Urszula Kozioł, poetessa, prosatrice, autrice di testi teatrali per la gioventù e di radiodrammi, è nata il 20.6.1931 a Rakówka, nei pressi di Biłgoraj. Dopo gli studi di polonistica all’università di Wrocław, ha lavorato come insegnante e animatrice della cultura. Legata alla rivista “Odra” dal 1972 come responsabile del settore letterario. Ha debuttato nel 1957 con la raccolta “Cubi di gomma”. Sposata con Feliks Przybyłak – germanista e traduttore morto nel 2010. Ha pubblicato 18 raccolte di poesie e tre volumi di prosa. Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue. Ha ricevuto importanti premi letterari, a partire dal premio al festival della poesia di Danzica nel 1957, fino al premio Silesius nel 2011.
La sua poesia abbina abilmente la riflessione filosofica alla sensualità, rivela i condizionamenti biologici e storici dell’esistenza. Stanisław Barańczak, poeta, critico letterario, prestigioso interprete di Shakespeare e uno dei più importanti creatori della Nouvelle Vague polacca, ha scritto sulla poesia di Urszula Kozioł: “Il mondo dell’uomo e il mondo della natura sono presenti nella poesia di Urszula Kozioł come mondi pericolosamente isolati e ostili: se qualcosa li unisce, è il rapporto di reciproca intransigente lotta, a causa della quale l’uomo coesiste con la natura in uno stato di equilibrio instabile, che in qualsiasi momento può far pendere il piatto della bilancia verso la rovina umana”.
Il titolo stesso dell’ultima raccolta uscita nel 2010 – Horrendum – è un’eloquente immagine del mondo inteso come minaccia. Si potrebbe dire che questo titolo, dato a una raccolta nella quale l’ammirazione per la natura si unisce alla esplicita questione del trascorrere della vita, costituisca una definizione poetica del mondo intero.
Nelle sue poesie Urszula Kozioł prende la parola su questioni importanti, anche pubbliche. La protagonista della sua lirica è curiosa del mondo, ama i viaggi. Negli anni ’90 si aprirono le frontiere della Polonia. I progetti della poetessa-viaggiatrice poterono essere attuati in misura maggiore. Nel 1974, nel suo articolo “Il viaggio”, scriveva: “Il viaggio ci permette di realizzare quel sogno che forse ci portiamo dietro dall’infanzia, di essere qualcuno diverso da quello che si è di solito, di essere se stessi diversamente”.
( Paolo Statuti)
Di Urszula Kozioł ho tradotto questo testo sulla sua poesia, pubblicato dalla rivista “Przystanek literacki” (“Fermata letteraria”) nel 2011.
La parola
Nella parola la cosa più importante è la forza che la determina, l’imperativo di esistere racchiuso in essa, che evoca dal nulla nuove esistenze: diventa!
Questo “diventa” è anche alla base di ogni opera d’arte. E dunque anche – soprattutto? – di una poesia. Evocato da nessuna parte. Essendo la proverbiale mosca della bottiglia di Wittgenstein, soltanto con l’aiuto della poesia posso uscire da essa e soltanto grazie ai versi, come tramite una magica formula, posso trasferirmi in un altro terreno, in un altro spazio, uscire oltre il proprio contorno, oltre il tempo anagrafico assegnatomi: esistere oltre me stessa. Un istante più a lungo?
Presto ho scoperto che accanto al mondo reale esiste un mondo immaginato, scritto – anch’esso in un certo modo reale, ma reale in modo diverso. La parola del verso elimina il concetto di lontananza nel tempo e nello spazio, trasforma “una volta” e “in qualche luogo” in “qui e ora”. Leggendo Saffo o Omero, non avverto la lontananza delle intere epoche che mi separano dall’antichità. Per me un poeta attuale è in ugual misura Pound, Norwid o Hölderlin, mi piace fare una chiacchierata con Circe o con Ulisse o Rimbaud. Mi è stato concesso di crescere vicino a parole scintillanti, gravate al tempo stesso di profondità metafisica e di quel particolare tremendum della poesia di Leśmian, il quale ha calcato, come me, gli stessi ciottoli della terra di Biłgoraj. Presto mi sono entrate profondamente negli orecchi le frasi di Kochanowski e di Słowacki, che mi hanno vivamente interessato e incantato con la loro bellezza. Non era importante per me che questi poeti non esistessero più da tanto tempo. Le parole delle loro poesie restituivano la presenza a ciò che è Assente.
La parola della poesia è una forma di presenza, di abolizione dello spazio tra lontananza e vicinanza, tra adesso e allora, tra un giorno e oggi.
La nostra esistenza si estende tra il ricordo e l’oblio. Notte dopo notte il fratello di Tanathos, Ipnos, mi versa sotto la corteccia cerebrale un bicchiere di acqua del fiume Lete, la quale cerca di separarmi da me stessa, dal mio ambiente e dalla mia eredità. In questa forza distruttiva delle acque del Lete, viene in aiuto, come una divinità custode della memoria, la parola del verso: con il suo ritmo, la sua vibrazione e la sua melodia.
Nell’infanzia amavo ascoltare attentamente la parola anche non ancora ben formata, che solo allora mi giungeva e si precisava nella mia fase ancora balbettante, incerta tra le possibilità che le spettano.
Mi piaceva accostare l’orecchio ai pali telegrafici, attraverso i quali – giudicando dalle vibrazioni mantenute in una tonalità di ultrabassi – passavano da una estremità all’altra del mondo le conversazioni di qualcuno, alle quali cercavo di unirmi gridando la mia propria parola.
In ogni grande opera d’arte in generale, e soprattutto nella poesia, insoliti e affascinanti sono gli stati di raccoglimento che si trasmettono a un destinatario sensibile e in grado di percepire. Non si tratta solo del fatto che la poesia è un tipo di linguaggio condensato, concentrato, che deve trovar posto in poco spazio. Ho in mente piuttosto il messaggio contenuto in essa, che è qualcosa come una illuminazione, dal momento che riesce a mettere il lettore in uno stato che di solito si raggiunge soltanto dopo lunghe meditazioni. Lo distoglie dall’involucro della consuetudine, della evidenza e testualità delle sensazioni e, anche se per un solo istante, conduce nella sfera di ciò che è straordinario, non evidente, e al tempo stesso strano e come se conosciuto da tanto tempo, ma ormai perso. E’ dunque quel “ricordare a se stessi”, di cui parlano i mistici.
Una poesia che nasce a volte mi sorprende, come se non l’avessi scritta io. Mi trasforma in una copista, in traduttrice di un suggerimento senza parole, che esige una traduzione immediata nel linguaggio e in quella particolare parola, non un’altra. Prendendo docilmente nota, sento allora la presenza di un qualche co-autore immaginario. Chi è? La Musa?
Alcune poesie provengono dal contrasto tra la somiglianza e la non somiglianza. Altre sono evocate dall’immensità dell’inesplicabile. Dalla mancanza (del sospirato vis à vis?). Dall’eccesso. Dal bisogno di colloquio. Dallo stupore – (che esista qualcosa che al tempo stesso è come se non esistesse).
Tanto tempo fa, da bambina, scrivere poesie mi sembrava una cosa naturale, semplice. Mi piaceva immergermi nel folto del linguaggio, alla caccia di qualche parola che mi divertiva o mi attirava per la sua diversità. Scrivere una poesia mi sembrava allora una cosa convenzionale, come concordate erano le lingue inventate da noi bambini e i colloqui nascosti ai non iniziati da un buffo cifrato, quando tra le sillabe delle parole inserivamo ad esempio le lettere “co”, e quindi: co-a-co-des-co-so co-non co-ho co-tem-co-po.
Oggi sulla poesia so meno di quando cominciai a scrivere.
Per me è un mistero. Un dono.
Ma dato per sempre?
Il verso è abbastanza complicato già di per sé, per la sua natura, per la non testualità dell’enunciato e della condensazione della scrittura. Racchiude in sé molto più di quello che si trova al di là di esso. Per questo ora, che il mio “io” si faccia capire dal “tu” di altri, mi preme più dell’aumento della indecifrabilità del messaggio e dell’aumento degli ostacoli nei luoghi degli incontri. Adesso non voglio sbalordire nessuno, voglio comunicare e proprio questo si rivela così difficile, incredibilmente difficile.
(Urszula Kozioł)
Propongo ora nella mia versione una scelta delle poesie di questa poetessa che conosco personalmente e che apprezzo molto.
(Paolo Statuti)
Urszula Kozioł
Ricetta per un piatto di carne
Occorre avere un coltello
occorre una pietra liscia
con la lama accarezzarla finché contraccambierà
il coltello dev’essere quieto e flessibile il luccichio
per assorbire la dura tenerezza e nervatura delle mani
Il resto è semplice
Un ceppo una tavola Una presa di sale
L’erbetta per la gioia degli occhi
E una foglietta di lauro
Il resto è normale
Perché tutto sta negli aromi
(Non scordare la scodella e l’accostamento dei colori)
Il fuoco oggi è cosa facile grazie a Prometeo.
Purché ci sia il coltello e la pietra.
Nonché un collo docile.
1956
A te
Quando la timida farfalla dei tuoi occhi
si posa sulle mie labbra
allora so, cosa provano i fiori.
Chi sei, strano passante
che con lo sguardo in un bocciolo mi trasformi?
I tuoi occhi sono come le foglie d’un giardino d’autunno
e a volte come il lucente dorso del pesce
nell’onda che si frange
o come il cielo, che aspetta il crepuscolo.
Le mie avide labbra succhiano la rugiada dei tuoi sguardi.
Guardami ancora.
Ecco abbasso gli occhi, per non spaventare i tuoi…
1957
Ipernudità
Avevo il mio asilo nel bosco
– ormai lo hai tagliato
Sono andata in altri luoghi
– ormai sono diventati i tuoi.
Dovunque corressi
mi hai tagliato la strada
le case prevenute erano in agguato.
Doveva essere un duello
ma hai scelto la congiura
ora tutti accerchiano la stessa preda
senza divieto di caccia
senza la scelta dell’arma.
Oggi non hai chi non possa negare un tetto
non hai chi non possa tradire
non additarmi
non hai chi non possa braccare.
E previeni le impronte
prima ch’io arrivi a stamparle nella panica fuga.
Tanto m’è rimasto quanto nella parola taciuta.
Ma tu sei riuscito a irrompere nell’intimo occulto
e ormai neppure di me stessa sono oggi alleata.
Anche se la lingua è ammutita
le mie viscere hanno cento bocche.
Mi tradiscono le glandole il respiro mi abbandona
la pressione sanguigna e il polso cospirano alla mia rovina. –
Tanto hai preso. Eppure ancora non m’hai del tutto carpita.
Se mi vuoi avere – toglimi la morte.
In essa ho ancora asilo.
1967
Glossa: Da una gita
In questo labirinto
dove a ogni svolta una diversa
loda una diversa matassa di filo
lusingando con un sempre
diverso colore
ho acquistato
un ago col ditale e un gomitolo per prova
lo svolgo
forse basterà
per rammendare i buchi sul tallone di un semidio
forse per avvolgerlo attorno a un dito
forse per –
non è bastato
ed ecco mi sono trovata in mezzo a voi
nel labirinto
dove tutti i fili sono troppo corti tranne
il filo della ditta Alfa tranne
il filo della ditta Beta tranne
il filo dei fili
che per il momento sono mancati
lo svolgo
o forse per un punto di maglia
un segno sghembo giacché qui mi hanno condotto
non è bastato
ed ecco mi sono trovata in mezzo
nel labirinto
dove già una diversa Arianna loda una diversa matassa o
un suo surrogato o
qualsiasi cosa anziché –
che sia dunque questo anziché
per tutti lo stesso anziché
non è bastato
ed ecco mi sono trovata in mezzo a voi
nel labirinto
e quella parete non è alcuna parete
è la parete della parete
e questo sentiero non è alcun sentiero
è il sentiero del sentiero
e quel segno inciso sul muro
è un segno verso nessun luogo
è un segno dello stesso segno
come puzza qui
di sudore dell’attesa di sudore del sudare
come rimbomba qui
per lo sgambettio in un posto e in un altro
adesso prendiamoci tutti per mano
reggiamoci forte
adesso sporgiamoci tutti oltre –
sempre oltre quella parete
oltre –
sempre una più lontana
oltre –
sempre in questo ACCANTO
non c’è di che avere paura
in ogni caso
in questo labirinto non c’è un altro
labirinto
non c’è di che avere paura
in ogni caso
ora non in questo qui c’è un altro
ora questo qui è in un altro.
1969
* * *
una nuvola blu verso sera
con un latteo alone ai bordi
come se il fumo l’avvolgesse delle interne vampate
in basso obliquamente il sole
ad un tratto gli uccelli e le foglie d’una selva
di alberi vistosamente colorati sulla china d’un colle
(i gialli, i castani e il rosso dei vermigli arbusti)
insieme spazzati dall’impeto del vento in alto
per un attimo l’uccello e le foglie non si distinguono
nessuna foglia neanche per idea pensa di cadere in terra
trattengo il respiro
vorrei per sempre stabilirmi in questa finestra
dove in questo istante mi aspetto il temporale
che scoppi finalmente il fulmine
il cuore
è affamato d’una briciola di spavento
per soffocare l’estasi
il suo eccesso mi fa scoppiare i bordi del respiro
Iowa, 1991
Colloquio con Rimbaud
Come bene hai agito andando via da qui
monsieur Rimbaud
perché non è forse meglio infatti
concludere un chiaro accordo
sia pure con l’industria tessile
su questo battello ebbro
carico di cotone
oppure vendere fucili eccetera
piuttosto che senza evidente motivo incantarsi a guardare
come la luce si auto-
moltiplica e auto-
propaga lungo linee angoli e figure
o indagare
se la forma formasissima
si lascia dal punto attraverso la linea
condurre all’esistenza sul piano delle parole
ovvero sino alla fine dei propri giorni
aggrovigliarsi nell’ordito d’un filo misterioso
che non porta spesso in nessun luogo
che per di più nessuno qui
– nel mondo degli affari –
seriamentre si aspetta da te
e impigliarsi in nodi per l’innanzi imprevisti
d’una presunta matassa
mentre la chiara vela
dell’attimo una volta soltanto donato
impercettibilmente fugge nell’oscurità
che si addensa subito dietro l’illusoria linea dell’orizzonte
dove attraverso le fessure dell’esistenza traspare il nulla
o – se si preferisce –
dove si apposta il drago con più teste
( e le sue teste nessuno mai del tutto mozzerà ).
Dunque giustamente hai agito
mandando al diavolo questo luogo insidioso
di mondi incomprensibili
mettendoti in affari su un battello carico di cotone
fatto apposta per avvolgere le parole
con la loro indocile natura
e per soffocare in esse
i troppi pulsanti significati.
Sì
al momento giusto sei riuscito a uscire illeso
da qui verso le regioni misurabili dell’evidenza
nelle quali il senso dell’essere
qualcuno ostinandosi
riesce con un dito a scandire su semplici pallottolieri.
III 1995
* * *
Questa rosa
che è appena sbocciata nel giardino
non conosce alcun sonetto che la riguarda
nemmeno l’ode di Ronsard
(mignonne, allons voir si la rose
qui ce matin avoit desclose
sa robe de pourpre…)
nemmeno sa chi egli fu
non si cura della rima inserita nella delicata strofa
ma sa
che è una rosa.
Al principio balbetta incerta il suo bocciolo
s’inchina
balbetta di nuovo
s’inchina
e poi sempre più fluentemente
raddrizza petalo dopo petalo
raddrizza il profumo
e si copre di rossore
formando di colpo qualcosa come:
mignonne…
Adesso già chiaramente
si siede in un doppio quadrato
a-bb-a a-bb-a
traccia il particolare triangolo
(la corolla)
dell’arco cdc
(insieme con la sua immagine rispecchiata)
tende quest’arco
tende
scocca la freccia –
e centra il cuore stesso dell’attimo.
1996
Detto diversamente
la mia libertà è la parola che tacerò
o annoterò su un pezzetto di carta
per trasmetterla a te
la mia libertà è un fortuito pennarello
stecco o biro presa in mano
per scarabocchiare svogliatamente sulla sabbia
o dietro un biglietto usato
arabeschi
o per muovere in avanti con essa le lettere
quasi volessi compitare il mondo
volendo renderlo almeno appena più leggibile
e almeno un po’ così sospingerlo in avanti
la mia libertà è la lingua con cui mi rivolgo a te
la lingua in cui accolgo la tua risposta
per incontrarsi con te o discostarsi
ma la mia libertà è soprattutto l’attimo
in cui inclino verso di me le parole
con un’angolatura molto particolare se non altro perché
smettano di respingersi a vicenda come scottate
l’attimo in cui durevolmente le unisco tra loro
quasi come vincolo matrimoniale
le imparento coi significati in clan gruppi e strofe
e le appacifico appacifico
continuamente le appacifico
perché alfine smettano di divorarsi a vicenda d’ingoiarsi
– com’è loro uso –
e dunque le tolgo dallo stato di selvaggio cannibalismo
di broncio reciproco
io donatore
io artefice del pianeta del verso con un gesto regale
lo affranco
lo metto in libertà
soffiando in esso alla fine un briciolo della mia anima
(anche se tutto questo dovesse rivelarsi un disastro
la mia poesia ugualmente
sarà come la scatola nera
in ogni caso in essa
nella sua strofa
si cela la prova dell’esistenza dell’attimo
il quale al di fuori di essa non c’è in nessun posto
e che forse del resto non è stato mai più
per nessuno tranne me
me sola
ed è questa la mia libertà
che appunto posso proprio quest’attimo
prendermi da un ripiano del tempo sconfinato
modellarlo
rinchiudere nell’oblunga scatola nera della strofa
e fermare
trattenere
– ma per sempre?
di’
– per sempre?)
I – 1996
La spada di Damocle…
la spada di Damocle su un letto di torture
ecco come sono i miei sogni
un masso su un dirupo, cui mi aggrappo convulsamente
si muove come un dente di latte
nella bocca di un bambino
ecco com’è la mia veglia
malgrado ciò in ogni istante di nuovo
sono pronta a cantare il mio amore per te
sai, che per te
e in ogni istante nuovamente
muoio di estasi
per la belleza di questo mondo
benché proprio esso mi sfugga di mano
2005

città Tomas Saraceno
Lisbona II
quella primavera quando il nasturzio nei fossi cresceva
mi recavo a Lisbona e insistenti voci chiedevano
da dove e dove andavo e se per certo sapevo
che ne avrei fatto di me
quella primavera
sì proprio là
dove sui colli di Lisbona Pessoa
con gesto ormai inerte si toglieva e ritoglieva
lo stesso cappello
m’innamorai di questa città
che mi guardava con le strette quasi socchiuse
foglie degli eucalipti che avidi
si sono appropriati dei colli del posto
togliendosi di torno le sùghere
m’innamorai di questa città come se
vivessi qui da sempre e come se da sempre
sull’antiquato mal ridotto tranvài
penetrassi nelle vene delle sue stradine
volendo ormai soltanto confondermi
con lo sfondo circostante
sui muri arroventati
quella primavera
si stendeva tripla come trifoglio
e già riconoscibile l’ombra di Pessoa
che osò giocarsi tutto a dadi con Dio
adesso però mi trafisse
il gelo della sua mano metallica ormai incapace
di reggere qualcosa di più
e tuttavia quella primavera volevo toccarla
e accertare se non ci fosse ancora su di essa la polvere
del Dio immaginato
volevo accertare se ciò mi avrebbe aiutato
a rimettere insieme dei mondi perduti
i pezzi staccati
che non credo combacino più.
2005
Il mare ci chiede…
il mare ci chiede
insistente interroga senza sosta
di nuovo
come se volesse sapere più
di ciò che sa già
di noi e in generale
raggiunge con fragore
il tuo ritmo nascosto
il mare
– accanito rapper –
Interroga su qualcosa
su niente
interroga su tutto
e a un tratto si ritira prima che tu trovi una risposta
come se temesse di udirla Continua a leggere