Sotto la spinta di questa chiosa
“[…] la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico, una «patria linguistica delle parole» nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico, ovvero, di una «patria linguistica»”
che estraggo da uno dei commenti di Giorgio Linguaglossa tento di dare una mia risposta proponendo un estratto di un mio recentissimo lavoro, in forma di Autoritratto, sulla vicenda umana, letteraria, poetico-linguistica di Ágota Kristóf.
AUTORITRATTO (con tre testi poetici) di una delle più grandi interpreti dello straniamento europeo del ’900 e del disperato viaggio verso una autentica patria linguistica, straniamento e viaggio dati per frammenti tra ironia e malinconia con versi e personaggi di identità kafkianamente sfuggenti e schiacciati dalla cupezza dei loro destini:
(Gino Rago)
Ágota Kristóf
(Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011)
Autoritratto
“Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare. Se non avessero ritrovato questi testi non avrei consegnato niente agli editori per altri dieci anni. D’altra parte, mi sembra di aver pubblicato abbastanza. Ho scritto soltanto quattro romanzi e nove testi teatrali e, adesso, ho rivisto i due inediti che stanno di nuovo facendo parlare di me in tutta Europa: una raccolta di scritti autobiografici, L’Analfabeta, e una di racconti, La vendetta. Eppure sono considerata una delle maggiori scrittrici viventi in lingua francese, tradotta in trentatré lingue. Può essere che abbia altre cose da raccontare. È la voglia che mi manca. Continuo a scrivere ogni tanto per me stessa, ma, senza che sia successo niente di speciale, ho perso l’entusiasmo necessario. E poi, forse, lo trovo anche un poco inutile. Sono uscita l’altro ieri dall’ospedale, sono tornata nel mio appartamento. Sto in una vecchia casa nella parte vecchia di Neuchâtel, in una strada dove non si sta mai tranquilli. Ci sono prostitute, drogati, ubriachi. Ma ci sto bene, c’è il supermercato vicinissimo.
Mi sento vecchia, malata, mi hanno lasciato cicatrici dappertutto. Mi hanno operato alle gambe, per facilitare un poco la mobilità, e alla pancia.
L’atto della scrittura mi porta via come un sogno. Ho l’abitudine di scrivere senza precisare il luogo in cui si svolgono le azioni. Ho l’abitudine di scrivere le cose in generale. Le cose accadono in generale, un po’ dappertutto. E non immagino nemmeno i personaggi in un tempo preciso. Può essere accaduto oggi. E anche ieri. Del prossimo romanzo forse esistono duecento pagine scritte a mano su alcuni quaderni. Quaderni che non tocco quasi più. Se dovessi tornarci lo farei con il procedimento abituale per arrivare all’opera definitiva, cioè rivedere tutto con un dizionario alla mano, riordinare i passaggi secondo coerenza narrativa, sopprimere gli scarti e finalmente battere a macchina, forse rimarrà ben poca cosa. Ma in una recente intervista ho speso tuttavia un titolo possibile, Aglaé dans les champs, la storia di una bambina che s’innamora di un adulto. Come feci io con lo zio Guéza, un amico di mio padre, pastore del villaggio. Avevo sei anni. Fu il mio primo amore. Ero certa che ci saremmo sposati, quando fossi cresciuta. Ma chissà se questa storia la scriverò davvero. Un saggio molto dettagliato sulla mia opera è D’un exil, l’autre, un saggio nel quale l’autrice parla molto di menzogna, di mio auto esilio anche attraverso la scrittura.
Autoesilio, d’ un exil, l’autre … Non amo certe cose che scrivono su di me. Non sempre c’è qualcosa da spiegare e comunque non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui.
Ho ceduto da tempo la gran parte dei miei manoscritti all’Archivio Nazionale di Berna. Quelli dell’Analfabeta sono testi di vent’anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio perché non avevo alcuna intenzione di pubblicare i vecchi testi. Per me sono finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno, editori italiani, li ha trovati, gli sono sembrati interessanti, li ha richiesti. L’archivista della biblioteca è una signora adorabile che tiene tutto in perfetto ordine e classifica i miei scritti, che siano o non siano terminati. Se li avessi tenuti io non li avrei mai ritrovati. Ho così tanta carta in casa e c’è un tale disordine …
Si trattava di testi sia autobiografici sia letterari, racconti. C’est égal, venticinque brevi racconti, alcuni di nemmeno due paginette. Si tratta di esercizi di stile, saggi di realismo e di surrealismo, diversi tra loro per stile e lunghezza.
Ci sono molti testi che avevo già scritto in una prima versione ungherese. E poi quando ho iniziato a scrivere in francese li ho tradotti. Alcuni erano poesie in origine. Allora non ero capace di farli diventare poesie francesi e allora li ho trasformati in racconti: Non mangio più, La scure, Casa mia, ad esempio”. È vero: in alcuni di questi racconti sembra ci sia persino un metro, se li si legge in francese. Alla fine sono rimasti poesie, quelle che scrivevo in fabbrica, appena arrivata a Neuchâtel. Perché la fabbrica, per scrivere poesie, va benissimo. Si può pensare ad altro, e le macchine hanno ritmi regolari che scandiscono i versi.
I 25 racconti risalgono alla prima metà degli anni Sessanta, quando, grazie a una borsa di studio, frequentavo i corsi estivi per stranieri all’Università di Neuchâtel, dove mi ero stabilita con la famiglia dal 1957. Al professore di allora, che mi chiedeva perché mi fossi iscritta ai corsi per principianti, dato che parlavo già bene il francese, ho risposto: «Perché non so né leggere né scrivere. Sono analfabeta». Il mio rapporto con la lingua? È stato sempre una sfida, la sfida di un’analfabeta, come mi definisco. La lingua è un’ossessione, più dei sensi che dei sentimenti, affrontata usando come arma i dizionari. Ho lasciato in Ungheria il mio diario dalla scrittura segreta, e anche le mie prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fine novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo. All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua. Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parola che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?
A nove anni la protagonista comprende che esistono diverse lingue. Si imbatte nel tedesco, parlato da una parte della popolazione che vive nella città di frontiera in cui la sua famiglia si è trasferita. Per noi ungheresi si trattava di una lingua nemica, poiché faceva venire in mente la dominazione austriaca, ed era anche la lingua dei soldati stranieri che in quel periodo occupavano il nostro paese. E lo stesso si dica del russo, il cui insegnamento viene imposto a scuola, ma recepito senza troppo entusiasmo sia da insegnanti che da allievi. L’imposizione crea rifiuto, attiva “un sabotaggio intellettuale nazionale, una resistenza passiva naturale, non concordata, che si mette in moto da sé. Lingua nemica è anche il francese, parlato nella città svizzera del rifugio da adulta. Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n’è un’altra, di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna. La differenza con la Ugrešic risiede nel fatto che il rapporto con la lingua straniera può divenire fonte di riscoperta e di rinascita. La protagonista nel capitolo conclusivo si definisce “analfabeta”, ma ha anche la volontà di impossessarsi della nuova lingua e così, in un certo senso, si può assistere ad un lieto fine. Qualche giorno fa, sono ritornata a Zurigo. Vi recitano una mia pièce teatrale. Continuo a non conoscere la città, né la lingua tedesca, ma non ho più paura di perdermi. Ho dei soldi, posso prendere un taxi, e conosco il nome del teatro. Quell’ungherese smarrita e senza soldi che ero, è diventata una scrittrice.
Come sarebbe stata la mia vita se non avessi lasciato il mio paese? Più dura, più povera, penso, ma anche meno solitaria, meno lacerata, forse felice. La cosa certa è che avrei scritto, in qualsiasi posto, in qualsiasi lingua.”
Poesie di Ágota Kristóf
Chiodi
Sopra le case e la vita
nebbia grigia lieve
con le foglie a venire
degli alberi nei miei occhi
aspettavo l’estate
più di tutto
dell’estate amavo la polvere la bianca
calda polvere
insetti e rane vi morivano soffocati
se non cadeva la pioggia
per settimane
un prato e piume viola sul prato
crescono
gli uccelli il collo dei pozzi
il vento stende sotto una sega
chiodi
puntuti e smussati
chiudono porte montano grate
tutt’attorno sulle finestre
così si edificano gli anni così si edifica
la morte
Qualche parola
Sono tornati i monti della primavera ma ormai
non assomigliano più a nulla in fondo
al lago non c’è altro che melma
vengono uomini dietro di loro non c’è nulla
guardano si avvicinano e fanno ritorno
a loro stessi
le città lentamente strangolano i loro
gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi
le strade
un uccello prova ancora a sollevarsi
risuona qualche parola qualche campana d’allarme
e cadono le pietre
Ti aspettavo
Ti aspettavo in fondo alla strada nella pioggia
andavo a capo chino ti vedevo lo stesso
ma non riuscivo a sfiorarti la mano
Ti aspettavo su una panchina le ombre degli alberi
cadevano sulla ghiaia fresca
come anche la tua ombra mentre ti avvicinavi
Ti aspettavo una volta di notte sul monte
crepitavano i rami quando li hai scostati
dal tuo viso e mi hai detto che non potevi restare
Ti aspettavo a riva con l’orecchio incollato
a terra sentivo il tonfo dei tuoi passi
sulla sabbia morbida poi si fece silenzio
Ti aspettavo quando arrivavano i treni lontani
e le persone tornavano tutte a casa
mi hai fatto un cenno da un finestrino il treno non si è fermato
(da Chiodi, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, pp.112, Eu 16,00 Prefazione di Fabio Pusterla. Traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla)
(Gino Rago)
Notizie Bio-bibliografiche
Ágota Kristóf è nata a Csikvánd, in Ungheria il 30 0ttobre del 1935 ed è morta in Svizzera nel 2011. Rifugiata nel Cantone svizzero francofono nel 1956, all’epoca dei moti di Ungheria, è stata cittadina svizzera ed ha vissuto a Neuchâtel fino alla sua morte. Ha avuto tre figli, una figlia dal primo marito ungherese e due maschi dal secondo, svizzero. La Kristóf è scrittrice notissima in Francia e ancor più nota nella Svizzera romanda, sua terra di adozione. Ha scritto, in francese, tra il 1986 e il ’91 tre romanzi: Il grande quaderno (1986); La prova (1988); La terza menzogna (1991), usciti in traduzione italiana con Einaudi nel 1998 sotto il titolo di La trilogia di K., seguiti da Ieri del 1995 (ed. italiana, Einaudi, 1997), da cui Silvio Soldini ha tratto il film Brucio nel vento, verso il quale la Kristóf espresse un giudizio negativo. Sono note anche le sue pièces teatrali: John et Joe del 1972; La chiave dell’ascensore (77), L’ora grigia o l’ultimo cliente (queste due edite da Einaudi 1999) e Un rat qui passe del 1984. La Trilogia è diventata presto un classico della letteratura francofona, e soprattutto la prima parte, Il Grande Quaderno, ha ispirato anche molti adattamenti scenici. È tradotta, in 33 lingue: La Kristóf, nella sua laconica riservatezza, ne sembra molto contenta: ha conservato pochissimi libri, dopo il divorzio, (il secondo a quanto si capisce), ma tiene con cura tutte le traduzioni del Grande Quaderno, o dei Gemelli, come le chiama la scrittrice.
Glossa di Gino Rago
Sono partito da queste parole di Ágota Kristóf:
«Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola» e dalla chiosa di Giorgio Linguaglossa che qui riporto
“[…] la poesia dell’esperienza ha bisogno di un universo simbolico, una «patria linguistica delle parole» nel quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico, ovvero, di una «patria linguistica»”
per decidere l’allestimento dell’AUTORITRATTO di Ágota Kristóf come esempio linguistico-poetico-umano-letterario-esistenzial-antropologico, oltre che psicologico, religioso, geopolitico, economico, ecc., del grande fenomeno del Translinguismo, legato ai fenomeni massicci delle migrazioni, delle erranze, delle dislocazioni, dell’esilio, dei dismatriati, che già da tempo ha fatto il suo ingresso nella storia della letteratura non soltanto italiana.
Cito un passo da L’analfabeta di Ágota Kristóf, (nell’ambito del tema, più volte lanciato e trattato diffusamente su L’Ombra delle Parole, della lingua come forma di esilio, la «condizione di esilio» nel grande gelo linguistico):
Ágota Kristóf, da L’analfabeta:
«“Ich bin müde”, dico a Fred. Il suo viso pallido e malinconico si stira in un sorriso. “Ich bin müde” è l’unica frase tedesca che per ora conosco. In questo momento non voglio nemmeno imparare altro. Imparare altro significa aprirsi. E io voglio restare chiusa ancora per qualche tempo».
Potremmo dedurne che il doversi mettere in gioco dal punto di vista linguistico può essere faticoso. Così come il desiderio di chiudersi dentro sé stessi, che per la Kristóf è chiudersi nella propria lingua madre, è uno dei modi più diffusi ma forse non sempre efficaci di proteggersi. In molti scrittori, il ricorso ad una lingua straniera rappresenta una forma d’esilio. Lo scrivere in un’altra lingua può essere vissuto perfino come una conquista, ma anche e soprattutto come una perdita[…]
La questione linguistica è centrale in Ágota Kristóf. Appare in tutta la sua lacerante portata proprio ne L’Analfabeta, un lungo racconto autobiografico nel quale l’esilio è sì lasciare la propria terra, ma è anche seppellire la propria lingua, come fu anche per altri scrittori, in seguito alla fuga di moltissimi ungheresi dopo i fatti d’ Ungheria del 1956…
Altri scrittori, poeti, artisti, intellettuali, che hanno segnato il Novecento (Tzvetan Todorov e George Steiner, Salman Rushdie e Jacques Derrida, per citarne alcuni), e che in prima linea hanno vissuto la condizione dell’esilio, hanno seguito altri percorsi rispetto alla lingua materna, come Hannah Arendt che ripudiò tanto il francese, quanto l’inglese, rimanendo fedele alla lingua tedesca, anche se era la lingua dei carnefici del suo popolo.
Infatti, alla domanda: «Cosa Le è rimasto dell’Europa pre-hitleriana…», la Arendt dava sempre la stessa risposta: «La lingua».
Il rapporto con la lingua tedesca, nonostante la fuga dalla Germania nazista, è dichiarato in un passaggio di una lunga intervista in cui la Arendt dichiara il suo attaccamento al tedesco: «Mi dicevo: che cosa si può fare? Non è la lingua tedesca ad essere impazzita! E poi, non esistono alternative alla lingua materna. Certo, la si può dimenticare, come ho potuto vedere. C’è gente che parla le lingue straniere meglio di me. Io parlo ancora con un forte accento, e non riesco a parlare in modo idiomatico. Tutti lo sanno fare. Ma in questo modo si parla una lingua, in cui un cliché non fa che sostituirne altri, perché la creatività linguistica viene amputata quando si dimentica la propria lingua».
Nel caso di Hannah Arendt appare chiara, nettissima la posizione nei confronti della propria madrelingua, benché si fosse trasferita in un paese anglofono (gli Stati Uniti) e benché scrivesse i suoi testi in inglese.
Il tedesco nella Arendt non viene cancellato dalle altre lingue, anzi queste, inglese e francese, conservano e portano tutte e due nell’accento il segno del tedesco.
Perdere la lingua madre si traduce in un limitare la propria creatività, sarebbe una sorta di amputazione che Hannah Arendt sente di non poter subire né accettare.
La condizione di esilio in Brodskij segue invece altre coordinate che qui e ora non è il caso di indagare.
Grazie a Giorgio Linguaglossa per regalarci settimanalmente delle preziosità come queste parole di Agota Kristof. Proprio in questi giorni sto lavorando con una piccola équipe di giovani che si occupano di autistici, psicotici, adulti e bambini in gravi difficoltà. Iniziamo ormai da più di un anno ogni riunione con mezz’ora di lettura dalla Letteratura, non necessariamente psicoanalitica. o ho scelto La Trilogia della città di K. Ciascuno si sofferma su un pezzo per trovare qualcosa che possa servirgli a reinventare ogni volta il suo modo di lavorare. Ho iniziato con le prime pagine, Il grande quaderno, ritrovando, dopo anni che avevo letto il libro, l’invenzione dei gemelli, i loro esercizi di sopravvivenza a suon di botte e di parole, di temi e di ricerca di parole nel “Dizionario di nostro padre”. Kristof ci dice come solo con le parole, con le lettere, con la scrittura possiamo salvare e salvarci. Aggiungo che, in quanto psicoanalista, la lettera, i suoi marchi sul corpo, le cicatrici che lascia, sono la vera risorsa da cui muovere o a cui approdare. Agota ci accompagnerà nel nostro Consultorio di psicoanalisi applicata insieme a Jacques Lacan. Grazie!
Lao Tzu scrive:
«La via è vuota, ma usandola, non si riempie».
C’è qui l’esperienza della negazione e dell’affermazione, l’una accanto all’altra. L’esperienza del vuoto e del pieno, del vero e del falso. Gli opposti non si elidono ma si potenziano.
In tal modo, la poesia eleva alla estrema potenza il linguaggio: nega e afferma allo stesso tempo la medesima cosa. Voi direte, ma come è possibile? Come è possibile dire con il discorso poetico una cosa e, immediatamente dopo, negarla? C’è qui un esercizio di doppiezza, forse? – No, qui è in azione il pensiero poetico che dispone della sua autorità, che tratta tutto ciò che tratta con l’autorità che è riservata ad un sovrano assoluto.
Ma sovrano assoluto che regna in modo assoluto sulla soggettività, sull’io. Soltanto quando l’io si fa da parte, quando si depotenzia, la poesia può esercitare il suo potere dispositivo sulle parole.
Soltanto la poesia ha questo attributo, di dire e di fare ciò che crede. Al contrario del romanzo il quale invece non può permettersi tanta e tale libertà, se non altro perché un cambio di marcia deve essere spiegato e accompagnato da una preparazione narrativa.
In poesia, invece, non c’è bisogno di tutto ciò, la poesia è libera di fare i salti mortali che vuole, se lo desidera. La poesia di Rozewicz o di Ágota Kristóf fa proprio questo principio compositivo (che è anche un principio epistemologico, di poetica). Entra da subito dentro le situazioni e le illumina dall’interno con la lampada di Diogene di una nuova visione del fare poesia e di come essere nel mondo.
La linea interna delle cose è ben più importante della linea esterna di esse.
Quanto alla linea interna ed esterna delle cose, propongo qui una poesia di Roberto Carifi, da “Amore d’autunno”, Guanda Editore, 1998. Leggiamo.
Grazie per la parola
che ancora accendi nel mio cuore,
per quel raggio che dal bene
hai ricevuto in dono
e che nel mio abbandono
lasci che nasca
come fosse grano in un deserto,
per quella tua bellezza,
per l’orma divina del tuo sguardo,
per quella tua dolcezza che vorrei baciare
come si bacia l’innocenza,
inginocchiato davanti alla tua anima
quando una lieve ombra
la lascia affiorare sulla carne,
per quello che chiami il tuo peccato,
per il tremore che turba la tua voce
quando mi dici l’indicibile
e lasci l’impronta dell’amore
in questo cuore arato.
Ecco, questa è una poesia tutta pensata e vissuta lungo le linee esterne delle cose. Innanzitutto, la positura del poeta che ringrazia: «Grazie per la parola», dando per scontato ciò che scontato non è, cioè che la «parola» sia realmente avvenuta; e poi il tono da salmodia, di preghiera, con quel tanto di sottofondo di compiacimento dell’autore per essere stato visitato dalla Musa. Si tratta di una descrizione per linee esterne delle cose: la «parola» ricevuta per grazia et amore dei, il piano fonosimbolico che è quello della preghiera più vicina alla liturgia religiosa che alla forma-poesia del novecento. Infine, tutto quel parlare a vanvera tanto per colpire il lettore con parole altolocate: «bellezza», «anima», «peccato», «indicibile», «dolcezza», «innocenza», «abbandono», «baciare», «bene», «dono», «amore»… Tutto un repertorio di luoghi comuni del poeta buono che ha avuto in «dono» la «parola».
È chiaro che qui siamo davanti all’ego dell’autore che deborda dagli argini dell’io «inginocchiato davanti alla tua anima» e invade il mondo con il proprio « cuore arato»…
La linea, nel disegno, in pittura, nella scultura, concorre alla creazione-emersione della forma, in un alternanza spaziale di esterno-interno, mantenendo una sua autonomia.
Se le diamo questo riconoscimento anche in poesia, può caratterizzare variamente una composizione con un tono- timbro particolare. Nella poesia di Carifi, sembra delinearsi una “linea” di tipo mistico-religioso (parlando d’amore). Un terreno difficile, senza cadere in qualche inciampo. L’ultimo verso: “cuore arato”, sembra concentrare su di sé la fatica della ricerca di un carattere.
La poesia di Paul Muldoon, (spero di averlo scritto correttamente) mostra una linea più accidentata, dall’esterno verso l’interno. In termini di angoscia, una rappresentazione efficace.
L’io non va demonizzato, o tenuto alla catena. Si può lasciarlo agire, in libertà vigilata e osservarlo con benevolenza, come si fa con un ragazzino un po’ agitato.
Se il discorso procede nel senso dell’ “estraniazione”, le due poesie citate, sembrano discostarsi all’apparenza. Chissà però cos’erano, nell’intenzione dei loro rispettivi autori? Il confronto può essere utile (lo dico soprattutto come lettrice ed autrice) anche per riflettere sulla frammentazione eccessiva, sull’incompatibilità, su allontanamenti che possono portare a qualche insignificanza. Infine, a dei “muri”, da abbattere… da attraversare.
“Io non scrivo più. Non mi interessa pubblicare”.
Con questa frase inizia la testimonianza di Ágota Kristóf. E io la ringrazio, come ringrazio Gino Rago per la preziosa segnalazione.
“Io non scrivo più” (dopo quattro romanzi e 9 testi teatrali) mi rattrista. Invece mi rallegra quel “Non mi interessa pubblicare”.
Penso all’immensa quantità di libri che piccola e grande editoria sfornano quotidianamente, a fronte di un pubblico che legge poco o niente.
A proposito di libri:
Non è facile entrare in un bar rispettando la procedure. Non sai mai se devi pagare prima o dopo aver consumato. Se paghi contando le monetine sei un pezzente. / Aggrappiamoci a questa. Non è l’immagine di Un. E’ davvero
l’Immacolata – tazza di caffè con cherubini al soffitto. / Perdere ad ogni costo. Romanzo di Come Zucca. Con sopra l’immagine delle Dolomiti. Lo so, lo sai. Mezz’ora fermo sulla copertina del libro. Apri sulla piega in alto,
come l’unghia scorre. “Mio amato, troverai sul frontespizio il passaporto per l’Ungheria”. Quattro parole chiave. In lingua internazionale. Niente: “Fai le valige”. – Potrebbe essere tua moglie. – L’insulto”.
Uscendo ci si abbottona la manica. Dipende, se poeta trafitto dalle consuetudini. Altrimenti girovagare in cerca di sotterranee da scoprire. Quell’altra metafisica. Tra capelli e sandali: faccia di uno scaraventato altrove.
(May – nov 2019)
Questo è un bellissimo lavoro. Grazie ad esso, ci avviciniamo davvero al cuore della letteratura europea, ad un pezzo importante di essa, quella che fa da portale al 21° secolo. Tutto deve insegnarci come girare il timone in una possibile direzione verso il mare aperto di questo nostro secolo. Agota Kristof fornisce una delle direzioni. Grazie mille. Leggerò meglio!
Ringrazio sentitamente Giorgio Linguaglossa per avere onorato il mio lavoro, che tanto e a lungo mi ha impegnato, elevandolo agli onori della Pagina de L’Ombra delle Parole: così come ringrazio Lucio Mayoor Tosi per il suo apprezzamento. Grazie Giorgio, grazie Lucio.
Sterminata è la fortuna critica, in Italia e all’estero, sull’opera dell’autrice di Chiodi e della Trilogia della città di K e dunque prima di decidere di proporre un mio contributo direi ‘originale’ in questa vastità di lavori critici ho riflettuto a lungo: se il risultato è quello di questa pagina de L’Ombra, allestita esteticamente come meglio non si poteva fare, anche per la scelta delle foto che accompagnano e illuminano il mio lavoro, ben venga il mio morire al mondo a servizio della scrittura.
(gino rago)
dedico questa mia poesia ad Ágota Kristóf dalla mia raccolta inedita
En chute libre
15.
Eredia
tête océanique aux écoutes
erratiquement persécutée
misophonie
Découpage collage papiers savoureux
” oublions les choses ne considérons que les rapports ”
Braque révolution artistique
Après – guerre en Russie
Lya la grande gigue du front
étouffe Pachka enfant
séquelles de traumatismes d’ exactions
Zaza dans son lit
nicopactch sur la fesse rêve d’une course effrénée
sort du lit course effrénée dans le vide
contre la penderie son visage fracassé
Petit fauteuil Louis 16
velours grenat boiseries blanches
étroite assise pour un arrière train volumineux
Biarritz G 7
tour d’ivoire des foutus politiques
manifestations manifestations
………manifestations
Miso Misein misandre
délaissée isolement revanche
Un toit d’ardoises
deux pigeons ramiers au ventre rose
roucoulements battements d’ailes
Abrahim pleure
dans les sables mouvants de son oreiller
15.
Eredia
testa oceanica in ascolto
erraticamente perseguitata
misofonia
Découpage collage carte saporite
“dimentichiamo le cose
consideriamo soltanto i rapporti”
Braque rivoluzione artistica
Dopo guerra in Russia
Lya la spilungona del fronte
soffoca Pachka bambino
sequele di traumatismi di atrocità
Zaza nel suo letto
nicopatch sulla chiappa sogna una corsa sfrenata
si alza dal letto corsa sfrenata nel vuoto
contro l’armadio il suo volto fracassato
Poltroncina Luigi XVI
velluto granata boiserie blanche
seduta stretta per un sedere voluminoso
Biarritz G 7
torre d’avorio dei fottuti politici
manifestazioni manifestazioni manifestazioni
Miso… Misein… misandria
trascurata isolamento rivincita
Un tetto di ardesia
due colombacci dal ventre rosa
tubare battiti d’ali
Abrahim piange
nelle sabbie mobili del suo cuscino
Scrive Adorno in Teoria estetica: «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte».
Marie Laure Colasson scrive:
” oublions les choses ne considérons que les rapports ”.
Il senso di questa poesia lo si coglie se si pensa il «polittico» non come un manufatto che è qualcosa di evanescente e fluttuante ma come un essere poliedrico che solo il discorso poetico può intuire, percepire e cogliere. Forse siamo ancora sotto la suggestione hölderliana dell’uomo che «abita poeticamente la terra». Un “abitare poetico”, questo della Colasson, che si configura in senso ontologico come un esercizio dell’abitare il mondo mediante il quale è possibile costruire e narrare un’identità fondata sul senso dell’appartenenza alla terra, al fine di corrispondere alla domanda sul senso del mondo e su noi stessi che ci troviamo nel mondo. Il «progetto poetico» (dichtende) della verità, che si pone in opera, non avviene nel vago e nell’indistinto, ma si svolge per l’umanità storica, nell’apertura di ciò in cui l’Esserci è di già gettato in quanto storico, e quindi un mondo di relazioni, vale a dire la terra e per un popolo storico la sua terra.
La terra per Heidegger è «fondamento autochiudentesi», fondo opaco e ascoso che custodisce, in contrapposizione a un mondo inascoso, che si apre e viene esposto. Ciò che è stato dato all’uomo deve essere portato fuori dal suo fondamento occultato e fatto poggiare su di esso. In tal modo questo fondamento si presenta come «fondamento sorreggente», talché la produzione d’opera, in quanto rappresenta un tirar fuori di tal tipo, è un«creare-attingente (schöpfen)» (Heidegger).1
Il soggettivismo moderno ha frainteso l’idea di creatività, perché l’ha intesa come l’atto di genio di un «soggetto sovrano», mentre, al contrario, «l’instaurazione della verità è instaurazione non solo nel senso di libera donazione, ma anche nel senso di fondamento che fonda».
L’orientamento della nuova poesia e del nuovo romanzo è antisoggettivistico, e la «forma-polittico» è quella che meglio definisce e rappresenta la condizione ontologica di frammentarietà del nostro mondo. Possiamo definire il polittico come un mosaico di frammenti, di immagini dialettiche in movimento nella immobilità. Vengono a proposito le intuizioni di Benjamin sullo statuto delle immagini in movimento.
Scrive Walter Benjamin:
«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente
temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2]
La forma-poesia prescelta è il «polittico». Nei suoi «polittici» Marie Laure Colasson illustra quasi didascalicamente la condizione ontologica di frammentazione dello spirito del tempo del nostro mondo, il quale si dà, lo si può cogliere soltanto nelle «relazioni» spaziali e temporali, nelle spazialità e nelle temporalità dei personaggi che si affacciano nella cornice della poesia. Le Figure che compaiono sono gli Estranei. La lingua impiegata è una lingua straniera, che fa a meno dei segni di punteggiatura, dei nessi causali, formali, sintattici e fono simbolici. Nei suoi «polittici», sia in pittura che in poesia, non v’è un punto di vista ma una pluralità di punti di vista, di scorci che non convergono mai verso una identità in quanto sono eccentrici e legati da leggi di probabilità e di entanglement. Il discorso poetico cessa di essere un discorso di una identità e diventa discorso della pluralità. I legami tra le forme che emergono dal fondo ascoso dei suoi dipinti sono equivalenti ed equipollenti alle singole strofe irrelate delle poesie con i loro personaggi porta bandiera del nulla da cui provengono. Emissari del nulla e Commissari dell’essere.
1 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio. Trad. A. Caracciolo. Mursia, 2007 – L’origine dell’opera d’arte. In: Sentieri interrotti. Trad. P. Chiodi. Firenze: La Nuova Italia,1984
2 W. Benjamin I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516
Questo è un bellissimo lavoro. Grazie ad esso, ci avviciniamo davvero al cuore della letteratura europea, ad un pezzo importante di essa, quella che fa da portale al 21° secolo. Tutto deve insegnarci come girare il timone in una possibile direzione verso il mare aperto di questo nostro secolo. Agota Kristof fornisce una delle direzioni. Grazie mille. Leggerò meglio!
Grazie caro Steven,
colgo con gioia viva e con un pizzico di orgoglio il tuo pur succinto ma persuaso consenso sul mio lavoro, un lavoro credimi che davvero mi ha impegnato e per tantissimo tempo ma che è stato in grado di farti tornare su L’Ombra…
Ho aggiunto all’AUTORITRATTO di Ágota Kristóf, ma tenendola da questo separato, una recensione a Chiodi anche per tenere distinti e distanti i due registri, narrativa-poesia, della Kristóf proprio per la centralità che l’elemento linguistico ha occupato nella vita della grande autrice della Trilogia della città di K e di Chiodi.
Giorgio Linguaglossa ha aggiunto al mio Autoriratto altra materia di prima grandezza sull’opera omnia della Kristóf, e lo ringrazio di cuore,
Grazie Steven per il tuo ritorno,
(gino rago)
Zona residenziale
Dov’erano gli operai,
pisciano i cani dei padroni.
Sopra i trucioli, la ghiaia.
Nel viale per la fonderia
passeggiano signore.
Seppellita la polvere nera
con tutti i suoi malanni.
Grida e morte, nel silenzio.
Per campare.
Scritta venticinque anni fa – pubblicata su libro (sigh!). Rivisitata in modo più essenziale, oggi. Credo (purtroppo) sempre attuale.
da Ieri, di Ágota Kristóf, Einaudi
– Bambino, vengo da lontano. Dimmi, perché guardi la luna?
– Non è la luna,- rispose irritato il bambino, – non è la luna, è l’avvenire che io guardo.
– Io vengo da lì,- gli dissi dolcemente – ci sono solo campi morti e fangosi.
– Tu menti, menti,- gridò il bambino. – C’è argento, luce, c’è amore. Ci sono giardini pieni di fiori.
– Io vengo da lì,- ripetei dolcemente, – ci sono solo campi morti e fangosi.
Il bambino mi riconobbe e si mise a piangere.
da Il Grande quaderno, Trilogia della città di K., Einaudi
Scriveremo: «Noi mangiamo molte noci», e non: «Amiamo le noci», perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e obiettività. […]
Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.
Ci convinciamo così che quella che stiamo leggendo sia la verità, la normale cronaca di un paese bombardato e spezzato visto con gli occhi di due bambini troppo maturi per la loro età.
*
[Le rispondo che] cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. [Le dico che] cerco di raccontare la mia storia, ma che non ci riesco, non ne ho il coraggio, mi fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero.[…] Un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita.
*
Un uomo dice:
-Tu chiudi il becco! Le donne non sanno niente della guerra.
La donna dice:
-Non sanno niente? Coglione! Abbiamo tutto il lavoro, tutte le preoccupazioni: i bambini da sfamare, i feriti da curare. Voi, una volta finita la guerra siete tutti degli eroi. Morti: eroi. Sopravvissuti: eroi. Mutilati: eroi. È per questo che avete inventato la guerra, voi uomini. È la vostra guerra. L’avete voluta voi, fatela allora, eroi dei miei stivali!
*
Ieri ho vissuto un istante di felicità inattesa, immotivata. È venuta verso di me attraverso la pioggia e la nebbia, sorrideva, fluttuava al di sopra degli alberi, mi danzava davanti, mi circondava.
Io l’ho riconosciuta.
Era la felicità di un tempo remoto, quando il bambino e io eravamo tutt’uno. Io ero lui, avevo solo sei anni e la sera nel giardino sognavo guardando la luna…
*
Niente. Lucas continuava a lavorare. Apriva il negozio al mattino, lo chiudeva la sera. Serviva i clienti senza aprire bocca. Non parlava quasi più. Qualcuno pensava fosse muto. Venivo a trovarlo spesso, giocavamo a scacchi in silenzio. Giocava male. Non leggeva più, non scriveva più. Credo che mangiasse molto poco e che non dormisse quasi mai. Nella sua stanza la luce restava accesa tutta la notte, ma lui non c’era. Passeggiava nelle strade buie della città e nel cimitero. Diceva che il luogo ideale per dormire era la tomba di una persona amata.
Agota Kristof
dal libro “Trilogia della città di K.” Einaudi
*
Dico: “Certo, Mamma. Scusami, ho un sonno tremendo.” Mi metto a letto e prima di addormentarmi parlo mentalmente a Lucas, come faccio da molti anni. Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un’inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione. Sarah non la rivedo più. Certe volte mi sembra di riconoscerla per strada, ma non è mai lei.
*
Esercizio di irrobustimento dello spirito.
Nonna ci dice: “Figli di cagna!”
La gente ci dice: “Figli di una Strega! Figli di puttana!”
Altri dicono: “Imbecilli! Mascalzoni! Mocciosi! Asini! Maiali! Porci! Canaglie! Carogne! Piccoli merdosi! Pendagli da forca! Razza di assassini!”
Quando sentiamo queste parole, il nostro volto diventa rosso, le orecchie ronzano, gli occhi bruciano, le ginocchia tremano.
Non vogliamo più arrossire né tremare, vogliamo abituarci alle ingiurie e alle parole che feriscono.
Ci sistemiamo al tavolo della cucina uno di fronte all’altro e, guardandoci negli occhi, ci diciamo delle parole sempre più atroci.
Uno: “Stronzo! Buco di culo!”
L’altro: “Vaffanculo! Bastardo!”
Continuiamo così finché le parole non entrano più nel nostro cervello, non entrano nemmeno nelle nostre orecchie.
Ci esercitiamo in questo modo una mezz’ora circa ogni giorno, poi andiamo a passeggiare per le strade.
Facciamo in modo che la gente ci insulti e constatiamo che finalmente riusciamo a restare indifferenti.
Ma ci sono anche le parole antiche.
Nostra Madre ci diceva: “Tesori miei! Amori miei! Siete la mia gioia! Miei bimbi adorati!”
Quando ci ricordiamo di queste parole, i nostri occhi si riempiono di lacrime.
Queste parole dobbiamo dimenticarle, perché adesso nessuno ci dice parole simili e perché il ricordo che ne abbiamo è un peso troppo grosso da portare.
Allora ricominciamo il nostro esercizio in un altro modo:
Diciamo: “Tesori miei! Amori miei! Vi voglio bene… Non vi lascerò mai… Non vorrò bene che a voi… Sempre… Siete tutta la mia vita…”
a forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua.
*
A forza di ripeterle, le parole a poco a poco perdono il loro significato e il dolore che portano si attenua .
Diceva che il luogo ideale per dormire era la tomba di una persona amata.
La vita è di un’inutilità totale, è non-senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione.
da Chiodi, Ed. Casagrande, 2018
Non morire
non ancora
troppo presto il coltello
il veleno, troppo presto
Mi ancora
Amo le mie mani che fumano
che scrivono
Che tengono la sigaretta
La penna
Il bicchiere.
Amo le mie mani che tremano
che puliscono nonostante tutto
che si muovono.
Le unghie vi crescono ancora
le mie mani
rimettono a posto gli occhiali
affinché io scriva.
*
Sopra le case e la vita
nebbia grigia lieve
con le foglie a venire
degli alberi nei miei occhi
aspettavo l’estate
più di tutto
dell’estate amavo la polvere la bianca
calda polvere
insetti e rane vi morivano soffocati
se non cadeva la pioggia
per settimane
un prato e piume viola sul prato
crescono li uccelli il collo dei pozzi
il vento stende sotto una sega
chiodi
puntuti e smussati
chiudono porte montano grate
tutt’attorno sulle finestre
così si edificano gli anni così si edifica
la morte.
*
Con un abbraccio senza tempo
da quando ti ho abbracciato
non riesco ad abbassare le braccia
sono immobile statua centenaria
chiuso tra le mie braccia di pietra
so che sei ancora qui.
*
fratelli
voi non vi ha amato nessuno ma domani
metterete piede sui raggi
della luna
i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue
dalle vostre mani dalle vostre labbra
attorno a voi cresceranno gli alberi
si placherà anche la notte e il vento porterà
cenere tiepida sulle vostre terre sterili.
*
Intervista ad Ágota Kristóf
di Dóra Szekeres
https://www.einaudi.it/approfondimenti/intervista-ad-agota-kristof/
Ágota Kristóf , tra i maggiori esponenti della letteratura francofona, è la nuova vincitrice del Kossuth, il più importante premio letterario ungherese. Tornata nella sua terra natale per la consegna del premio, l’autrice ha rilasciato questa intervista – pubblicata su Hlo.hu – in cui riflette su immaginazione e scrittura, linguaggio e traduzione.
Cos’ha provato quando ha saputo che avrebbe vinto il premio Kossuth?
Mi ha reso molto felice, perché è un premio ungherese – di solito i premi non mi interessano così tanto, diciamo che ne ho già ricevuti abbastanza. Quando i miei libri cominciarono a essere tradotti in ungherese per me fu un grande onore, ma non mi aspettavo che avrebbero suscitato tanta attenzione. In passato già due volte mi avevano annunciato che avrei vinto il Kossuth, ma non successe né la prima né la seconda volta. Così, quando mio fratello mi ha telefonato per darmi la notizia, immediatamente gli ho chiesto: «di nuovo?».
L’anno scorso a Budapest, durante una conferenza internazionale in cui lei era l’ospite d’onore, il poeta András Petőcz le ha domandato come è nata l’idea di scrivere in un’altra lingua. Lei ha risposto che si era resa conto abbastanza in fretta che, se voleva essere letta, doveva scrivere in francese.
Beh, certo, è questa la ragione per cui ho iniziato a scrivere in francese. In Svizzera non avrei avuto nessuna possibilità se avessi scritto in ungherese. Però ho continuato a scrivere anche nella mia lingua madre per un bel po’ di tempo, almeno cinque anni.
Nel suo romanzo Ieri, il protagonista – operaio in una fabbrica di orologi – dice che scrive nella sua testa, perché è più semplice; scrivere distorce i pensieri e alla fine, per colpa delle parole, tutto sembra venir fuori contraffatto. Quando ha scritto le sue prime frasi in francese, stava di fatto traducendo dall’ungherese? Il setaccio della traduzione rendeva le sue parole più precise? Più esatte?
Penso che questo rappresenti un problema per ogni scrittore. Non è possibile riuscire a esprimere esattamente ciò che intendiamo. Scrivere per me voleva dire anche cancellare tantissimo. Cancellavo in particolare gli aggettivi e le immagini che non appartenevano al mondo reale, concreto, ma che nascevano dalle emozioni. Ad esempio, una volta ho scritto: «i suoi occhi scintillanti». Poi mi sono detta: ma davvero scintillano? E ho cancellato l’aggettivo.
Però in Ieri ci sono molte cose che non appartengono al mondo reale. È un libro in cui sogno e realtà si mescolano in continuazione.
È diverso. Questi sogni sono solo in Ieri. Per descriverli ho usato molte delle mie vecchie poesie in ungherese.
Come è andata esattamente? Si è rimessa a sfogliare le sue vecchie poesie?
Non le ho «sfogliate». Le ho tutte in testa.
Quanto materiale non scritto c’è nella sua testa?
Non scrivo più, sono molto malata. Non è stata una decisione consapevole, è successo e basta. Semplicemente non me la sento, non ho più l’energia necessaria. Però ci sono ancora tanti temi che mi interessano, e su uno di questi ho cominciato a scrivere due anni fa. Ho tutto il libro in testa, praticamente è finito. È molto facile mettere sulla carta quello che ho immaginato. Così ho buttato giù un paio di pagine, ma mi sembrava di ripetere cose che avevo già scritto. Ho ricominciato, poi ho scritto il finale, diverse volte, alla fine ho lasciato perdere.
Ci sono autori che affermano di scrivere e riscrivere sempre la stessa storia, all’infinito.
Sì, in un certo senso è vero anche per me, ad esempio quando ho scritto il mio primo romanzo, Il grande quaderno, non pensavo che sarei andata avanti, che fosse possibile continuare. Ma poi semplicemente non ho potuto fermarmi, non potevo lasciare soli i gemelli, anche se provavo a scrivere un’altra cosa non riuscivo a immaginare nient’altro che i gemelli, di nuovo. Così ho dovuto scrivere il secondo libro, La prova. A quel punto ho pensato che fosse sufficiente, ma alla fine ho scritto anche La terza menzogna, perché non potevo raccontare nulla di diverso.
In L’analfabeta [pubblicato in Italia da Casagrande] racconta di aver imparato una lingua attraverso il corpo: nella fabbrica di orologi una donna le insegnava i nomi delle parti del corpo e degli oggetti attraverso il linguaggio corporeo. Quando si è accorta che il francese era ormai la sua lingua?
C’è voluto molto tempo, dodici anni direi, perché cominciassi a scrivere in francese. Prima ho tentato di capire come suonavano in francese le mie poesie ungheresi. Poi ho iniziato ad assemblare frasi, testi brevissimi, ma è accaduto tutto molto lentamente. Ho iniziato con i testi teatrali, perché è molto più semplice, basta indicare il nome di chi parla. Il mio non era un francese letterario, buttavo giù conversazioni in una lingua quotidiana, popolare. Ho terminato un paio di commedie, e qualcuno mi ha suggerito di mandarle a una radio. Hanno voluto lavorarci immediatamente, e ne hanno trasmesso cinque. Ho portato avanti quel lavoro per molto tempo, ho imparato le tecniche della scrittura radiofonica. Non riesco a ricordare come sono passata a scrivere romanzi. L’idea è arrivata e basta. Volevo raccontare di come io e mio fratello Jenő avevamo vissuto la guerra a Kőszeg. All’inizio i narratori eravamo io e mio fratello, ma le parole io e lui in francese suonano talmente goffe. Così ho unito i pronomi e il narratore è diventato un noi – nous in francese – e non c’era più bisogno di dichiarare chi stesse parlando. Ecco come è nata la voce di questo libro [si riferisce a Il grande quaderno, N.d.T.].
Non si tratta di un romanzo completamente autobiografico, ma contiene molti episodi veri. Ad esempio la deportazione degli ebrei da Kőszeg. Io l’ho vista. C’era un campo a Kőszeg, abbiamo visto gli ebrei che marciavano in fila davanti alle nostre case. La nostra domestica si è avvicinata per porgergli del pane, ma poi l’ha riportato indietro. Questo è il genere di cose che notavo, avevo dieci anni. Ci sono molte cose, in quel romanzo, che non sono capitate a me direttamente, ma a dei miei amici. Quando arrivarono i russi, capitava che ci nascondessimo sulle colline. Una volta la madre di una mia amica aveva un neonato in braccio, è inciampata ed è caduta sopra il neonato, e la mia amica ha assistito alla scena. Nel romanzo ho inserito cose come queste, non mi interessava che fosse completamente autobiografico. Ci sono molte storie che riguardano Kőszeg.
Torna a Kőszeg ogni tanto?
Sì, e la trovo diversa a seconda dei momenti. Qualche volta mi sembra una città nuova, con le case restaurate e imbiancate. Un paio d’anni dopo la trovo in rovina, le case sembrano quelle di cinquant’anni fa. Ma ora non ci vado più, non ne ho la forza.
A casa parlava ungherese con la sua prima figlia, ma non con i due figli che sono arrivati dopo. Come mai?
Anche con lei non ho usato l’ungherese a lungo. Adesso è mio figlio che parla questa lingua, perché ha una fidanzata ungherese, così spesso lo usiamo anche tra noi, ma lui ha trentotto anni e prefersice parlare in inglese anche con la sua fidanzata. Quella di non insegnare l’ungherese ai ragazzi non è stata una vera e propria scelta, è andata così. Per via dell’ambiente in cui viviamo. Anche il mio secondo marito parlava francese, possiamo dire che non volevo confonderli. Ma forse avrei dovuto. Me ne sono un po’ pentita. Adesso mia figlia vuole che parli ungherese al mio ultimo nipotino, che ha due anni. Ho paura che non mi capisca, che questa cosa possa allontanarlo da me. Conosce le parole igen e nem (sì e no) e gli ho regalato un orsacchiotto che resta ad aspettarlo a casa mia, e lui sa che in ungherese di chiama mackó. Ma sento che è perplesso quando gli parlo in questa lingua.
Parlando di lei, Esterházy ha scritto: qualcuno guarda da lontano ciò che noi stiamo guardando da qui…
Sì, mi ricordo questo articolo, Esterházy fu il primo a parlare del mio libro. Ci siamo incontrati una volta. Questa frase può essere in parte vera, ma io non volevo scrivere un romanzo storico, non era il mio obiettivo, io volevo solo raccontare la mia infanzia.
Legge i suoi libri tradotti in ungherese? Cosa prova nel vedere i suoi testi scritti nella sua lingua madre? Ha detto che era difficile mettere insieme le frasi in francese, adesso come suonano in ungherese?
Sì, ricevo sempre le traduzioni, e do sempre un’occhiata, ma mi infastidiscono. Non mi piace leggerle. Ci sono così tante traduzioni dei miei libri che non riesco più a seguirle, a volte non riconosco neppure il mio nome stampato sulla copertina, come nel caso delle traduzioni giapponesi, cinesi o coreane, non so neppure cosa c’è scritto in quei libri. Non ho idea di quanto di ciò che scrivo arrivi ai lettori, ma certo i miei libri hanno successo, anche in Giappone e in Russia. Mi hanno invitato a San Pietroburgo diverse volte, ma non credo che ce la farò. I cinesi hanno tradotto tutto, ma non hanno pagato un centesimo (ride). Hanno detto che c’era un problema con il cambio, o qualcosa del genere, ma non mi interessa. Una cosa che mi interessa, invece, è che le mie vecchie poesie ungheresi saranno presto pubblicate in un’edizione bilingue. Ne sono davvero felice. Ho appena firmato un accordo con un editore di Ginevra, un traduttore ungherese tradurrà le mie poesie in francese.
E il regista János Szász sta lavorando a un adattamento cinematografico da Il grande quaderno. Che ne pensa?
È la cosa più bella che mi sia capitata ultimamente. János Szász mi manda delle parti di sceneggiatura, di tanto in tanto. Lui mi piace molto, i suoi film sono molto forti, e sono sicura che non rovinerà Il grande quaderno come ha fatto quel regista italiano con il film tratto da Ieri [si riferisce a Brucio nel vento di Silvio Soldini]. Quello è stato un totale pasticcio. Hanno cambiato il finale.
Ma perché? Una delle cose più belle di Ieri è che non è una storia a lieto fine.
Beh, nel film invece sì. Ho discusso a lungo con il regista e gli ho detto che non doveva finire in quel modo, ma lui diceva che altrimenti il pubblico avrebbe abbandonato la sala, perché le persone vogliono stare bene, vogliono essere felici. Il film di Szász sarà tutta un’altra cosa.
Ágota Kristóf, Chiodi, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2018, pp.112, Eu 16,00
Prefazione di Fabio Pusterla. Traduzione di Vera Gheno e Fabio Pusterla
Recensione di Gino Rago
Goffredo Fofi commentando Chiodi di Ágota Kristóf sul domenicale del Sole 24 ore segnalava che i “chiodi” della raccolta poetica della Kristóf non possono che essere i chiodi di Cristo sulla Croce: «I “chiodi” che danno il titolo a questa raccolta di poesie evocano irresistibilmente quelli della Croce».
L’evocazione deriva sia dai temi trattati (lo smarrimento, la perdita della lingua madre, il distacco, lo straniamento, la condizione dell’esilio, l’amore nel ricordo dell’amore, l’attesa, il desiderio di una patria linguistica, le sconfitte, le emarginazioni, il sentimento della povertà da vivere in una terra ricca), sia dallo stile asciutto dell’autrice.
Nel 1956, poco più che ventenne, Ágota Kristóf fugge dall’Ungheria con la sua bambina di quattro mesi, fugge dal paese dell’infanzia ed è costretta a separarsi dai quaderni con le sue prime poesie. Una perdita crudele. E’ il dolore per la perdita di quei versi a spingere l’autrice a riscriverli sul filo della memoria, così come è in grado di ricordarli, e forse a reinventarli. Negli anni, Ágota Kristóf scrive altre poesie sia in ungherese sia in francese, la sua nuova lingua. E come ricorda Fabio Pusterla:«Poco prima di morire la Kristóf esprime il desiderio di vedere raccolte tutte queste poesie in un libro. Il desiderio si avvera nel 2017, quando le Éditions Zoé le pubblicano in un’edizione bilingue ungherese-francese[…]».
E ora si avvera il desiderio della Kristóf anche in Italia, per le Edizioni Casagrande di Bellinzona.
«Qui le persone sono così felici
che nemmeno amano
sono realizzate non hanno bisogno
l’uno dell’altro nemmeno di dio
la mattina si siedono davanti alle loro case inondate di luce
e fino a sera aspettano la morte».
Quasi in un rimprovero severo verso l’indifferenza delle società opulenti che gioiscono per le diseguaglianze sociali, ma anche un rimprovero verso il lettore, la Kristóf in questi versi parla dei privilegiati che ce l’hanno fatta mentre per i più che poi sono i tantissimi «la vita non è un regalo» ma una condanna senza nessun conforto.
La questione linguistica è centrale per la Kristóf anche in poesia e ha una ben precisa origine suggellata in queste parole:
«Non ho ancora trovato la parola per qualificare ciò che è capitato. Potrei dire dramma, tragedia, catastrofe, ma nella mia mente chiamo tutto questo semplicemente “la cosa” per la quale non c’è parola».
E’ un caso emblematico e fortissimo di poesia del translinguismo l’esperienza poetica di Chiodi della Kristóf, questione che in una ermeneutica a lei rivolta su una pagina de L’Ombra delle Parole Giorgio Linguaglossa ricondusse a «zona spaesante» della poesia.
Scriveva Linguaglossa:«[…]Per Ágota Kristóf quella «zona spaesante» del mondo è stata l’Ungheria del comunismo sovietico, quel regime dispotico e capillare di controllo e di educazione delle coscienze, l’ideologia della felicità dispotica promulgata per decreto poliziesco, l’abbandono da parte della poetessa del suo paese e della sua lingua, il dover imparare un’altra lingua, il francese, come propria lingua madre, l’esperienza del trovarsi senza lingua, o meglio, spodestata «tra» due lingue, in quella «zona» oscura inospitale, spaesante… La poesia della Kristóf nasce da qui, da questa «zona» inospitale e spaesante, priva di lingua, dalla ricerca spasmodica di una lingua di significati stabili[…]».
Emblematici sotto questo aspetto di zona spaesante nel vasto tema del Grande Gelo linguistico e delle parole congelate appaiono questi versi di
Ágota Kristóf
Tre anni fa mi sono persa in una città dove
Non avevo nessuno quindi non importava dove fossi
Pubblicità saltellavano si dondolavano come scimmie
Tram correvano a casaccio sulle rotaie
Avrei potuto essere perfettamente libera e felice allora
Se avessi trovato almeno un po’ di soldi
Stavo sulla riva ferita da luci di un lago blu scuro
Un’ombra mi passò accanto mi diede un’occhiata…
(gino rago)
Dalla e-mail ricevuta da Edith Dzieduszycka estrapolo questo brano, a proposito di autori/autrici del translinguismo per me di particolare interesse, ringrazio Edith per il suo pensiero e per l’apprezzamento del mio lavoro:
“Caro Gino,
la mia conoscenza di Ágota Kristóf era piuttosto superficiale, così ho letto il tuo splendido lavoro, le varie aggiunte di Giorgio e tutto il post dell’Ombra con molto interesse, tanto più perché riguardano un aspetto che coinvolge anche me, il translinguismo.
Lei, Ágota Kristóf, è passata al “francese” mentre io l’abbandonavo, sempre con il dizionario accanto! Tu lavori moltissimo, scrivi dei pezzi molto belli […].”
(gino rago)
Come è distante l’abbandono
dalla casa che presumemmo perduta.
Quella educazione ai muri
non trova pace nelle lingue diverse.
Non c’è poesia che tenga una Patria.
Grazie Gino Rago, grazie Ombra.
FRAMMENTI
Il primo volto, non colpito dai Vopos,
fu un numero.
Riuscì ad attraversare un foro di proiettile
riaffiorando in una data.
Il viaggio non era stato corto né lungo.
Il pendolo del gemellaggio da regolare.
Al vuoto di passeggeri rispose una folla inferocita.
Seguì una numerazione che andò avanti a logaritmi.
Giuramento sull’Alexander Platz.
Sembrò del tutto evidente
fermarsi per un rifornimento di benzina.
Risolvere l’alternarsi delle stagioni con un terno secco.
L’attacco al dado perfettamente riuscito.
Ora bisognava scatenare il destino.
Mettere Europa alle calcagna del toro.
(…)
Fuga di Napoleone da Sant’Elena
Terminal polacco al mercato di Japigia.
Il vecchio Io e Anchise sulle spalle
Ulisse stringe patti con i Proci.
Parleremo di fichi e rose al congresso di Vienna
Come giocare con le azioni del poeta Achille.
L’angelo comunista nell’altoforno di Taranto
La lotta di classe sigillata in un otre.
Ex voto di cemento e una dose di radon
A colazione. Uguale per tutti la cena a piombo.
(…)
La maschera con l’invidia cucita
gli occhi retrocessi a clown
bisogna spingere l’indagine agli attori
l’entrata in scena di un tuono
e dentro la nuvola di biacca
un lampo partorisce la battuta
ripassare lo spartito
fare i conti col ridicolo
ci passa il muscolo scheletrico
uno stimolo ribalta Via re david
passaggio per pini abbattuti
e nulla che avvolga le robinie
(…)
Un io irraccontabile
Trasportato dalle previsioni del tempo
(…)
L’autogril è stato accogliente. Respirava
un alligatore con le squame gratta e vinci
La corsa di gnu
Teneva il passo all’angoscia
Anche la scocca riconobbe
Che bisognava trovare un guado
A marcia indietro è più facile scoprire
Il narciso nella latrina
Qualcosa per narici, un camion, un quadro d’autore
Che racconta come si adatta il verso al recettore del giorno.
In frenata forse cedendo all’attrito.
Decostruendo gli attimi a ponti Morandi.
(…)
Il rumore della vita attorciglia
moplen all’equatore
(…)
Padri che nascono dai figli.
Tra rami che indietreggiano
la sorte del seme.
Alla risalita del kalasnikov
C’è musica per grilletti.
Arriviamo al dunque
Un rantolo inghiotte la gola.
Partigiani e madri
Da un eclissi di sole.
(Francesco Paolo Intini)
Forti! Bei versi
Pare di assistere ad un combattimento di spade.
Davvero forti.
Saluti da Bari.
Grazie Intini, Alé OMBRA.
Grazie a te, Mauro, per l’apprezzamento. La città è sempre mia complice. Respira ancora anche se non sembra. Sa di foresta.
TOPOCERVO
Il ritorno dello scopo non fu tranquillo.
Animale estinto catturato dalle telecamere.
Dovettero assegnargli un posto
Frutto di decisione inoppugnabile:
sapore di marmitta e diesel non ne vogliamo
ma se insiste metteremo in vendita i suoi zoccoli.
In realtà ce n’erano stati molti in passato
adesso, a tecnica acquisita, dovremo rivedere i prezzi.
Ripassare la lingua sulla luna non è semplice.
Crateri refrattari e sordi.
Immondizia di Orione, traffici illeciti
Darmstadio e puzza di Plutonio.
La ferita non fa parte di quello che si è dato
E dopotutto, accelerare, rimettere in giro vecchie scartoffie.
Nap è morto. La partita ferma allo scacco.
Ritornare in vita un gioco da ragazzi.
Ci sono tronchi secchi che conoscono quest’arte.
Dopo aver discusso di come uomini sollevano altri uomini
anche le gru riflettono sul poco spazio racchiuso dalla volta.
Bagnarsi la faccia d’azzurro, truccarsi di rosso al tramonto.
Assunzione tra gli ignoti abitatori di foresta.
Resta nudo il piccolo Vietcong.
La corsa non fu breve, nè facile, forse solo malferma.
un caro saluto
(Francesco Paolo Intini)
Ma senza i poeti “impazienti” (dell’impazienza) non si potrebbe spiegare molto della Ágota Kristóf, a cui deve moltissimo. Nel 1965 furono pubblicati (vedi la rivista “l’Europa Letteraria”, 1965/2) i versi di alcuni dei più importanti poeti ungheresi, ai quali possiamo davvero l’appellativo anche di “poeti e/straniati”.
E essere e/straniati in patria ha molto più valore che l’esserlo in Europa: ne seppe qualcosa Josif Brodskij, la cui poesia cedette gran parte del suo fascino alla contaminazione dell’ovest europeo in tutti i sensi “linguistici”e non, preferendo il non-senso filologico della poesia occidentale.
Dunque la Kristof, a dieci anni dalla sua fuga dovette fare i conti con questa contaminazione che di certo le assicurava un avvenire economico (era poso più di una ragazza con una figlia da crescere- “tengo famiglia), ma lo sradicamento dalla sua lingua – preferendo il francese – a mio parere fu deleterio per il suo stile originario. Certo che ebbe successo – ci vuole poco – basta vendersi ad altre culture, ed è ciò che non fece la Marina Cvetaeva (con due figli e nemici ovunque che ne volevano la morte), poetessa d’altra tempra… di personalità poetica direi senza pari.
Bell’ intervento Sagredo. A gamba tesa e senza fallo. L’abbandono della Patria un tema importantissimo…Restare o abbandonare?…
Abbraccio.
Crisi economica e culturale senza precedenti. Ristrutturazioni e movimenti di capitale, che lasciano rami secchi, e morti. Tutele scarse per i lavoratori e i giovani (quando ci sono?!) Cassa integrazione di lungo periodo, bonus vari, sussidi non risolvono il senso di inutilità, di disfacimento che regna nelle periferie delle grandi città – semmai lo aggravano. Restare o abbandonare? Chi resta deve prepararsi a una “agricoltura” eroica, in qualsiasi forma di espressione (anche artistico-letteraria) e alla solitudine. Esiliati dentro e fuori dalla patria (con la minuscola), perché incapace di esserlo per tutti. A meno che, i tempi non facciano ritrovare un bandolo comune della matassa, da svolgere insieme, pure con una certa rabbia. Si torni a parlare di pace, di lavoro, e non per finta.
… è così Mauro Pierno.
Il caso Pasternak insegna: più “caro” del premio Nobel fu il non lasciare la terra natale, e il risultato fu che si dette alle traduzioni e la voce poetica fu taciuta; La poetessa Anna Achmatova, costretta al silenzio dopo tanti volgari insulti fu costretta ad abiurare.
Tutti poeti russi (che contavano) non la abbandonarono ai barbari, preferendo la morte, che per alcuni di essi giunse con suicidi pilotati
(Esenin, Majakovskij, ecc.) o con gli stenti nei lager (Mandel’stam, ecc.), o costretti al suicidio (Marina Cvetaeva, ecc.)… costoro più volte nei loro versi, fino alle lacrime, scrissero che non avrebbero mai lasciato la terra e la loro lingua, ed ebbero tante possibilità di andare all’estero. come quelli che effettivamente lo fecero e furono detti i poeti russi dell’emigrazione – alcuni di loro dotati di vero talento – e tanti altri che rientrarono, subendo ecc.
a. s.
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i poeti dell’ “impazienza” ungheresi e altri restarono, ma qui si impongono altre questioni…
ma dobbiano e possiamo perdonare la Ágota Kristóf… ma del suo atteggiamento dopo la caduta del comunismo nel suo paese non so nulla,
ma posso immaginare tanti risvolti.