La Questione della Poesia italiana, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Rathgeb, Un brano da Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 – Tre poesie inedite di Carlo Livia da La prigione celeste

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Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria

Giorgio Linguaglossa

Riepiloghiamo.

Ecco un brano dal mio libro di critica: Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013), Società Editrice Fiorentina, 2013 Firenze, pp. 150 € 15.

Nella poesia [italiana] degli Anni Dieci è evidente che il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla «vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»; sembra come per magia, allontanarsi dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di intensità e di velocità. La polivalenza polifunzionale degli stili emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario caratterizzate dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e disgregatrici.

E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato). Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della poesia degli Anni Dieci il nuovo si confonde con l’antico, il patetico con l’apatico, l’incipit con l’explicit ed entrambi risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico.

A questo punto, dobbiamo chiederci: la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità» che ha attraversato il Novecento europeo, ha avuto una qualche influenza o ricaduta sulla poesia italiana contemporanea? È stata in qualche modo recepita dalla poesia del secondo Novecento? Ha avuto ripercussioni sull’impianto stilistico e sull’impiego delle retorizzazioni? E adesso proviamo a spostare il problema. Era l’impalcatura piccolo-borghese della poesia del secondo Novecento una griglia adatta ad ospitare una problematica «complessa» come quella dell’«autenticità», della «identità», della crisi del «soggetto»? Nella situazione della poesia italiana del secondo Novecento, occupata dal duopolio a) post-sperimentalismo, b) poesia degli oggetti, c’era spazio sufficiente per la ricezione di una tale problematica? C’erano i presupposti stilistici? Malauguratamente, sia il post-sperimentalismo che la poesia degli oggetti non erano in grado di fornire alcun supporto filosofico, culturale, stilistico alla assunzione delle problematiche dell’«autenticità» in poesia. Di fatto e nei fatti, quelle problematiche sono rimaste una nobile e affabile petizione di principio nel corpo della tradizione poetica del tardo Novecento.

giorgio linguaglossa_Dopo il Novecento

Personalmente, nutro il sospetto che il ritardo storico accumulato dalla poesia italiana del Novecento nell’apprestamento di una area post-modernistica e/o post-contemporanea, si sia rivelato un fattore molto negativo che ha influito negativamente sullo sviluppo della poesia italiana ritardando, nei fatti, la visibilità di un’area poetica che poneva al centro dei propri interessi la problematica dell’«autenticità» e dell’«identità». Relegata ai margini, l’area modernistica è uscita fuori del quadro di riferimento della poesia maggioritaria. Poeti che hanno fatto dell’«autenticità» e dell’«identità» il nucleo centrale della loro ricerca appartengono alla generazione invisibile del Novecento, i defenestrati dall’arco costituzionale della poesia italiana. È tutta la corrente sotterranea del modernismo e del post-modernismo che risulta espunta dalla poesia italiana del secondo Novecento, la parte culturalmente più vitale e originale.

Si spalanca in questo modo la strada all’egemonia della poesia piccolo-borghese del minimalismo romano e dell’esistenzialismo milanese degli anni Ottanta e Novanta, che giunge fino ai giorni nostri, e così si pacifica la storia della poesia italiana del secondo Novecento vista come una pianura o una radura di autori peraltro sprovveduti dinanzi alle problematiche che stavano al di là del loro angusto campo visivo e orizzonte di attesa.

Si stabilisce una affiliazione stilistica, un certo impiego degli «interni» e degli «esterni» urbani e suburbani, certe riprese «dal basso», certe inquadrature «di scorcio», una certa «velocità», un certo zoom paesaggistico, un certo modo di accostare le parole e una certa interpunzione dei testi, un certo impiego della procedura «iperrealistica» di avvicinamento all’oggetto; viene insomma stabilita una determinata gerarchia dei criteri di impiego delle retorizzazioni e della iconologia degli «oggetti». L’iconologia diventa un’iconodulia. In una parola, viene posto un sistema di scrittura dei testi poetici e solo quello. In un sistema letterario come quello italiano in cui viene rimossa una intera generazione di poeti ed una stagione letteraria come quella del tardo modernismo, non c’è nemmeno bisogno di imporre ad alta voce un certo omologismo stilistico e tematico, è sufficiente indicarlo nei fatti, nelle scelte concrete degli autori pubblicati nelle collane a maggiore diffusione nazionale.

Come la filosofia non progredisce (se accettiamo per progresso l’accumulo di risultati che si susseguono), anche la poesia non progredisce né regredisce (non soggiace alla logica economica del progresso né conosce crisi di recessione), semmai conosce tempi di stasi e di latenza. In tempi di stagnazione stilistica c’è di che domandarsi: A che pro? E per chi? E perché scrivere poesie?

Fortunatamente, la crisi spinge ad interrogare il pensiero, a rispondere alle domande fondamentali. Come ogni crisi economica spinge a rivedere le regole del mercato, analogamente, ogni crisi stilistica spinge a ripensare la legittimità dei fondamentali: Perché lo stile? Quando si esaurisce uno stile? Quando sorge un nuovo stile? Uno stile sorge dal nulla o c’è dietro di esso uno stile rivalutato ed uno rimosso? Che cos’è che determina l’egemonia di uno stile? Non è vero che dietro una questione, apparentemente asettica, come lo stile, si nasconda sempre una sottostante questione di egemonia politico-estetica? Non è vero che, come nelle scatole cinesi, uno stile nasconde (e rimuove) sempre un altro stile? Non è vero che l’egemonia piccolo-borghese della poesia italiana del secondo Novecento ha contribuito a derubricare in secondo piano l’emersione di un «nuovo stile» e di una diversa visione della poesia? Non sta qui una grave incongruenza, un nodo irrisolto della poesia italiana? C’è oggi in Italia un problema di stagnazione stilistica? I nodi irrisolti sono venuti al pettine? C’è oggi in Italia un problema tipo collo di bottiglia? Una sorta di «filtro profilattico» nei confronti di ogni «diverso» stile e di ogni «diversa» visione? Io direi che la stagnazione stilistica è oggi ben visibile in Italia e si manifesta con la spia della disaffezione dei lettori verso la poesia del minimalismo e del micrologismo. Ed i lettori fuggono, preferiscono passeggiare o guardare la TV.

Uno stile nasce nel momento in cui sorge una nuova autenticità da esprimere: è l’autenticità che spezza il tegumento delle incrostazioni stilistiche pregresse. Non c’è stile senza una nuova poetica. Uno «stile derivato» è uno stile che sopravvive parassitariamente e aproblematicamente sulle spalle di una tradizione stilistica. Gran parte della poesia contemporanea eredita e adotta uno «stile derivato», un mistilinguismo (alla Jolanda Insana) composito, aproblematico e apocritico che può perimetrare, come una muraglia cinese, qualsiasi discorso, qualsiasi chatpoetry. Che cos’è la chatpoetry? È lo stile, attiguo a quello dei pettegolezzi delle rubriche di informazione e intrattenimento dei rotocalchi, del genere dei colloqui da salotto piccolo borghese televisivo intessuto di istrionismi, quotidianismi e cabaret. Vogliamo dirlo con franchezza? Quanti libri di poesia adottano, senza arrossire, il modello televisivo del reality-show? Quanti autori adottano un modello di mistilinguismo, di idioletto di marca pseudo sperimentale acritico e gratuito? Quanta poesia contemporanea agisce in base al concetto di realpolitik del modello poetico maggioritario? Quanta poesia reagisce adattando il modello idiolettico (che oscilla tra chatpolitic e realityshow) di diffusione della cultura massmediatizzata? Vogliamo dirlo? Quanta poesia in dialetto è scritta in un idioletto incomprensibile e arbitrario? E dove lo mettiamo il mito della lingua dell’immediatezza? Il mito della lingua dell’infanzia? Come se la lingua dell’infanzia avesse un diritto divino di primogenitura quale lingua «matria» particolarmente adatta alla custodia dell’autenticità!

Oggi dovremmo chiederci: quanta poesia neodialettale del tardo Novecento fuoriesce dalla forbice costituita dalla retorica oleografica e dal folklore applicato al dialetto? Quali sono (in pieno post-moderno) le basi filosofiche che giustificano l’applicazione dello sperimentalismo al dialetto? Che senso ha, dopo la fine della cultura dello sperimentalismo, applicare la procedura sperimentale al dialetto come hanno fatto Franco Loi e Cesare Ruffato? Ha ancora un senso il mistilinguismo di Jolanda Insana? Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?

Dalla «Nascita delle Grazie» fino al «mitomodernismo» c’è una incapacità di fondo a costruire una piattaforma critica. La poesia mitomodernista segue, e non potrebbe non farlo, il piano inclinato delle poetiche epigoniche del tardo Novecento, decorativa e funzionale agli equilibri della stabilizzazione stilistica. Il «recupero di concetti come Anima, Visione, Ispirazione, Destino, Avventura»; «La proposta della Bellezza come valore universale» (dizioni di Roberto Mussapi), sono concetti tardo novecenteschi, maneggiati in modo ingenuo-acritico, inscritti nel codice genetico del modello letterario mitopoietico.

Ma chi non è d’accordo sullo scrivere una poesia «bella»? È un proposito senz’altro condivisibile, ma non basta una semplice aspirazione per scrivere una poesia «bella». L’assenza peraltro di una struttura critica, di un pensiero filosofico in grado di affiancare quella proposta di poetica, ha finito per pesare negativamente sullo sviluppo del mitomodernismo come poetica propulsiva. Perorare, come fa Mussapi, che «come esiste l’Homo Religiosus esistano anche l’Homo Tradens e l’Homo Poeticus», è, come dire, un atto di inconfessabile ingenuità filosofica.

Il fatto è che oggi parlare di «autenticità», di «identità», di «soggetto», di «irriconoscibilità» della scrittura poetica implica porre al centro dell’attenzione critica la questione di un’altra «rappresentazione». Il discorso poetico del prossimo futuro dovrà passare necessariamente attraverso la cruna dell’ago della presa di distanza dal parametro maggioritario del tardo Novecento.

Steven-Grieco Rathgeb in celeste

Sulla terra è l’Uomo che veglia / sopra la nostra vita senza fine. / Sua è la presenza nei corridoi d’ospedale / illuminati tutta la notte, / nei supermercati deserti / quando il mondo e tutti gli umani dormono profondi / e ogni salvezza dipende da un’altra salvezza / e nessuno sprinkler system può proteggerci / da questa vita senza fine. // Sua anche / la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo

Steven Grieco Rathgeb

Il commento di Giorgio Linguaglossa  dovrebbe costituire un post a se stante. Perché è quanto di più chiaro, esplicativo e illuminante che io abbia letto sulla condizione della poesia oggi. Può darsi che lui abbia in mente in buona parte la poesia italiana. Ma posso assicurarlo perché la banalità della poesia inglese mainstream oggi, è uguale, semmai molto più ingenua. Cerco e cerco ma non trovo in inglese altro che poesia da poeta lureates. Sempre scritta benissimo, s’intende. Dopo Pound, HD e gli altri, non posso che stupire.
Ora direi che per la poesia la campana a morto definitiva e settecentenaria, sia stato il sonetto forbito e perfetto di Petrarca. È un macigno che non vuole andare via nemmeno oggi. E vi dico di più. I famigerati sonetti di Shakespeare, lontani di mille oceani dai suoi pezzi teatrali, altro non sono che meraviglioso, perfetto, geniale scimmiottamento di Petrarca. Così come nessuno può mai negare la perfezione di scrittura, la profonda intelligenza, la maestria, del sonetto petrarchesco. Inattaccabile, mirabile, invulnerabile. Ahimè.
È meraviglioso come a questo sia sfuggita totalmente la poesia svedese modernista e ora del XX secolo. Ho già pronto un post con alcune mie trouvailles, di poeti recentissimi di quei paesi, che non potranno mancare di aiutarci tutti – voi italiani e noi inglesi o francesi – quale miracolo possa essere la poesia scritta bene oggi. In cui la totale decostruzione di arroganza, e di totale rifiuto di “gloriosa tradizione letteraria” porti molto velocemente alla scrittura di poesia… sì, alta.

Il Guardian, mio amatissimo quotidiano inglese all’avanguardia in tutti i settori di coverage – politico, sociale, culturale, etc. – posta una poesia alla settimana. A volte sono poesie del passato. Quelle di oggi invece fanno sempre purtroppo una terribile impressione. Perché? questa sezione del Guardian è sotto il tacco dei conservatori della poesia, quasi tutti poet laureates passati, presenti, o in odore di presto diventarlo. Peccato!
Ora direi che per la poesia italiana la campana a morto definitiva e settecentenaria, sia il sonetto forbito e perfetto di Petrarca. È un macigno che non vuole andare via nemmeno oggi. Ma vi dico di più. I famigerati sonetti di Shakespeare, (lontani di mille oceani dai suoi pezzi teatrali) , altro non sono che meraviglioso, perfetto, geniale scimmiottamento di Petrarca. Così come nessuno può mai negare la perfezione di scrittura, la profonda intelligenza, la maestria, del sonetto petrarchesco, così i sonetti di S. sono inattaccabili, mirabili, invulnerabili.
(Mille volte più desiderabili sono allora i sonettisti francesi com Du Bellay et Ronsard.)

È quindi meraviglioso come a tutto questo melenso aulismo sia sfuggita totalmente la poesia svedese modernista e ora del XXIo secolo. (o la Agota Kristof.) Ho già pronto un post con alcune mie trouvailles, di poeti recentissimi di quei paesi, che non potranno mancare di aiutarci tutti – voi italiani e noi di lingua inglese o francese – a capire e a imparare quale miracolo possa essere la poesia scritta bene oggi. In cui la totale decostruzione e il totale gentile rifiuto di un certo senso arrogante della *nostra gloriosa tradizione letteraria” (francese, italiana, inglese, tedesca, non importa) porti molto velocemente alla scrittura di poesia… sì, alta.
Abbiamo molto da imparare, ahimè. Siamo sprofondati nel nulla del XXI sec con intorno al collo la catena delle nostre gloriose tradizioni letterarie, che non potranno aiutarci per niente e per niente.

Dice Giorgio che di solito noi poniamo mano, ripariamo, rinnoviamo quei pezzi del sistema – politico, sociale, culturale, economico – quando questi vanno in avaria per vecchiaia e/o obsolescenza. Di solito è stato così nella storia. Purtroppo, non sempre: oggi quasi tutti gli esperti e gli economisti concordano che le economie mondiali non hanno imparato niente dalla recessione 2008-9, che continua ad imperare ovunque la formula neo liberalista capitalista, miope e distruttiva della società umana, del clima e dell’ambiente. Viviamo una irrealtà, una favola di crescita economica, una fandonia di proporzioni globali, siamo tutti sullo schiacciasassi, chi comodamente seduto, chi solo appollaiato o aggrappato all’esterno ma tutti insieme ci stiamo avviando al baratro non più lontano ormai. Quanto questo sia vero, nessuno ce lo può dire. Comunque la maggioranza degli scienziati lo dà per certo, fra 12 anni circa i nostri life-support systems (in italiano?…) inizieranno a cedere.
In letteratura chi esprime ciò? È quello che affronto nella terza parte di questo trio Agorafilia-Utamakura-Disfanie. La fessura di fugace verità, attraverso la quale la nostra realtà apparentemente così comoda e sicura si mostra per quella che è: distopia

Giorgio Linguaglossa

caro Steven,

in questi ultimi anni è avvenuto in me  un fenomeno strano: Qualcuno mi ha rubato le parole, me le ha sottratte pian piano, un ladro si è infiltrato nella mia mente e mi ha trafugato le parole, QUELLE parole della «critica» con le quali si fabbricano le schede-libro delle note di lettura e dei quarti di copertina. Non sono più capace di adoperare QUELLE parole per redigere le cosiddette «recensioni» o «note di lettura». Sono così rimasto senza parole. Non sono più capace di redigere quegli scritti augurali e procedurali che ammiro con sempre maggior stupore nelle schedine critiche che leggo in giro. Mi sono accorto che il Nulla ha inghiottito tutte QUELLE parole, e di QUELLE parole non è rimasto più nulla.
E ne ho preso semplicemente atto.

Per questo sono stato accusato di essere un cavaliere del Nulla, un nullista, un nichilista, un nullificatore… un pericoloso taliebano del Nulla.

Mi sono accorto che sono diventato incapace di adoperare QUELLE parole della poesia maggioritaria che si scrive oggi, quelle poesie corporali, confessionali, augurali, posiziocentriche, non so come dire, alla Gualtieri e alla Lamarque. Sono ormai diventato allergico a QUELLE parole. Le ho perdute. E Penso che una analoga allergia sia stata avvertita anche da un Mario Gabriele, da un Gino Rago, da un Francesco Paolo Intini, da un Mauro Pierno e da tanti altri autori che frequentano queste pagine…

[L’originario è il Nulla, e la traccia dell’origine, cioè del Nulla, è l’Essere. Gli Enti sono lontanissime tracce dell’Originario che si è dissolto, che si è auto tolto]

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Giorgio Agamben

«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco (corsivo mio), nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla “cura di sé”, sulla “pratica di sé”. Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».*

* [da una intervista reperibile on line e su questa rivista]

Ci sono in giro moltissimi autori di poesia impegnati nell’opera di auto storicizzazione della propria poesia; noi qui, come dimostra la ricerca di Steven Grieco Rathgeb, siamo invece impegnati a riallacciare i fili della tradizione culturale dell’Occidente e dell’Oriente.

La nuova poesia passa di qui. Senza un disegno generale della poesia occidentale e orientale, in mancanza di un grande Progetto si finisce per scrivere poesie sulla sabbia, parole sull’acqua.

Ancora nel 1966, anno dell’intervista a Montale in trattoria, il poeta italiano poteva affermare tranquillamente che non ascoltava mai la radio e non possedeva la televisione. Io mi limito ad osservare che la nuova poesia, la «nuova ontologia estetica» non potrebbe essere nata senza la piena immersione nella civiltà mediatica. Oggi, se ci si pensa un attimo, non è possibile in alcun modo rifugiarsi in un angolo oscurato della civiltà mediatica, siamo tutti, volenti o nolenti, in qualche misura intaccati ed influenzati dal mondo mediatico. La metafisica di cui qui si parla non è un optional che si può rifiutare e da cui ci si può difendere con una resistenza, una ostruzione, la metafisica è l’essere che si dispiega e che giunge alla sua fine annunciata. In altre parole, la fine dell’essere è già stata segnata dall’insorgere della civiltà mediatica. Non volerne prendere atto, è, appunto, un atto di cecità oltre che di stupidità.
La NOE è il presente e il futuro della poesia perché implica l’accettazione di dover misurarsi con il mondo mediatico.

Carlo Livia

Tre poesie, da La prigione celeste, in corso di stampa con Progetto Cultura

Carlo Livia è nato a Pachino (SR) nel 1953 e risiede a Roma. Insegnante di lettere lavora in un liceo classico. È autore di opere di poesia, prosa, saggi critici e sceneggiature, apparsi su antologie, quotidiani e riviste. Fra i volumi di poesia pubblicati ricordiamo: Il giardino di Eden, ed. Rebellato, 1975; Alba di nessuno, Ibiskos, 1983 (finalista al premio Viareggio-Ibiskos ); Deja vu, Scheiwiller, 1993 (premio Montale); La cerimonia  Scettro del Re, 1995; Torre del silenzio, Altredizioni, 1997 (premio Unione nazionale scrittori ); L’addio incessante, ed. Tindari, 2001; Gli Dei infelici, ed. Tindari, 2010. È in corso di stampa con Progetto Cultura, La prigione celeste.

Dipinti

Sono una belva dallo sguardo spento. Una belva dipinta sopra una scatola cinese. Una scatola dentro un’altra scatola dentro un’altra… e così all’infinito. Chi può dirlo. Non ho familiari, né simili. La mia specie si è estinta da millenni. Vivo in una pausa del tempo. In fondo alla strada infelice di De Andrè. In quel nero sono stati commessi atroci delitti. Alcuni sono celebri dipinti, e riposano in cielo coi santi. Altri alloggiano in televisione.

Ho un’unica dea, inesistente. Ogni giorno alle tre appare nei miei sogni. Diventa mia figlia, per amarmi. Poi si suicida. Ma non è un incesto. È un groviglio di piccoli santuari in forma di veliero nella tempesta. Per raggiungere la Signora altissima, inappagabile. Nelle sue stanze risuonano peccati e misteri biondi, celesti, terrificanti. Paradisi perduti, irraggiungibili.

È una carezza dorata, interminabile. Annienta senza uccidere. Senza togliersi le vesti. Come la musica che saliva lenta dai tumuli, in guanti di pioggia triste. Mi prese le mani fissandomi con occhi grigio-azzurri. Io sono fatta così, l’inaudito diventa vero- disse. Niente accade per caso, invano.

Invece giunse quell’assenza, quel dolore di ciechi in delirio che riempiva la calura d’estate. Voli murati. Giardini morti, che vagavano senza trovare l’ingresso dell’anima. E diventavano fanciulle crocifisse al sogno scomparso, implacabile. Viaggi effimeri nelle promesse del glicine. Col cielo basso in cui si scompare senza merito, senza seme.

E i padri bianchi ritornavano dal grande mistero senza parlare, coll’armatura di arpe e flauti ferita dalle domande di Kafka. Accecati dalle donne-praterie, chiedevano un altro giorno, un altro nome. L’altare intermedio, protetto dalla macchina vellutata. La siringa di Per sempre.

Se è vero amore il muro della velocità si piega docilmente – dicono. Ma prima bisogna attraversare il pianto della Madrina. La pietà indurita dagli scheletri.   I teleschermi vuoti.

La malattia che ci ha diviso.

 

 Ad ogni costo

Il tuono morbido spalancò il sogno. Una costola della morte. Varcò lo squarcio e cadde nell’insonnia dell’altro universo.
Una stanza troppo pallida in un’alba malata d’ardesia. Dappertutto c’era quel sesso malato che doveva morire ad ogni costo. E la creatura trasparente, che bruciava cantando.
La sposa era un dolore di flauto. Perseguitava l’universo.
Io aspettavo qualche goccia del suo amore, rinchiuso nell’animale spento. Ma lei era una fotografia lontana: “malinconia sul lungofiume”.
Legato alla colonna di pianto, vedevo passare i tempi missionari. Le comunicande nude, che copiavano la mia follia. Allontanandosi, mi uccidevano lentamente, senza fine.
Tutti si erano gettati nell’aldilà. Solo io esitavo, nell’oscuro cespuglio femminile. Stringevo l’ultimo cielo, la malattia di Schubert.
Ero un violoncello celibe, folle, senza memoria. Gridavo nella folla del mercato: “Lei è così in alto! Come avete potuto uccidere il suo amore? Non sentite questo gelo che cresce? Non vi terrorizza il suo silenzio? Il suo pensiero immobile nell’uragano morto?”
Chitarra bambina (dall’addio delizioso, da cui è appena fuggita la morte): “Se il naufragio ricorda il suo primo nome, se solo un bacio apre il tabernacolo, se il vertice del terrore è la fonte battesimale, se la Dea ha spigoli e farmaci, se l’Eterno ha un angolo rotto, se…”

Davvero credevate di esistere?
Il fatto increscioso è deceduto un’ora fa, fra le cosce supreme!

 

Evento (nel diaframma)

Il giglio cade alla velocità del prete
Oscurato
Oscurato fino al grido o al germoglio

Lei guarda in alto per rivedere il primo bacio
Il viale proibito ricresce
Nella musica che abolisce il corpo

Poi tutti si strappano l’anima
Per mangiare

Ma lei resta ammanettata al roseo dell’oriente
In quel cielo sonda le mie delizie

L’amore trapassa

“ Se fuori è fango, dentro è l’immacolata spoliazione “ – dice lo Spettro, fatto plastica dalla furia verginale.
Ma il destino si rinchiude nello specchio che annienta i velluti, senza esistere.

Entro nella femmina triste. È un tempo obliquo, matrigno, diserbato. Cresce e consuma i rami del sogno.
Ci sono troppe stelle. La casa morta. Il sole-falco. Il ragno supremo, che sposta l’universo.
Sale nel pensiero-serpente, spogliando paradisi, uragani.
L’uomo esce dall’ombra e si ferma in mezzo alla scena. La macchina pazza esce dalla sua testa, cresce e lo schiaccia ( lui muore e rinasce nel fotogramma oscurato).

Voce fuori scena (abissale, risorta a stento):
“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio che trema in fondo alla Sposa.
Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
Sognami.
Sono la fanciulla improvvisa.
Il bacio profondo mille tabernacoli.
La selva di orologi spenti.
La speranza folle,
come un lampadario sospeso in mezzo al mare.

La fessura piena di morti
gemella della prima luce.”

 

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26 risposte a “La Questione della Poesia italiana, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Rathgeb, Un brano da Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 – Tre poesie inedite di Carlo Livia da La prigione celeste

  1. Il mio Punto di vista

    Nell’odierno orizzonte culturale non c’è più una «filosofia della storia», così come non c’è più una «filosofia dell’arte». Con il tramonto del marxismo sono venute meno quelle esigenze del pensiero che pensa qualcosa d’altro fuori di se stesso. Quello che resta è un discorso sulla dissoluzione dell’Origine, del Fondamento, dissoluzione della Storia (ridotta a nient’altro che a una narrazione tra altre narrazioni), dissoluzione della narrazione, dissoluzione della Ragione narrante. È perfino ovvio che in questo quadro problematico anche il discorso poetico venga attinto dalla dissoluzione della propria sua legislazione interna. Il concetto di «contemporaneità», come il concetto del «nuovo», è qualcosa che sfugge da tutte le parti, non riesci ad acciuffarlo che già è passato; legato all’attimo, esso è già sfumato non appena lo nominiamo. Questa situazione della condizione post-moderna è l’unica situazione immodificabile dalla quale bisogna ripartire. Ricominciare a pensare in termini di Discorso poetico significa porre stabilmente il Discorso poetico entro le coordinate della sua collocazione post-moderna.

    Scrive Gianni Vattimo:

    «si può dire probabilmente che l’esperienza post-moderna (e cioè, heideggerianamente, post-metafisica) della verità è un’esperienza estetica e retorica (…) riconoscere nell’esperienza estetica il modello dell’esperienza della verità significa anche accettare che questa ha a che fare con qualcosa di più che il puro e semplice senso comune, con dei “grumi” di senso più intensi dai quali soltanto può partire un discorso che non si limiti a duplicare l’esistente ma ritenga anche di poterlo criticare». 1]

    Possiamo dedurre che la collocazione estetica della «verità» («la messa in opera della verità» di Heidegger) è l’unica ubicazione possibile, il solo luogo abitabile entro il raggio dell’odierno orizzonte di pensiero. Se intendiamo in senso post-moderno (e quindi post-metafisico) la definizione heideggeriana del nichilismo come «riduzione dell’essere al valore di scambio», possiamo comprendere appieno il tragitto intellettuale percorso da una parte considerevole della cultura critica: dalla «compiuta peccaminosità» del mondo delle merci del primo Lukacs alla odierna de-realizzazione delle merci che scorrono (come una fantasmagoria) dentro un gigantesco emporium, al «valore di scambio» come luogo della piena realizzazione dell’essere sociale: il percorso della «via inautentica» per accedere al Discorso poetico nei termini di cultura critica è qui una strada obbligata, lastricata dal corso della Storia. Della «totalità infranta» restano una miriade di frammenti che migrano ed emigrano verso l’esterno, la periferia. Il Discorso poetico (in accezione di esperienza del post-moderno) è appunto la costruzione che cementifica la molteplicità dei frammenti e li congloba in un conglomerato, li emulsiona in una gelatina stilistica, arrestandone, magari solo per un attimo, la dispersione verso e l’esterno e la periferia.
    La poesia moderna parte da qui, dalla presa di coscienza della rottamazione delle grandi narrazioni.

    1] G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1985 pp. 20, 21

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  2. Anna Ventura

    Il coniglio bianco

    C’è un coniglio bianco
    sulla mia scrivania. Mentre, con la destra,
    scrivo, con la sinistra
    mi accerto
    che il coniglio stia sempre al posto suo:
    c’è.
    Perché è di coccio,
    pesante come un sasso, e nulla
    lo smuoverebbe dalle cose
    che tiene ferme col suo peso. Perché
    questo è il suo compito:
    tenere ferme le cose. Un giorno
    avvenne un incantesimo:
    il coniglio aveva cambiato consistenza: il pelo
    era vero,
    bianco, morbido e setoso, la codina
    si muoveva.
    Ci guardammo negli occhi,
    io e il coniglio:
    eravamo entrambi vivi, ma
    non avevamo sconfitta la paura.

    Una poesia di Mario M. Gabriele

    La luce del giorno al collasso.
    La sera con musica country,

    dolce, come una bella di notte
    sul marciapiedi dei boulevards.

    Mademoiselle Bignard suonava l’arpa.
    Strizzò l’occhio, indicando l’ultimo piano

    dove stavano i sogni.
    Mi accordai con il più bello.

    A Villa Blanche rimasi un mese.
    Nulla cambia che tu non voglia.

    in questo mese d’inverno
    mentre prepari i sofà ai fantasmi.

    Ero nel cortile quando si fecero avanti le arpie.
    – Così cadremo di nuovo in un’altra imboscata? –

    disse Mary che già scivolava nel sonno.
    – Oh, Mary, Mary – gridai – qui non c’è più una scialuppa

    che possa salvarci dalle onde del mare.
    Anche il guardiano del faro se n’è andato.

    Abbi pietà di me e di tutti gli anni passati!

    Mario M. Gabriele da “In viaggio con Godot in corso di stampa con Edizioni Progetto Cultura.

    Poesia è Evento.
    È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.

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    • Mario Gabriele

      Riscoprire poesie già archiviate è come rifare il cammino a ritroso di fronte alla nuova ontologia che si occupa dello studio dell’essere e del suo rapporto con il nulla.

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    • Anna Ventura, la riconosci tra mille.

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      • Il Nulla si dà come Paura, angoscia e nostalgia.

        Entrambe queste poesie, di Anna Ventura e di Mario Gabriele, affrontano la problematica della presenza del nulla attraverso la presentazione di un evento: per Anna Ventura, il «coniglio bianco» il cui «compito [è] tenere ferme le cose»; per Mario Gabriele il «nulla» che si manifesta attraverso una molteplicità di cose e di personaggi. La Ventura ottimizza le possibilità espressive di una unica colonna insonora e amusaica, Gabriele ottimizza attraverso la severa articolazione del distico, una sorta di frangiflutti della scrittura che attraversa il nulla.

        Abbiamo qui due straordinarie poesie che mettono a fuoco, con due diverse procedure e da punti di vista diversi, il «nulla», la paura, l’angoscia e la nostalgia per ciò che non sta fermo e non torna più indietro, che fluisce nell’ignoto, nel nulla. In quanto il nulla è parente strettissimo dell’ignoto. Entrambe inscindibili. Paura, angoscia e nostalgia sono la confezione di plastica che avviluppa il nulla della nostra civiltà

        Il segreto dell’Esperienza è che essa si ripresenta tale e quale, al pari di una tautologia. Paura, angoscia e nostalgia sono le confezioni di plastica con le quali il nulla si dà agli uomini.

        La verità è nient’altro che l’esperienza di una tautologia che si ripresenta. E ciò suscita paura e angoscia.

        La verità, dunque, è questo mettere in luce il significato originario della parola verità. Bisogna risalire al di qua della concezione della verità come adeguazione del giudizio o della rappresentazione soggettiva al suo oggetto per cogliere la dimensione più originaria che essa presuppone: perché io possa formulare giudizi «veri» nel senso di «adeguati» all’ente, deve essere data l’apertura della dimensione stessa nella quale l’ente
        mi è innanzitutto disvelato e io posso incontrarlo. La verità originaria è dunque aletheia, nel senso etimologico del termine greco: ciò che si disvela in quanto sottratto a un nascondimento, nascondimento che tuttavia permane e non può mai essere eliminato completamente, dal momento che è la fonte stessa della manifestatività.

        La verità dell’essere accade nel plesso di disvelatezza e velamento, perché è il movimento in cui l’essere lascia manifestare gli enti, è nel permettere la disvelatezza degli enti che si sottraggono. L’essere è l’evento del venire-alla-presenza degli enti nel quale ciò che è disvelato è l’ente stesso, mentre questo movimento si ritrae e si nasconde. Il concetto di evento risponde quindi alla necessità di rendere conto di questa dinamica, non spiegarla al fine di individuare un fondamento o una causa (che non ci sono) ma per indicare il suo darsi, il suo «come».

        E questo è propriamente l’evento, che indica il «come» della disvelatezza e del nascondimento.

        L’essere non è altro che evento, esso è ciò che fa sì che qualcosa (l’ente) accada. Ciò che è manifesto è il «risultato» dell’evento (nelle due poesie: paura e angoscia) e non l’evento come tale, che invece si ritrae nel nascondimento, non essendo nulla in sé.

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  3. Giuseppe Gallo

    Gli argomenti presenti sulla rivista negli ultimi giorni hanno chiarito molte zone d’Ombra presenti nel mondo poetico contemporaneo. Interessanti i legami con la cultura orientale. Certamente bisogna fare i conti con la letteratura degli ultimi decenni, ma anche con l’industria letteraria che continua imperterrita a perpetuare gli stessi schemi poetici. Possibile che non ci siano voci nuove? Possibile che nessun grande editore azzardi un rischio anche in relazione agli autori della Noe più significativi? Perché questo ostracismo?
    Per quanto riguarda il testo postato da Linguaglossa ipotizzo un nome: si tratta, per caso, di Dunja Mikhail?

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  4. “Poesia è evento.
    È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità”.

    Cerca il potere della visione
    tra l’una e l’altra, delle cose.

    Prova tra i solchi, senza vigore
    del vento in corsa che avrebbe tradito il buio.

    Almeno per questa volta, fatti trovare.

    Non l’inizio, ma una fine calda
    accarezza il viale delle sue foglie
    con i motori a parte, e la distesa.

    Oro ai piedi, sangue dell’acero
    quel sogno non si scompone

    sull’involucro spolpato per fame.

    Cerca nella visione, il potere
    che hanno in sé le cose mute

    l’anfiteatro dalle occhiaie vuote
    che non volevi per compagno

    ti chiede di seguirlo, a malincuore.

    Con l’unico senso che possiedi
    vai e ti arresti, spirito di visione
    in fede mia, fatti trovare.

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  5. gino rago

    – Che cosa è l’essere, che cosa è il linguaggio?
    – Qual è il legame che unisce l’essere al linguaggio?

    Ecco le questioni centrali della poesia. Tutte le altre domande sono questioni secondarie, di contorno, possiamo serenamente metterle da parte o cestinarle definitivamente.

    (gino rago)

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  6. Penso che non esista un linguaggio comune, né scritto né parlato, a meno che non sia prossimo e conforme alla lingua. Scrivendo poesia, o tentando, mi rendo conto sempre più dell’esistenza di un linguaggio individuale, unico e privato. Non solo, ma che lo stesso linguaggio privato tende a modificarsi, a piegarsi, per “necessità”. L’essere, pur mantenendo intatto il mistero della sua sostanza, in ciascuno si manifesta in modo tale da non sembrare affatto unico e assoluto. La sensazione è che la lingua si pieghi, e si piega come per venire incontro…

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  7. Talìa

    L’Io nel mondo. Che destino avrà? L’Io è filosofia
    E lava il mondo nottetempo, dice Celan.

    In un tempo che divora il tempo, risponde Orazio.
    E Kant di risulta, l’Io puro o puro Io nega lo specchio.

    Leibniz non concorda: usurpatore, o tu che canti
    L’appercezione e la corrobori con il trascendentale.

    Spesa settimanale: un po’ populista, un po’ liberista.
    Sulla bilancia l’io penso e l’io penso che penso.

    Grammi di differenza per l’indifferenziata.
    La psicologia giustifica: nuova esperienza,

    porta pazienza, conta il residuo
    la buccia e il seme.

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  8. La Questione della Poesia italiana, Dialogo tra Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Rathgeb, Un brano da Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, Società Editrice Fiorentina, 2013 – Tre poesie inedite di Carlo Livia da La prigione celeste


    La Poesia è Evento
    Sul termine Evento (Ereignis)

    Heidegger si distanzia dall’uso comune del termine Evento (Ereignis) anche lavorando sul linguaggio e sull’etimologia, facendo valere due possibili modi – che per ora ci limitiamo a indicare in via preliminare – di intendere il termine Ereignis:

    A) In primo luogo, Heidegger mette in risalto la presenza in Ereignis e nel verbo sich ereignen (accadere) della radice eign – e del verbo eignen, connettendo così Ereignis all’ambito semantico del «proprio» (eigen).

    Di frequente, Heidegger impiega il verbo corrispondente in forma non riflessiva e in senso transitivo (ereignen inteso insieme come «far avvenire» e «appropriare») e per indicare le modalità e i nessi dell’evento ricorre inoltre a una serie di termini composti a partire da questa radice. Da qui anche le difficoltà di traduzione di questi termini, per cui Ereignis è talvolta reso in italiano con «evento-appropriazione» o «evento appropriante».

    B) Meno frequentemente, Heidegger richiama anche l’etimologia autentica di Ereignis e di sich ereignen, che provengono da forme dell’antico tedesco: il verbo eräugen (che significa adocchiare, gettare uno sguardo su, ma originariamente anche mostrare, esibire, ostendere, portare o mettere sotto gli occhi) e il sostantivo Eräugnis (che indica ciò che è messo davanti agli occhi, l’evento in quanto visibile e manifesto). In questo caso siamo quindi di fronte a un legame tra l’evento e un ambito manifestativo-ostensivo.

    A questo proposito cfr. la voce «Ereignis», di P. David, in B. Cassin (sous la direction de), Vocabulaire européen des philosophies, Seuil – Le Robert, Paris, pp. 367-369

    Scrive Roberto Terzi:

    È significativo allora che nel suo ultimo seminario Heidegger si confronti nuovamente con la fenomenologia e parli programmaticamente di una «fenomenologia dell’inapparente»: gli enti appaiono, ma l’apparire degli enti non appare a sua volta, non perché sia qualcosa fuori dagli enti, ma perché è l’evento ritraentesi di ciò che appare. Diviene così comprensibile anche il senso del richiamo all’etimologia di Ereignis da eräugen (mostrare, far vedere, o anche guardare, adocchiare) e da Eräugnis (ciò che è messo sotto gli occhi): l’Ereignis è il movimento del venire-alla-visibilità, l’evento che «ostende» qualcosa portandolo alla manifestazione e conducendolo così al suo proprio. È ciò che rende possibile la nostra stessa visione, perché se bisogna parlare qui di un «guardare» e di uno «sguardo», si tratta innanzitutto dello sguardo dell’evento verso l’uomo e non viceversa.1

    È in quanto siamo «guardati» dall’evento che possiamo a nostra volta guardare qualcosa: possiamo avere una visione perché siamo coinvolti nell’evento non-visibile della visibilità.

    1. Cfr. M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge , HGA 79; trad. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano, 2002, pp. 105-106

    .

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  9. Giorgio Linguaglossa
    5 agosto 2019 alle 18:57

    La «voce» è quella che è presente nel gramma. Fuori del gramma la «voce» non esiste, è un ni-ente. La «voce» di una poesia de-istituisce tutta la poesia precedente, la de-coincide, e la nientifica. E questo è il miglior modo per articolare la tradizione. Non si dà mai una tradizione stilistica se non nei magazzini delle accademie, cose buone per le tesi di laurea e i dottorati di ricerca. Comunque la si giri, la «voce» deve essere irriconoscibile, se è riconoscibile, non si tratta di una «voce» ma di chiacchiera, del già stato, del defunto. Ecco perché dico che questa poesia di Lucio Mayoor Tosi è una «voce» assolutamente singolare, dotata di singolarità e quindi di irriconoscibilità. Tutta la restante poesia che noi riconosciamo rientra a buon diritto nella letteratura, nel buon costume letterario, fa parte del buon costume. Se fosse «riconoscibile» ricadrebbe nel genere del buon costume letterario, e quindi varrebbe zero.

    La nuova poesia se è nuova deve lavorare sul gramma, e mai sulla «voce» che, di per sé è parente stretta della chiacchiera. Ogni linguaggio poetico una volta detto, si toglie, viene de-coinciso, non esiste più nel presente ma per il presente. È già parte del passato.

    Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:

    «Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
    Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1

    Un mio commento.

    Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio, è Figura del presente. La impossibilità del linguaggio ad ospitare tutto il dolore del mondo coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.

    «Una ricerca poetica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia.»

    1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521

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  10. Ringrazio Giorgio per la luminosa dissertazione, che un po’ mi riguarda. Non vorrei aggiungere altro, il tempo di meditare.

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  11. Marina Petrillo

    da: materia redenta (Progetto Cultura, 2019)

    Fui sposa, in abito fetale.
    Nel doppio vissi, da ombra di luce attraversata.

    Limen rivelato in distillio di tempo
    a calco di ignoto cammino.

    Abitai dell’Ade l’obliqua ferita,
    imene dei molti inganni.

    Ad ombra di me indossai il sudario
    abitando la solitudine degli Esseri Primi.

    da: L’amore trapassa di Carlo Livia

    …“La superbia dell’imene è morta! Ti aspetta nel camerino, col dio che trema in fondo alla Sposa.
    Ora sono celeste, aperta, disossata. Ma ho il suo nome, dentro di me. L’amore che cadde e separò gli universi.
    Sognami.
    Sono la fanciulla improvvisa.
    Il bacio profondo mille tabernacoli.
    La selva di orologi spenti.
    La speranza folle,
    come un lampadario sospeso in mezzo al mare.
    La fessura piena di morti
    gemella della prima luce.”

    *

    Nell’ignoto spazio, ogni cosa è componimento. Interludio vittorioso al sogno, dell’insolito tramestio manto, quando sogni trapassano l’imene della notte . Oracolare lento sovrapposto allo sbiadire del verbo incolume al sacro involucro. Parestesia, immobile insetto di cristallina forma; dubbio volatile insorto a universo sconoscente l’interludio dei mondi. Stabilisce ritmo il ricordo di sé su una sedia accidiosa alla calma dell’estate. Non riconosce stagione il limbo: lento catturarsi all’istante.
    Aspira alla completezza, misterioso, il tramestio dell’io nel perdurante gesto di una Età dell ‘Oro. Turbinante forma accesa tra diapason avvertiti in fessurante linea tramortita dal gelido stridio del risveglio.

    Alla gemella prima luce, Marina Petrillo

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  12. cara Marina Petrillo,

    La tua poesia tratta del nulla come ciò che consente alle parole di venire alla presenza. È una poesia figlia del suo tempo. Profondamente nichilista a dispetto della tua volontà e delle tue intenzioni.

    L’essere non è un ente né il fondamento degli enti, ma l’evento del loro venire alla presenza.

    La parola è ciò che viene immediatamente alla presenza. O meglio, la parola è ciò che permette alla non parola di venire alla presenza. Quindi, quando ci occupiamo dell’indicibile in poesia noi non possiamo che fare riferimento alla parola come quella «cosa» che viene-a-noi e, senza la quale non ci sarebbe nemmeno il moto del venire-a-noi.

    La parola-ciarla della poesia plastificata e nebulizzata che si fa oggi è quella parola che troviamo già fatta, precotta, pronta all’uso.

    Il nulla non è un ente né il fondamento degli enti, ma l’evento del loro venire alla presenza.

    Noi non possiamo mai vedere il nulla, ma il nulla è quella cosa che ci consente di vedere…

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    • Giacomo Borbone

      Il compito del pensiero. Alcune considerazioni su Heidegger

      Scrive Heidegger nel suo Nietzsche che «Con l’interpretazione dell’essere incomincia pertanto la meta-fisica. Essa caratterizza in seguito l’es-senza della filosofia occidentale.
      La storia di quest’ultima, da Platone fino a Nietzsche, storia della metafisica. E poiché la metafisica incomincia con l’interpretazione dell’essere come “idea” e questa interpretazione rimane determinante,tutta la filosofia, da Platone in poi, è “idealismo” nel senso univoco della parola secondo il quale l’essere viene cercato nell’idea e nell’ideale. Perciò, dal punto di vista del fondatore della metafisica si può dire anche: tutta la filosofia occidentale è platonismo. […] Nella storia dell’Occidente, Platone diventa l’archetipo del filosofo».15

      Se la filosofia occidentale, cioè la metafisica, nasce con Platone e si dispiega a livello planetario nella sua forma più estrema con la tecnica moderna, allora cosa vuol dire, nella riflessione heideggeriana, “fine della filosofia”? Per Heidegger l’espressione fine della filosofia non assume delle connotazioni negative, nel senso in cui una cosa perisce, ma intende piuttosto il compimento di qualcosa nello specifico, il compimento della metafisica ad opera della tecnica moderna. Heidegger collega l’antico significato della parola tedesca Ende (fine) a Ort, cioè “luogo”, giacché per il filosofo di Me§kirch la fine della filosofia «è quel luogo, in cui la totalità della sua storia si raccoglie nella sua estrema possibilità. Fine come compimento (Vollendung) significa questo raccoglimento. […] Fine significa, come compimento, il raccoglimento nelle possibilità estreme».16

      Questo lungo processo, iniziato con la filosofia di Platone, ha oramai raggiunto il suo apice e quindi il suo raccoglimento con la tecnica moderna ed in particolar modo con la cibernetica. A detta di Heidegger, per la filosofia era non soltanto ovvio ma anche legittimo diventare una scienza empirica dell’uomo, cioè «di tutto ciò che per l’uomo può divenire oggetto esperibile della sua tecnica, tramite cui egli si installa nel mondo modificandolo secondo le molteplici maniere del lavoro con cui gli dà forma. Tutto ciò si compie dappertutto sulla base e secondo le norme dell’esplorazione e dello sfruttamento scientifico dei singoli settori dell’essente».17

      La frammentazione della filosofia nelle sue varie diramazioni scientifico-disciplinari era per Heidegger del tutto legittima, giacché il suo luogo (Ort) più proprio e peculiare si trova «nella scientificità dell’agire sociale dell’uomo».18
      . Ciò significa che la filosofia, se incastonata all’interno di questa struttura concettuale ereditata dal platonismo, non può che approdare ad esiti tutt’al
      più epigonali, giacché non c’è più nulla da dire. Se un tempo la filosofia si occupava, per dirla con Husserl, delle ontologie regionali, adesso questo compito è riservato alle scienze e al loro pensiero calcolante. Pertanto, continua Heidegger: «La fine della filosofia si mostra come il trionfo dell’organizzazione pianificabile del mondo su basi tecnico-scientifiche e dell’ordinamento sociale adeguato a questo mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione del mondo (Weltzivilisation) fondata sul pensiero dell’occidente europeo».19

      Ma se le cose stanno così – e su questo Heidegger non ha alcun dubbio – allora quale compito resta al pensiero? Se con la tecnica moderna la filosofia è giunta al suo compimento, inteso come raccoglimento nella possibilità estrema e quindi ultima, allora, precisa Heidegger, bisogna ripartire da quella prima possibilità che i Greci dissero ma non pensarono. 20

      Si tratta, insomma, di andare alle radici del problema, secondo il metodo filosofico applicato da Heidegger il quale, com’è stato fatto notare, consiste proprio nel «risolvere i problemi filosofici descrivendo il fenomeno alle radici del problema in modo tale da poterlo vedere libero da qualsiasi distorsione».21

      La fine della filosofia e il compito del pensiero

      Il compito che resta al pensiero consiste nel determinare ciò che riguarda il pensiero», cioè la Sache, ossia la cosa in questione. Heidegger, a tal proposito, cita due casi in cui la filosofia «ha da se stessa richiamato espressamente il pensiero zur Sache selbst, alla cosa stessa»22: Hegel e Husserl. Per entrambi, pur nella diversità dei loro metodi, la Sache della ricerca filosofica non è altro che la soggettività della coscienza, ma la semplice spiegazione dell’appello alla «cosa stessa» non ci è di alcun supporto, per cui, scrive Heidegger, diventa piuttosto necessario «chiedere cosa nell’appello zur Sache selbst resta impensato». 23

      Ciò che resta da pensare è proprio ciò che non è stato pensato, ossia la verità come alétheia, la verità intesa come disvelamento (Unverborgenheit). Ciò che Heidegger intende per verità non coincide con la nota teoria della corrispondenza,con la adaequatio rei et intellectus, la quale pensa la verità come concordanza della conoscenza con l’ente è in tal senso che bisogna leggere la famosa affermazione heideggeriana secondo la quale «Il compito che si pone al nostro pensiero odierno è quello di pensare il pensiero greco ancora più grecamente»,24

      15 M. Heidegger, Nietzsche, cur. F. Volpi, Milano, Adelphi, 1994, p. 714.
      16 M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero cit., p. 175.
      17 Ivi, p. 176.
      18 Ibidem
      19 Ivi, p. 177.
      20 Ivi
      21 M. Wratthall, How to Read Heidegger, London, Granta Books, 2005, p. 9.
      22 M. Heidegger,
      cit., p. 179.
      23 Ivi, p. 182.
      24 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cur. A. Caracciolo, Milano, Mursia,1990, p. 112.

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  13. Carlo Livia

    lo squarcio la strada verso l’Altro

    il cielo s’inginocchia nel tuono a sud dei risorti

    l’amplesso nello schianto, i sogni che sfuggono, e

    no, perché quando scompari trascini il peccato per un sentiero scosceso e completamente azzurro, gridi di aspettare, ma

    da quando il tuo regno non è di questo mondo

    il tuo sguardo, il profumo del Paradiso,
    il silenzio dell’immenso violino che

    l’estasi della nuvola sul pendolo del mistero, la veglia delle deliziose lontananze col suo supplizio di corallo, la tenerezza del crepuscolo appesa al chiavistello di stelle morte, la visione che aspetta l’ultimo respiro, il gomitolo delle finestre da

    nel freddo della soglia scavata nell’anima

    l’attimo resterà

    quando risponderai

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  14. gino rago

    lunedì 25 novembre 2019
    POESIA CONTEMPORANEA: Gino Rago per Clemente Rebora

    Clementa Rebora (1885-1957)
    La Poesia è un miele

    La poesia è un miele che il poeta,
    in casta cera e cella di rinuncia,
    per sé si fa e pei fratelli in via;
    e senza tregua l’armonia annuncia
    mentre discorde sputa amaro il mondo.
    Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
    in quanti fiori sosta, e va profondo
    come l’ape il poeta!
    L’ultime cose accoglie perché sian prime;
    nettare, dolorando, dolce esprime,
    che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
    Cosi porta bontà verso le cime,
    onde in bellezza ognun scorga la meta
    che il Signor serba a chi fallendo asseta.
    *
    (da Canti dell’infermità)

    Commento:

    Questi versi di Clemente Rebora se da un lato non dimenticano la quasi classica istanza didascalica della poesia, versi aperti come sono alla tematica di quella “fratellanza” volta a trovare l’uomo solidale con Dio, dall’altro sono versi esemplari del “frammentismo vociano”, troppo spesso e troppo superficialmente confuso con la NOE (nuova ontologia estetica) per frammenti.

    La metafora reboriana «miele-poesia-poeta-ape» si sa che è di antiche origini. Ma nell’ars poetica di Rebora funziona come preparatoria alla parola-chiave della composizione: «dolorando». E decisivo è il verso nel corpo della poesia «delle ultime cose» che l’ape-poeta accoglie «perché sian prime», come ad attribuire alla ars poetica il primato inarrestabile della bellezza e della verità del vivere nell’armonia uomo-vita-mondo.

    Il rispetto e l’ammirazione verso questo frammentista vociano sono fuori discussione. Ma oggi, a distanza di quasi 100 anni, un secolo, da questi versi, è inevitabile che la poesia esplori nuovi sentieri estetici, che viaggi verso altri approdi “formali”, sentieri e approdi che son chiamati a misurarsi con l’idea di recente lanciata da Giorgio Linguaglossa (e che io trovo del tutto nuova e originale, visto che finora da nessuno studioso di poesia era stata non dico elaborata ma neanche minimamente pensata ) di “Spazio espressivo integrale”, vale a dire quello spazio linguistico-formale che tenga conto di tutte le moderne percezioni di “tempo”, di “nome”, di “immagine”, di
    “proposizione” con cui il poeta contemporaneo deve fare i conti se vuole sottrarsi al ruolo epigonico, di basso tono del “seguace”, del continuatore, nella/della tradizione stabile giacente supino nella stagnazione.

    Stagnazione non soltanto etico-morale ma estetica dove le parole rischiano di cadere nel Grande Gelo linguistico per farsi «parole disabitate». Il poeta dei nostri giorni deve al contrario essere abitatore non soltanto di spazi, di paesaggi, di geografie, ma abitatore di parole, e in una sua ben precisa «patria linguistica», com’è nel caso di tanti poeti NOE che hanno pubblicato nella Collana Il Dado e la Clessidra di poesia diretta da Giorgio Linguaglossa per le Edizioni Progetto Cultura, poeti che dal magma linguistico hanno saputo estrarre proprio e soltanto le parole “abitate”, in armonia piena con
    i legami capaci di tenere uniti Essere e Linguaggio.

    Gino Rago

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  15. “Ha senso adoperare la categoria della «Bellezza» avulsa da ogni contesto? E l’«autenticità»? Ha ancora senso parlare di «Bellezza» in mezzo alla «chiacchiera» del mondo del «si»? Si può ancora parlare della «Bellezza» in mezzo alla estraniazione del mondo delle merci e dei rapporti umani espropriati dell’ipermoderno?”

    Ecco perché c’è l’Ombra. Si pongono i lettori di fronte a domande di questo genere. Il sogno della trasmutazione degli elementi è svanito da qualche secolo. Il risveglio alla realtà è stato tragico, la luce spaventosa che ha generato ha abbagliato il Sole. C’era qualcosa di Edipo dentro, ma anche di Medea e di Oreste. È dunque l’uomo inseguito dalla Natura o è vero il contrario? E il poeta che ruolo riveste? Sarà in grado di uscire dall’aneddotica del soggetto ipertrofico, centrogravitazionale per affrontare il mondo delle merci? Per quali vie passano la libertà personale, l’intelligenza delle cose se non si fanno i conti con le contraddizioni del genere?
    Di certo c’è un centinaio o poco più di caselle riempite a malapena, le infinite altre che mancano all’appello prima o poi saranno conquistate. La tecnologia moderna ha tutti i mezzi per farlo e potenziarsi con ciò che conquista al secondo. E i poeti? Quanto spazio percorrono al secondo? Quante divisioni hanno?

    VERSO EDIPO

    Verso l’ignoto inquietando Edipo
    Con il libro di Giuda sotto braccio.

    Si aprì all’improvviso.
    Dentro c’erano le ricette di Wannsee.

    Salivano sui marciapiede all’unisono
    Scendevano con l’ idea che nessuna madre è suicida.

    Legami idrogeno nei nervi.
    Esagoni nel cuore che si espande.

    Tutto inizia con la porta dell’ascensore. Uno sguardo,
    un bacio, lo scambio di formulari tra le bocche.

    Forme che si rincorrono e si comprendono.
    Solidi di crani e caviglie.

    Il meccanismo porta in basso
    Si ha l’impressione che governino le gru.

    Allontanare un amore da un altro
    Combinare assenze e buchi sulla strada.

    I nervi torcono gli occhi.
    Marionette divertenti per sussulto.

    Ed in fondo alla glaciazione
    Persiste un’idea di spread.

    Si tratta di non vedere come soffia
    la Sibilla sui marciapiede.

    Il dialogo perfetto con gli incroci.
    Tira il nucleo di ferro nelle ore.

    Laio gonfia i polmoni e sale sull’auriga.
    Da qualche parte, tra le rotatorie e la circonvallazione.

    ABORTO DI MARE

    La plastica non smetteva di lamentare convulsioni.
    Gli occhi avevano inorridito abbastanza.

    Testuggini di un insieme vuoto divennero lune.
    Misero grate ai soli.

    Un carico di bombe trasportava Enea.
    Servizi di Spread e Moira in cucina.

    Lo jogging richiamava gravità
    E non era ammessa nuova materia.

    La rena di Orione assorbì il mare
    Il sereno un’ onda a tramonto.

    SOTTO LAVA

    Scompaiono, riempiendosi d’aria.
    Per il resto bolle.

    Macchine della trasformazione,
    quasar in città.

    Arrancano ed esplodono.
    Creano uno scoppio d’ira per cibo.

    C’è un big-bang dietro ogni picchiata sull’asfalto.
    L’abito di monaco sul cavo d’ossa.

    Dall’idrogeno l’ uranile e dentro,
    nessuna voglia d’imitare il cigno.

    Morire Cromagnon, privilegiare Lucy.
    Materia di colombo ripresa al telescopio.

    Hubble fu generoso con Napoleone
    Vide senza modificarlo.

    Fare storia una pessima idea.
    Anche l’occhio rifiuta il passato.

    Infilò dei giorni su un ramo di corrente.
    E poi si tratta di ricompattare il vuoto.

    Rame che sputa scintille dalle ferite.
    Passaggio al gelo di angeli.

    Negare Waterloo.
    Togliere una coordinata al trapezista.

    (Inediti, Francesco Paolo Intini)

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  16. Ha senso parlare della Bellezza. Ha senso più che mai. Senza più retorica delle convenzioni, perchè sono state messe in crisi, superate e via via ridefinite. Ma nelle corde dei tessuti umani c’è questa aspirazione, che emerge fin da una età tenerissima (con varie gradazioni-non è per tutti uguale) e che andrebbe sempre accolta ed educata. Il poeta non può più fingere, porta con sé le contraddizioni, le brutture del mondo attuale e della vita, nella sua interezza. Ma è questa interezza della vita, che chiede anche alla Bellezza di mostrarsi. Superiamo le pietre d’inciampo dei complessi.

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