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G. Agamben: Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco

Intervista a Giorgio Agamben a cura di Franco Marcoaldi

(la Repubblica, 8 febbraio 2011)

In cosa crediamo? Quali sono le credenze civili, religiose, politiche, scientifiche, su cui si regge la società? La risposta si fa particolarmente difficile in un mondo come il nostro, che vede le credenze tradizionali – oggetto di una costante erosione – trasformarsi in surrogati, con il conseguente dilagare delle più diverse forme di superstizione. Oppure, per converso, il trionfo di uno scetticismo e di un’indifferenza che rasentano il nichilismo.

Proveremo a trattare la questione “credere, credenza”, affrontandola da diversi punti di vista. E partiremo chiedendo l’aiuto di un filosofo italiano di fama internazionale: Giorgio Agamben. «Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.
– Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di “veridizione”. Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».

Il senso profondo del credere andrebbe dunque ricercato proprio qui?

«Certamente. Anche se, nel corso del tempo, il trionfo del primo modello, quello assertivo, ha di fatto cancellato il secondo. Mi fanno sorridere i confronti, oggi molto in voga, tra credenti e non credenti: veri e propri dialoghi tra sordi, visto che preti e scienziati condividono da versanti opposti lo stesso modello di verità. Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono tra loro. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere, sperare e amare e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza».

Quando sarebbe stato cancellato il secondo tipo di esperienza con la parola?

«Nella tradizione dell’Occidente, è stato Aristotele ad affermare che la filosofia deve occuparsi soltanto delle proposizioni che possono risultare vere o false. Eppure esisteva ed esiste un’altra esperienza della parola: quella della promessa, della preghiera, del comando, dell’invocazione, che è stata esclusa dalla riflessione filosofica. Naturalmente, ciò non significa che essa non abbia continuato ad agire: il diritto e la religione si fondano su di essa».

Un esempio?

«Il più importante di tutti: San Paolo, che definendo la parola della fede, non fa riferimento a criteri di verità, ma parla di vicinanza tra cuore e labbra. È significativo che, tranne una volta, egli usi sempre l’espressione, da lui inventata, “credere in Gesù Cristo” e non, come sarebbe stato normale in greco, credere che Gesù è il figlio unigenito di Dio, eccetera. -La differenza è sostanziale. La Chiesa, attraverso i suoi concili, ha cercato di fissare la fede in dogma, in un’esperienza di tipo assertivo. E così si è smarrito un tratto fondamentale della natura umana, che esige una fede estranea a una logica puramente fattuale. La vera fede non aderisce a un principio prestabilito ed è singolare che proprio la Chiesa, che doveva preservare questa idea, se ne sia dimenticata. Da qui la formula “Credo perché è assurdo”».

Quali sono i riflessi negativi di tale logica assertiva sulla nostra vita sociale?

«Infiniti. Pensi all’etica: si afferma che per agire bene bisogna disporre di un sistema di credenze prefissato. Dunque, agirebbe bene soltanto colui che ha una serie di principi a cui deve conformarsi. È il modello kantiano, ancora imperante, che definisce l’etica come dovere di obbedire a una legge. Quando lavoravo sull’idea di “testimonianza”, mi colpì la storia di una ragazza che, sottoposta a tortura dalla Gestapo, aveva rifiutato di rivelare i nomi dei suoi compagni. A chi più tardi le chiese in nome di quali principi era riuscita a farlo, rispose soltanto “l’ho fatto perché così mi piaceva”. L’etica non significa obbedire a un dovere, significa mettersi in gioco: in ciò che si pensa, si dice e si crede».

Anche perché, travolta la credenza nell’infallibilità di quella certa legge, rimane un campo di rovine.

«Prima o poi accade a tutte le credenze di tipo oggettivo. E difatti: le credenze politiche si sono letteralmente sbriciolate, quelle teologico-religiose si fossilizzano in dogmi contrapposti. Per quanto riguarda quelle scientifiche, esse risultano completamente irrelate rispetto alla vita etica dei singoli individui».

Strilli L'erba di StonehengeIn Credere e non credere Nicola Chiaromonte formula una domanda secca: si può credere da soli?

«È una domanda pertinente. Che io riformulerei in questo modo: com’è possibile condividere una verità o una fede che non siano di tipo assertivo? Io penso che questo accada nei territori dell’esistenza in cui ci si mette in gioco personalmente. Se la veridizione è lasciata ai margini e il solo modello della verità e della fede diventano la scienza e il dogma, la vita diventa invivibile. Di qui l’indifferenza e lo scetticismo generalizzato, oltre che la tetraggine sociale dilagante. Soltanto procedendo a ritroso, ricercando quella diversa esperienza di parola, si può tornare al rapporto originario con la verità, irriducibile a qualunque sua istituzionalizzazione.
– Le faccio un esempio: la scienza guarda al passaggio dal primate all’uomo parlante unicamente in termini cognitivi, come se fosse soltanto una questione di intelligenza e di volume cerebrale. Ma non c’è solo questo aspetto. La trasformazione deve essere stata altrettanto gigantesca dal punto di vista etico, politico, sensibile. L’uomo non è solo homo sapiens. È un animale che, a differenza degli altri viventi, i quali non sembrano dare importanza al loro linguaggio, ha deciso di correre fino in fondo l’azzardo della parola. E da qui è nata la conoscenza, ma anche la promessa, la fede, l’amore, che esorbitano la dimensione puramente cognitiva».

È una strada ancora aperta?

«L’uomo non ha ancora finito di diventare umano, l’antropogenesi è sempre in corso. Menandro ha scritto: “com’è grazioso – cioè capace di gratuità – l’uomo quando è veramente umano”. È questa gratuità che dobbiamo riscoprire. Tanto più che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più. Sono, come diceva Chiaromonte, mantenuti a forza, in malafede».

Proviamo dunque a perimetrare il novero di queste credenze più genuine, anche se sotterranee, sommerse.

«Prendiamo la politica: perché non interroga finalmente la vita delle persone? Non la vita biologica, la nuda vita, che oggi è continuamente in questione nei dibattiti spesso vani sulla bioetica, ma le diverse forme di vita, il modo in cui ciascuno si lega a un uso, a un gesto, a una pratica. Ancora: perché l’arte, la poesia, la letteratura, sono museificate e relegate in un mondo a parte, come se fossero politicamente e esistenzialmente irrilevanti?».

Anche lo scrittore russo Alexandr Herzen lamentava a suo modo la cancellazione dell’esperienza vitale soggettiva. Affermando che crediamo in tutto, tranne che in noi stessi.

«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco (corsivo mio), nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla “cura di sé”, sulla “pratica di sé”. Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».

Andrea Sangiacomo

«All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza,
abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole.

È infatti nel cerchio del dire che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano. Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.»1

Strilli Linguaglossa sulla NOE

Giorgio Linguaglossa

È un invito a leggere l’Antologia How The Trojan War Enden I Don’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019, a cura di Giorgio Linguaglossa con Prefazione di John Taylor, traduzioni di Steven Grieco Rathgeb) come un abitare il nostro mondo, o quella piccola parte di mondo che noi siamo e che siamo soltanto per mezzo delle parole. Sono le parole che ci dischiudono un mondo, senza di esse non sapremmo neanche nulla di questo mondo. Ecco, il poeta è colui che abita le parole e che si inoltra nella contrada, che esplora gli Holzwege e gli Irrwege.

Abitare non equivale a venire alla presenza ma ek-sistere nella temporalità e nello spazio, e questo è possibile soltanto mediante la forma.
Alla fine della metafisica si scopre che la fine è nient’altro che un nuovo inizio. Solo che esso è irriconoscibile. Il lessico, la struttura grammaticale della nuova metafisica, della metafisica che viene dopo la metafisica, è, di fatto, irriconoscibile.

 Andrea Brocchieri

Alla fine della metafisica, attraverso una risonanza (Anklang)  retroflette l’essere indietro nel tempo, la fine s’incontra con il suo momento iniziale.
In questo incontro l’essere non appare più solo come l’uniforme presenza dell’ente, ma – all’inverso di quel che risaltava nel primo principio – ora emerge e prende rilievo l’essere come assenza (Ab-wesenheit), come sottrazione (Entzug). Questo è ora l’elemento dominante, ciò che è da pensare. La storia della metafisica si spinge oltre se stessa (Sprung), si retroflette e ricade indietro, spezzando l’ordine del suo tempo cronologico; questa frattura (Zerklüftung, Kluft) nell’essere fa insieme emergere (1) l’essere come assenza e (2) la possibilità dell’altro principio, vale a dire del principio di un altro mondo storico. Il gioco passa all’altro principio (Zuspiel).

Si tratta anche qui di “saltare” attraverso questa frattura storica che ci consentirebbe di raggiungere la nostra propria origine, di er-eignen (raggiungere) il luogo (Ort) da cui siamo venuti e da cui – in ogni caso – ripartiremo. Er-eignis, in senso “seinsgeschichtlich”, indica questo evento del ricongiungimento con il luogo originario, l’autentica Heimat dell’Occidente, cioè l’esserCi pensante del primo pensiero greco. Qui Heidegger ripresenta la dinamica della possibilizzazione di Sein und Zeit esplicitandone il senso storico, ovvero la ribalta sul piano non prioritariamente esistenziale ma prioritariamente della storia dell’essere. Da questo punto di vista l’Ereignis è il gioco che possibilizza il mondo storico.

Andrea Sangiacomo in Scorci_1. Pagina 10
Andrea Brocchieri 

https://www.academia.edu/5304733/Heidegger_la_possibilit%C3%A0_nel_pensiero_dellEreignis?email_work_card=view-paper

Marie Laure Colasson Abstract_13

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Una poesia di Marie Laure Colasson
(trad. di Edith Dzieduszycka)

Ilya Prigogine ha allargato il campo di applicazione del concetto di struttura dissipativa ben oltre il campo della termodinamica, alle strutture biologiche e sociali.

Anche noi, penso, dobbiamo arricchire il nostro bagaglio concettuale con concetti presi dalla ricerca scientifica. Perché no? Perché dovremmo rinunciare alla esplorazione intellettuale? Io, ad esempio ho composto in questi ultimi anni una serie di quadri astratti dove non compaiono forme figurative ma forme eidetiche, striature, strisce, spigoli illuminati, risvolti di forme oscurate, e anche semicerchi o forme pseudo rotonde che si rivelano da un fondale oscurato o in via di oscuramento totale.
Mi sono chiesta spesso cosa significassero queste formazioni a-figurative.

A un certo punto della mia ricerca ho capito che ero (e sono) impegnata nella stipulazione di senso, di un senso, o di sensi, ma non di significati, che il senso o i sensi sono indipendenti dai significati… A un certo punto della mia riflessione ho capito che quelle forme che si muovono in uno spazio di albume, in uno spazio liquoroso altro non erano che strutture dissipative, strutture che tendevano alla stabilità, che nascevano da una instabilità, diciamo così, termodinamica e che apportavano alla instabilità generale un quantum di fugace stabilità, subito insidiata dalla instabilità delle masse bio-energetiche. Ed è ovvio che in questo movimento di masse biodegradabili o dissipative ciò che risulta assente sia il soggetto, il soggetto come riferimento del senso o dei sensi. Allora, ho compreso che quelle figurazioni astratte si erano liberate del soggetto, erano state rese indipendenti dal soggetto.

Bisogna “perdersi come soggetto” per giungere ad una forma superiore di soggettività… E così ho capito che i miei lavori erano delle strutture dissipative.

Roulement de tambour
La pluie
Une fleur rouge
Ses pas verts
Un envol cinématographique

Entre deux hommes
Un mort un vivant
Si différents
Comparaison confusion
Charlotte enfourche son Harley Davidson
S‘échappe

Les oiseaux
Flèches du ciel
Revêtent leurs combinaisons spatiales
Pour affronter les astres

“fleurs de nénuphars”
Dans la poitrine
Zaza enfile des vérités
Comme des perles
Avec humour

Sœur Candida de la perversion
Droguée de Sporanox
Pourtant la nuit …………

L‘astrophysicien
Observation au télescope
Couleurs et ombres
Changeant selon les heures
Se gratte le crane

Barbara et Rimbaud
Un voyage à travers les océans
“ allèrent (….) à la plage
Et firent beaucoup d ‘ enfants “

Langueur et envolées des violons
Cristallisations les yeux clos
Méditation de Massenet

Miss Vitamines
A B C D E
Quatre-vingt milliards de probiotiques
Transformation subite
En poupée gonflable

Milaure Colasson abstract

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa

Rullio di tamburo
La pioggia
Un fiore rosso
I suoi passi verdi
Un volo cinematografico

Tra due uomini
Uno morto uno vivo
Così diversi
Confronto confusione
Charlotte cavalca la sua Harley Davidson
Scappa

Gli uccelli
Frecce del cielo
Indossano le loro tute spaziali
Per affrontare gli astri

“fiori di ninfea”
Nel petto
Zaza con umorismo
Infila verità
Come fossero perle

Sorella Candida della perversione
Imbottita di Sporanox
Però di notte………

L’astrofisico
Osservazione al telescopio
Colori e ombre
Mutanti a secondo delle ore
Si gratta il cranio

Barbara e Rimbaud
Un viaggio attraversando gli oceani
“si recarono (…) in spiaggia
E fecero molti figli”

Languore e voli di violini
Cristallizzazioni ad occhi chiusi
Meditazione di Massenet

Miss Vitamine
A B C D E
Ottanta miliardi di probiotici
Immediata trasformazione
in bambola gonfiabile

Giorgio Linguaglossa

Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole.

La poesia sopra postata offre al lettore una pinacoteca di Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole. Sbaglierebbe chi giudicasse questa poesia come un «gioco» alla maniera novecentesca di Apollinaire o di Jean Genet, qui non c’è nessun «gioco», e, se c’è, è un gioco serissimo e leggerissimo che ha a che fare con le Figure che si presentano sull’orizzonte dell’apparire per poi, subito dopo, scomparire, e magari ricomparire in altre guise, sotto altre vestizioni. L’orizzonte degli eventi è abitato da Figure. Anzi, le Figure sono propriamente l’orizzonte degli eventi e gli enti abitano quest’orizzonte: Miss Vitamine, Charlotte, Zaza, Sœur Candida de la perversion sono propriamente delle Figure in transito, appena nominate, sfuggono via, hanno un barlume fuggevole di esistenza, e poi più nulla, appena nominate sono già nel passato. Lo sfondo di questa poesia è il nulla, il senza-fondo. Ed è sullo sfondo di questo senza-fondo che possono transitare le fuggevoli Figure che popolano questa poesia. In tal senso, le Figure sono eterne, perché eternamente si rinnovano ed eternamente transitano nel nulla.

Strilli Lucio Mayoor Hurg

Lucio Mayoor Tosi, Urgh

Letizia Leone

Dal libro inedito: I tre quarti dell’animale docile

Irrompo sul palcoscenico.
 Quattrocento versi di Shakespeare sul velluto rosso
 e sangue che sgorga. Una metafora.

Cupido muto, ali chiuse e frecce oblique.
 La gallina fatta a pezzi in cucina.

Il bello è diventato inutile.

*

«Allora rinunciamo alle lingue e ai saperi che sono spariti?»
disse, anzi scrisse, ché non parlava più.

Chi ha voglia di sfogliare incunaboli
 Libri di conoscenza lana sudicia sugli scaffali?

E le tenebre superiori? le avete viste?
 C’è una folla sanguinolenta di maiali. Tagli e zecche.

Certe domande bisogna farle al buio.

++++

Si apre la terra e c’è la storia. Un filosofo parla dietro
 la porta. «A quest’ora quale mattanza? »
Conoscere in fondo è questa piaga infetta, questo bruciore.
 L’ urlo metafisico nella bocca gigantesca del grugnito.

Dal mutismo degli animali, da coloro che non si vedono
 Ci arriva il fallimento del metodo.

Giuseppe Gallo

Forse nella mia richiesta di delucidazioni sono stato troppo reticente. Ciò che mi premeva delle affermazioni di Agamben riguardava l’emersione de “la forma-di-vita”, scomparso il soggetto. Quali sono le forme di vita, oggi, che abitiamo noi, che siamo senza casa? Infatti Giorgio Linguaglossa ha creduto opportuno riproporre l’intervista ad Agamben il cui attacco è proprio nella direzione che avevo cercato di puntualizzare. “In che cosa crediamo?” La questione “credere-credenza”. Confesso che io mi trovo a sperimentare questa incertezza paralizzante. “Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono a vicenda. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza”. E questa paralisi costringe anche me a dichiarare “che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più”. Ovvero: la forma di vita che mi trovo a vivere è un inganno. È questo inganno, allora, che devo denunciare? Oppure andare oltre? Tagliare i ponti e azzerare qualsiasi rapporto con la quotidiana esistenza di materia e di pensiero, di fattualità e di “datità”? Devo, veramente rifugiarmi in qualche “paradiso” intellettuale o continuare a raspare il bitume che calpesto? È chiaro che nessuno mi può dare la risposta fatidica… Anche perché chi pensa di possederla e di poterla elargire, dice lo stesso Agamben, è in una situazione di “malafede”. Allora? Allora richiamo quanto ho scritto In Zona gaming 16, già postata…

Quanti sogni fanno un uomo?
Bla bla bla… occasione lampo, occasione flash.

La luce in fondo al tunnel
è un aspirapolvere di anime.

Ci sono gli uccelli della notte e quelli del giorno.
E attraversano il tempo a colpi d’ala.

Dov’è la metafora? Ancora bla bla bla…
oppure bel blu bli blo bil bol bul o bal o ble
……………………………………………………………
…fesbucchiamo. Fesbucchiamo… ancora

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17 risposte a “Intervista a Giorgio Agamben, Il trionfo del modello assertivo, La veredizione, Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, Riflessioni di Andrea Brocchieri,  Andrea Sangiacomo, Giuseppe Gallo, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Letizia Leone, Giuseppe Gallo, Marie Laure Colasson,

  1. Carlo Livia

    Dopo aver esperito l’impredicabilità dell’Essere con le forme del linguaggio tradizionale, Heidegger si rivolge al linguaggio poetico, “intreccio di pensiero e canto”, come l’unico strumento che possa condurre nella luce della “radura”, sulle tracce degli “Dei scomparsi”, verso le parole di salvezza del Dio futuro.
    Ci sarà un pensiero, che si staglierà sul cielo dell’uomo, come una stella fissa: l’identità di Essere e Nulla. Sarà la salvezza dagli opposti integralismi, religiosi e atei, che hanno insanguinato la storia, la liberazione dalla lunga mistificazione della metafisica, che, dimenticando l’Essere come origine, sorgente, ne ha fatto un ente, da asservire concettualmente ingabbiandolo nei dogmi della teologia, e materialmente con la manipolazione e la distruzione operata dai mezzi e dalle condotte della tecnologia, fino all’attuale, imminente catastrofe materiale e spirituale.
    L’apparente patologia, nevrosi, le prospettive deliranti operate dalla decomposizione delle strutture logiche e formali che sono apparse nell’arte post moderna, per es. in Picasso o in Celan, sono la diagnosi, l’esplicitazione di una lunga illusione e mistificazione del pensiero convenzionale, mimetico, verso una prospettiva di conversione del linguaggio e pensiero finalmente autentico, libero da abusi, falsità e dogmatismi.

    CRYSTAL ROADS

    Il nettare delle fanciulle sbalordisce gli uragani, sopra le risate e i suicidi.

    Quaggiù non c’è più niente da abbracciare, a parte una voragine di pensieri fossili. Schubert mi aveva avvertito, l’ombra dei violini uccide più dell’amore. E’ come davanti alla porta della Legge. Un fascino che non perdona.

    Caduta l’ultima luna, si leva il pianto dei vagoni blindati, nel buio della femmina-specchio, irreversibile. L’Eterno è un urlo immobile, viola come la Dea che uccide.

    Il groviglio delle malattie immortali nel sottoscala dell’anima. Labirinto per il bacio del giglio alla neve. Prima del silenzio da cui scese l’anima.

    L’addio-amplesso che grida, murato vivo nel nero della madre. Camuffato in mille viali di alabastro appena risorto.

    Il ronzìo dell’amore verrà ucciso a lungo, in tutti i ministeri. Con l’odore dei bambini che ristagna nelle finestre. E lo spettro della foresta danzerà felice, fra le siringhe piene di mistero.

    Lei scompare nel sogno che precipita. Sorriso annegato nel folto delle avemarie. Dall’altra eternità mi consegnano la chiave. I suoi gioielli ormai impazziti.

    Corpi senz’anima attraversano l’ingresso dell’hotel. Trasportano grandi parole vuote e luccicanti. Dalla macchina morta estraggono il segreto delle belle passanti. Il profumo dei fiori che hanno perso la fede.

    Dall’Esilio centrale scendono gli ultimi Dei. Corpi grigio argento. Sessi verde bosco, da cui balugina il codice dimenticato. Il silenzio ovale, in cui pregano le statue.

    La vertigine rosa che spinge nel mattatoio.

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  2. Non credo sia possibile liberarsi così facilmente dal dogmatismo. E’ un vizio antico, che si riaffaccia sotto mentite spoglie. Anche la decomposizione delle strutture logico-formali, operata dagli artisti in ogni campo, è ormai diventata convenzione, commercio, vita stessa nella coazione alla infinita e multiforme rappresentazione. Però, una cosa è il dogmatismo (nelle varie discipline, nella religione) un’altra secondo il mio parere, la assertività. Per il poeta (e non solo), per chi vede il proprio posto di lavoro minacciato (sono tanti gli esempi che si possono fare) l’assertività è necessaria. A che serve raccogliersi nel proprio spazio intimo-personale di gestazione e coltivazione, se poi non si intercetta (anche con forza, quando occorre) un tu, che in prospettiva di futuro, possa diventare un noi? Ci sarà ancora qualcosa che accomuna il genere umano e che si possa desiderare per il futuro, in queste esistenze terrene contemporanee, o che ha caratterizzato quelle lontane nello spazio e nel tempo? Per me cercare il nuovo inizio, significa anche questo.

    Immagini Immagini. Perchè tanto accanimento sulle galline?
    Coltelli…sventramenti sui tavoli. Noi diamo il potere che vogliamo alle immagini (o lo subiamo?)

    Sì, ormai sappiamo che ci sono tante rose (questo ci ha accresciuti, ma fuorviati anche) Una rosa è pur sempre una rosa. E qui il canto.

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    • letizialeone

      “Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco” scrive Agamben e questa è una delle problematiche tradotte in poesia anche nei testi riportati sopra (dal libro inedito “I tre quarti dell’animale docile”) che tendono ad una densità filosofica coniugata a semplicità espressiva. Versi quasi apodittici di un osservatore fenomenologico. Nel novecento abbiamo avuto i vivisettori, l’archeologia fredda degli oggetti, i tavoli anatomici, con tutto un vasto immaginario ormai acquisito e catalogato. Ma per chi si pone dei problemi linguistici e formali è necessario essere storicamente orientato, stare sul “pezzo” diciamo così, operare una “mensuratio ad rem.” Naturalmente un tipo di comprendere molto diverso da quello scientifico, basato sulla verificabilità sperimentale e il raggiungimento di un obiettivo prefissato. Qui siamo nel campo delle humanae litterae dove ogni comprensione di questo tipo è sempre in definitiva una autocomprensione. A questo riguardo, ad esempio, il pensiero nichilista e post-metafisico non va inteso come pre-giudiziale fideistica o bandiera ideologica ma quale stimmung e stigma della contemporaneità. Si tratta di un baluardo, un fatto imprescindibile come modo del comprendere storico che l’”esserci” ha di fronte a sé e non può eludere a rischio di una visione parziale e fortemente viziata. Come dimostra Steven Grieco nella ri-categorizzazione dell’immaginario o del sublime, per esempio…

      Gentile Paola Renzetti, so che ormai viviamo in tempi di percezione distratta ma di certo qui non si tratta di immagini, immagini casuali, subite o manierismi della crudeltà, in questi versi si affrontano poeticamente anche in modo subliminale questioni del contemporaneo: che cosa è rimasto del bello, una recitazione? Quattrocento versi di Shakespeare sul velluto rosso? Il sublime e l’anti-sublime, il ruolo della filosofia, se l’arte deve essere un campo d’azione problematico, e altro…
      L’accanimento sulle galline: si concordo con lei, (dati Fao del 2016: macellati 70 miliardi di polli in un anno, 1,5 miliardi di maiali…è sconcertante pensare che a fronte di una popolazione di 7 miliardi di individui, di cui 815 milioni muoiono di fame, ogni anno quasi 3000 miliardi di animali vengono macellati a scopo alimentare). La gallina in cucina è il mio spettro di disturbo che si aggira da un testo all’altro. Ma c’è anche la rosa. E la Rosa Filosofica. Naturalmente non vuole essere una spiegazione della mia poesia ma solo un chiarimento delle intenzioni a lungo meditate che vi sono sottese lasciando piena libertà di lettura e di apprezzamento…Grazie e un saluto

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  3. Grazie a lei, gentile Letizia, per i suoi chiarimenti. Vero tutto, sulle letture distratte. Bellissimo quando i poeti spiegano, danno conto. Meraviglioso! Ho scoperto oggi che l’immagine – Coltelli nelle galline – si riferisce di questi tempi anche a uno spettacolo teatrale in programmazione al teatro Parenti di Milano. Spettacolo ispirato al racconto di uno scrittore scozzese molto premiato. “Gallina in cucina come spettro di disturbo”. Urge leggere Shakespeare. Pare (forse leggenda) che anche lui abbia fatto il macellaio, nel primo periodo londinese. In un certo senso, lo è stato. Aggirandosi in quella “cucina” del teatro e dei testi, ha dato, e continua a dare, vita nuova.

    Ho preparato oggi una poesia – ispirata a me dalla sua rosa quella chiamata “filosofica”, di cui ( se se lei se vorrà, potrà dirci di più)

    Cos’è una rosa

    Rosa mistica, rosa sfogliata.
    Cielo che si dilata.

    Rosa di auree forme,
    a macchie. Rosa asprigna
    che rende più acuto lo sguardo.

    Rosa di carta strappata,
    gettata. Nel palmo, grumo di perla.
    Lettere mozze, spazio disperso sui muri.
    Silenzio della ciprea. Aculeo segno.
    Oltre a quel guanto di cute…

    Nessuno, nessuno!

    Rosa d’acqua, anello che ti diffondi
    in musica espandi. Ti fai cibo e pietra,
    deserto. Fragranza di pensiero
    su ali di trine, innalzi a vertigine.

    Sogno di volo – mantello
    per cavalieri erranti: viale d’ombre,
    deposti gli elmi, al salto della fontana.

    Ehi, lassù c’è una luce!

    Ovunque si vada…
    Per gli orti della campagna,
    per i monti e per mare. Nelle case
    abitate da donne – povere o ricche
    che sia, si snoda da sempre, una rosa.

    Una rosa. Cos’è una rosa?

    "Mi piace"

  4. Quest’arte abitata da un io-cavedio, da un io ipertrofico, gigantesco, da un io panopticon

    Intervista a Giorgio Agamben, Il trionfo del modello assertivo, La veredizione, Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, Riflessioni di Andrea Brocchieri,  Andrea Sangiacomo, Giuseppe Gallo, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa, Poesie di Letizia Leone, Giuseppe Gallo, Marie Laure Colasson,


    Personalmente, vivo in modo di lasciarmi vivere. Più esattamente: mi lascio vivere. È questo il mio modo di vivere. Come spiega bene Agamben, da un modo di vita ne esce un modo di fare arte. Se io vivo mettendo al centro di tutto il cosmo il mio «io», ne sortirà un’arte dell’io, con al centro l’io e tutto il resto in periferia. Ecco, questo io egolalico, questa gigantomachia, questo io ipertrofico, gigantesco è quello che dobbiamo smobilitare, abbandonare, lasciare come si lasciano dei panni sporchi. L’io è diventato non più credibile, non più affidabile, dobbiamo abbandonarlo alle ortiche a fare concime.

    È per questo che ho sostituito il verbo «credere» con il verbo «pensare». Io «credo» è stato sostituito da io «penso». È molto semplice, ho abolito il verbo e ne ho adottato un altro in sue vece.

    In secondo luogo, ho adottato un secondo accorgimento.
    Ho sostituito «io penso» con «mi lascio pensare». Sono diventato poroso, lascio che il pensiero entri in me lentamente come inchiostro nella carta assorbente (per dirla con una immagine di Tranströmer). Così, il mio modo di vita è cambiato ed è cambiata anche la mia poesia, dalla quale l’io non ha più un luogo dove stare, e se ne è dovuto andare via, ha dovuto fare le valigie. Dove sia andato a finire non so e neanche mi interessa.

    Diffido enormemente di tutta quell’arte dalla quale trapela un io «ipertrofico, gigantesco». Non vedo di buon occhio la poesia di Antonio Sagredo così strapiena di io da ubriacarsi. Pur ammirando la ricchezza vocabologica della sua poesia, penso che un dimidiamento, un disboscamento feroce della presenza dell’io dalla sua poesia gioverebbe alla sua poesia. Questo gliel’ho scritto più volte. Il risultato è che lui se l’è presa a male.

    La fenomenologia dell’io conduce inevitabilmente ad una scatola vuota. Dentro non c’è nulla, nient’altro che rumore. Se agiti quella scatola ci troverai soltanto del rumore, rumore di ferraglia e di rami spezzati. L’arte dell’io è fasulla, forzosa, inficiata dalla presupposizione che ci sia l’io al centro della vita al modo di un Panopticon.

    Questo tipo di modo di vita e di fare arte non mi interessa, mi annoia. È bene dirlo con grande chiarezza: quella poesia dell’io-panopticon è nata in obitorio.
    Ecco una poesia di Lucio Mayoor Tosi che ci racconta dell’abbandono dell’io:

    Lucio Mayoor Tosi

    Vivo confinato nel buio di una torre.

    In basso, seduto sul pavimento, dove
    arriva a stento la luce di una feritoia.

    Sono io che lascio quei solchi nel fango,
    sono impronte di zoccoli.

    Quando fuori lampeggia un faro di luce,
    o passa una cometa, ecco, qui appare chiaro

    il nulla. Non c’è campagna fuori, e manca
    il mare. Sparisce anche la torre.

    Nel felice niente di niente, al posto mio
    si accende un fuoco.

    Le cose riprendono vita. Metallo, legno, vetro,
    pavimento, porte, finestre e tutta la casa.

    Tocco e osservo il mio riflesso.
    .

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  5. letizialeone

    “Una rosa. Cos’è una rosa?” versi che ne percorrono le tracce letterarie nei secoli. Fiore-stereotipo letterario che attraversa indenne lo spazio e il tempo della weltliteratur.
    Che cos’è per noi una Rosa?

    “Ma tu per noi sei il pieno fiore innumerato
    oggetto che non può avere esaurimento”
    (R. M. Rilke)

    Allego questo rapido excursus da una mia rubrica PAROLE IN POESIA sulla rivista cartacea “Il mangiaparole”:

    ROSA, rosae, rosarum…fiore simbolico, fiore retorico, fiore poetico ricco di interpretazioni e inesauribili figurazioni. Questo breve monitoraggio non può che iniziare dalla Candida Rosa dantesca, Rosa sempiterna, immagine floreale dei beati redenti dal sangue di Cristo nel XXXI canto del Paradiso. La pioggia di sangue equivale alla Rugiada Celeste vivificante della Cabala là dove non può sfuggire il simbolismo fonetico tra rugiada (lat. Ros) e rosa (lat. Rosa).
    Ma non solo un’immagine mistica della rosa, con Cielo D’Alcamo, poeta citato nel De Vulgari Eloquentia, ne abbiamo il riferimento in un contesto giullaresco, “Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state” recita l’incipit del divertente contrasto amoroso di scuola siciliana. Il laudativo della donna-rosa è tipico della poetica stilnovistica, da Guido Guinizelli che sublima il femminile in un “locus amoenus” comparando Eden e donna, “Io voglio del ver la mia donna laudare/ ed asembrarli la rosa e lo giglio”, a Guido Cavalcanti che ne eleva la “cera gioiosa” ad “angelicata crїatura”, “Fresca rosa novella/ piacente Primavera”.
    Il topos femminile della Rosa prosegue il suo cammino nella letteratura umanistico-rinascimentale, dal Petrarca “Candida rosa nata in dure spine” alla folta schiera dei petrarchisti. Dal Poliziano al Boiardo dove la compenetrazione tra donna e natura filtra nella visione vivificante e maliziosa di un trionfo di luce, colore e amore “…e vidi a la rogiada matutina/ la rosa aprir d’un color si infiammato”…”e vidi una leggiadra dona e bella/ su l’erba coglier rose al primo sole”…
    L’apoteosi del fiore raggiunge il suo apice nella poetica della meraviglia di Giovan Battista Marino. Nell’Adone il ringraziamento di Venere per il suo innamoramento è un vero e proprio inno alla Rosa: “Rosa riso d’amor, del ciel fattura / rosa del sangue mio fatta vermiglia…Porpora de’ giardin, pompa de’ prati/gemma di primavera, occhio di aprile…”
    La scansione di simbologie e significazioni continua ossessiva fino alla modernità: figura fondamentale in Rilke, “Ma tu per noi sei il pieno fiore innumerato/oggetto che non può avere esaurimento”, la rosa quale presenza effimera e caduca, epifania dove piano metafisico e reale si incrociano, viene elevata a monumento alla Bellezza, “da secoli ci chiama il tuo profumo”…”E il ricordo passa in quel profumo”…
    Da Saba “Variazioni sulla rosa” a Pasolini che ne eredita la potenza semantica nel titolo “Poesia in forma di rosa”. Una raccolta che convoglia la sua “disperata vitalità” civile, politica e intellettuale dove spicca graficamente la “Seconda poesia in forma di rosa” e la fisionomia del petalo disegnata con i segni della scrittura.
    Dal grado zero della storia ci viene offerta l’ultima rosa, “La Rosa di nessuno” di Paul Celan: il silenzio, i nomi, la cenere, l’annichilamento dell’Olocausto. La rosa è il fiore taumaturgico con il quale affrontare la catabasi, lo sprofondamento negli inferi della Storia: “parola di porpora”, parola sacra da cantare in un “Salmo”, “che noi cantammo al di sopra,/ ben al di sopra/ della spina.”:

    Noi un Nulla
    Fummo, siamo, reste-
    Remo, fiorendo:
    la rosa del Nulla,
    la rosa di Nessuno.

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    • Marina Petrillo

      LA ROSA

      Non esprime il sogno
      l’Angelo al mattino
      se dal ceruleo incanto
      ancor non si ridesta.

      La lode ha posto nel cuore
      e della notte aspira
      soave l’aria.

      Ai piedi della Madre
      reclina il capo
      e di amena visione
      coglie il canto.

      Se a noi giungesse
      un sol suono
      tutto in vertigine divina
      lasceremmo andare.

      Sol di noi
      Anime ignare
      del raggio d’oro
      avremmo memoria
      e nella mano
      porteremmo un fiore: la Rosa.

      ————

      OMAGGIO A PIER PAOLO PASOLINI

      Vide
      dell’oscura nebbia
      il volto
      di cui mai ebbe vanto
      né perdono.

      Percorse a ritroso
      la strada dei morenti
      giacendo accanto
      alla sua ombra apocrifa.

      Scese nell’Ade
      sfidando a dadi
      la sorte
      su marciapiedi
      presaghi
      del futuro inganno.

      Cadde alfine
      ai piedi
      della Sacra Montagna
      ad onta di Poeta
      vilipeso.
      Non ebbe in lui
      fecondo verso

      la rosa
      né patì dell’amore
      l’obliqua ombra.

      Se fu notte
      tacque
      ai margini di un prato.

      Al risveglio
      solo Pier Paolo,
      in rugiada avvolto.

      Cari amici poeti, due poesie tratte da “Tabula Animica” .

      La Rosa: una visione figurante se stessa. Posta al limite di un confine vasto di ideale beltà. Traduce il sommo vissuto nostalgico in archetipo di cui il silenzio acquieta il battito. Se fosse traducibile, l’Incanto vivrebbe in solare liturgia il dono immenso di altre latitudini oniriche. Porrebbe transito tra perduranti onde dello Spirito e amene triangolazioni volte a compendiare del divino, il Volto. Ma, se nel tragico dirottamento verso la materia, alcun inganno trae da se stesso linfa, in anello di sensibile cambiamento ogni cosa soggiace alla successiva. Sì che in metamorfosi trae spinta il sogno raggiunto dal suo doppio, come potesse dilettarsi il Nulla nell’assenza o, il Vuoto, in limite estremo.
      Attraversa il cammino lo scibile interdetto da fonti apocrife mentre pensieri ondivaghi tradiscono il Vero. Tradurre codici in altri codici è umano progetto. Per il superiore stato di coscienza, il florilegio dell’esistere permea in sé l’ordita trama. Trasluce in epitaffio ogni Forma decaduta, come marmo riutilizzato in altra opera. Poiché di “Opera” si tratta, tra perifrasi e tradotte presenze, richiami o alte voci. Suoni sempiterni ai quali attingere se, ritratto ogni movimento in stasi, il brillio di un Fuoco assoluto, illumina il passo e divaga della mente, il moto.

      Marina Petrillo

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  6. Un pensiero di Pasolini:

    …E’ dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità.
    La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile (nell’ambito appunto di una Semiologia Generale).
    Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.
    Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita.

    (1967)

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  7. Ecco, amici e amiche de L’Ombra, la e-mail da poco inviata a

    Gentile Nazario Pardini,

    di recente da autrici e autori con cui collaboro in maniera organica mi è stato segnalato 

    uno scritto di M. Cossu, di cui riporto il link,

    http://nazariopardini.blogspot.com/2019/04/marisa-cossu-una-risposta-alle-critiche.html.

     accanto al quale scritto della Cossu tra i commenti che il medesimo  ha suscitato se ne segnala uno a firma “Il Leucadiano”, naturalmente anonimo.

    Le chiedo:

    – o di rivelare il nome dell’autore/autrice di quel commento inqualificabile,

    – o di procedere alla sua tempestiva cancellazione, avvalendosi della responsabilità anche etico-morale oltre che di buon gusto del blog da Ella fondato e diretto.

    Gino Rago

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  8. Lo scritto della Cossu, che di critica letteraria nulla contiene, ignorando di un esercizio di ermeneutica le nozioni di base, perfino quelle elementari, si rivolge in maniera offensiva verso Giorgio Linguaglossa e anche verso di me, chiamando “lungo elaborato” ciò che per tutti noi è un “Polittico…”
    Purtroppo non sono stato in grado di postare un mio commento sul blog di Pardini e altro modo non ho trovato se non di inviargli una e-mail. Preciso che con il Pardini prima di oggi non ho mai avuto contatti.
    Ben vengano le critiche, anche aspre; ma sempre se esse sono argomentate.
    (gr)

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    • spiacevoli situazioni. Non dettate da una vero confronto tra le parti. Come si risponde a una critica? Col rancore. Soprattutto per non aver elaborato il solito incensamento agli interessati. Ah! Brutta bestia l’io-super-mastodontodico!! Oggi, ,chi fa critica obiettiva, chi cerca un cambiamento è guardato con diffidenza. Che si cammini cercando…..Un augurio rivolto a tutti….

      Saluti a gogò……

      P.S.

      Per molti poeti il mondo si è fermato nel novecento…..

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    • Gentile e contrariato amico, in quella nota ho semplicemente espresso il mio pensiero su un genere di poesia che non incontra il mio gusto. Opinabile, certo, ma pur sempre un pensiero coerente con il mio modo di scrivere. La ringrazio per le squisite maniere con cui tratta persone di cui non sa nulla e che considera avversari ideologici. Lasci perdere, la prego. Io firmo sempre ciò che scrivo, anche in assenza della sottolineata errmeneutica. Non sono un critico letterario. E non c’è bisogno di scrivere email al grande e generoso Nazario Pardini a riguardo di una mia poesia. Non sarebbe stato più amichevole ed utile l’espressione chiara del suo pensiero diretta a questa umile Autrice? Lo so, lei è troppo in alto per una siffatta apertura.
      Cordiali saluti
      Marisa Cossu

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  9. dai, Gino, occupiamoci di cose serie…

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  10. Un commento secondo lo spirito del rapporto Agamben-Fotografia

    Giorgio Linguaglossa, fotografo-poeta nella preminenza delle immagini

    Giocatori di golf impugnano il bastone da golf

    Un prato verde. Persone in tweed fumo di Londra
    camminano in fila,

    si tengono stretti alle spalle di chi precede.
    « …….»

    Avenarius suona il campanello di casa Cogito,
    ha litigato con il Signor Retro.

    Il Signor Google fuma un sigaro di Sesto Empirico
    e il filosofo va su tutte le furie.

    Persone in casacca gialla e pantaloni bleu giocano a golf,
    giocano a golf.

    Una pallina bianca rotola di qua e di là.
    Un valletto percuote il gong.

    Una folla tra la ghiaia, il prato verde e lo specchio.
    Un pappagallo verde. Un orologio giallo.

    Hockey in casacche striate, pantaloni bleu.
    Palline bianche che rotolano sul tappeto verde

    di qua e di là.
    Giocatori di golf impugnano il bastone da golf.

    Mi soffermo emotivamente, prima, analiticamente, dopo, su questi 5 distici di Giorgio Linguaglossa tratti da Giocatori di golf impugnano il bastone da golf

    “[…]
    Persone in casacca gialla e pantaloni
    giocano a golf.

    Una pallina bianca rotola di qua e di là.
    Un valletto percuote il gong.

    Una folla tra la ghiaia, il prato verde e lo specchio.
    Un pappagallo verde. Un orologio giallo.

    Hockey in casacche striate, pantaloni bleu.
    Palline bianche che rotolano sul tappeto verde

    di qua e di là.
    Giocatori di golf impugnano il bastone da golf.”

    Posso fare mie queste parole di Michelangelo Antonioni:«Per maestri ho avuto i miei occhi». Perché?
    Per il motivo semplice che in questi 10 versi, distribuiti in 5 distici, il poeta indossa i vestiti del fotografo e in pochi scatti cristallizza nel tempo e nello spazio frammenti di storia e di geografia antropologicamente definiti da consegnare alla eternità.
    Mai come in questi 5 distici il poeta assume i connotati del fotografo, ma non fa fotografie in bianco e nero, fa fotografie a colori e lo fa per de-drammatizzare l’intero scenario in cui il fotografo-poeta si colloca e agisce per compiere il suo gesto estetico.
    Si avvale di una tavolozza essenziale di appena 4 colori: il giallo di una casacca e di un orologio; il bianco della pallina da golf; il verde di un prato-tappeto e di un pappagallo; il bleu dei pantaloni…
    Con questi 4 colori il poeta-fotografo Giorgio riconduce l’arte della fotografia al suo etimo originario: foto-grafia, vale a dire «scrivere con la luce».
    E quale è il luogo autentico di questi 5 distici se non la luce, anche se il poeta non la nomina?
    Ma la fotografia è un’arte? Forse addirittura è più che un’arte, se qualcuno ha detto che la fotografia è quel fenomeno solare in cui il poeta-fotografo collabora strettamente con il sole…
    Ma perché ho interpretato questi 10 versi spalmati in 5 distici paragonando il poeta al fotografo?
    Perché in questi versi Giorgio Linguaglossa si concentra sulla preminenza delle immagini, che qui si fanno più vere della stessa vita reale, immagini da sottrarre alla tirannia del tempo, il tempo delle luci e delle emozioni, delle riverberazioni e delle suggestioni, degli uomini e delle cose, il tempo che scivola via tra le dita anche del fotografo-poeta.
    Il Linguaglossa di questi 5 distici compie quel gesto che, per dirla con Walter Benjamin messo di fronte a una stampa fotografica, esprime
    «la capacità di estrarre e strappare a forza dal suo contesto storico ciò che interessa per restituirgli vita e farlo agire nel presente».
    Lo fa in quello che Giorgio Agamben in Autoritratto nello studio indica nel suo rapporto con la fotografia come «spazio interiore», l’unico nel quale è possibile «dentrificare il Fuori».
    Dentrificare il Fuori. E’ il miracolo dell’attimo, ed è l’attimo che forse può salvarci …

    (gino rago)

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  11. Questa dell’io ipertrofico, è una definizione credo mutuata dalla psicologia clinica. Probabilmente è un problema che in misura maggiore o minore oggi riguarda molti di noi (non voglio dire tutti per non generalizzare pericolosamente). La perdita della dimensione paesana-rurale-rionale, ci ha gettati definitivamente nel mondo, da sradicati (Pasolini). Siamo soli, fragili ed esposti ai nostri stessi umori e problemi esterni ed interni di ogni genere, nonché a condizionamenti grandi e fino a poco tempo fa inimmaginabili. Facile debordare. Ma da questo controverso e sfilacciato io, si fanno strada anche le disposizioni ed energie interiori, le particolarità, i difetti (perché no anche nella creazione poetica). I “difetti” rivelano molto di noi, chi siamo (spesso ogni volta diversi) le nostre emozioni che indirizzano, spostano certo, ma rivelano molto di noi e dove siamo. Lasciamo da parte, lasciamo decantare, facciamo emergere, ma infine siamo (almeno per un po’). In fondo certi artisti, non ci avrebbero conquistati, se non avessero rivelato con la loro arte, anche i loro punti “deboli-forti”, tutta intera la personalità. Grazie a Letizia, per l’approfondimento prezioso sulla “Rosa”.

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  12. Tra artisti c’è sempre stata rivalità. Ci sono tanti esempi. Uno: Caravaggio e i fratelli Carracci. Coloro che si ritengono (che sono) avanguardia, si misurano a fatica con i loro contemporanei, soprattutto con quelli che si reputano (magari liquidandoli) troppo legati alla tradizione. Accade persino che i “Rifiutati” vengano poi molto rivalutati, come sappiamo. La NOE fa una proposta precisa, anche dal punto di vista metodologico. Normale suscitare risposte, opinioni, critiche. Se si riesce, meglio mantenere un profilo rispettoso del lavoro creativo che si suppone sotteso anche alle opere degli altri, e solidale con l’umana esperienza. Non è lo stesso il mondo con o senza poesia. Non è lo stesso. Non sarebbe lo stesso senza la varietà delle poetiche.

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