
Alfredo de Palchi
Giuseppe Talìa
Alfredo de Palchi e l’Invettiva del secondo Novecento
È sempre esistita, in Italia una grande stagione dell’Invettiva ininterrottamente divisa in due strade maestre e parallele, la prima è quella che fa capo alla linea di denuncia civile, profetica e sferzante che trova origine in Orazio, Giovenale e Dante, la seconda quella goliardica, iperbolica e comico-realistica, alla maniera di un Cecco Angiolieri, per esempio.
Allo stesso modo, nella seconda metà del Novecento le due strade parallele dell’invettiva sono state percorse indistintamente da autori fortemente diversi per caratura e visione della letteratura, come appunto lo sono Pasolini e Sanguineti. In entrambi i casi le due vie maestre spesso incrociano ai crocicchi diverse forme di vituperium, come in Montale (più nessuno è incolpevole), fino ad arrivare a quello che recentemente è stato considerato come l’ossimoro dell’invettiva stessa, ossia la “rencontre lésionnelle”, dove l’oggetto diretto della invettiva incontra il pubblico che legge, il quale viene “colpito” tramite l’incontro choc nella lettura. Scrive a proposito Marie-Hélène Larochelle: «La violence verbale est en effet postulée comme une rencontre, lésionnelle s’entend, dans la mesure où l’échange comporte en soi un paradoxe puisqu’il repose à la fois sur le désir d’établir une communication et sur son refus»1
Nel quadro appena esposto, la poesia di Alfredo de Palchi si situa in una zona contigua e adiacente rispetto alle due vie maestre sopra riportate, seppure le forme retorico-poetiche che l’autore predilige siano da riportare alla linea profetica e sferzante in cui l’io poetico e l’io narrante trovano una definitiva collocazione a partire dal primo libro di poesia di de Palchi, la Buia Danza di Scorpione, pubblicato postumo rispetto al più conosciuto Sessioni con l’Analista (opera d’esordio del 1967), una esperienza psicoanalitica e sociologica che media e approfondisce il risarcimento narcisistico dell’io, dopo l’esperienza traumatica della prigione e dell’accusa di omicidio avvenuto nel dicembre 1944 di un partigiano veronese, Aurelio Veronese, detto “il biondino”, accusa che venne poi sciolta e che permise a de Palchi di riconquistare la libertà:
Solo in epoche malandrine
Leggi malandrine leggi
[…]
libertà dura uomo duro mattoni duri
[…]2
È da quella esperienza traumatica che prenderà corpo la poesia di de Palchi, non solo come riscatto per una ingiustizia subita, per la reclusione ingiusta di un giovane condannato a pagare per una colpa non commessa:
Il pezzo di pane mi nutre
In una putredine di patria
E traffico di truffatori
-il pane
sa di petrolio
lo mastico con bucce di limone
raccolte nelle immondizie3

alfredo de palchi, giorgio linguaglossa, Roma, 2011
È lo stesso autore in una lettera inviata Giorgio Linguaglossa il 15 dicembre 2014, e pubblicata sulla Rivista Internazionale L’Ombra delle Parole a definire il tracciato entro cui è nata e ha preso corpo la sua poesia anticipatrice rispetto alle poetiche che si svilupparono in Italia alla fine degli anni cinquanta del Novecento, in particolare con l’avvento dei Novissimi:
«Le varietà poetiche, pseudo avanguardiste, del secondo Novecento, neanche le classificai nel mio mondo personale. Le avanguardiette le precedetti nel 1948 con Il poemetto Un ricordo del 1945, e pubblicato da Vittorio Sereni nel 1961 nel primo numero della nuova rivista “Questo e altro”; precedette di almeno dieci–quindici anni “I Novissimi” e le avanguardiette seguenti. Quel mondo finse di non averlo letto, e confermò il mio l’amico Leonardo Sinisgalli a New York durante le nostre camminate quotidiane per oltre un mese. Il poemetto menzionato, in uno stile psicologico nuovo per me, finì nel silenzio per non dare voce allo sconosciuto scrittore. Vivevo fuori d’Italia. Non avevo possibilità di farmi sentire, in più mi rifiutavo di chiedere qualcosa a qualcuno. Però ora dico che le menate dei “Novissimi”, avanguardiette, e cosiddette teorie o ricerche poetiche che descrivi, entrarono in un orecchio per uscire dall’altro.»4
Questo mondo non è altro che un abuso, scriveva François Villon. E de Palchi sceglie questo epigramma come calco per sugellare l’invettiva morale che sempre di più caratterizzerà l’opera poetica di de Palchi.
Nei successivi libri i nomi e i cognomi degli attori della storia travagliata verranno resi noti con sempre più corrosiva denuncia:
[…]
mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani
Non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci
[…] 5
Scrive a proposito l’autore in una nota a “Le déluge” contenuta in Paradigm:
La voce di questa breve silloge, dà concretezza all’aldilà (se l’aldilà, con il suo inferno, esiste) e senza timori prorompe in accuse definitive verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli uomini grondanti malvagità, e le vicende grandi e piccole che hanno fatto la mia storia.
Dopo oltre sessant’anni di angherie e di ingiustizie politico-legali e politico letterarie, il rigurgito mi è venuto spontaneo […] 6
Giorgio Linguaglossa, nella monografia critica, La Poesia di Alfredo de Palchi (l’anello mancante del secondo Novecento) Progetto Cultura, Roma, 2017, scrive:
«il suo linguaggio è materico, nervoso, muscolare, manifesta una spiccata revulsione per i linguaggi edulcorati del post-ermetismo. Il suo lessicalismo è violentato e scheggiato, vive in un universo simbolico e iconico che proviene da quella antica fissazione dell’io […] L’Io nella poesia di de Palchi svolge un ruolo assolutamente centrale, ma è anche scentrato, espleta una funzione di riparo psicologico, va in contro tendenza rispetto alla visione che dell’io ha lo sperimentalismo italiano». 7

alfredo de palchi in Italia, 1953
Queste affermazioni del critico aprono spiragli diversi rispetto allo “sperimentalismo” di Pasolini, imperniato sull’impegno sociale e politico, rispetto alla vicende depalchiana che negli anni ha sempre tenuto una propria e personale visione, immutata nel tempo. In de Palchi non c’è traccia, per esempio del poeta drop out, non vi è nessuna recriminazione riguardo ad una sentita lateralizzazione, quanto piuttosto una diretta via di continuazione di un discorso poetico originario e originale che nel trascorrere del tempo non risparmia mai l’invettiva ad personam, non dimidia il filone rivendicativo, ma rivolge lo sguardo verso l’«antropoide», una creatura mitica che nell’aspetto presenta i caratteri somatici dell’uomo, ma che palesa istinti primitivi, crudeli, aggressivi, distruttivi.
Il libro Nihil, edito da Stampa 2016, a cura di Maurizio Cucchi, per esempio, rappresenta uno spartiacque. La prima sezione, dal titolo “Ombre” 1998, inaugura l’innesto di prosa e poesia, dove la prosa è propedeutica alla riedizione di poesie degli anni precedenti:
[…]
poesie che informano sulla mia ingenua insolente perbene scomoda scontrosa e timida fanciullezza e adolescenza ; nient’altro, oppure – perché sono ancora quale mi descrivo ma senza più timidezza – un accenno sparso dove capita per portarvi sulla insincerità dei compagni che tradirono la mia e la loro fanciullezza e adolescenza […] 8
In questa prima sezione siamo nell’ambito della risoluzione e lettura in chiave esplicativa di quello che Giorgio Linguaglossa indica come individualità biologica e singolarità esperienziale.
Nella seconda sezione del libro Nihil, dal titolo “Ombre 2008”, si ricondensa la forma poesia, e riappaiono alcuni temi centrali del precedente libro Foemina Tellus (2005-2009), quest’ultimo tutto incentrato sulla tematica erotica, in cui non mancano gli stilemi propri di un Marziale o di un Catullo: “Ti scrivo con mente pornografica/e corpo pornografico”.9
Dimentichi
che potrei espandere il vortice
dentro l’oceano del tuo corpo smaccato
mosso
tracotante di sbalzi improvvisi
delle verdi vallate che scrosciano
rotolando cupe di acqua
cupa incessante
che ti schiuma la concimaia sterile. 10
Significativa, a pagina 42 del libro Nihil, l’invettiva contro la “folla indegna del bel tempo” in una serie di scatti del parco di Union Square dove il poeta sdegna l’inciviltà dei cittadini che occupano il parco mentre ringrazia “con un cenno di mano” le statue di Lincoln, a nord Washington, a sud, Lafayette, a est, posizionate ai tre angoli del parco, lui, Alfredo, centrale rispetto ai tre grandi Padri degli Stati Uniti d’America, ognuno con un compito ben preciso nel teatro di un quotidiano pomeriggio autunnale: impedire l’accesso nel parco alla marmaglia. A ovest, invece, la statua della Madonna con il Bambino in braccio pare comunichi al poeta una predizione, “preparati per la scalata”; e il poeta a sua volta risponde, “per annunciare il mio discorso dalla montagna.” Ecco, in questo testo è contenuta magistralmente l’intera poetica di de Palchi, la sua totale refrattarietà ad un mondo che l’ha offeso e che continua ancora ad offenderlo; la postura dell’io di de Palchi occupa uno spazio centrale rispetto alla visione del simbolismo, del classicismo lirico moderno, come pure dell’antilirismo di Sanguineti, che come abbiamo visto lo anticipa con il pometto Un ricordo del 1945, o rispetto alle maschere di Raboni; ecco, Alfredo de Palchi si distingue non solo narratologicamente rispetto al quadro letterario di fine anni cinquanta, in quanto non ha subito i modelli precedenti quali, l’ermetismo, il crepuscolarismo, l’elegia tout court, bensì situandosi fin dall’esordio in una zona franca dove l’esperienza empirica dell’autore ha un valore di portata generale.

alfredo de palchi
Vale la pena riportare interamente il testo poetico di pagina 42 del libro Nihil perché il tema della morte che attraversa l’intera silloge frammentata da ricordi, dove versi e prosa si alternano in modo vorticoso, ci riporta un de Palchi tenacemente resistente anche con colei la quale nulla può nulla:
Ottobre di pomeriggio freddo di pioggia
Di foglie che spiccano voli
Da raffiche di vento sotto alberi
Che passano accanto tra panche deserte…
In simili giorni abito il parco di Union Square dove
La folla indegna del bel tempo
Mangia beve vomita e abbandona all’erba e piante
Cartocci plastica giornali sputi
Da disgustare i piccioni … e canestri vuoti di rifiuti
A nord su piedistallo Lincoln
È il turista slavato che porge
Grani a uccelli invisibili –
Lo ringrazio con un cenno di mano
A sud Washington a cavallo rifiuta l’entrata
Alla marmaglia nello sguazzo
Strappando le ombrelle –
Lo ringrazio con un cenno di mano
A est il desolato Lafayette mano destra sul cuore
Con la sinistra indica al suolo la saving bank
Di fronte in greek revival fallita –
Lo ringrazio con un cenno di mano
A ovest Miriam con Jesus in braccio gorgoglia
Dallo spicchio d’acqua
“preparati per la scalata”…
io che capisco se mi interessa di capire mormoro
“su per il tuo fianco a voragine
per annunciare il mio discorso dalla montagna”.
Il recente libro di poesie di Alfredo de Palchi, Eventi Terminali, pubblicato da Mimesis Hebenon, 2019, con introduzione di John Taylor è una silloge incisa con la tecnica dell’acquaforte, mordente, nello stile di Albrecht Dürer, diremmo. La scelta della prosa poetica, l’uso delle sigle per indicare gli attori della storia (SQ=Salvatore Quasimodo), nella prima sezione dal titolo: Bellezza versus Bruttezza, Monologo di Eugenio Montale, in cui il transfert consapevole passa da una relazione significante, nel qual caso la conoscenza diretta e frequentazione di Alfredo e di Eugenio, ad una proiezione e conseguente sostituzione, “lesionelle”, volta a colpire l’oggetto stesso dell’invettiva. In questo caso il termine invettiva trova un punto di riferimento anche nel titolo stesso della sezione, Bellezza versus Bruttezza, Amor sacro versus Amor profano, nella metonimia relazionale tra i due termini del contendere e tra i due attori che ne disputano. Essendo Montale non più vivo, Alfredo de Palchi si sostituisce al poeta degli Ossi di Seppia attraverso l’escamotage dell’immedesimazione:
… “da quell’avrei voluto sono Eugenio il sosia che non manca a nessun se stesso… ma dei due chi si finge poeta…11

Alfredo de Palchi e Giorgio Linguaglossa, Roma, 2011
Tutti i poeti del Novecento, a partire dalla data di pubblicazione di Ossi di Seppia del 1925, hanno dovuto fare i conti, prima o poi, con Eugenio Montale: si pensi, ad esempio, alla poesia sardonica di Mario Luzi “Versi scritti per tenere allegro Montale”,12 oppure il saggio nel quale Sanguineti individua in Montale una sorta di “Inettitudine metafisica [che]… sfocia in una Metafisica dell’Inesistenza.”13 De Palchi non si sottrae alla resa dei conti con il premio Nobel scegliendo una struttura complessa al suo Monologo di Eugenio Montale, basando i testi poetici in prosa sul poeta de Palchi, sul poeta de Palchi che presta la sua voce a Montale, su de Palchi il quarantenne che conosceva Montale, e quindi su Montale l’uomo, il poeta e il poeta nel vestito di Eusebio (John Taylor, Prefazione a Eventi Terminali, 2019).
Echi danteschi si rincorrono nella prosodia di questa prima sezione, in una unità linguistica che da sempre ha sostenuto l’impalcatura poematica di de Palchi. E’ noto il suo pensiero critico circa la poesia italiana imperniata nella bella calligrafia petrarchesca, quando, invece, tutta l’opera depalchiana riconosce in Dante il maestro. Si presti attenzione a tal proposito ai seguenti passi:
benché inganni, bellezza ammira se stessa quanto bruttezza non ingannando ammira…
e ancora,
…nel cuore infernale di nero di seppia è Beatrice che mi folgora di eusebiane “Occasioni”…
… e a imitazione dell’adolescente Dante dietro la chiesa appena fuori casa, io ho goduto di ordinarie erezioni […]
L’invettiva non risparmia nemmeno MLS, alias Maria Luisa Spaziani, che viene ricordata per la grande falcata e per l’ostentazione di “insipidi versi” quando il poeta, sempre con mente pornografica, stravede “invano per quella verticalmente slabbrata…” 14
Alla fine AdP fuoriesce dal corpus di Eusebio, come se il transfert dei ricordi necessariamente si interrompe dopo aver visitato i luoghi più cari e riconoscendo la statuità di almeno tre libri di Montale: Ossi di Seppia, La Bufera, Le Occasioni, di certo preferendo quest’ultimo al contemporaneo SQ, alias Salvatore Quasimodo “vanitoso dei suoi baffetti e dei telegrammi Nobel ancora in tasca?
Di certo Alfredo de Palchi non è uno scaramantico, tutt’altro, il numero 13 gli ha sempre portato fortuna nella sfortuna e le ricorrenze del numero 13 hanno inciso nella sua vita momenti di grande sconforto con momenti di liberazione e di riscatto, come il 13 dicembre del 1947 nel carcere di Poggioreale dove con un mozzicone di matita ha iniziato a graffiare i muri di poesia dando vita al de Palchi Poeta.
Che dire di me, malefico metafisico?… nato di venerdì 13 non reggo il destino sulla scaramanzia… non cerco ferro o legno da toccare con nocche a pugno per scongiuro… che l’evoluzione s’interrompa accomodando accidentalità e colmando l’inefficienza del nulla? … non è il venerdì 13 o il semplice numero la sfortuna ma la disarmonia sgradevole dell’ignoranza… 15
L’ambiente “filosofico e dietetico” secondo la dizione di John Taylor, si complica nella linea comico-realistica dell’ultima sezione del libro, dove un Alfredo de Palchi, da leone che era si trasforma sarcasticamente in un Porco de Porci, non solo per via di quella valvola suina che gli fu impiantata, ma come “occasione” per rivedere ancora una volta in chiave catilinaria la storia stessa dell’antropoide che si ciba di cadaveri:
a me Porco de Porci disgusta essere forzato ad ingoiare lordura e vivere nella lordura come i bifolchi che si credono migliori di me…16
Il finale del libro è apodittico e apocalittico allo stesso tempo, così come lo stesso titolo, Eventi Terminali, suggerisce e con il supporto della bella immagine di copertina dell’opera di Sebastian Stoskopff, Still-Life of Glasses in a Basket, 1644.
Buon compleanno, Alfredo.
(Firenze, 8 dicembre 2019)
- M.H. Larochelle, Présentation a Esthétiques de l’invective, in «Études littéraires», 39, 2, 2008, pp. 7-11, p. 9)
- Alfredo de Palchi, Sessioni con l’Analista, Mondadori 1967
- Alfredo de Palchi, La Buia danza di scorpione (1947-1950)
- https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/03/07/poesie-di-alfredo-de-palchi-da-sessione-con-lanalista-1948-1966-e-da-paradigm-chelsea-editions-2013-con-uno-scritto-di-luigi-fontanella-un-dialogo-tra-alfredo-de-palchi-e-giorgio-linguagl/
- Alfredo de Palchi, Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, NY 2013 pag. 514
- ibidem, pag. 946
- Giorgio Linguaglossa, La Poesia di Alfredo de Palchi, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2017
- Alfredo de Palchi, Nihil, Stampa 2016 ibidem, pag. 36
- Alfredo de Palchi, Paradigm, New and Selected Poems 1947-2009, Chelsea Editions, NY 2013 pag. 380
- Alfredo de Palchi, Eventi Terminali , Mimesis Hebenon 2019, pag. 13
- Mario Luzi, Tutte le Poesie, Garzanti 1991, pag. 714
- SANGUINETI, E. Montale e la mitologia dell’“inetto” (1989) In: _____. Il chierico organico. Milano: Feltrinelli, 2000, pag. 239
- Ibidem, Eventi Terminali, pag. 25
- Ibidem, pag. 40
- Ibidem, pag. 50
Giorgio Linguaglossa
Brodskij ha scritto: «dal modo con cui mette un aggettivo si possono capire molte cose intorno all’autore»; ma è vero anche il contrario, potrei parafrasare così: «dal modo con cui mette un sostantivo si possono capire molte cose intorno all’autore». Alfredo De Palchi ha un suo modo di porre in scacco il discorso poetico maggioritario: lo ignora totalmente; applica gli aggettivi e i sostantivi o al termine del verso, in espulsione, in esilio, o in mezzo al verso, in stato di costrizione e coscrizione, subito seguiti dal loro complemento grammaticale. Che la poesia di De Palchi sia pre-sintattica, credo non ci sia ombra di dubbio: è pre-sintattica in quanto pre-grammaticale, in quanto pre-storica. C’è in lui un bisogno assiduo di cauterizzare il tessuto significazionista del discorso poetico introducendo, appunto, delle ustioni, delle ulcerazioni semantiche, e ciò per ordire un agguato perenne alla perenne perdita dello status significante delle parole. Ragione per cui la sua poesia è pre-sperimentale nella misura in cui è pre-storica. Ecco perché la poesia di De Palchi è sia pre che post-sperimentale, nel senso che si sottrae alla storica biforcazione cui invece supinamente si è accodata gran parte della poesia italiana del secondo Novecento. Ed è estranea anche alla topicalità del minimalismo europeo, c’è in lui il bisogno incontenibile di sottrarsi al discorso poetico maggioritario e di sottrarlo ai luoghi, alla loro riconoscibilità (forse c’è qui la traccia dell’auto esilio cui si è sottoposto il poeta in età giovanile dopo aver subito sei anni di carcerazione preventiva in attesa di un processo dal quale sarà prosciolto dall’accusa infamante di omicidio). Nella sua poesia non c’è mai un «luogo», semmai ci possono essere «scorci», veloci e rabbiosi su un panorama di detriti di un «luogo». Non è un poeta raziocinante De Palchi, vuole ghermire, strappare il velo di Maja, spezzare il vaso di Pandora.
Così la sua poesia procede a zig zag, a salti e a strappi, a scuciture, a fotogrammi psichici smagliati e smaglianti, sfalsati, sfasati, saltando spesso la copula, passando da omissioni a strappi, da soppressioni ad interdizioni.
*
Potessi rivivere l’esperienza
dell’inferno terrestre entro
la fisicità della “materia oscura” che frana
in un buco di vuoto
per ritrovarsi “energia oscura” in un altro
universo di un altro vuoto
dove
la sequenza della vita ripeterebbe
le piccolezze umane
gli errori subordinati agli orrori
le bellezze alle brutture
da uno spazio dopo spazio
incolume e trasparente da osservarla io solo
rivivere senza sonni le audacie
e le storpiature
persino le finestre divelte
i mobili il violino il baule
dei miei segreti
tutti gli oggetti asportati da figuri plebei
miseri femori.
(21 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)
*
Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto.
(22 giugno 2009, da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)
*
Pretendi di essere il falco
che sale in volo
sussurrando storielle infertili
e vertiginosamente precipiti sulla preda
che corre alla tana del campo
mentre ti senti potente con il rasoio
alla mia gola
Guerrino Manzani
non è così che accade
sei troppo tonto e bugiardo nel tuo fagotto di stracci
a brandelli dalla tua preda
io
che ti gioca le infinite porte del cielo
ti eutanasia nella vanità
di barbiere da sottosuolo dove
a bocca colma della tua schiuma
ti strozzi finalmente sgraziato
non puoi vedere lo spirito malvagio che sai di possedere
gli specchi del vuoto fanno finzione
volando a pipistrello sei dannato
a rasoiarti la gola
a cercare il tuo nulla dentro il nulla
(27 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)
*
Che tu sia sotto
in mucillagine di vermi
o sopra
a vorticare nel vuoto
rimani il bifolco delle due versioni
nell’oscurità totale
finalità troppo benigna per te
Nerone Cella seviziatore
rapinatore violentatore
le visioni di troppa madre di cristo
nella tua cella
non ti salvano con i tuoi compagni di tortura
subito spersi nell’Adige
il mio augurio di qualsiasi morte a voi
che vi dànno tra la terra e il primo spazio
mentre mi cinghiate mi bruciate le ascelle
mi spellate
la tua vergogna è alla luce dove
ti conto l’eternità di tempeste drammi nuvole
dove qui sta l’inferno
e tu flagellato alla gogna
designato a seviziare rapinare
e violentare carnalmente i tuoi compagni
di tortura e di malaffare.
(28 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013 )
*
Di poca intelligenza per la commedia dell’arte
Fabrizio Rinaldi
sei la maschera che sa di sapere
solo per sentito dire da chi
ha sentito dire
e scrivi sul giornale dei piccoli L’Arena
le lettere di presunti crimini
avvenuti prima della tua nascita geniale
tra bovari con mani di sputi
nella Legnago
riserva d’ignoranza e bassure
da pagliaccio di paese
ti arroghi di soffiare menzogne
ed io rispondo che ho sentito dire
da chi ha sentito dire che sei
culatina finocchio frocio orecchione pederasta pedofilo
e non ti diffondo sul giornale
ma in questo lascito
per te i beni augurabili da San Vito
sono i cancelli aperti alla notte
per cercare sulle strade deserte
e tra gli alberi della “pista”
l’invano.
(29 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)
*
E voi bifolchi
eroici del ritorno
sul barcone dell’Adige
mostratevi sleali
e vili quali siete
con il numero ai polsi di soldati
prigionieri
non di civili dai campi di sterminio
siete sleali per tradimento
vili per la fuga verso
battaglie di mulini a vento
spacciandovi liberatori al culo dei vittoriosi
che vi scorreggiano in faccia
ora non scapate
da San Vito dov’è obbligo
narrarvi le stesse menzogne
tra compagni
rifare gli eccidi dei Pertini e dei Longo
criminali comuni all’infinito
e finalmente
spiegare la verità dei ponti antichi
lasciati saltare nell’Adige di Verona
forse anche i defunti avrebbero orecchie.
(30 giugno 2009 da Paradigm, Chelsea Editions, 2013)
L’arte contemporanea è quasi sempre ribelle, sovversiva, informale, esplora e dilata orizzonti etici ed estetici violando norme e dogmi della tradizione, inventa nuovi strumenti e procedure espressive decomponendo, frammentando, decostruendo, annientando codici e paradigmi assiologici, mimetici, riproduttivi di relazioni linguistiche e gnoseologiche, di prospettive ideologiche ed ontologiche ormai impraticabili.
Sul modello dei grandi profeti del passato ( Holderlin, Baudelaire, Rimbaud, Dickinson ) la risultanza icastica promana dalla virulenza della delegittimazione e inafferenza ai moduli rappresentativi ed espressivi del passato, per “trasvalutare i valori supremi” ( Nietzsche ) , creare scenari emotivi e forme di mimesi inediti e rigenerati, svincolati da ogni sudditanza all’estetica tradizionale, e all’implicita ideologia e dominio culturale.
Nella terza parte di “Essere e tempo”, che non poté scrivere perché “il linguaggio era venuto meno”, Heidegger si proponeva di indagare la “differenza ontologica “ che separa l’essere dall’ente, che la metafisica tradizionale aveva trascurato di cogliere e indagare, identificando, proditoriamente, i due termini, violando e mistificando, quindi, la trascendenza e impredicabilità dell’Essere, per alienarlo nelle aporie e dogmi delle teologie, o nel materialismo del pensiero scientifico e tecnologico.
Dopo la “svolta” il filosofo scopre che solo il linguaggio poetico può esperire e disvelare compiutamente l’Essere, ma per farlo deve serbare l’oscurità e il mistero da cui origina, l’abisso ( abgrund ) da cui scaturisce, che s’identifica con lo stesso linguaggio ( la casa dell’Essere ) che non è uno strumento a disposizione delle esigenze umane, ma la luce che irraggia e domina l’orizzonte della conoscenza.
“Perché i poeti?” È la domanda che si pone Hölderlin, e Heidegger con lui. Perché i poeti sono gli unici, tra i mortali, che, nella loro parola, possono custodire il mistero, il non-detto, il differente, anche quando non ne sono coscienti. Il loro dire, infatti, è indisponibile rispetto a questo, ed è sempre ricco di una significatività che soverchia la volontà di definizione umana. Nel tempo della povertà, povero del sacro e povero della domanda che cerca e ricerca il sacro, l’uomo è totalmente dimentico di quanto lo fonda e non ne sente nemmeno la mancanza, vive nell’assenza di ogni fondamento, nell’Ab-grund. Per ritornare, nel nostro cammino, al Grund, a ciò che fonda, a ciò che ci salva e ci rassicura nel nostro essere dobbiamo inoltrarci in questa stessa assenza e riscoprire, nell’abisso, il fondo che origina, che principia. L’unica vera salvezza, infatti, non può che sorgere dallo stesso luogo da cui proviene il pericolo; deve quindi inoltrarsi nel profondo di quest’ultimo, nel suo essere, per com-prenderlo davvero in ciò che è. Solo il dire dei poeti, quale mostrare, dispiega fino in fondo l’essenza di questo momento e, in questo modo, anche se quest’ultimi non ne sono coscienti, conserva traccia di ciò che può salvare, del Sacro.
Questo atteggiarsi ed esprimersi infatti coglie l’essenza stessa del pericolo di questo momento: la nostra volontà, la volontà di de-finire, la volontà di racchiudere tutto ciò che è, anche ciò che è l’uomo, in barriere, in confini rassicuranti costruiti dalla tecnica, di asservire e dominare, tradendo la verità del nostro universo emozionale, per alienarlo nelle attività produttive, manipolatorie e distruttive tipiche della nuova teologia del consumo e del profitto.
L’articolo continua qui:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/12/04/liper-moderno-ha-posto-fine-al-post-moderno-si-aprono-scenari-nuovi-la-nuova-ontologia-estetica-e-un-attore-centrale-di-questi-nuovi-scenari-poesie-di-mario-m-gabriele-marina-petrillo-l/comment-page-1/#comment-60726
Alfredo de Palchi è un uomo che ha abitato e continua ad abitare un solo «luogo»,
la Legnago della sua infanzia e della sua precoce adolescenza andata perduta. L’Italia è per lui la Legnago di quando era bambino, piccola cittadina di provincia infatuata di fascismo e, in seguito, anche di ferocissimi atti di assassinio e di vandalismo. Quella è stata per Alfredo de Palchi una esperienza traumatica che lo ha come inchiodato per tutta la vita a seguire. Un poeta è nient’altro che il suo «luogo», e il suo linguaggio sarà nient’altro che l’eterno ritorno in quel «luogo», un maledetto eterno ritorno alle proprie origini.
Alfredo de Palchi è il poeta di questo «luogo» maledetto che la storia poi si è incaricata di interdire e maledire, e con quello anche il giovanissimo uomo Alfredo che ha abitato quel «luogo». La poesia è sempre e soltanto emanazione di un «luogo» soltanto, che diventa «luogo» metafisico e acquisisce una «patria metafisica delle parole». Tutto il resto è letteratura o bellettristica letteraria. Basta leggere le poesie di de Palchi per rendersene conto:
Le domeniche tristi a Porto di Legnago
da leccare un gelato
o da suicidio
in chiusura totale
soltanto un paio di leoni con le ali
incastrati nella muraglia che sale al ponte
sull’Adige maestoso o subdolo di piene
con la pioggia di stagione sulle tegole
di “Via dietro mura” che da dietro la chiesa
e il muro di cinta nella memoria
si approssima ai fossi
al calpestio tombale di zoccoli e capre
nessuna musica da quel luogo
soltanto il tonfo sordo della campana a morto
Più in generale, all’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza.
Abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore
di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o travalichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole.
È infatti nel cerchio del dire chele cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano.
Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé , chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.
Il discorso poetico depalchiano ruoterà in tutti questi anni, a partire dagli anni cinquanta quando scrive, giovanissimo, la Buia danza di scorpione (scritta dal 1945 al 1951 durante la sua detenzione in carcere), come una trottola intorno al luogo di Legnago e di Verona che diventerà l’epicentro cataclismatico della guerra partigiana e della personale esperienza significativa del giovanissimo de Palchi.
Un’altra caratteristica della poesia depalchiana è che essa mette in scena l’irriducibilità dell’esistenza, il qui e ora, l’indicibile unicità dell’esistenza, i suoi umori, le sue ubbìe, le idiosincrasie, le passioni, gli odi profondissimi per l’ingiustizia subita, l’odio per l’Italia del suo tempo che lo aveva condannato all’auto esilio, l’odio per la falsa coscienza, il rancore per la falsa narrazione verso la sua biografia, l’avversione verso ogni discorso che non tornasse al punto che gli stava più a cuore: l’irriducibilità dell’esistenza umana sub specie della irriducibilità di ogni esistenza. È il primo albeggiare della tematica squisitamente esistenzialistica nella poesia italiana, che verrà poi interrotta dalla ideologizzazione del privato e dalla poesia privatistica.
Essere abitatori del «luogo» significa essere abitatori della sua civiltà, concepire l’esistenza a partire dall’idea che apre l’orizzonte in cui tale civiltà consiste. Il «luogo» deve esser concepito come spazio spirituale e simbolico in cui l’esistere si offre in un certo modo e le parole si danno, allora si può pensare che tutti i fatti che solitamente si menzionano come sue proprie cifre caratterizzanti non siano altro che le testimonianze della dimensione in cui tale spazio trova il suo ordine. Acquista improvviso interesse quell’assonanza che esiste tra la parola “civiltà” e la parola “città”, tra civitas e civilitas; così come la città è il modo in cui l’uomo impara ad abitare un certo luogo fisico, costruendovi gli edifici e le vie della propria esistenza a partire dalle peculiarità intrinseche di questo, così pure la civiltà è allora, in origine, quell’archetipo ideale nel quale edifichiamo la nostra esistenza e troviamo, rintracciamo le nostre parole, le parole che cercano un senso dove abitare.
Andrea Brocchieri
«Entschlossenheit
Il fatto è che in Sein und Zeit non c’è soltanto questo linguaggio della possibilità ma esso è in un certo senso superficiale e viene strutturalmente subordinato ad un altro linguaggio, cioè ad altre parole che hanno il compito di far emergere qualcosa di differente rispetto alle modalità dell’ontologia classica. Se ci si limita a lavorare col vocabolario filosofico tradizionale per individuare le occorrenze del discorso sulla possibilità in Sein und Zeit si rischia di non riconoscere nemmeno i luoghi testuali di tale discorso. D’altra parte Heidegger non ci vuole sviare, e basta seguire l’indagine di Sein und Zeit per trovare questi luoghi e quelle altre parole. Solo che – come sempre con Heidegger – bisogna saper leggere le parole diversamente da come siamo abituati.Ci chiediamo dunque: grazie a che cosa l’esserCi è un “poter essere” che rende possibili gli enti come possibilità (d’azione)? – Rispondiamo in una parola: grazie alla
Entschlossenheit.
Questa parola non è affatto semplice, un po’ come Ereignis, di cui in un certo senso tiene il posto, qui in Sein und Zeit.
La parola Entschlossenheit non indica semplicemente una condizione
dell’esserCi, ma una dinamica di chiamata-risposta (Ruf-Antwort) che costituisce l’esserCi come una determinata (cioè finita, storica) apertura del “mondo”. Ent-schlossenheit indica che la Erschlossenheit (schiusura) del mondo non avviene “per natura” (φύσει) ma nemmeno per un libero arbitrio (νόµῳ) ma nel gioco tra un “non” (Nicht: un’assenza che reclama risposta) e l’assunzione della responsabilità di questa risposta. L’essere vivente che è capace di ascoltare questo “non” e che se ne prende cura, si assume la responsabilità di dar luogo all’essere al posto di quel nulla. “Al posto di” non significa: mettere l’ente al posto del nulla, assumendosi un compito creativo
– (Sartre: se c’è l’uomo non c’è Dio) –
ma significa: assumersi il compito di fare le veci di quel nulla come fondamento dell’ente; infatti quel“non”, essendo nullo, si presenta come Ab-grund, come un fondamento che non c’è. L’esserCi si chiama così perché esso c’è nel dar luogo all’essere dell’ente al posto del fondamento assente. Il modo in cui l’esserCi c’è non è però un autonomo sussistere ma è un e-sistere, perché c’è solo in quanto è spinto ad esserci come fondamento dall’assenza del fondamento: visto che quest’ultimo non c’è son costretto ad esserlo io.»
https://www.academia.edu/5304733/Heidegger_la_possibilit%C3%A0_nel_pensiero_dellEreignis
Commento
La poesia di Sessioni con l’analista (1967) e di Paradigm (2013) di Alfredo de Palchi ci mette davanti ad una difficoltà: l’irriconoscibilità delle sue parole. È inutile girarci intorno, il problema è che una poesia così diversa dai linguaggi poetici che sono stati in vigore in questi ultimi decenni fa problema, obbliga alla revulsione, al respingimento e alla rimozione. Allora il problema diventa un altro: Se c’è un problema di irriconoscibilità di ALTRI linguaggi poetici, se poeti (tra l’altro così diversi l’uno dall’altro) come Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta, Anna Ventura, Mario Gabriele vengono tacitati nel dimenticatoio o vengono deiettati dall’arco costituzionale della poesia italiana, ciò significa che c’è un duplice problema di memoria e di arco costituzionale della poesia italiana, che c’è un atto di rimozione di linguaggi non omogenei alla forma-poesia delle istituzioni letterarie.
In realtà, la poesia, quella «nuova», è sempre diversa da quella egemone o maggioritaria, tutti i poeti che ho citato sopra sono poeti dissimili l’uno dall’altro per lessico, stile e genere poetico prescelto. La «poesia nuova» indica sempre una diversa «possibilità», è bene prenderne atto. Se andassimo a esaminare il lessico impiegato da questi poeti ci renderemmo conto che ciascuno di loro impiega un proprio «determinatissimo» lessico, che implica una «chiusura» e una nuova «apertura», che implica una «cesura» e una «cucitura», uno «stop» e un nuovo «Inizio».
Moltissimi auguri ad Alfredo De Palchi da
Marielal Bettarini
Ripeto ancora con affetto i miei auguri ad Alfredo un uomo spigoloso con gli uomini ma estremamente rispettoso delle donne tutte come mi ha ripetuto anche nell’ultima telefonata.
Ancora auguri amico mio.
Antonella
Un grande sorriso per un grande poeta. I miei auguri più sinceri. Buon compleanno!!
sinceri affettuosi auguri
Al Poeta Alfredo de Palchi.
Cristalli delimitano porzioni di etere. Estranei al contatto, levitano a sospesa materia. In rifratto segmento traducono ignoti inverni in pallore. Il tragico bambino risiede in sua litania ed attende del graffio inferto, rinascita.
Marina Petrillo
Dai puntualissimi commenti di Talìa e di Linguaglossa sulla importanza della parola poetica e dell’intera esperienza poetica di Alfredo de Palchi nel secondo ‘900 italiano ho evinto che de Palchi sta al secondo Novecento poetico italiano come, fatte le necessarie e dovute differenze di temperamenti lirici e di sensibiltà linguistiche dei due, Sbarbaro è stato da frammentista vociano al Primo ‘900.
Perché?
Perché in una Italia ancora giolittiana, Camillo Sbarbaro inventa il linguaggio dell’uomo trasformato in cosa in un «frammentismo poetico» in cui si riconosce e si accelera la crisi dell’”Io” e il carattere frantumato della realtà.
Scrive i suoi versi nella luttuosa inconsistenza dell’ Io e della coscienza non più da sentire come luoghi della integrità né più della unità di misura del reale.
E come il poeta ligure fa della poesia di Pianissimo una sorta di grado zero del linguaggio poetico del Primo Novecento, così a me pare che Alfredo de Palchi abbia fatto nel secondo ‘900 poetico italiano, soprattutto nel anni 80/90 del secolo scorso.
Gino Rago
Novecento Poetico Italiano
UN AUTORITRATTO di Camillo Sbarbaro (1888- 1967)
a cura di Gino Rago
Premessa
A proposito dell’asse trasversale Govoni-Palazzeschi-Sbarbaro, da Giorgio Linguaglossa adottato come utile chiave di lettura di buona parte del Novecento lirico italiano, propongo un Camillo Sbarbaro alle prese con un Autoritratto su misura, un autoritratto steso dallo stesso autore di Pianissimo, in una lettera inviata a Elio Filippo Accrocca, per un importante lavoro di mappatura degli scrittori italiani contemporanei viventi (1957). Tutto Sbarbaro è nella epigrafe dettata, anzi bisbigliata, poco prima di spirare: «Amico è con chi puoi stare in silenzio».
Camillo Sbarbaro, AUTORITRATTO
«Nacqui a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. Nel 1911 i compagni di liceo pubblicarono a loro spese il mio primo libretto di versi. Collaborai a periodici letterari come “Riviera Ligure”, “La Voce”, “Lacerba” e fugacemente alla terza pagina di giornali, come “Il Lavoro” di Genova. Finito il Liceo mi impiegai alla Siderurgica di Savona, quindi all’Ilva di Genova. Dopo la parentesi della guerra del ’14, cui presi parte prima come crocerossino poi come soldato di Fanteria, mi stabilii con la famiglia (mia zia e mia sorella) a Genova e vissi insegnando il greco e il latino e collezionando muschi e licheni (miei erbari si trovano in Università e Musei americani ed europei). Dal ’51 abito con la sorella a Spotorno. Il mio atto di nascita come poeta, il primo vagito, deve ancora trovarsi in qualche casa a Savona, dove finì in occasione d’un trasloco: una poesia inserita a titolo antologico in un’annata della «Illustrazione Popolare» dove di sua mano la trascrisse mio padre, il quale, mentre negava potessi esserne io l’autore, tradiva così la sua speranza che davvero lo fossi. Il nome che vi figura sotto è quello di D ’ Annunzio.
Con la lode, palesemente eccessiva, implicita in quella attribuzione s’iniziava la mia carriera letteraria. Povero babbo. L’opera prima la maturai nei primi due anni di liceo. Ogni componimento ambiva alla perfezione e ognuno era sempre l’ultimo cui mi accingevo. Lo ruminavo in lunghe passeggiate solitarie, che l’età ha accorciato ma di cui conservo il gusto, rammendando, come con una «bella immagine» si dice da noi, e cioè percorrendo su e giù il litorale ligure instancabilmente. Solo quando era nella mia mente compiuto, lo consegnavo alla carta. E per qualche giorno unicamente su quello puntavo.
[…]Per quei versi venni in fama tra i condiscepoli; e furono essi a stampare di loro tasca il libretto e ad imporgli il titolo: Résine. (Il mio era più modesto e, per quel che ancora mi pare, più apropriato, Bolle di sapone ). A quello sgorgo di linfa seguì un periodo di siccità; ma di una siccità di cui non soffrii; l’avventura era chiusa; il libretto diventato a me estraneo “ come all’albero la foglia caduta. Venuta la definitiva vacanza che, ad ogni parto, m’ero sempre invano promessa. Da alcuni anni durava la tregua quando una notte che coi sensi sazi giacevo a letto “lungo disteso come in una bara”, mi venne da sé alle labbra la constatazione: Taci, anima stanca di godere e di soffrire… Prendevo coscienza di me; nasceva il mio secondo libretto di versi: una specie di sconsolata confessione fatta a fior di labbro a me stesso, dove sull’affiorare di torbidi istinti e di nausee sessuali dominava il lutto, patito in anticipo per la morte, che vedevo prossima, di mio padre. Qualcosa che mandai alla «Voce» – il periodico fiorentino che si attendeva a quel tempo come un’amante – piacque a Soffici ed ebbi una calda lettura di Prezzolini che, poco dopo, nel 1914, stampava il libretto.
[…]Pianissimo è la mia voce, quella voce di quando ero vivo. Da allora, e cioè da quando imparai ad appagarmi di un colore del cielo, una voce che mi scotta ogni volta che la riodo».
Camillo Sbarbaro
TACI, ANIMA STANCA DI GODERE
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d’una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato…
Invece camminiamo, camminiamo
io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne che passano son donne,
e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
*
Commento di Gino Rago
Un’esperienza significativa nel clima del rinnovamento della nostra Poesia del Novecento è quella di Camillo Sbarbaro. In questo poeta è evidente il peso di una crisi spirituale capace di trascendere il senso di una personale avventura. Poche opere poetiche del primo Novecento appaiono maturate in un’aura di solitudine come quella di Sbarbaro . Eppure, nella sua voce si avverte un aspetto inquietante dell’uomo contemporaneo: il gelo di un’aridità che ha bruciato tutte le illusioni. Lo sgomento di fronte a un destino buio, l’angosciata sorpresa dinnanzi all’ innocenza ormai perduta, il terrore di un lento e totale disfacimento, la condizione particolare di anima nella storia di un uomo si affidano a Pianissimo ( Firenze, Libreria della Voce, 1914).
Un libro che non è tanto una raccolta di liriche quanto una ininterrotta confessione dello spirito di un uomo in osmosi con il canto del poeta, nella rivincita di un’anima ferita che vuole rifugiarsi nel suo stesso squallore. Che desidera restare sola nel suo sconforto..Che vuole rinunciare a qualunque retorica. La parola di Sbarbaro si alza limpida, immediata, nuda. Trascrive in un
linguaggio chiaro la malinconica mitologia di un ulisside moderno, in un abbandono trasognato nel quale si smarriscono il sentimento dell’Io e il senso stesso dell’essere:
“Non voglio, non desidero, neppure
penso.
Mi tocco per vedere se sono.
E l’essere e il non esser, come l’acqua
e il cielo si confondono.
Diventa il mio dolore quel d’un altro
e la vita non è lieta né triste.”
Neanche quando il poeta si rivolge alla sua anima:
( “Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto…”)
si allenta la sua forza che risiede proprio in quel dolente distacco in grado di sottrarre peso e calore alle emozioni. L’aridità si risolve stilisticamente in essenzialità, in purezza di lingua, in semplicità di voce.
Le “occasioni “ si riscattano in una levità di tono, senza mai calcare le ragioni esteriori dell’Io.
E’ la voce di un sonnambulo, quella di Sbarbaro di Pianissimo. E’, secondo Montale, «qualcosa come una voce che si alzi nella notte.» Il poeta passa tra gli uomini ma non li comprende.Non ha una patria sua. Non possiede una sua casa. E’sopraffatto dalla vita. Il dato fondamentale dell’esperienza poetica di Pianissimo è stato individuato nella estraneità, tema nel quale Sbarbaro appare come eroe della negazione.
E’ un lasciarsi vivere nel rifiuto della azione utile come atto di condizionamento, cartina di tornasole della società piccolo-borghese, perché l’alienazione è capace di colpire tanto il mondo oggettivo, quanto il mondo soggettivo e per Sbarbaro “…il mondo è un grande deserto.//
Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso.”
In una Italia ancora giolittiana, Camillo Sbarbaro inventa il linguaggio dell’uomo trasformato in cosa in un «frammentismo poetico» in cui si riconosce e si accelera la crisi dell’”Io” e il carattere frantumato della realtà. Nella luttuosa inconsistenza dell’ Io e della coscienza non più luogo della integrità né più unità di misura del reale, il poeta fa della poesia di Pianissimo una sorta di grado zero del linguaggio poetico del Novecento.
*
Gino Rago
Il mio omaggio per il caro Alfredo de Palchi, nel giorno del suo 93mo compleanno, con il calore intenso della mia amicizia.
Linea di confine
Il pavimento di grès contro la facciata
si sporge con occhio obliquo.
Non è dato sapere la caduta a piombo,
la stasi assertiva di un crepaccio.
Solo la partitura – la sua vibrazione –,
senza più inizio, né fine – scissa –
in una cenere rossastra.
Uno strato scivola via
– unito a qualche cluster di suoni muti –
oltre la ringhiera, linea di confine
tra un deserto e l’altro.
Un uomo sul fondo, avamposto fisso.
L’orlo della camicia sulle gambe nude.
Attirano la sordità le parole.
Tra due donne, tiene testa una risata,
dove le forbici hanno il presentimento del collo.
La siepe notturna, striata di rosso, è il retroscena del grido.
Nel riverbero, l’agonia dei lampioni.
© Donatella Giancaspero 2019
Alfredo de Palchi da Foemina tellus, Ed. Joker, 2010
Non c’è misura del tempo
dove rimugino luoghi costanti dove
senza fuoco il sole
è una idea senza fuoco
nella melma
sotto il suolo come una radica liquefatta
che la pioggia penetrando filtra
in acquifera
così l’eterno che odo
adagio molto e cantabile
dolcezza impossibile di acque
sotterranee in re minore
per esplodere in inno alla gioia
capendo che il diluvio è
libertà della natura di nascere
e morire
(20 giugno 2009)
Ringrazio con emozione Donatella Giancaspero per aver proposto questo movimento dalla Nona di Beethoven, uno dei brani in assoluto più intensi che io abbia ascoltato. Cito di seguito alcune annotazioni scritte qualche tempo fa proprio su questo movimento, concepite all’interno di una serie di riflessioni sul pensiero poetico-filosofico e la musica, che avevo intitolato “Il suono muto”.
“Mi capita spesso di immergermi negli spazi della musica, per cercare esperienze originarie. Mi accade di trovarle nella musica piuttosto che in altre forme d’arte perché, lì, percepisco viva la dimensione generativa del tempo, di cui la mente si nutre per tentar sintesi, attingere nuova intelligenza dal divenire del suono. Eppure il suono, tramite cui la musica plasma la sua forma espressiva, è senz’altro muto alla radice. È quello che sempre meno capiscono i musicisti, che cercano effetti sonori piuttosto che tradurre in forma acustica il movimento di risalita in luce sensibile dal profondo. L’esperienza di un movimento originario da cui scaturisce una forma musicale è tangibile nell’ultimo Beethoven, ormai sordo, in particolare nel terzo movimento della Nona Sinfonia, l’Adagio-Andante che precede il Finale-Presto, che contiene il noto Inno alla gioia. Le opere estreme di Beethoven, tra cui i rarefatti Quartetti per archi, vengono da una profondità in cui il suono si genera nella permanenza silenziosa, quasi timorosa del trascorrere, sorta di mare carsico che fluttua nel fondo della mente viva. Come attingere una simile origine se non tramite un sovra-senso, o piuttosto un ante sensum di cui la musica traduce il farsi, che nel sovrapporsi armonico delle frasi dei fiati e degli archi riesce a dire senza parola, in un flusso quasi senza idea, il movimento unico, senza nome, senza identità, che precede ogni nome e ogni identità?” (da “Il suono muto”).
Una dedica con un abbraccio a tutti voi, in particolare ad Alfredo, di cui ho avuto modo di apprezzare, negli anni scorsi, da scambi di mail, la grande passione per la musica classica.
Grazie, Claudio Borghi, e complimenti per le Sue riflessioni.