo è l’esistenza. Il segreto dell’esistenza che il pensiero poetico deve perseguire è questa Cosa misteriosa (der Sache selbst), questa Cosa che va dentrificata e fuorificata. Ecco perché la poesia della fine della metafisica non può che essere la poesia dell’esistenza. O meglio, dell’impossibilità dell’esistenza.
Ma per far ciò occorre mirare ad una lontananza ancora sconosciuta, che bisogna in primo luogo almeno intravvedere, almeno come orizzonte e che può essere aperta solo grazie alla immagine. Là dove la parola manca occorre rivolgersi alla immagine.
La di-svelatezza nomina «quel luogo della quiete (den Ort der Stille), che raccoglie in sé ciò che solo concede disvelatezza (Unverborgenheit)»1; questo luogo viene da Heidegger chiamato «radura dell’Aperto», Lichtung. Riprendendo il concetto goethiano di Urphaenomen, (fenomeno originario), Heidegger intende dire che qui non si ha a che fare con una semplice rappresentazione, ma con un fenomeno che «ci pone davanti il compito di apprendere, interrogandolo, da esso, cioè di lasciarci dire da esso qualcosa».2
Pertanto, la Lichtung viene da Heidegger intesa come quel luogo che permette tanto la possibilità di ogni apparire quanto il venir meno della presenza, un luogo che, parafrasando Husserl, scopre ed insieme occulta; Heidegger difatti precisa che l’alétheia noi dobbiamo pensarla come la «Lichtung, che sola concede essere e pensiero, il loro esser-pre-sente (Anwesen) l’uno all’altro e per l’altro».3
1 M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed essere, cur. E. Mazzarella, Napoli, Guida, 1998, p. 173 p. 186.
2 Ivi, p. 184. Scrive Heidegger ne Il principio di ragione, che «l’essere, nello svelarsi, custodisce il suo proprio, nella misura in cui l’essere, in quanto svelarsi, al tempo stesso si vela. Il velarsi, la sottrazione, è un modo in cui l’essere perdura in quanto essere, si destina, si concede», Id., Il principio di ragione, cura. F. Volpi, Bergamo, Fabbri Editori, 2004, p. 124.
3 Id., La fine della filosofia e il compito del pensiero cit., p. 187
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Michele Arcangelo Firinu
MEMORIA
per Anthony Robbins
Ci è cara Venezia invetriata di acque
e abbiamo timore di perderla
che s’inabissi
che affondino i tesori
messi su dal formicolare dei secoli
carpentieri posatori di pali muratori
scalpellini stuccatori soffiatori di vetri pittori…
ci son cari gli amici i congiunti
abbiamo terrore che s’inabissino
nella trasformazione che chiamiamo morte
non ci si ficca in testa che nell’universo
tutto e tutti siamo un tutt’uno
che morte è copula di vita
c’è un paesaggio lagunoso in fondo al cuore
io lo chiamo Bruciore raccoglie
la cara folla i Penati gli amici i miei Miti
implosi nei cicli che frangono
le precarie identità
dalla montagna dei ricordi
franano senza fragore
massi che si sgretolano
e s’inabissano
a tratti una vena termale
spinge fa riaffiorare
ciottoli levigati
brecciole di memorie
abita qui quel raggio luce energia
provvisoriamente chiamato Anthony
nella mia laguna Bruciore
disperde i suoi doni
messi su formicolando i suoi passi
le passioncelle la sua semenza l’amore
sparso nei continenti
i versi levigati a pomice
sapidi di sale
un refolo d’ironia
sotto il suo sguardo in tralice
arriccia la laguna le piccole onde
di questi miei versi
coi quali ritento l’abbraccio
e ride ride là sullo scoglio
la sua intrepida ombra
(16 novembre 2019)
davvero bella questa poesia di Michele Arcangelo Firinu in memoria di Anthony Robbins spentosi un anno fa.
Poesia che si inanella in momenti progressivi, una discesa nell’Averno in anelli concentrici e dis-concentrici con versi liberi, liberi da ogni traccia di pathos, infatti la nostalgia dell’amico scomparso si riverbera nei versi dilatandone l’interna risonanza e recingendone la sonorità che avrebbe stonato con la compostezza della colonna a-sonora dei versi.
Dopo la fine della metafisica rimane quella cosa gommosa e irriconoscibile che è la tecnica. Vero, anzi verissimo. E’ la tecnica che va ripensata, la tecnica poetica, gli alambicchi del mestiere che vanno rigovernati e rispolverati e messi a nudo. La poesia non può esimersi dal riferirsi alla tecnica pena il suo impoverimento, il suo dimagrimento e il suo spegnimento.
Gentile Michele Firinu,
è questa una poesia che rimane non solo nel legame con la persona a cui è dedicata e va detto che nel genere delle poesie dedicate, questa è bellissima. Ma al di là di questo, unisce molti sensi della vita, dalla simbolica Venezia ( che Anthony adorava) a un senso profondo dell’esistere in cui piacere e smarrimento si intrecciano sino ad arrivare alla terra delle interrogazioni, riportando alla commovente semplicità dell’essere umani una provvisoria risposta. Grazie, grazie.
Mariella De Santis Robbins.
La ripropongo riveduta.
Mi pare adatta all’occassione. Con un papillon.
88
Gli ho preso a bottega tutti adulti
dotati negli arti dell’arte
un metro, una forbice, qualche stoffa
e bastone, pennello e colore. La gioconda sorride. Desueti!
Ha una veste sciantosa
un can can di quando la smise.
Alla curva si sporge e saluta.
Solo olio, una macchia che passa.
GRAZIE.
Buona Ombra a tutti.