Gino Rago
Dopo Palazzeschi e Rebora, saltiamo a piè pari le esperienze vociane, rondiste, ermetiche, post-ermetiche e anche l’esperienza della vocazione realistica nella quale si chiese al poeta e alla sua parola lo sguardo della comprensione, (lo sguardo della pietà, per catturare l’eco di miserie di guerra in un mondo sconvolto), attraverso l’assioma rivelatore di Pasolini: «Non la poesia è in crisi ma la crisi è in poesia», e approdiamo insieme alla poetica di Vittorio Sereni ben impigliata in
I versi
Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non era più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
(da Gli strumenti umani, 1965)
Vittorio Sereni, dopo i frammenti di memoria degli anni della prigionia, dopo i paesaggi calcinati dal vento e dal sole, paesaggi quasi lunari nei quali sono possibili (Diario di Algeria) incontri fra gli spiriti di una tragedia, che quelli di una certa generazione tutti erano costretti a ricordare, fra compagni morti e spine senza rose di reticolati, approda allo sguardo sul mondo del lavoro industriale e si sofferma sulla fabbrica che emana sentori di fatica e di sangue, in una ideologia (anni fra il 1952 e il 1958) anticapitalistica che, animata da un trattenuto rancore ma pronto in ogni momento anche a farsi a furore, induce nei lettori dei suoi versi una ferma coscienza civile, fra quartieri di tribolazioni, sirene che chiamano al dovere, risentimenti della classe operaia con paghe ancora da fame.
Nel caso de ” I versi ”, poesia nella quale si interroga sull’ars poetica, diremmo che si tratta di un componimento nel quale Sereni adotta una scrittura breve, secca, essenziale che però si confronta con una ricchezza di contenuto ad alta tensione poetica nella quale il lirismo non nasce né dall’aggettivo, né dalla metafora ardita, o dalla retorica, bensì da ciò che sentiamo come mitezza di un tono frammisto all’ironia (amara?) di parole proposte in una loro (apparente) nuda semplicità. Il tema non è nuovo: l’idea della innata incompiutezza o inadeguatezza della scrittura del poeta attraversa la letteratura di tutti i tempi; Vittorio Sereni sceglie un taglio diremmo quotidiano, “domestico” per dire di un uomo che scrive poesie quasi vergognandosene, un uomo che saluta gli amici, l’ultima sera dell’anno, amici che al contrario del poeta conducono una vita segnata dalla fatica e dalla concretezza, vigili sempre a non smarrire se stessi nei grovigli e nelle tentazioni della metropoli industriale. Ma scrivere poesie, perché scrivere poesie e per chi scriverle. Non si sceglie di farlo né si decide per capriccio di scriverne.
Si scrivono poesie perché il poeta si fa aggredire dalla necessità di farlo; ma Sereni ce lo dice quasi adottando quella “teologia negativa” secondo la quale per sapere cosa è poesia bisogna ben sapere cosa poesia non è.
Sullo sfondo si avvertono sia Montale, sia Eliot, più precisamente il T. S. Eliot dei Quattro Quartetti.
Al centro del suo componimento, I versi, Sereni scrive:
«Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro[…]».
La esclamazione quasi sgrammaticata che il poeta fa al centro del componimento, segnandone una specie di cesura fra i primi versi e gli ultimi, arriva ai lettori come una sorta di pentimento per avere scritto e per continuare a scrivere poesie; ma in questa cesura al centro della poesia Sereni non ci dice cosa avrebbe “altro” voluto fare.
«Chi legge Sereni, chi impara oggi da un poeta come lui?» si chiedeva Alfonso Berardinelli in una meditazione sull’autore de Gli strumenti umani (1965). Di Vittorio Sereni si parla poco, benché possa costituire un modello più mediamente praticabile anche in via sperimentale per colui/colei che intenda pronunciare una sua parola in quel genere letterario particolare detto poesia. Lo è per una sua scrittura poetica, per dirla sempre con Berardinelli, «in sordina, a basso regime lirico, con qualche improvvisa accensione quasi inconsulta e con molta semi-prosa appena versificata».
Nel suo particolare linguaggio poetico, (assenza totale di virtuosismi, un minimo di parole con mai niente di più del necessario), e nella sua poesia, Vittorio Sereni non gioca mai, pur monologando, raccontando, ragionando e a volte descrivendo. Ma monologhi e racconti, descrizioni e ragionamenti si accompagnano sempre a proposte di dubbi e di perplessità soprattutto su sé stesso proprio in quanto poeta. Ne è esemplare l’apertura de I versi : “Se ne scrivono ancora” che suona a Sereni come desolata presa di coscienza, come perplessa constatazione del poeta alle prese con il gesto improvviso del fare poesia.
Anche per questo, nelle sue acute meditazioni sull’autore di Diario d’Algeria 81947) e de Gli strumenti umani (1965), Alfonso Berardinelli ci lascia quasi una epigrafe illuminante, destinata a durare intatta nel tempo dei poeti e nella storia della poesia:
« Sereni non ha mai vestito l’abito del poeta. Non si è comportato né ha scritto come chi abbia ricevuto doni, investiture e privilegi speciali dalla poesia… Non era un poeta volitivo, non vestiva la divisa del poeta e non viveva da poeta[…]».
Lo stesso Berardinelli dedicandogli un suo personalissimo ricordo scrive ancora:
«In questo 2013 cade il centenario della nascita di Vittorio Sereni, ma è anche il trentennale della sua morte, avvenuta l’11 febbraio 1983. L’avevo conosciuto a Milano otto anni prima, nel corso di una di quelle strane riunioni-colazioni della rivista culturale più politicamente compromessa di quegli anni, “Quaderni piacentini”. Una rivista fatta di conversazioni e di vere amicizie prima che di ideologia e di politica. Leggo sull’ultimo numero dello “Straniero” un saggio di Alberto Rollo, La cultura dei sentimenti, uno dei migliori saggi che io abbia letto su Sereni, che pure ne aveva ispirati altri memorabili: a Mengaldo, Garboli, Fortini, Grazia Cherchi. […] Sereni veniva dalla guerra, una guerra vergognosa e perduta. Lavorò a lungo come funzionario editoriale. Con Luzi, Bertolucci e Caproni inaugurò una nuova fase della poesia italiana in cui si incontravano i maestri del primo Novecento: Ungaretti, Saba, Montale. Vittorio Sereni nasce poeta ermetico o non ermetico? La questione resta in bilico, irrisolta, come irrisolta e in bilico è la situazione da cui nasce tutta la sua poesia.
Si è molte volte ripetuto che il titolo del primo libro di Sereni, Frontiera (1941), individua immediatamente tema e tono di questo poeta. In Sereni si sente subito un’estraneità che può essere chiamata culturale o di poetica rispetto all’ermetismo fiorentino […]. Sereni è un poeta poco interessato a una ideologia o fede poetica».
Difatti Sereni stesso dichiarò: «Il nome di poeta appare sempre più una qualifica socialmente difficile da portare e da sostenere persino nel suo normale ambito letterario…».
E’ da condividere in pieno il pensiero berardinelliano secondo il quale Vittorio Sereni è tutto nel suo verso più famoso, una iterazione martellante sui temi della perdita e e dell’assenza. Un verso da pronunciare a voce bassa, quasi fra sé e sé:
«nulla-nessuno-in-nessun-luogo-mai».
Vittorio Sereni (1913 – 1983)
POESIE
da Frontiera (1941, Ed. definitiva 1966)
Le mani
Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell’arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.
Terrazza
Improvvisa ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca;
un murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile terrazza.
Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira se ne va.
In me il tuo ricordo
In me il tuo ricordo è un fruscio
solo di velocipedi che vanno
quietamente là dove l’altezza
del meriggio discende
al più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi declivi
di finestre riaperte sull’estate.
Solo, di me, distante
dura un lamento di treni,
d’anime che se ne vanno.
E là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.
*
da Diario d’Algeria (1947, Ed. accresciuta 1966)
Dimitrios
Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia.
È già lontano,
arguto mulinello
che s’annulla nell’afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile, appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul mare.
*
da Gli strumenti umani (1965)
Fissità
Da me a quell’ombra in bilico tra fiume e mare
solo una striscia di esistenza
in controluce dalla foce.
Quell’uomo.
Rammenda reti, ritinteggia uno scafo.
Cose che io non so fare. Nominarle appena.
Da me a lui nient’altro: una fissità.
Ogni eccedenza andata altrove. O spenta.
*
da Stella variabile (1979)
Autostrada della Cisa
Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio già spento, e addio.
Sappi -disse ieri lasciandomi qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochititlàn
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Ancora non lo sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire-
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?
Conclusioni (parziali)
Quali domande impone al nostro gusto estetico e al nostro tempo l’esperienza poetica di Vittorio Sereni alla luce dei paradigmi ontologico-estetici verso i quali stiamo come NOE tentando di spostare il baricentro del nostro fare poesia il quale nella forma-poesia-polittico-in-distici sta trovando la formulazione poetica più avanzata dei nostri giorni?
Almeno tre sono ineludibili:
1- Il problema della durata, della durata di una poesia nel tempo, almeno secondo l’idea di Andrej Silkin mutuata da T. S. Eliot e nitidamente lanciata e affrontata nella sua postfazione a Giorgio Linguaglossa, Il tedio di Dio (viaggio nel paese delle ombre), Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018, pp.142, 12 Euro;
2- Il ruolo e l’influsso esercitati da Sereni sulla poesia soprattutto dei lombardi sarebbero stati tanto forti se, come si apprende dalle sue notizie bio-bibliografiche, Vittorio Sereni per lunghissimo tempo non fosse stato a capo della direzione editoriale della Mondadori?
3- Come situare l’esperienza poetica di Vittorio Sereni nel grande problema della poesia italiana fra il 1970 e il 1980, da un lato, e in quello non meno impegnativo da Giorgio Linguaglossa segnalato come «L’indebolimento della autocoscienza storica dei poeti e dei narratori nati dopo il 1950»?
Su questo terzo quesito Linguaglossa scrive:
«Di recente sono solito ritornare su un punto che mi sta a cuore, ed è inutile girarci attorno in cerca di eufemismi o di correttezza istituzionale: il fatto che gli scrittori, i poeti, gli artisti di oggi sono privi di autocoscienza storica, almeno nella misura in cui i poeti e gli scrittori delle generazioni di coloro che sono nati prima della seconda guerra mondiale e fino al 1950, o giù di lì. I poeti e gli scrittori nati dopo quella data posseggono una minore autocoscienza storica dei problemi politici, estetici e stilistici che si traduce in poesie e in romanzi di livello decisamente inferiori rispetto a quelli delle generazioni precedenti.
Il problema è che c’è stata nella storia d’Italia e della poesia italiana una frattura storica corrispondente, grosso modo, al decennio degli anni cinquanta, le generazioni degli scrittori e dei poeti nati dopo quella data hanno una relazione con la propria epoca storica un rapporto, diciamo così, indebolito, il rapporto con gli istituti stilistici ne è risultato inficiato. Con ciò non voglio dare una patente dimidiata alla produzione poetica e narrativa venuta dopo quegli anni, ma senz’altro la proliferazione della poesia che è venuta durante gli anni settanta e ottanta e seguenti in Italia e in Europa ha la propria ragione in una situazione storica ben determinata[…]»
Giorgio Linguaglossa
caro Gino,
mi tiri per la giacca dentro il problema della poesia di Sereni e del posto occupato dal poeta di Luino nella poesia italiana del secondo novecento. Il mio parere è che Sereni sia stato un poeta di secondo piano, uno di quelli il cui lavoro è preparatorio per la poesia di altri, di chi verrà dopo. Quello che la tradizione sereniana ha potuto dare, l’ha già dato. Per me il capitolo è chiuso. Quello che noi stiamo cercando di fare con la nuova ontologia estetica è «chiudere» la tradizione sereniana nel posto che le compete e «aprire» la «nuova poesia» alle sollecitazioni del nuovo mondo globale. Aprire la nuova poesia sul periscopio del nuovo orizzonte degli eventi.
L’operazione fatta da Anceschi con l’Antologia Lirici nuovi (1952) per l’editore Magenta, individuava una sentita esigenza di modernizzazione del linguaggio poetico italiano ancora debitore dell’impostazione crociana e del linguaggio ermetico e post-ermetico. Quella Antologia indicava qualcosa di importante, tendeva a porre l’attenzione sugli «oggetti» invece che sugli «emblemi» e sulle intuizioni metafisiche del linguaggio poetico ungarettiano e primo montaliano. Fatto sta che quella riflessione di Anceschi è stata poi utilizzata in chiave di politica poetica per perorare e legittimizzare una «poetica degli oggetti», un «canone nuovo» e una «poesia degli oggetti» che in sé poteva essere (e obiettivamente lo fu) un momento di progresso del linguaggio poetico italiano e di adeguamento alla nuova civiltà industriale in via di sviluppo.
Momento che però celava in sé un equivoco di fondo: nessuno chiese ad Anceschi che cosa intendesse con la parola apparentemente innocua di «oggetti», che cosa fosse un «oggetto», come lo si riconoscesse e lo si distinguesse da un non-oggetto. Queste indeterminazione e genericismo su una questione così di fondo e importante, indubbiamente pesò non poco sulla scarsità di risultati della «poesia degli oggetti», infatti l’antologia si rivelò piuttosto vulnerabile alle critiche, e in particolare alla critica di Pasolini che ne individuò subito i punti deboli.
Bizzarro destino di una fondazione di poetica non fondata filosoficamente fu che quella intuizione anceschiana venne di seguito utilizzata per perorare un «nuovo canone» milanese o lombardo grazie anche all’intervento influente di Vittorio Sereni.
Qui riporto alcuni stralci di due lettere di Vittorio Sereni in ordine alla problematica degli «oggetti» in poesia in cui il poeta si dimostrava consapevole del pericolo soggiacente: una pericolosa concessione ad una poesia eccessivamente narrativa:
Ecco le frasi-chiave di Sereni:
«sono io che vado in cerca degli oggetti, non sono gli oggetti che cadono e si raccolgono spontaneamente in me»). Ecco qui un’altra dichiarazione procedurale sulla poesia contenuta nel carteggio con Luciano Anceschi dove si legge: «Ma intanto credo che la mia strada non sia più nella poesia, ma nella prosa».
Che poi la poesia dei decenni successivi agli anni sessanta si sia indirizzata sulla «prosa», non fu un accadimento casuale, ci sono precise ragioni storiche e precise ragioni di poetica che condussero a quell’esito.
Questo l’antefatto. Questa è la storia della questione, detta in breve. È eloquente anche a chi legga in fretta questo post e altri che abbiamo fatto negli ultimi due anni che la questione degli «oggetti» in poesia è stata mal posta. E che occorresse fare chiarezza, innanzitutto filosofica, sulla questione era ed è una necessità indubitabile.
La «nuova ontologia estetica» sostiene in modo convinto che la questione degli «oggetti in poesia» debba essere derubricata, che la vera questione è la presenza del «nulla» nella «nuova poesia». È chiaro che qui siamo in un demanio concettuale lontanissimo dalla impostazione anceschiana e dalla tradizione sereniana. Nella «nuova poesia» non è più il poeta che va alla ricerca degli «oggetti», né che essi debbano cadere «spontaneamente» sulla testa del poeta come una tegola dal tetto. Qui non si dà alcuna spontaneità, c’è la legge di gravità che decide la questione. È il «nulla» quello che interessa la nuova ontologia estetica. Dentrificare il fuori e fuorificare il dentro, questo mi sembra una petizione prioritaria per la nuova poesia. Le «cose dentrificate» hanno una fondazione filosofica totalmente diversa dagli «oggetti» di anceschiana memoria e dagli «oggetti» della tradizione sereniana, questo spero sia chiaro a tutti.
Una poesia fatta di «cose dentrificate» e di «cose fuorificate» è un problema lontanissimo dalla antichità della poesia degli oggetti di sereniana memoria.
René Char
«L’observation et le commentaire d’un poème peuvent être profonds, singuliers, brillants ou vraisemblables, ils ne peuvent éviter de réduire à une signification et à un projet un phénomène qui n’a d’autre raison que d’être»
Giorgio Linguaglossa
La poesia della nuova ontologia estetica si situa in quell’essere-in-mezzo, quello “Zwischen” di cui ci parla Heidegger. Quel frammezzo che è il vero centro dell’essere, ovvero, del nulla. Se il poeta è il vero fondatore dell’essere, è anche il vero fondatore del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo. La poesia è il suo progetto aperto al futuro, è il futuro aperto al presente. È il presente aperto alla Memoria del passato. È insomma quella entità che sta al mezzo delle tre dimensioni del tempo. Ed è ovvio che in questo frangente, il linguaggio della poesia non può che situarsi nello “Zwischen”, cioè in un non-luogo linguistico, in un non-luogo dell’essere.
Al poeta è assegnato il posto nel “frammezzo”, egli è il mediatore tra gli dei e gli uomini, tra il «non più» degli dèi dipartiti e il «non ancora» del dio che ha da venire (Heidegger). Che io aggiornerei così: il poeta è il mediatore tra l’essere e il nulla, rivela il nulla dell’essere e l’essere del nulla. Per questo il poeta moderno non può che essere profondamente nichilista, anche contro la sua volontà e la sua intenzione. Il poeta è un Emissario del Nulla e un Commissario dell’Essere.
Vera aspirazione della poesia è quello essere di casa e rendersi familiare (Heimischwerden) un’inquietante estraneità in cui comunque ci si trova spaesati (Unheimischsein), vero nocciolo della storicità dell’uomo nell’itinerario di un viaggio di ritorno, di un avanzare andando a ritroso.1
I 5Stelle hanno presentato una interrogazione parlamentare
al governo Draghi:
All’autogrill di Fiano romano una giraffa si reca al bar
sale sul cavallo a dondolo
il cameriere porta su un vassoio una porzione di camembert
e un crodino
il cavallo a dondolo si mette il rossetto
dice che è l’ippogrifo e che ha un appuntamento con l’Ariosto
che, per gelosia, lo ha spedito sulla luna
Sono miei versi che non significano nulla di concreto, non hanno un significato, né attuale né remoto, né futuro, non hanno un referente, come è proprio delle poesie della nuova fenomenologia del poetico e della poetry kitchen: non c’è nulla del concreto, ma c’è del presente. E forse questo è il modo migliore per poter essere concreti e presenti nel presente-passato e nel presente-futuro. Questo non significare nulla è forse il miglior modo per significare qualcosa di impellente che non può essere detto con il linguaggio del presente, quello della comunicazione.
1 Cfr. M. Heidegger, Hölderlins Hymne “Der Ister” a cura di W. Biemel, in Gesamtausgabe, cit., vol.LIII, p. 22; tr. it. a cura di C. Sandrin eU. Ugazio, L’inno, Der Ister di Hölderlin, , Mursia, Milano 2003,
Riprendo da un intervento di Giorgio Linguaglossa sul Novecento poetico italiano questo brano di Alfonso Berardinelli e lo ripropongo
Alfonso Berardinelli
LA POESIA ITALIANA TRA GLI ANNI SETTANTA E OTTANTA
“[…] Con Franco Fortini sembra concludersi una fase della poesia italiana che va dall’acquisizione delle poetiche simboliste all’autoriflessione politica della lirica come falsa libertà del soggetto.
La categoria di «sperimentalismo», elaborata da Pasolini alla metà degli anni Cinquanta, costituì un momento di sintesi carica di possibilità negli anni che vanno dall’esaurimento dell’engagement neorealistico e del montalismo all’avvento delle nuove avanguardie. Il luogo di elaborazione delle ipotesi «sperimentali» fu la rivista bolognese “Officina“, una piccola rivista artigianale, dal pubblico estremamente limitato, che uscì dal 1935 al 1958 a Bologna, diretta da Roberto Roversi, Franco Leonetti e dallo stesso Pasolini. In questi tre scrittori (anche Leonetti e Roversi, come Pasolini, sono poeti e autori di opere narrative e di assemblaggi autobiografico-saggistici) la scelta definibile come sperimentale corrisponde ad un atteggiamento di opposizione, di aggressività «angry», ma anche ad una situazione di isolamento politico, in parte subìto, e in parte voluto, e fonte di continue oscillazioni.
Della perpetua lotta e rincorsa fra una scrittura poetica disposta a qualsiasi avventura linguistica e funzionale, e una realtà odiata-amata in costante movimento, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) ha fatto il centro surriscaldato di tutta la sua opera. Un’opera che sembrava attentissima alla costruzione di un proprio programma strutturale e strategico, e che poi si è mostrata disposta ad andare letteralmente allo sbaraglio, rischiando tutto e tendenzialmente autodistruggendosi come tale, pur di mantenere la propria «presa diretta» sul presente. Perciò la passione e l’ideologia dello «sperimentare», attraverso la «disperata vitalità» della trascrizione improvvisata, non potevano che portare Pasolini alla fine di ogni «stile» (magari intesa come rinuncia e autospossessamento dell’autore incalzato dai suoi traumi e dalle sue disperazioni personali).
La versatilità creativa e intellettuale di Pasolini (se si considerano i limiti rimasti sostanzialmente inalterati della sua cultura: una cultura quasi esclusivamente, e anche limitatamente, letteraria, molto italiana e in fondo refrattaria alle influenze della maggiore cultura europea del novecento) ha dato vita ad un’opera eccezionalmente vasta: di narratore, di regista, di critico letterario (soprattutto con Passione e ideologia, 1960, e con Descrizioni di descrizioni, 1979, postumo), di poeta. E la poesia di Pasolini, dalle liriche dialettali e mistico-erotiche (La meglio gioventù, 1954); L’usignolo della Chiesa Cattolica, 1958) ai poemetti «civili» degli anni Cinquanta (Le ceneri di Gramsci, 1957; La religione del mio tempo, 1961) fino ai poemi-collages e agli articoli in versi (Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971) è documento di un trauma personale e storico; dovuto non solo al fallimento fatale di una ipertrofia narcisistica del soggetto-scrittore, ma anche alla involuzione della democrazia italiana, soffocata dalla meschinità conformistica della sua cultura politica e del suo ceto medio.
In Pasolini, del resto, e in toni di violenza nostalgia, parlava un’Italia non ancora «razionalizzata» dallo sviluppo industriale: un’Italia rurale e municipale, frammentata nei suoi localismi regionali, e perciò «umile», legata alle sue origini contadine e preborghesi. Questa aderenza biologica al suolo rurale, inteso come protezione materna e come nutrimento primordiale, è presente, sebbene in forme molto diverse, anche nella poesia di Andrea Zanzotto (1921-2012). Zanzotto ha sperimentato su una base di partenza diversa: ha rinnovato la transizione orfica ed ermetica, spingendo la sua ricerca di laboratorio fino alla dissociazione molecolare delle unità del linguaggio, giocando contemporaneamente sula massima astrazione stilistica (con recuperi petrarcheschi, bucolici, arcadici) e su uno smembramento analitico che risospinge il linguaggio alle soglie dell’afasia, verso le sillabazioni e i balbettamenti infantili. Qui l’atteggiamento «sperimentale» non solo tocca i suoi limiti estremi, ma nel momento in cui, Zanzotto riesce a scrivere una stupenda lirica carnevalesca e apocalittica, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio rovesci il meraviglioso spettacolo linguistico nel grigiore del gratuito e dell’inerte.
Un caso a sé, in assoluto fra i più originali degli ultimi decenni, è quello di Giovanni Giudici (1924-2011). Con Giudici si misura la distanza che può separare un autentico scrittore in versi di questi anni da tutto quanto si è discusso, agitato e rimescolato nella cultura poetica italiana di circa mezzo secolo. Galleria ironica, funebre o sentimentale di personaggi in movimento, di situazioni grottesche e senza sbocco, in una inesausta recitazione stilistica, la poesia di Giudici (La vita in versi, 1965; Autobiologia, 1969; O Beatrice, 1972; Il male dei creditori, 1977) scavalca le scuole novecentesche, ritrova levità melodiche e attitudini realistiche settecentesche, attraversando Saba, Gozzano e Pascoli. Ma il suo protagonista è l’uomo medio dell’Italia impiegatizia, aziendale e democristiana…]”**
** A. Berardinelli La cultura del 900 Mondadori, vol. III 1981, pp. 350, 351, 3
caro Gino Rago,
hai messo il dito nella piaga e hai fatto bene a riprendere questo pezzo di Berardinelli sulla questione della poesia italiana degli anni sessanta e su Fortini, Pasolini e Zanzotto in particolare. Lì ci sono tutti i problemi, i virus, come in vitro, che saranno presenti e ritorneranno nei decenni successivi come nodi non risolti della situazione politica italiana e della poesia italiana.
Dagli anni settanta ad oggi faticheremmo non poco a trovare tre poeti del livello di Fortini, Pasolini e Zanzotto. Non sono più apparsi sulla scena personaggi di quel calibro, e un motivo ci dovrà pur essere. Il motivo ovviamente ci sta e lo dobbiamo rinvenire in quella «discesa culturale» che ha colpito le generazioni dei poeti nati dopo gli anni cinquanta del novecento. Quei poeti, quella moltitudine di poeti che è seguita a quella triade non è più stata in grado di produrre un linguaggio poetico adeguato ai nuovi tempi e alla nuova situazione politica dell’Italia e dell’Europa. Questo è il fatto.
I pochi poeti significativi che sono apparsi in questi ultimi decenni (Helle Busacca, Giorgia Stecher, Maria Rosaria Madonna, Mario Lunetta) erano tutti degli isolati, poeti che si schieravano ai lati del polinomio frastico maggioritario, se non addirittura all’opposizione (Mario Lunetta) dello schieramento costituzionale della poesia italiana.
La lunghissima stagnazione che ha attinto la poesia italiana ha quindi delle cause ben precise e circostanziate, dei nomi e cognomi, delle opere ultime significative. Le opere apparse dopo il 1971 rinunceranno (ma si tratta di una rinuncia in larga parte inconsapevole) a porsi in posizione centrale tra i conflitti estetici e politici perché mancherà il «luogo». La poesia italiana che verrà fuori sarà un «luogo» istituzionalizzato, e la poesia che sortirà fuori sarà una poesia promossa dagli uffici stampa degli editori maggiori, cioè, istituzionalizzata entro i limiti di un ologramma non scritto ma condiviso (inconsapevolmente o consapevolmente) da tutti gli attori che prenderanno parte a questo scenario, o meglio, a questa messa in scena.
Io l’ho detto e ripetuto più volte che in mancanza di un Progetto culturale la forma-poesia langue, si inaridisce e scompare, come avviene per qualsiasi altro manufatto che non venga irrigato e fertilizzato dalla attiva partecipazione ai conflitti estetici e politici che i tempi presentano.
Oggi i tempi richiedono una poesia che sia all’altezza dei problemi all’ordine del giorno.
Condivido e apprezzo il commento di Giorgio Linguaglossa per le precisazioni che esso contiene. Con le 3 domande o questioni alla fine del mio lavoro, peraltro magnificamente curato, in ogni particolare, e proposto su questa pagina de L’Ombra, su ruolo e collocazione di Sereni nel panorama poetico italiano dagli anni ’70 in poi del ‘900, la figura e la portata di Vittorio Sereni risultano ri-dimensionate, rimpicciolite.
Ridimensionando, ma con il rispetto dovuto, il capo-scuola, Sereni, soprattutto nell’area lombarda, ho fiaccato, anzi rimpicciolito, il serenismo e i sereniani, benché certe strategie editoriali (Lo Specchio Mondadori) per anni ci abbiano imposto come “grande” se non “unica” proprio la poesia de Lo Specchio. Ma per tale operazione di garbato, sì, ma netto e fermo di rimpicciolimento avevo l’obbligo etico e culturale di mostrare a chi ci vuole minimi di ben conoscere poeta, poesia e influenze da rimpicciolire… Così diventiamo credibili, altrimenti certe affermazioni rischiano di essere scambiate per atti di superbia immotivata, di risentimenti fuori luogo se non di capricci, e la cultura poetica non si alimenta né con la superbia né con i risentimenti e men che meno con i capricci.
Si avanza e si cresce insieme per una sola via: quella della cultura.
Al di fuori di tale percorso rimangono improvvisazione e dilettantismo che si sa non conducono i poeti da nessuna parte.
Gino Rago
Una Domanda formulata in pieno iper-moderno:
Possiamo ancora utilizzare in poesia un linguaggio predicativo, logico, apofantico?
In questo periodo mi sto interessando al linguaggio notarile. Contiene sfumature e logica da fare impallidire l’Alighieri.