Poesie e brani di Ágota Kristóf, da Ieri, Einaudi, 2002. da Chiodi, Casagrande, 2018, Trilogia della città, 2014,  Intervista ad Ágota Kristóf di Dóra Szekeres, Lettura di Gino Rago

agota-kristof vetrina

“È diventando assolutamente niente che si può diventare scrittori”, dice Tobias, l’operaio-scrittore protagonista del romanzo 

– Bambino, vengo da lontano. Dimmi, perché guardi la luna?
– Non è la luna,- rispose irritato il bambino, – non è la luna, è l’avvenire che io guardo.
– Io vengo da lì,- gli dissi dolcemente – ci sono solo campi morti e fangosi.
– Tu menti, menti,- gridò il bambino. – C’è argento, luce, c’è amore. Ci sono giardini pieni di fiori.
– Io vengo da lì,- ripetei dolcemente, – ci sono solo campi morti e fangosi.
Il bambino mi riconobbe e si mise a piangere.

da Il Grande quaderno, Trilogia della città di K., Einaudi

Scriveremo: «Noi mangiamo molte noci», e non: «Amiamo le noci», perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e obiettività. […]
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.
Ci convinciamo così che quella che stiamo leggendo sia la verità, la normale cronaca di un paese bombardato e spezzato visto con gli occhi di due bambini troppo maturi per la loro età.

*

[Le rispondo che] cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. [Le dico che] cerco di raccontare la mia storia, ma che non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero.[…] Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.

*

Un uomo dice:
-Tu chiudi il becco! Le donne non sanno niente della guerra.
La donna dice:
-Non sanno niente? Coglione! Abbiamo tutto il lavoro, tutte le preoccupazioni: i bambini da sfamare, i feriti da curare. Voi, una volta finita la guerra siete tutti degli eroi. Morti: eroi. Sopravvissuti: eroi. Mutilati: eroi. È per questo che avete inventato la guerra, voi uomini. È la vostra guerra. L’avete voluta voi, fatela allora, eroi dei miei stivali!

*

Ieri ho vissuto un istante di felicità inattesa, immotivata. È venuta verso di me attraverso la pioggia e la nebbia, sorrideva, fluttuava al di sopra degli alberi, mi danzava davanti, mi circondava.
Io l’ho riconosciuta.
Era la felicità di un tempo remoto, quando il bambino e io eravamo tutt’uno. Io ero lui, avevo solo sei anni e la sera nel giardino sognavo guardando la luna…

*

Niente. Lucas continuava a lavorare. Apriva il negozio al mattino, lo chiudeva la sera. Serviva i clienti senza aprire bocca. Non parlava quasi più. Qualcuno pensava fosse muto. Venivo a trovarlo spesso, giocavamo a scacchi in silenzio. Giocava male. Non leggeva più, non scriveva più. Credo che mangiasse molto poco e che non dormisse quasi mai. Nella sua stanza la luce restava accesa tutta la notte, ma lui non c’era. Passeggiava nelle strade buie della città e nel cimitero. Diceva che il luogo ideale per dormire era la tomba di una persona amata.

*

“Una notte sentiamo delle esplosioni, delle fucilate, il crepitio delle mitragliatrici. Usciamo di casa per vedere cosa succede. Un grande fuoco si alza dal campo. Crediamo che sia arrivato il nemico, ma all’alba la città è silenziosa; non si ode che il brontolio lontano dei cannoni (…). I roghi neri che abbiamo visto dall’alto sono cadaveri carbonizzati. Certi sono stati bruciati bene, non restano che ossa. Altri sono appena anneriti. Ce ne sono molti. Grandi e piccoli. Adulti e bambini. Pensiamo che li abbiano prima ammazzati, poi ammucchiati e innaffiati di benzina per appiccare il fuoco. Vomitiamo. Usciamo dal campo di corsa. Torniamo a casa”

(Il Grande quaderno – Il carnaio)

“Cammino per le strade della città della mia infanzia. È una città morta, le porte e le finestre delle case sono chiuse, il silenzio è totale. Arrivo in una vecchia strada fiancheggiata da case di legno, da fienili decrepiti. È una strada polverosa e mi è dolce camminare a piedi nudi in questa polvere”

(La terza menzogna – Parte prima).

“Lucas e il bambino sono in giardino. Dalla botola della soffitta, una corda scende esattamente fino all’altezza del braccio teso di Lucas.Lucas dice al bambino: -Fammi vedere come sali- Il bambino trascina la panca del giardino che sta poco più lontano sotto la finestra della camera di Lucas. Si arrampica sulla panca, salta, afferra la corda, oscilla, rallenta appoggiando i piedi contro il muro e, aiutandosi con braccia e gambe, si issa fino alla botola della soffitta”

(La prova– capitolo 4).

Agota Kristof Trilogiada “Trilogia della città di K.” Einaudi, 2014

Dico: “Certo, Mamma. Scusami, ho un sonno tremendo.” Mi metto a letto e prima di addormentarmi parlo mentalmente a Lucas, come faccio da molti anni. Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un’inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione. Sarah non la rivedo più. Certe volte mi sembra di riconoscerla per strada, ma non è mai lei.

*

Esercizio di irrobustimento dello spirito.
Nonna ci dice: “Figli di cagna!”
La gente ci dice: “Figli di una Strega! Figli di puttana!”
Altri dicono: “Imbecilli! Mascalzoni! Mocciosi! Asini! Maiali! Porci! Canaglie! Carogne! Piccoli merdosi! Pendagli da forca! Razza di assassini!”
Quando sentiamo queste parole, il nostro volto diventa rosso, le orecchie ronzano, gli occhi bruciano, le ginocchia tremano.
Non vogliamo più arrossire né tremare, vogliamo abituarci alle ingiurie e alle parole che feriscono.
Ci sistemiamo al tavolo della cucina uno di fronte all’altro e, guardandoci negli occhi, ci diciamo delle parole sempre più atroci.
Uno: “Stronzo! Buco di culo!”
L’altro: “Vaffanculo! Bastardo!”
Continuiamo così finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano nemmeno nelle nostre orecchie.
Ci esercitiamo in questo modo una mezz’ora circa ogni giorno, poi andiamo a passeggiare per le strade.
Facciamo in modo che la gente ci insulti e constatiamo che finalmente riusciamo a restare indifferenti.
Ma ci sono anche le parole antiche.
Nostra Madre ci diceva: “Tesori miei! Amori miei! Siete la mia gioia! Miei bimbi adorati!”
Quando ci ricordiamo di queste parole, i nostri occhi si riempiono di lacrime.
Queste parole dobbiamo dimenticarle, perché adesso nessuno ci dice parole simili e perché il ricordo che ne abbiamo è un peso troppo grosso da portare.
Allora ricominciamo il nostro esercizio in un altro modo:
Diciamo: “Tesori miei! Amori miei! Vi voglio bene… Non vi lascerò mai… Non vorrò bene che a voi… Sempre… Siete tutta la mia vita…”
a forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua.

*

A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua .

Diceva che il luogo ideale per dormire era la tomba di una persona amata.

La vita è di un’inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.

Agota Kristof cover

da Chiodi, Ed. Casagrande, 2018

Non morire
non ancora
troppo presto il coltello
il veleno, troppo presto
Mi ancora
Amo le mie mani che fumano
che scrivono
Che tengono la sigaretta
La penna
Il bicchiere.
Amo le mie mani che tremano
che puliscono nonostante tutto
che si muovono.
Le unghie vi crescono ancora
le mie mani
rimettono a posto gli occhiali
affinché io scriva.

*

Sopra le case e la vita
nebbia grigia lieve
con le foglie a venire
degli alberi nei miei occhi
aspettavo l’estate
più di tutto
dell’estate amavo la polvere la bianca
calda polvere
insetti e rane vi morivano soffocati
se non cadeva la pioggia
per settimane
un prato e piume viola sul prato
crescono li uccelli il collo dei pozzi
il vento stende sotto una sega
chiodi
puntuti e smussati
chiudono porte montano grate
tutt’attorno sulle finestre
così si edificano gli anni così si edifica
la morte.

*

Con un abbraccio senza tempo
da quando ti ho abbracciato
non riesco ad abbassare le braccia
sono immobile statua centenaria
chiuso tra le mie braccia di pietra
so che sei ancora qui.

*

fratelli
voi non vi ha amato nessuno ma domani
metterete piede sui raggi
della luna
i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue
dalle vostre mani dalle vostre labbra
attorno a voi cresceranno gli alberi
si placherà anche la notte e il vento porterà
cenere tiepida sulle vostre terre sterili.

Agota Kristof due voltiIntervista ad Ágota Kristóf
di Dóra Szekeres

https://www.einaudi.it/approfondimenti/intervista-ad-agota-kristof/

Ágota Kristóf, tra i maggiori esponenti della letteratura francofona, è la nuova vincitrice del Kossuth, il più importante premio letterario ungherese. Tornata nella sua terra natale per la consegna del premio, l’autrice ha rilasciato questa intervista – pubblicata su Hlo.hu – in cui riflette su immaginazione e scrittura, linguaggio e traduzione.

Cos’ha provato quando ha saputo che avrebbe vinto il premio Kossuth?

Mi ha reso molto felice, perché è un premio ungherese – di solito i premi non mi interessano così tanto, diciamo che ne ho già ricevuti abbastanza. Quando i miei libri cominciarono a essere tradotti in ungherese per me fu un grande onore, ma non mi aspettavo che avrebbero suscitato tanta attenzione. In passato già due volte mi avevano annunciato che avrei vinto il Kossuth, ma non successe né la prima né la seconda volta. Così, quando mio fratello mi ha telefonato per darmi la notizia, immediatamente gli ho chiesto: «di nuovo?».

L’anno scorso a Budapest, durante una conferenza internazionale in cui lei era l’ospite d’onore, il poeta András Petőcz le ha domandato come è nata l’idea di scrivere in un’altra lingua. Lei ha risposto che si era resa conto abbastanza in fretta che, se voleva essere letta, doveva scrivere in francese.

Beh, certo, è questa la ragione per cui ho iniziato a scrivere in francese. In Svizzera non avrei avuto nessuna possibilità se avessi scritto in ungherese. Però ho continuato a scrivere anche nella mia lingua madre per un bel po’ di tempo, almeno cinque anni.

Nel suo romanzo Ieri, il protagonista – operaio in una fabbrica di orologi – dice che scrive nella sua testa, perché è più semplice; scrivere distorce i pensieri e alla fine, per colpa delle parole, tutto sembra venir fuori contraffatto. Quando ha scritto le sue prime frasi in francese, stava di fatto traducendo dall’ungherese? Il setaccio della traduzione rendeva le sue parole più precise? Più esatte?

Penso che questo rappresenti un problema per ogni scrittore. Non è possibile riuscire a esprimere esattamente ciò che intendiamo. Scrivere per me voleva dire anche cancellare tantissimo. Cancellavo in particolare gli aggettivi e le immagini che non appartenevano al mondo reale, concreto, ma che nascevano dalle emozioni. Ad esempio, una volta ho scritto: «i suoi occhi scintillanti». Poi mi sono detta: ma davvero scintillano? E ho cancellato l’aggettivo.

Però in Ieri ci sono molte cose che non appartengono al mondo reale. È un libro in cui sogno e realtà si mescolano in continuazione.

È diverso. Questi sogni sono solo in Ieri. Per descriverli ho usato molte delle mie vecchie poesie in ungherese.

Come è andata esattamente? Si è rimessa a sfogliare le sue vecchie poesie?

Non le ho «sfogliate». Le ho tutte in testa.

Quanto materiale non scritto c’è nella sua testa?

Non scrivo più, sono molto malata. Non è stata una decisione consapevole, è successo e basta. Semplicemente non me la sento, non ho più l’energia necessaria. Però ci sono ancora tanti temi che mi interessano, e su uno di questi ho cominciato a scrivere due anni fa. Ho tutto il libro in testa, praticamente è finito. È molto facile mettere sulla carta quello che ho immaginato. Così ho buttato giù un paio di pagine, ma mi sembrava di ripetere cose che avevo già scritto. Ho ricominciato, poi ho scritto il finale, diverse volte, alla fine ho lasciato perdere.

Ci sono autori che affermano di scrivere e riscrivere sempre la stessa storia, all’infinito.

Sì, in un certo senso è vero anche per me, ad esempio quando ho scritto il mio primo romanzo, Il grande quaderno, non pensavo che sarei andata avanti, che fosse possibile continuare. Ma poi semplicemente non ho potuto fermarmi, non potevo lasciare soli i gemelli, anche se provavo a scrivere un’altra cosa non riuscivo a immaginare nient’altro che i gemelli, di nuovo. Così ho dovuto scrivere il secondo libro, La prova. A quel punto ho pensato che fosse sufficiente, ma alla fine ho scritto anche La terza menzogna, perché non potevo raccontare nulla di diverso.

In L’analfabeta [pubblicato in Italia da Casagrande] racconta di aver imparato una lingua attraverso il corpo: nella fabbrica di orologi una donna le insegnava i nomi delle parti del corpo e degli oggetti attraverso il linguaggio corporeo. Quando si è accorta che il francese era ormai la sua lingua?

C’è voluto molto tempo, dodici anni direi, perché cominciassi a scrivere in francese. Prima ho tentato di capire come suonavano in francese le mie poesie ungheresi. Poi ho iniziato ad assemblare frasi, testi brevissimi, ma è accaduto tutto molto lentamente. Ho iniziato con i testi teatrali, perché è molto più semplice, basta indicare il nome di chi parla. Il mio non era un francese letterario, buttavo giù conversazioni in una lingua quotidiana, popolare. Ho terminato un paio di commedie, e qualcuno mi ha suggerito di mandarle a una radio. Hanno voluto lavorarci immediatamente, e ne hanno trasmesso cinque. Ho portato avanti quel lavoro per molto tempo, ho imparato le tecniche della scrittura radiofonica. Non riesco a ricordare come sono passata a scrivere romanzi. L’idea è arrivata e basta. Volevo raccontare di come io e mio fratello Jenő avevamo vissuto la guerra a Kőszeg. All’inizio i narratori eravamo io e mio fratello, ma le parole io e lui in francese suonano talmente goffe. Così ho unito i pronomi e il narratore è diventato un noi – nous in francese – e non c’era più bisogno di dichiarare chi stesse parlando. Ecco come è nata la voce di questo libro [si riferisce a Il grande quaderno, N.d.T.].

Non si tratta di un romanzo completamente autobiografico, ma contiene molti episodi veri. Ad esempio la deportazione degli ebrei da Kőszeg. Io l’ho vista. C’era un campo a Kőszeg, abbiamo visto gli ebrei che marciavano in fila davanti alle nostre case. La nostra domestica si è avvicinata per porgergli del pane, ma poi l’ha riportato indietro. Questo è il genere di cose che notavo, avevo dieci anni. Ci sono molte cose, in quel romanzo, che non sono capitate a me direttamente, ma a dei miei amici. Quando arrivarono i russi, capitava che ci nascondessimo sulle colline. Una volta la madre di una mia amica aveva un neonato in braccio, è inciampata ed è caduta sopra il neonato, e la mia amica ha assistito alla scena. Nel romanzo ho inserito cose come queste, non mi interessava che fosse completamente autobiografico. Ci sono molte storie che riguardano Kőszeg.

Torna a Kőszeg ogni tanto?

Sì, e la trovo diversa a seconda dei momenti. Qualche volta mi sembra una città nuova, con le case restaurate e imbiancate. Un paio d’anni dopo la trovo in rovina, le case sembrano quelle di cinquant’anni fa. Ma ora non ci vado più, non ne ho la forza.

A casa parlava ungherese con la sua prima figlia, ma non con i due figli che sono arrivati dopo. Come mai?

Anche con lei non ho usato l’ungherese a lungo. Adesso è mio figlio che parla questa lingua, perché ha una fidanzata ungherese, così spesso lo usiamo anche tra noi, ma lui ha trentotto anni e prefersice parlare in inglese anche con la sua fidanzata. Quella di non insegnare l’ungherese ai ragazzi non è stata una vera e propria scelta, è andata così. Per via dell’ambiente in cui viviamo. Anche il mio secondo marito parlava francese, possiamo dire che non volevo confonderli. Ma forse avrei dovuto. Me ne sono un po’ pentita. Adesso mia figlia vuole che parli ungherese al mio ultimo nipotino, che ha due anni. Ho paura che non mi capisca, che questa cosa possa allontanarlo da me. Conosce le parole igen e nem (sì e no) e gli ho regalato un orsacchiotto che resta ad aspettarlo a casa mia, e lui sa che in ungherese di chiama mackó. Ma sento che è perplesso quando gli parlo in questa lingua.

Parlando di lei, Esterházy ha scritto: qualcuno guarda da lontano ciò che noi stiamo guardando da qui…

Sì, mi ricordo questo articolo, Esterházy fu il primo a parlare del mio libro. Ci siamo incontrati una volta. Questa frase può essere in parte vera, ma io non volevo scrivere un romanzo storico, non era il mio obiettivo, io volevo solo raccontare la mia infanzia.

Legge i suoi libri tradotti in ungherese? Cosa prova nel vedere i suoi testi scritti nella sua lingua madre? Ha detto che era difficile mettere insieme le frasi in francese, adesso come suonano in ungherese?

Sì, ricevo sempre le traduzioni, e do sempre un’occhiata, ma mi infastidiscono. Non mi piace leggerle. Ci sono così tante traduzioni dei miei libri che non riesco più a seguirle, a volte non riconosco neppure il mio nome stampato sulla copertina, come nel caso delle traduzioni giapponesi, cinesi o coreane, non so neppure cosa c’è scritto in quei libri. Non ho idea di quanto di ciò che scrivo arrivi ai lettori, ma certo i miei libri hanno successo, anche in Giappone e in Russia. Mi hanno invitato a San Pietroburgo diverse volte, ma non credo che ce la farò. I cinesi hanno tradotto tutto, ma non hanno pagato un centesimo (ride). Hanno detto che c’era un problema con il cambio, o qualcosa del genere, ma non mi interessa. Una cosa che mi interessa, invece, è che le mie vecchie poesie ungheresi saranno presto pubblicate in un’edizione bilingue. Ne sono davvero felice. Ho appena firmato un accordo con un editore di Ginevra, un traduttore ungherese tradurrà le mie poesie in francese.

E il regista János Szász sta lavorando a un adattamento cinematografico da Il grande quaderno. Che ne pensa?

È la cosa più bella che mi sia capitata ultimamente. János Szász mi manda delle parti di sceneggiatura, di tanto in tanto. Lui mi piace molto, i suoi film sono molto forti, e sono sicura che non rovinerà Il grande quaderno come ha fatto quel regista italiano con il film tratto da Ieri [si riferisce a Brucio nel vento di Silvio Soldini]. Quello è stato un totale pasticcio. Hanno cambiato il finale.

Ma perché? Una delle cose più belle di Ieri è che non è una storia a lieto fine.

Beh, nel film invece sì. Ho discusso a lungo con il regista e gli ho detto che non doveva finire in quel modo, ma lui diceva che altrimenti il pubblico avrebbe abbandonato la sala, perché le persone vogliono stare bene, vogliono essere felici. Il film di Szász sarà tutta un’altra cosa.

[Ágota Kristóf, Chiodi, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, pp.112, Eu 16,00
Prefazione di Fabio Pusterla. Traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla]

Lettura di Gino Rago

Goffredo Fofi commentando Chiodi di Ágota Kristóf sul domenicale del Sole 24 ore segnalava che i “chiodi” della raccolta poetica della Kristóf non possono che essere i chiodi di Cristo sulla Croce: «I “chiodi” che danno il titolo a questa raccolta di poesie evocano irresistibilmente quelli della Croce».

L’evocazione deriva sia dai temi trattati (lo smarrimento, la perdita della lingua madre, il distacco, lo straniamento, la condizione dell’esilio, l’amore nel ricordo dell’amore, l’attesa, il desiderio di una patria linguistica, le sconfitte, le emarginazioni, il sentimento della povertà da vivere in una terra ricca), sia dallo stile asciutto dell’autrice.

Nel 1956, poco più che ventenne, Ágota Kristóf fugge dall’Ungheria con la sua bambina di quattro mesi, fugge dal paese dell’infanzia ed è costretta a separarsi dai quaderni con le sue prime poesie. Una perdita crudele. E’ il dolore per la perdita di quei versi a spingere l’autrice a riscriverli sul filo della memoria, così come è in grado di ricordarli, e forse a reinventarli. Negli anni, Ágota Kristóf scrive altre poesie sia in ungherese sia in francese, la sua nuova lingua. E come ricorda Fabio Pusterla: «Poco prima di morire la Kristóf esprime il desiderio di vedere raccolte tutte queste poesie in un libro. Il desiderio si avvera nel 2017, quando le Éditions Zoé le pubblicano in un’edizione bilingue ungherese-francese[…]».
E ora si avvera il desiderio della Kristóf anche in Italia, per le Edizioni Casagrande di Bellinzona.

«Qui le persone sono così felici
che nemmeno amano
sono realizzate non hanno bisogno
l’uno dell’altro nemmeno di dio
la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce
e fino a sera aspettano la morte».

Quasi in un rimprovero severo verso l’indifferenza delle società opulenti che gioiscono per le diseguaglianze sociali, ma anche un rimprovero verso il lettore, la Kristóf in questi versi parla dei privilegiati che ce l’hanno fatta mentre per i più che poi sono i tantissimi «la vita non è un regalo» ma una condanna senza nessun conforto.

La questione linguistica è centrale per la Kristóf anche in poesia e ha una ben precisa origine suggellata in queste parole:

«Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola».

E’ un caso emblematico e fortissimo di poesia del translinguismo l’esperienza poetica di Chiodi della Kristóf, questione che in una ermeneutica a lei rivolta su una pagina de L’Ombra delle Parole Giorgio Linguaglossa ricondusse a «zona spaesante» della poesia.

Scrive Linguaglossa: «[…] Per Ágota Kristóf quella «zona spaesante» del mondo è stata l’Ungheria del comunismo sovietico, quel regime dispotico e capillare di controllo e di educazione delle coscienze, l’ideologia della felicità dispotica promulgata per decreto poliziesco, l’abbandono da parte della poetessa del suo paese e della sua lingua, il dover imparare un’altra lingua, il francese, come propria lingua madre, l’esperienza del trovarsi senza lingua, o meglio, spodestata «tra» due lingue, in quella «zona» oscura inospitale, spaesante… La poesia della Kristóf nasce da qui, da questa «zona» inospitale e spaesante, priva di lingua, dalla ricerca spasmodica di una lingua di significati stabili[…]».
Emblematici sotto questo aspetto di zona spaesante nel vasto tema del Grande Gelo linguistico e delle parole congelate appaiono questi versi di Ágota Kristóf

Tre anni fa mi sono persa in una città dove
Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi
Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie
Tram correvano a casaccio sulle rotaie
Avrei potuto essere perfettamente libera e felice allora
Se avessi trovato almeno un po’ di soldi

Stavo sulla riva ferita da luci di un lago blu scuro
Un’ombra mi passò accanto mi diede un’occhiata…

18 commenti

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18 risposte a “Poesie e brani di Ágota Kristóf, da Ieri, Einaudi, 2002. da Chiodi, Casagrande, 2018, Trilogia della città, 2014,  Intervista ad Ágota Kristóf di Dóra Szekeres, Lettura di Gino Rago

  1. gino rago

    Ágota Kristóf, Chiodi, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, pp.112, Eu 16,00
    Prefazione di Fabio Pusterla. Traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla

    un brano a completare la precedente
    “Lettura di Gino Rago”

    […]
    E che dire della lingua-coltello della Kristóf che taglia il dolore della migranza e dell’esilio, ma senza sprofondare nell’abisso del vivere per l’altrui indfferenza, quando la grande Storia si abbatte sul destino degli individui modificandone il corso, come in questi versi nudi, asciutti, nei quali alla diffidenza verso la nuova lingua (il francese, la nuova lingua non amata perché sta uccidendo in lei la lingua materna) Ágota Kristóf accosta l’identità sfuggente e la cupezza dei destini dei fratelli che da nessuno ricevono amore:

    fratelli
    voi non vi ha amato nessuno ma domani
    metterete piede sui raggi
    della luna
    i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue
    dalle vostre mani dalle vostre labbra
    attorno a voi cresceranno gli alberi
    si placherà anche la notte e il vento porterà
    cenere tiepida sulle vostre terre sterili.

    Gino Rago

  2. Penso che Ágota Kristóf sia riuscita in modo mirabile nel duplice compito di estraniarsi da se stessa e di estraniarsi dalla propria lingua adottando una lingua straniera, il francese, e scrivendo in quella lingua straniera.
    È un lavoro su se stessi che consiglio a tutti gli aspiranti poeti, migliaia e decine di migliaia, ma lo consiglio in specie ai poeti laureati i quali credono di scrivere nella loro bella lingua, quando invece la lingua fugge a gambe levate dalle loro persone.
    Ripropongo, per l’occasione, un mio scritto d’occasione di circa un anno fa.

    Commento di Giorgio Linguaglossa
    7 febbraio 2018 alle 16:14

    Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità dominante). Ogni poesia ha una propria tonalità e ogni abitante nel nostro mondo ha un proprio modo di sperimentare la propria estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire e non è più possibile dire la «verità». Forse, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda della metafora silente: l’impossibilità di dire la «verità». Nella metafora silente si ha l’ammutinamento di tutte le metafore e la silenzializzazione di esse, viene ad esistenza linguistica il silenziatore della verità e della menzogna, l’essere la metafora silente e le metafore tutte, fumo linguistico, un segnale di fumo e nient’altro.

    Il nostro abitare spaesante il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del poetico, giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi.

    L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.

    Allora forse occorre abolire e abitare in un medesimo tempo la distanza che ci separa da noi stessi per adire ad un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo.

    Commentaire de Giorgio Linguaglossa – 7 février 2018

    Chaque langage poétique possède une Grundstimmung (tonalité dominante) spécifique. Chaque poésie a une tonalité propre et chaque habitant de notre monde possède un mode personnel d’expérimenter la propre distance par rapport à soi-même; et chaque poète abandonne cette distance pour la transférer dans le langage poétique. Il s’agit donc d’une distance, et non pas d’une reprise de possession de quoi que ce soit. Le langage poétique est le miroir qui nous montre le vrai visage de notre distance à nous-mêmes; là où il n’est plus possible ni de mentir ni de dire la “vérité”. Peut-être la métaphore silencieuse nait-elle précisément de cette antinomie profonde. Dans la métaphore silencieuse se trouve la révolte de toutes les métaphores ainsi que leur condamnation au silence, d’où l’origine linguistique de l’état silencieux de la vérité et du mensonge; la métaphore silencieuse ainsi que toutes les métaphores n’étant autre que fumée, un signal de fumée et rien d’autre.

    Notre façon d’habiter le langage de façon dépaysante est la condition préalable pour que naisse un langage poétique, puisqu’il n’existe aucune possibilité de saisir le langage poétique sans cette condition préalable subjective. Il y aurait bien un exercice qui consisterait à “habiter poétiquement le monde”, condition préalable afin qu’existe un langage poétique; mais nous ignorons de quoi il est fait et nous ne pourrons jamais le découvrir. Dans cette façon dépaysante de s’introduire dans le langage, il y a un abandon et une retrouvaille, une façon de se trouver qui ressemble à un abandon dans quelque chose qui ne pourra jamais être ni abandonné ni retrouvé, parce que si nous le retrouvions l’abandon cesserait, et si nous l’abandonnions nous pourrions toujours le retrouver réellement, et il n’existe aucune maïeutique qui puisse le faire revenir des profondeurs dans lesquelles est ensevelie cette condition. Comme il n’est point de maïeutique qui puisse nous garantir l’entrée à travers le portail du poétique, car il ne s’agit pas là d’un fait, ni d’une donnée. mais éventuellement d’un renoncement, d’un obscurcissement.

    L’entrée dans cette clairière obscure ouvre au Moi la dimension illusoire du langage poétique, ce caractère trompeur étant le parent le plus proche dans cette ligne généalogique qui relie le langage poétique du “dire originaire” dont nous avons perdu pour toujours le fil. Il ne nous reste alors qu’à accepter tout le poids dont parlait Nietzsche, pour le jeter en mer comme un lest et pour nous alléger le plus possible, en acceptant d’employer les restes, les guenilles et les miettes comme éléments participants de notre condition expérimentale.

    Il nous convient alors d’abolir et d’habiter en même temps la distance qui nous sépare de nous mêmes pour arriver à un langage à nous-mêmes plus intérieur. Habiter une condition expérimentale et l’éliminer immédiatement après l’avoir expérimentée est le résultat paradoxal de notre être au monde.

  3. gino rago

    Ágota Kristóf, Chiodi, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, pp.112, Eu 16,00
    Prefazione di Fabio Pusterla. Traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla

    Goffredo Fofi commentando Chiodi di Ágota Kristóf sul domenicale del Sole 24 ore segnalava che i “chiodi” della raccolta poetica della Kristóf non possono che essere i chiodi di Cristo sulla Croce:«I “chiodi” che danno il titolo a questa raccolta di poesie evocano irresistibilmente quelli della Croce».
    L’evocazione deriva sia dai temi trattati (lo smarrimento, la perdita della lingua madre, il distacco, lo straniamento, la condizione dell’esilio, l’amore nel ricordo dell’amore, l’attesa, il desiderio di una patria linguistica, le sconfitte, le emarginazioni, il sentimento della povertà da vivere in una terra ricca), sia dallo stile asciutto dell’autrice.
    Nel 1956, poco più che ventenne, Ágota Kristóf fugge dall’Ungheria con la sua bambina di quattro mesi, fugge dal paese dell’infanzia ed è costretta a separarsi dai quaderni con le sue prime poesie. Una perdita crudele.
    E’ il dolore per la perdita di quei versi a spingere l’autrice a riscriverli sul filo della memoria, così come è in grado di ricordarli, e forse a reinventarli. Negli anni, Ágota Kristóf scrive altre poesie sia in ungherese sia in francese, la sua nuova lingua.
    E come ricorda Fabio Pusterla:«Poco prima di morire la Kristóf esprime il desiderio di vedere raccolte tutte queste poesie in un libro. Il desiderio si avvera nel 2017, quando le Éditions Zoé le pubblicano in un’edizione bilingue ungherese-francese[…]».
    Ora si avvera il desiderio della Kristóf anche in Italia, per le Edizioni Casagrande di Bellinzona. «Qui le persone sono così felici/che nemmeno amano/sono realizzate non hanno bisogno/ l’uno dell’altro nemmeno di dio/ la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce/e fino a sera aspettano la morte».
    Quasi in un rimprovero severo verso l’indifferenza delle società opulenti che gioiscono per le diseguaglianze sociali, ma anche in un rimprovero verso il lettore, la Kristóf in questi versi parla dei privilegiati che ce l’hanno fatta mentre per i più che poi sono i tantissimi «la vita non è un regalo» ma una condanna senza nessun conforto.
    E che dire della lingua-coltello che taglia il dolore della migranza e dell’esilio, ma senza sprofondare nell’abisso del vivere per l’altrui indfferenza, quando la grande Storia si abbatte sul destino inerme degli uomini modificandone il corso, come in questi nudi versi: «fratelli / voi non vi ha amato nessuno ma domani / metterete piede sui raggi / della luna / i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue / dalle vostre mani dalle vostre labbra / attorno a voi cresceranno gli alberi / si placherà anche la notte e il vento porterà / cenere tiepida sulle vostre terre sterili».
    La questione linguistica è centrale per la Kristóf anche in poesia e ha una ben precisa origine suggellata in queste parole: «Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola».
    E’ un caso emblematico e fortissimo di poesia del translinguismo l’esperienza poetica di Chiodi della Kristóf, questione che in una ermeneutica a lei rivolta su una pagina de L’Ombra delle Parole Giorgio Linguaglossa ricondusse a «zona spaesante» della poesia.
    Scriveva Linguaglossa:«[…]Per Ágota Kristóf quella «zona spaesante» del mondo è stata l’Ungheria del comunismo sovietico, quel regime dispotico e capillare di controllo e di educazione delle coscienze, l’ideologia della felicità dispotica promulgata per decreto poliziesco, l’abbandono da parte della poetessa del suo paese e della sua lingua, il dover imparare un’altra lingua, il francese, come propria lingua madre, l’esperienza del trovarsi senza lingua, o meglio, spodestata «tra» due lingue, in quella «zona» oscura inospitale, spaesante… La poesia della Kristóf nasce da qui, da questa «zona» inospitale e spaesante, priva di lingua, dalla ricerca spasmodica di una lingua di significati stabili[…]».
    Emblematici sotto questo aspetto di zona spaesante nel vasto tema del Grande Gelo linguistico e delle parole congelate appaiono questi versi di Ágota Kristóf:«Tre anni fa mi sono persa in una città dove/ Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi/ Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie/ Tram correvano a casaccio sulle rotaie
    Avrei potuto essere perfettamente libera e felice allora/ Se avessi trovato almeno un po’ di soldi/Stavo sulla riva ferita da luci di un lago blu scuro/ Un’ombra mi passò accanto mi diede un’occhiata».

    Gino Rago

    Tre poesie di Ágota Kristóf
    Qualche parola

    Sono tornati i monti della primavera ma ormai
    non assomigliano più a nulla in fondo
    al lago non c’è altro che melma
    vengono uomini dietro di loro non c’è nulla
    guardano si avvicinano e fanno ritorno
    a loro stessi
    le città lentamente strangolano i loro
    gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi
    le strade
    un uccello prova ancora a sollevarsi
    risuona qualche parola qualche campana d’allarme
    e cadono le pietre

    Vivere

    Nascere
    Piangere succhiare bere mangiare dormire aver paura
    Amare
    Giocare camminare parlare andare avanti ridere
    Amare
    Imparare scrivere leggere contare
    Battersi mentire rubare uccidere
    Amare
    Pentirsi odiare fuggire ritornare
    Danzare cantare sperare
    Amare
    Alzarsi andare a letto lavorare produrre
    Innaffiare piantare mietere cucinare lavare
    Stirare pulire partorire
    Amare
    Allevare educare curare punire baciare
    Perdonare guarire angosciarsi aspettare
    Amare
    Lasciarsi soffrire viaggiare dimenticare
    Raggrinzirsi svuotarsi affaticarsi
    Morire.

    Nel crepuscolo

    Nel crepuscolo che ha perso l’equilibrio
    un uccello libero spicca un volo sghembo
    a terra c’è solo il seminato silenzio indicibile
    e insopportabile
    attesa
    Ieri era tutto più bello il canto
    tra le fronde degli alberi
    tra le tue mani tese
    il sole
    Ora nevica sulle mie palpebre
    il mio corpo
    è pesante come roccia
    e non c’è motivo per cambiare marciapiede
    e non c’è motivo per
    andare alle montagne».

    Da Chiodi, Casagrande, 2018, traduzione di Fabio Pusterla, Vera Gheno

    (gino rago)

  4. Carlo Livia

    “ La poesia, Signore e Signori, questo nome d’infinito dato a ciò che è vano e mortale .“ ( Paul Celan, da “ Il meridiano “). Paradosso, aporema, identificare Infinito e Nulla nel gesto espressivo che, dall’abisso fra semiotica e semantica, fa scaturire implacabilità e salvezza, assenza e traccia d’esilio divino.

    La rosa di nessuno

    Nessuno c’impasta più, da terra e fango,
    nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
    Nessuno.
    Che tu sia lodato, Nessuno.
    E’ per amor tuo
    che vogliamo fiorire.
    Incontro a
    te.
    Noi un Nulla
    fummo, siamo, reste-
    remo, fiorendo:
    la rosa del Nulla,
    la rosa di Nessuno.
    Con
    lo stimma anima-chiara,
    lo stame cielo-deserto,
    la corona rossa
    per la parola di porpora
    che noi cantammo al di sopra,
    ben al di sopra
    della spina.
    Paul Celan

    L’umanità che ha smarrito il sacro, fiorisce incontro al Nulla, il Dio ucciso dalla violenza e “banalità del male” ( Harendt ), conservando solo un ultimo residuo di speranza nei simboli decomposti e frantumati della redenzione cristiana ( il porpora del mantello del Redentore, la spina della corona, il dolore e la morte su cui s’innalza il canto, nella speranza sorta dalla resurrezione di Cristo ).

    Nello stesso esilio e smarrimento spirituale, nello stesso orizzonte assurdo, indecifrabile, post-umano, si origina la scrittura di Agota Kristof, essenziale, rudimentale, spoglia d’ogni inerenza e coerenza alla tradizione letteraria, come in Kafka e Beckett, implacabile segno di negazione di illusioni e sortilegi estetici e ideologici, traccia e ferita di alienazione ed espropriazione, tragica conversione della “muttersprache”, la lingua della madre di Celan, nella lingua degli assassini nazisti, il “nero latte dell’alba” , che tutto colora con l’ombra della morte, il “maestro venuto dalla Germania” che uccide e toglie ogni speranza.
    Così anche nella Kristof, la crudeltà della violenza, resa più atroce nella storia dei gemelli, per la precocità con cui viene interiorizzata, definisce un nuovo canone espressivo, programmaticamente antiletterario, crudele, spoglio di paradigmi etici ed estetici, terribilmente efficace nella denuncia della violenza.

    La finestra della notte

    La finestra era aperta era la finestra
    della notte piena di buio e di vento
    eppure l’estate fluttuava sopra le strade e pensavo
    che domani non sarai più qui

    Non piangevo solo temevo le vertigini
    nel vuoto che ti lasci dietro
    non c’è niente a cui posso aggrapparmi
    neanche la tua mano sarà qui domani

    Non che tu valga più di chiunque altro ma
    per un qualche caso ho attribuito a te
    ogni bellezza e tristezza e adesso che
    te ne vai ho perso l’appoggio sto ferma non so
    in quale direzione girare il viso

    Che importa tanto a tutti i costi devo continuare a vivere
    domani uscirò in strada morti camminano
    per queste vie anche io sarò pallida se solo sapessi
    dove andare da chi e perché
    *

  5. «Qui le persone sono così felici
    che nemmeno amano
    sono realizzate non hanno bisogno
    l’uno dell’altro nemmeno di dio
    la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce
    e fino a sera aspettano la morte».

    Tre anni fa mi sono persa in una città dove
    Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi
    Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie
    Tram correvano a casaccio sulle rotaie
    Avrei potuto essere perfettamente libera e felice allora
    Se avessi trovato almeno un po’ di soldi
    Stavo sulla riva ferita da luci di un lago blu scuro
    Un’ombra mi passò accanto mi diede un’occhiata…

    Ágota Kristóf

    Immagina

    Non c’è più un metro libero,
    nella testa e nel suolo.

    E’ difficile! Tutto edificato.

    Oh, qualcuno
    sta facendo il lavoro
    per te, prima ancora
    che tu sappia di essere.
    (Voce suadente)

    Signore dalla vecchia pelle,
    rimessosi a nuovo:

    “Saprai quel che ti piace
    a suo tempo, e ti sorprenderà”.

    Immagina (Canto che viene da lontano)

    Nei territori dove tutto scorre
    qualcosa si smarrisce – introspezione
    sospetta – (di vivo?)

    Si smarrisce
    qualcosa, di vivo… (canto)

    Immagina.

  6. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/11/11/poesie-e-brani-di-agota-kristof-da-ieri-einaudi-2002-da-chiodi-casagrande-2018-trilogia-della-citta-2014-intervista-ad-agota-kristof-di-dora-szekeres-lettura-di-gino-rago/comment-page-1/#comment-60163
    Scrive Francesca Brencio:

    Commentando il celebre verso di Hölderlin – «ma ciò che resta, lo fondano i poeti» – Heidegger afferma:

    Il poeta nomina gli dèi e nomina tutte le cose in ciò che esse sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale,l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è. Così viene conosciuto in quanto ente.La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere. […] L’essere non è mai un ente. Ma giacché essere ed essenza delle cose non possono mai risultare da un calcolo né possono esser derivati da ciò che è già presente, devono esser liberamente creati, posti e donati. Questa libera donazione è istituzione. Ma quando gli dèi vengono originariamente nominati e l’essenza delle cose si fa parola affinché, solo allora, le cose risplendano, quando ciò accade, l’esserci dell’uomo vien portato in un riferimento saldo e installato su un fondamento. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento.1

    Nella poesia viene individuato il «linguaggio originario di un popolo storico».2, che, – lungi dall’essere evocazione dell’irreale e del sogno, pur avendo l’aspetto del gioco – istituisce il reale: è istituzione dell’essere, «salda fondazione».3. E come avviene per ogni istituzione, si tratta di un libero dono, dove però la libertà non è arbitrio e capriccio, privo di ogni vincolo; è, ben altrimenti, una libertà doppiamente vincolata. Da un lato infatti il poetare, l’originario nominare gli dèi, è possibile solo quando sono gli dèi stessi a condurci al linguaggio. Il poeta funge quindi da tramite, in quanto coglie i cenni degli dèi, cui è vincolato, e li rivolge al popolo. Dall’altro lato il dire poetico, istituzione dell’essere, è un’interpretazione della «voce del popolo», cui il poeta è dunque ugual-mente vincolato. Tale è infatti il senso della saga (die Sagen): il dire in cui un popolo è memore del suo appartenere all’ente nel suo insieme.Tuttavia l’essenza della poesia, poetata da Hölderlin, non ha lo statuto di un concetto atemporale, in quanto appartiene a un tempo determinato.Non nel senso che tale essenza è consona a un tempo già dato; ma piuttosto perché, istituendosi nuova-mente, determina un tempo nuovo: «È il tempo degli dèi fuggiti e del dio che viene. È il tempo di privazione perché esso si trova in una doppia mancanza e in un doppio non: nel “non più” degli dèi fuggiti e nel“non ancora” del dio che viene».4

    Anche in Terra e cielo di Hölderlin, commentando il poema Grecia e una lettera del poeta all’amico Bölendorff, Heidegger torna a mettere in luce il rapporto tra origine, sacro e poesia. Qui, in luogo di un semplice parlare a proposito della Grecia, gli si presenta la poesia nella sua essenza, quale insieme di terra e cielo e dèi, nascosti nel sacro. Incontro che diventa possibile, per il poeta,solo in quello spazio dove ha potuto inverarsi il suo itinerario poetico, ossia nel «pensiero rammemorante».

    Glossa di Giorgio Linguaglossa

    Ma oggi, chiediamoci, in che modo e in quali forme visibili si dà il pensiero rammemorante? Dove andare a frugare? In quale ripostiglio della Memoria? In quale ripostiglio del «sacro»? Ha ancora senso – mi chiedo – abitare la nuvola del «sacro» in termini heideggeriani? A pensarci bene il «sacro» si è andato a nascondere nella pattumiera del letamaio, le parole abitano la discarica abusiva del linguaggio, quelle parole orrendamente agghindate di oggi, sono soltanto quelle parole che noi possiamo adottare. Impiego il verbo adottare in senso giuridico: adottare proprio come si adotta un figlio, un figlio bastardo, nato dal seme di un altro genitore, che ci ricorda in ogni istante del giorno la sua nascita bastarda e fedifraga.

    Così, anche noi parlanti siamo abitati da una lingua bastarda. Abitare poeticamente il mondo significa abituarci a dover abitare le parole della discarica abusiva, le parole pronunciate da un bastardo, sordide e mercantili, che possono essere scambiate in ogni cambiavalute del globo, che possono essere svendute in ogni dove, in uso ad ogni ciarlatano o imbonitore. Oggi il «sacro» lo si trova entro il perimetro delle discariche, le parole portano con sé il lezzo da cui provengono e impuzzolentiscono ogni superficie sulle quali si attaccano…

    La lingua della tribù è stata insozzata a tal punto da diventare un ostaggio della barbarie. Quella barbarie che trapela e traluce in ogni atto linguistico. Oggi pensare una lingua «pura», una lingua «originaria» (Die Sage), significa pensare un altro linguaggio, un linguaggio di là da venire, non ancora infettato dal morbo della discarica abusiva, una lingua ancora non parlata dai lestofanti e dai fedifraghi. Non una lingua morta quanto una lingua ancora non nata. Una lingua incipitaria che finisce nell’atto del suo cominciamento. Una lingua che non abita nessun luogo e nessun tempo. Estranea.

    La Quadratura, il Geviert di Heidegger, la dimensione dove convivono Terra e Cielo, gli dèi e i mortali, la puoi trovare entro il perimetro della discarica a cielo aperto delle parole usate ed abusate. Il poeta della odierna civiltà abita poeticamente questo quadrato. Il distico di Friedrich Hölderlin: «Pieno di merito, ma poeticamente, abita /l’uomo su questa terra» («Voll Verdienst, doch dichterisch, wohnet / der Mensch aufdieser Erde»), assume oggi, alle orecchie del poeta dei nostri tempi, un sapore derisorio, premonitore della povertà in cui è piombata la nostra civiltà. Allora, il lavoro preliminare che deve fare un poeta è mondare le parole, scrostare dalle parole bastarde e balorde la crosta di futilità e di inautenticità, disappropriarsi delle parole balorde e riappropriarsi del vero nucleo delle parole adulterate. E di lì iniziare a ricostruire il nuovo discorso poetico.

    giorgio linguaglossa
    10 novembre 2018 alle 9:22

    Nelle poesie di Ewa Lipska risulta evidente ciò che evidente non è, che l’esistenza degli umani in Occidente è ridotta a «nuda vita», la «pancia» e la «Selbstständigkeit delle cose» nei paesi post-democratici dell’Occidente svolgono una funzione centrale. La questità delle cose così come sono non corrisponde alla questità delle cose così come ci appaiono, e questo fenomeno risulta manifesto nella migliore poesia europea. Le cose nel mondo capitalistico ad economia globale ci appaiono immodificabili, eterne, ci appaiono stabili, ma in verità è soltanto una apparenza… le cose in realtà sono in divenire, non sono affatto stabili, in esse ci possiamo rispecchiare come in uno specchio deformante, le figure che appaiono nello specchio siamo noi…

    La traduzione di «Selbstständigkeit delle cose» è: Stabilità per se stesse delle cose. Fin quando le «cose» ci appaiono ferme e stabili, la nostra esistenza ci può apparire anch’essa ferma e stabile, siamo rassicurati nel nostro esserci, siamo consolati e avviluppati in questa stabilità e nei suoi codici. L’esistenza dell’esserci non potrebbe verificarsi se non fossimo certi della Selbstständigkeit delle cose, quelle cose che possiamo toccare ogni minuto, ogni giorno e rassicurarci che esse siano lì per noi, per sempre… e tra le cose ci sono le credenze, le ideologie, gli ideologemi, le opinioni, le religioni… tutto ciò che ci appare stabile in realtà non è stabile affatto, la stabilità che noi vediamo è un atto di auto illusione, un fantasma che ci rassicura. L’esserci vuole sempre essere rassicurato e curato dalle proprie credenze, l’esserci non può sopravvivere senza credenze, ogni comunità umana non potrebbe sopravvivere se privata delle sue credenze…

    Ma, all’improvviso, si apre il vuoto. Vuoto di senso, di significato, vuoto intorno alle parole, all’interno delle parole, vuoto all’interno del soggetto e dell’oggetto… e tutto sprofonda nel vacuum del vuoto. L’esserci ha terrore del vuoto, e cerca di riempirlo in tutti i modi e con tutti i mezzi: con le credenze (Trump, Orban, Putin, Salvini, papa Francesco, Cristianesimo, Islam, Lega, 5Stelle, PD, Unione europea, Cina, Russia, Mondo etc…)

    Oggi, nelle società post-democratiche dell’occidente l’esistenza dell’esserci è stata ridotta a «nuda vita», a vita vegetativa biologica, e il cosiddetto «privato» riflette questa condizione di animalità diffusa, dove l’esserci è stato ridotto alla condizione animale, non per nulla la politica dei paesi post-democratici fa riferimento alla «pancia» non alla «testa» degli elettori, è la «pancia» quella cosa che rende evidente la degradazione sub-umana a cui la vita nel mondo capitalistico e post-comunista è stata ridotta. La «nuda vita» corrisponde alla «pancia» e ai suoi appetiti perfettamente comprensibili. Nelle nostre società post-democratiche è la retorica che sa parlare alla «pancia», la retorica ridotta a sofisma e a «chiacchiera». Per esempio ciò che si legge nel romanzo e nella poesia di oggi altro non è che «chiacchiera della pancia», «chiacchiera» di esistenze ridotte a «nuda vita».

    Dice Giorgio Agamben in una recente intervista in proposito:

    «Una ricerca filosofica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia. I due concetti che lei ha menzionato, avevano il loro posto e il loro senso in una ricerca archeologica sulla struttura del potere e non possono essere separati da questa. Certo, al loro apparire a metà degli anni novanta, questi due concetti suscitarono polemiche e scandalo, e faticai non poco per far capire in che senso la produzione della nuda vita definiva l’operazione fondamentale del potere e perché il campo e non la città fosse il paradigma politico della modernità. Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche, in cui lo stato d’eccezione è diventato la regola, quei concetti sono diventati quasi banali. Comunque si preferisce spesso usarli in modo generico, al di fuori del contesto in cui erano stati creati e dal quale sono inseparabili; alcuni hanno perfino semplicemente rovesciato la nuda vita e la biopolitica in categorie positive, operazione quanto meno incauta.»

  7. gino rago

    Ágota Kristóf
    brani tratti da
    L’ analfabeta. Racconto autobiografico, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2005, pp. 53, Eu 12,Traduzione di Letizia Bolzani

    *
    «Cinque anni dopo essere giunta in Svizzera parlo il francese, ma continuo a non saperlo leggere. Sono tornata analfabeta. Io che leggevo già a quattro anni».

    *
    «Leggo. È come una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi: giornali, libri di testo, manifesti, pezzi di carta trovati per strada, ricette di cucina, libri per bambini. Tutto ciò che è a caratteri di stampa».

    *
    «Quelli dell’Analfabeta sono testi di veni anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio perché non avevo alcuna intenzione di pubblicare i vecchi testi. Per me sono finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno, editori italiani, li ha trovati, gli sono sembrati interessanti, li ha richiesti».

    *
    «La cosa strana, sono i pochi ricordi che ho di tutto questo. Come se tutto si fosse svolto in un sogno o in un’altra vita.Come se la mia memoria rifiutasse di ricordare il momento in cui ho perso una parte importante della mia vita. Ho lasciato in Ungheria il mio diario della scrittura segreta, e anche le mie poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fine novembre del 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo».

    *
    «L’aula di mio padre sa di gesso, di inchiostro, di carta, di quiete, di silenzio, di neve, anche in estate. La grande cucina di mia madre sa di bestia macellata, di carne bollita, di latte, di marmellata, di pane, di biancheria umida, di pipì dell’ultimo nato, di fermento, di rumori, di calore estivo, anche in inverno».

    *
    «Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua».

    *
    «Prima di tutto, naturalmente, bisogna scrivere. Dopo di che bisogna continuare a scrivere. Anche quando non interessa a nessuno. Anche quando si ha l’impressione che non interesserà mai a nessuno. Anche quando i manoscritti si accumulano nei cassetti e li si dimentica, pur continuando a scriverne altri».

    (gino rago)
    a cura di

  8. marinapetrillo

    Non morire
    non ancora
    troppo presto il coltello
    il veleno, troppo presto
    Ma ancora
    Amo le mie mani che fumano
    che scrivono
    Che tengono la sigaretta
    La penna
    Il bicchiere.
    Amo le mie mani che tremano
    che puliscono nonostante tutto
    che si muovono.
    Le unghie vi crescono ancora
    le mie mani
    rimettono a posto gli occhiali
    affinché io scriva.

    *

    Sopra le case e la vita
    nebbia grigia lieve
    con le foglie a venire
    degli alberi nei miei occhi
    aspettavo l’estate
    più di tutto
    dell’estate amavo la polvere la bianca
    calda polvere
    insetti e rane vi morivano soffocati
    se non cadeva la pioggia
    per settimane
    un prato e piume viola sul prato
    crescono li uccelli il collo dei pozzi
    il vento stende sotto una sega
    chiodi
    puntuti e smussati
    chiudono porte montano grate
    tutt’attorno sulle finestre
    così si edificano gli anni così si edifica
    la morte.

    *

    Con un abbraccio senza tempo
    da quando ti ho abbracciato
    non riesco ad abbassare le braccia
    sono immobile statua centenaria
    chiuso tra le mie braccia di pietra
    so che sei ancora qui.

    *

    fratelli
    voi non vi ha amato nessuno ma domani
    metterete piede sui raggi
    della luna
    i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue
    dalle vostre mani dalle vostre labbra
    attorno a voi cresceranno gli alberi
    si placherà anche la notte e il vento porterà
    cenere tiepida sulle vostre terre sterili.

    Giunge l’esilio nell’imponderabile area del gesto.Rallentato in sublime straniamento, descrive l’inverso in alterità costante. Costrutto episodico all’involontaria serialità del piccolo passo. Struttura limitante del corpo dato in pasto ad una sottile accidia.
    L’orrore non descrive il suo spazio di azione ; solletica il coltello, in archetipo declina il non detto e lì dissipa l’aereo soffio.Ciò che nel tardi esprime il presto, diviene convenzione. Il tempo tradito ristabilisce il suo flusso tra punti di trinitaria inserzione. A sua immagine l’assenza tradisce il pulviscolo di eventi mai nati, generati a moto terrestre. In lei muove corso l’occasionale processo incauto ai minuti spesi alla grazia, già amore, di cura e attenzione abbigliate.
    Sappiamo del dolore, calco che imprime lo stanco sguardo. Il grigio estraneo alle morte stagioni, né estate, né inverno. Permane come dubbioso incedere in scrittura mortuaria, deposta a corona marcescente. Tace livido abbraccio nell’eterna staticità del non generato spiraglio, ove la gioia distoglie lo sguardo ed ogni moto dell’animo, ristagna, biodegradabile all’umano.
    Sogno di generazione nata da esperimento genetico. Idioma sconoscente alcuna lingua. Fremito di terra fredda e acida. Chiodi infissi in paradigma ateo.
    Marina Petrillo

    • cara Marina,

      noto con sorpresa e stupore che in queste ultime poesie hai cambiato registro, hai adottato un punto di vista Estraneo, ti sei estraniata da te stessa. È come se una Marina Petrillo vissuta nell’epoca in cui sono vissuti Tallia e Germanico, rispondesse alle loro albagie avverso il Cesare di turno con una poesia dell’intimità, dell’Intimo, del fra, del framezzo (das Zwischen), mentre Tallia e Germanico sono impegnati ad abbattere il Cesare. Tu scrivi che «L’orrore non descrive il suo spazio di azione; solletica il coltello». Ben detto. L’orrore chiama il delitto. L’orrore invoca il cesaricidio.
      Il tempo chiama il tempo. Il presto chiama il tardi. O, il tardi chiama il presto.

      In fin dei conti siamo sullo stesso orizzonte degli eventi. L’Intimità e il Cesare da abbattere abitano il nostro stesso orizzonte degli eventi.
      Tu scrivi: «Ciò che nel tardi esprime il presto, diviene convenzione». Ben detto. Anzi, ben scritto. Tallia e Germanico, «mezzi morti» o «morti» fa lo stesso, fanno appello al tempo, al tempo «esterno» degli eventi. Ma anche tu fai appello al tempo, al tempo «interno» degli eventi.

      Cara Marina, non siamo ancora nel Nulla, c’è ancora un pezzo di strada da fare. Ci troviamo esattamente a mezzo della nientificazione. Perché il niente nientifica, non può che nientificare tutto ciò che trova sulla sua strada. E la tua poesia lo sa bene. E ti tradisce su questo punto. E allora, dobbiamo percorrere questo tratto di nientificazione per giungere al niente, parente stretto del Nulla. Il quale non deve nullificare un bel nulla perché ci ha già pensato il niente a nientificare tutto quello che c’era da nientificare.

      Scrivevo qualche giorno fa al filosofo Davide Inchierchia:

      gentile Inchierchia,

      siamo d’accordo… almeno su questo punto…
      L’essenza del Niente è la nientificazione, che ci porta dinanzi alla consapevolezza che «ci perdiamo completamente nell’ente».
      “L’essenza della metafisica è l’andare oltre ente: in quanto trascendenza l’esserci si trova perciò da sempre in essa… il pensiero è metafisico in quanto proiettato nell’oltrepassamento dell’ente è tuttavia destinato a smarrirsi in esso.

      Provo a dire qualcosa del nostro modo-di-vita e della nostra costituzione esistenziale con le mie parole:
      L’arte, la poesia fa parte integrale di questo oltrepassamento dell’ente rispetto a se stesso; e in questo oltrepassamento si può riconoscere come irriconoscibile, come essere spaesato, fuori luogo e fuori tempo. Nell’arte fuggiamo dall’angoscia che sempre costitutivamente ci occupa, fuggiamo dalla insignificanza. È questa la nostra Stimmung, il nostro particolare essere nel mondo, in fin dei conti la nostra metafisica è il nostro esistenzialismo.

      L’essenza della metafisica è possibile scoprirla soltanto se si dà l’oltrepassamento di essa…

      Ad ogni epoca della metafisica corrisponde una determinata situazione emotiva, una determinata Stimmung.
      L’esserci «è la località della verità dell’essere»1, e Il tempo si rivela ora come l’orizzonte entro cui va pensata la verità dell’essere, ossia entro cui l’essere si svela e si occulta.

      Scrive Livio Cinardi:

      «Ciò che nella domanda è in domanda è l’essere che avverto, ex-per-isco come Stimmung, come tonalità emotiva, come stato d’animo, come vibrazione. Io sono toccato da ciò che cerco, ovvero gettato nel cercare. Per questo lo cerco. La gettatezza è allo stesso tempo pro-getto. È una co-struttura. L’esserci è quell’ente che in quanto è gettato nel mondo, gettato in ciò che è, si lascia toccare da questo getto (che è dell’essere dell’esserci) e in questo getto che lo tocca e lo riguarda, progetta se stesso. Questo pro-gettare se stesso, questo gettare-innanzi se stesso, è trascendenza, è esistenza. Essere già sempre oltre. Non in senso religioso: non è verso dove, ma è oltre, in senso ontologico, costitutivo: fenomenologico. L’esserci ontologicamente non è già, lo ripetiamo, de-finito (non ha una essenza che lo determini). L’esserci è in quanto poter-essere, in quanto possibilità.»

      1] M Heidegger, Introduzione a Che cos’è metafisica? cit. p. 1!1

      • marinapetrillo

        Grazie caro Giorgio. Si tenta di entrare negli altrui luoghi della poesia attraverso la percezione animica. Con rispetto. Dedizione “medianica”.
        Le liriche di Ágota Kristóf amplificano il rigore stilistico. Essere sulla soglia dell’indicibile, è forse lasciarsi fluire tra correnti gelide, come fosse attitudine del poeta una sorta di transustanziazione linguistica. Giungere alla percezione assoluta, arco di tempo puntiforme che sovrasta ogni porzione di in-finito. Deflusso volto a varchi spaziali che la sua poesia anima, identifica in processo nichilista. Frantuma e ricompone.

        “Sopra le case e la vita
        nebbia grigia lieve
        con le foglie a venire
        degli alberi nei miei occhi
        aspettavo l’estate”

        Il Nulla è silenzio della stessa nientificazione. Auspicio colto tra nebbie caustiche, irridenti la storia. Pervade il lido del respiro, il suo ergersi, “andare oltre ente”. Una trascendenza sommessa, resa arida nella scelta dell’Assoluto Presente.

        “fratelli
        voi non vi ha amato nessuno ma domani
        metterete piede sui raggi
        della luna”

        Editto del sogno diurno sfuggito all’esanime raggio lunare.
        “Alcuno non l’amerà quant’io l’amai” (Giacomo Leopardi)
        Marina Petrillo

  9. Talìa

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/11/11/poesie-e-brani-di-agota-kristof-da-ieri-einaudi-2002-da-chiodi-casagrande-2018-trilogia-della-citta-2014-intervista-ad-agota-kristof-di-dora-szekeres-lettura-di-gino-rago/comment-page-1/#comment-60176
    Una missiva di Tallia a Germanico. E risposta di Germanico.

    Caro Germanico,

    è inutile scrivere ai vivi e per i vivi, scrivo a te perché
    so che puoi capirmi essendo morto. Tu sei morto.

    Io, invece, sono mezzo morto, dunque mezzo vivo:
    I morti respirano la polvere, i mezzi morti la masticano.

    Lavoro in un enorme cimitero a Ossulston Street
    con milioni di lapidi che continuo a chiamare
    libri, dalle 8 alle 15.

    Poi torno a casa e fingo di essere vivo
    e scrivo a quei morti, ai miei morti ricordi,
    al mio morto bambino, a tutti i morti morti
    che ho conosciuto.

    • caro Tallia,

      mi ripugna l’idea di essere considerato morto
      da un «mezzo morto» come tu ti sei definito.

      Ebbene, sì, io sono morto. Sono caduto a Idistaviso.
      Così, almeno, ho fatto credere a Cesare.

      In realtà, sono vivo e vegeto, e presto tornerò nell’Urbe.
      Il cialtrone di Cesare tremerà. Lui sta già tremando.

      Il Prefetto del Pretorio ha triplicato le guardie,
      ma io sono qui, con i miei fidati legionari.

      Sono vivo, Tallia, unisciti a noi, ce lo chiede il popolo bue,
      quel popolo che ha acclamato il Cesare di turno,

      Acclamerà anche noi, stanne certo, inneggerà a Germanico,
      il vincitore di Idistaviso e il vendicatore di Teutoburgo.

      Unisciti a noi, Tallia, ce lo chiede la plebaglia di Roma,
      verremo incensati e innalzati alla gloria, alla folta schiera dei cesaricidi,

      E vivremo felici. Felici.

  10. «L’observation et le commentaire d’un poème peuvent être profonds,
    singuliers, brillants ou vraisemblables, ils ne peuvent éviter de réduire à une signification et à un projet un phénomène qui n’a d’autre raison que d’être»

    (René Char)

    Già all’epoca di Essere e Tempo, per Heidegger, si era reso evidente il fatto che il linguaggio della filosofia occidentale non consentiva, e non avrebbe con-sentito in alcun modo, di uscire dalla metafisica. Nel tentativo di dire la «Differenza ontologica», di dire l’«Essere», che non rinvia a un ente né a un concetto, ma a un evento, all’«Evento» che rende possibile ogni ente, il filosofo si rende conto di non poter utilizzare un linguaggio predicativo, logico, apofantico, e avverte perciò la necessità di ricorrere a un linguaggio totalmente diverso: un linguaggio che non sia mero strumento di espressione della cosa, come avviene per il pensiero rappresentativo e calcolante

    Sarà dunque il linguaggio della poesia a poter dire ciò che tale pensiero tace, in quanto i poeti «arrischiano l’essere stesso e si arrischiano nella regione dell’essere», in-vece di limitarsi al commercio dell’ente: i poeti, evidentemente, per i quali il linguaggio non può essere considerato solo un mezzo di comunicazione, perché l’essere della cosa è nella parola che la nomina.

    (Paolo Tamassia)

    «Mondo e cose non sono infatti realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il framezzo). La lingua latina dice: inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei due, nel framezzo di mondo e cosa, nel loro inter, in questo unter, domina lo stacco.L’intimità di mondo e cosa è nello stacco (Schied) del framezzo, è nella dif-ferenza (Unter-Schied)».1

    1 M. Heidegger, Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, 1994, Mursia, p. 37.

    «Comunque sia, certo è che poetare e pensare corrono su strade quanto mai divergenti. / Noi vorremmo tuttavia familiarizzarci con l’ipotesi che la vicinanza fra poetare e pensare si celi in questo amplissimo divergere del loro dire. Questo divergere è il loro vero essere l’uno difronte all’altro. / Dobbiamo liberarci dall’idea che la vicinanza tra poetare e pensare si esaurisca in una confusa, intrinsecamente vuota mescolanza di entrambe le forme del dire, in una maldestra mutuazione di elementi, che l’una faccia dall’altra. Può darsi che qua e là debba sembrare così. In realtà, in forza della loro natura, poetare e pensare sono tenuti distinti l’uno dall’altro, ciascuno entro la propria oscurità, da una differenza sottile ma chiara: due parallele – in greco
    παρὰ ἀλήων – che corrono l’una accanto all’altra e di cui ciascuna supera a suo modo l’altra in questo starsi di fronte».1

    1 M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, coll, Milano 1990, p. 154

  11. Una poesia di KJELL ESPMARK Sul nulla e la memoria
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/04/17/la-precarieta-del-moderno-la-perdita-della-memoria-e-il-grande-progetto-per-la-poesia-italiana-dibattito-a-piu-voci-intorno-alla-nuova-ontologia-estetica-mariella-colonna-giorgio-linguaglossa-gi/comment-page-1/#comment-19412
    Di Kjell Espmark a proposito del tema dell’Oblio della memoria, trascrivo questa composizione da Quando la strada gira (Ed. Bi.Bo, 1993) nella traduzione di Enrico Tiozzo:

    Kjell Espmark

    Quando la strada gira

    Inaspettatamente siamo di nuovo nel villaggio
    fra case accennate e oche senza tempo
    sotto rade lastre di cielo:
    la tela è nuda fra le pennellate.

    Che è successo?
    Siamo stati per un attimo fuori della vita?
    Come se un subito coltello da macellaio
    con quattro esperti tagli
    avesse diviso occhio, gola, cuore e sesso
    da tutto ciò che è diretto a capofitto
    giorno dopo giorno da nessuna parte
    e li avesse riuniti ad un capitolo
    per il quale siamo già passati.

    Tutto come prima, Tranne la luce scatenata.
    Come se la strada fosse strada per la prima volta:
    ogni odore è più forte, ogni colore più pieno –
    il senza significato ci ha toccato.

    Madame ci guarda indulgente
    e mette in tavola dei pezzi di Chevre,
    un sapore che fiorisce ampio
    intinto nella cenere.

    Cerco di ricordare. Presumo che il previo
    capitolo ancora sia valido.
    Ricordo in un brivido una carreggiata zuppa,
    una voce e un profumo di caprifoglio.
    Senza veramente ricordarli:
    come se ci si fosse corsi incontro
    a braccia aperte
    e ci si trova ad abbracciare un estraneo.

    Ciò che cerco nella memoria si tiene nascosto
    come un mostro che viene dallo spazio.
    Solo qualche schizzo di sangue fa la spia.

    Ma certo siamo vissuti prima?
    Dipende da ciò che si intende per vita.
    Sparsi bagliori di ricordi narrano
    di un grandioso paesaggio
    con un gusto retroattivo di cenere.

    Le lenzuola della camera d’albergo sembrano usate:
    riconosciamo quella macchia
    anche se non siamo stati mai qui prima.
    Un posto logoro per l’inizio.
    I polpastrelli cercano la tua bocca.
    e sentono crearsi le labbra.
    La lingua crea una fossa sulla spalla.
    Come quando un intaccato rituale
    riceve in visita un dio sconosciuto.
    Così diventa il nostro amore
    amore per la prima volta.

  12. Gino Rago
    20 aprile 2017 alle 21:53

    Filosofia del frammento. l’Arte contemporanea
    verso una nuova Estetica

    – I segni dello sfacelo sono la cifra di autenticità dell’arte moderna.

    – Dalla ‘morte di Dio’ e dalla crisi della visione platonico-cristiana, l’arte contemporanea registra la fine del “centro” e della verità dogmatica, con la conseguente deflagrazione del senso.

    – L’arte contemporanea assume il ‘frammento’ come il sigillo del mondo contemporaneo e della moltiplicazione della prospettiva.

    – Il ‘frammento’ è l’intervento della morte nell’opera d’arte.

    – La filosofia del ‘Frammentismo’ non è una tecnica ma è la visione del mondo dell’Artista.

    – Il ‘frammento’ quindi è nella nuova estetica la Weltanshauung dell’artista, da tradurre in opera d’arte.

    – Il “Tutto” è ormai frantumato, disperso. Può essere ritrovato soltanto in forma di frammento.

    – Il frammento, dunque, come parte del “Tutto”, ma come parte compiuta e finita.

    – Pertanto, spostando nell’opera su una tela un frammento da una posizione a un’altra, l’economia estetica generale dell’opera rimane intatta, inalterata.

    – L’Opera nell’arte contemporanea fondata sulla ” filosofia del frammento” annulla l’effetto d’ogni dislocazione sulla tela d’un frammento da un punto a un altro e conserva inalterata tutta la sua resa estetica poiché tale filosofia assume l’assioma che “ogni frammento contiene in sé il tutto disgregato”. Da qui il dolore che irrompe nell’arte moderna frammentata.

    – Non l’arte moderna è in crisi ma è la crisi nell’arte contemporanea.

    • gino rago

      Ringrazio Giorgio Linguaglossa per la riesumazione di questa sintesi sull’arte verso una nuova estetica, da qui è partito quasi sommessamente il lavoro sulla forma-poesia in frammenti che passo dopo passo, poesia dopo poesia, ha condotto molti di noi verso la forma polittico.

  13. letizialeone

    Grazie a Gino Rago e i vari interlocutori per l’intensa lettura che dirama, convoca, richiama…esilio, estraniazione, sradicamento, abbandono, esser nulla, erranza, transito…Scrive M. Augè: “Ma i non-luoghi reali della surmodernità, quelli che frequentiamo quando viaggiamo sull’autostrada, quando facciamo la spesa al supermercato o quando aspettiamo in un aeroporto il prossimo volo per Londra o Marsiglia, hanno questo di particolare: essi si definiscono anche attraverso le parole o i testi che ci propongono; insomma attraverso le loro modalità d’uso, che si esprimono a seconda dei casi in modo prescrittivo (“mettersi in fila sulla destra”), proibitivo (“vietato fumare”) o informativo (“state entrando nel Beaujolais”) e che a volte ricorrono a ideogrammi più o meno espliciti e codificati (quelli del codice della strada o delle guide turistiche) e a volte alla lingua naturale. Così, si organizzano condizioni di circolazione in spazi entro i quali si sa che gli individui interagiscono solo con dei testi, senza altri enunciatori che persone “morali” o istituzioni (aeroporti, compagnie aeree, ministero dei trasporti, società commerciali, polizia stradale, municipi) la cui presenza si indovina vagamente o si afferma più esplicitamente…con ingiunzioni, consigli, commenti messaggi trasmessi dagli innumerevoli supporti (cartelli, schermi, manifesti) che fanno parte integrante del paesaggio contemporaneo.

    In questa poesia di D. Grunbein (traduzione di A.M. Carpi) il non-luogo è opposto alla “dimora”, è spazio di transito, spazio dell’anonimato e del disorientamento:

    Degli aeroporti
    Questi son luoghi che si passano con una meta certa,
    niente pensieri, solo si fluttua come se qui non fossimo
    quasi già là. La porta del paradiso era
    un’uscita che raggiungevi all’ultimo.
    Scale mobili, gruppi di turisti in moto in un sistema di tubi.
    Tutto era transit, transfer,
    anche il bistrò per un cappuccio svelto. Nulla però
    che segnalasse la segreta soglia. Non il controllo del passaporto
    e non quello elettronico. Tutte le vessazioni, le separazioni
    accadevano a terra. Qui chiuse, consegne di chiavi, orologi.
    Soffriva l’anima: qualcuno gli palpava il corpo.
    In sala d’aspetto, già irraggiungibili, si cambiava di lato.
    E fra arrivo, partenza si confondevano le ore del giorno
    in un chiaroscuro generale che induceva a comprare.
    Il corpo prima che le turbine lo catapultino verso le nubi
    si consola con cosmetici, cioccolatini e rum costoso.
    Un caso se non gli mettono il sigillo, e non passa la dogana come mummia.
    Folate di babilonia per i grandi atri. Qualche poliglotta
    disorientato, più d’uno confonde le segnalazioni.
    qui il presente svanisce come l’aria fresca, lascia solo il futuro
    che neutro chiama come numeri i nomi.
    Poi lo si vide dalle finestre panoramiche – o lord! Che grande:
    il traghetto dalle gigantesche ali, il trasportatore.
    Le hostess, ben temprate, dal sorriso sibillino
    la scia nera dei freni sulla pista. Viva la muerte.

  14. gino rago

    Di notevole interesse sono le questioni linguistico-poetico-letterarie lanciate da Letizia Leone in questo suo lucido e intrigante intervento, questioni anche da me affrontate, soprattutto i non-luoghi di Marc Augé, e proposte alla stessa Letizia Leone, accanto a quelle relative alla comunità di Nancy, nel corso di una conversazione incentrata sulla Antologia poetica da lei curata per Giulio Perrone Editore.
    Andrebbero riprese, anche sul trimestrale ‘Il Mangiaparole’.
    (gino rago)

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