
il suo spazio è quello di una reciproca esclusione del significante e del significato
Giorgio Agamben
Sulla originarietà dell’esperienza della parola
«La ‘somiglianza’ e l’intersezione semica non preesistono alla metafora, ma sono rese possibili da essa e assunte poi come sua spiegazione, così come la risposta di Edipo non preesiste all’enigma, ma, da esso creata, pretende, con una singolare petizione di principio, di offrirne la soluzione. Ciò che lo schema proprio/improprio ci impedisce di vedere è che nella metafora nulla si sostituisce in realtà a nulla, perché non esiste un termine proprio che quello metaforico è chiamato a sostituire: solo il nostro antico pregiudizio edipico – cioè uno schema interpretativo a posteriori – ci fa scorgere una sostituzione dove non vi è che una dislocazione e una differenza all’interno di un unico significare […] in una metafora originaria sarebbe inutile cercare qualcosa come un termine proprio. […]
La dislocazione metaforica non avviene, infatti fra il proprio e l’improprio, ma è una dislocazione della stessa strutturazione metafisica del significare: il suo spazio è quello di una reciproca esclusione del significante e del significato in cui emerge alla luce la differenza originale su cui si fonda ogni significare […] il paradosso centrale del significare che la metafora mette a nudo: il semainen è sempre originalmente una synoxis di adunata, una commessura d’impossibili.»
(Stanze, pp. 177-179)
«Porre all’inizio una scrittura e una traccia, significa mettere l’accento su questa esperienza originale [cioè:che l’esperienza originale sia sempre già presa in una piega, che la presenza sia ineludibilmente sempre già presa in un significare], ma non certo superarla. […] La metafisica della scrittura e del significante non è che l’altra faccia della metafisica del significato e della voce, il venire in luce del suo fondamento negativo e non certo il suo superamento. Se è, infatti, possibile mettere a nudo l’eredità metafisica della semiologia moderna, ciò che resta per noi ancora impossibile è dire che cosa sarebbe una presenza che, finalmente liberata dalla differenza,fosse soltanto una pura e indivisa stazione nell’aperto. Quel che possiamo fare è riconoscere l’originaria situazione del linguaggio, questo “plesso di differenze eternamente negative”, nella barriera resistente alla significazione alla quale la rimozione edipica ci ha precluso l’accesso. Il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio. L’algoritmo S/s deve perciò ridursi alla sola barriera: /; ma, in questa barriera, non dobbiamo vedere solo la traccia di una differenza, ma il gioco topologico delle commessure e delle articolazioni, il cui modello abbiamo cercato di delineare nell’ainos della Sfinge, nella malinconica profondità dell’emblema, nella Verleugnung del feticista.»
(Stanze, pp. 187-188)
Come infanzia dell’uomo, l’esperienza è la semplice differenza fra umano e linguistico.
Che l’uomo non sia sempre già parlante, che egli sia stato e sia tuttora in-fante, questo è l’esperienza.
(G. Agamben, Infanzia e storia)
L’origine di un simile “ente” [l’umano] non può essere storicizzata, perché è essa stessa storicizzante, è essa stessa che fonda la possibilità che vi sia qualcosa come una “storia”.
(G. Agamben, Infanzia e storia)
L’in-fanzia come esperienza originaria del linguaggio, dunque della storia
Che cosa vuol dire, agambenianamente, esperienza originaria del linguaggio (dunque della storia) come in-fanzia? La prima, più generale esplicitazione da compiere è forse il fatto che esperienza, linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto origine – ma anche che origine, esperienza e linguaggio coincidono in quanto in-fanzia, che origine, esperienza e in-fanzia coincidono in quanto linguaggio e che origine,linguaggio e in-fanzia coincidono in quanto esperienza.
È questa coincidenza a consentire il dispiegamento della storia, a fondare «la possibilità che vi sia qualcosa come una ‘storia’»
(IS, p.47).
«L’in-fanzia, ovvero il fatto che l’uomo non sia sempre già (stato) parlante, che il linguaggio giunga all’uomo necessariamente sopraggiungendo, vale a dire necessariamente scindendosi e articolandosi in lingua-e-discorso, semiotico-e-semantico, essenza-ed-esistenza, si annuncia come quel luogo che, incastonandosi alla soglia, al limite delle scissioni (nel loro punto d’insorgenza ed’arresto), inaugura la loro destituzione nella forma della di loro originaria esperienza – cioè: nella forma dell’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio. In questo modo essa, l’in-fanzia, è di necessità esperienza (dell’origine) della differenza – differenza in quanto esperienza; ciò che implica, anche, esperienza della storicità»:
Si deve insistere sul termine ‘coincidenza’: Agamben ne farà, ne L’uso dei corpi, ma anche altrove, un uso filosoficamente chiave.
«Se noi non possiamo accedere all’infanzia senza urtarci al linguaggio che sembra custodirne l’ingresso come l’angelo con la spada fiammeggiante la soglia dell’Eden, il problema dell’esperienza come patria originale dell’uomo diventa allora quello dell’origine del inguaggio, nella sa doppia realtà di lingua e parola»,
IS, p. 46. Come giustamente ricorda C. Salzani, nell’infanzia agambeniana risuona il «profondo e costante interesse di Benjamin per l’infanzia, il gioco e il giocattolo», e «di particolare importanza per il progetto agambeniano è poi il potere liberatorio, “messianico”,che Benjamin attribuiva all’infanzia e al gioco», così come la considerazione benjaminiana dell’infanzia «da un punto di vista ontologico».
(C. Salzani, Introduzione , pp. 35-36).
Sennonché, va ricordato che «allo stesso tempo questo riferimento può essere fuorviante, perché evoca una naturale connessione con il bambino [Benjamin cominciò a scrivere dell’infanzia dal 1918, vale a dire dalla nascita di suo figlio Stefan], che non è certo in questione nella problematizzazione dell’infanzia da parte di Agamben. Anche per questo motivo Agamben, in seguito, rinuncerà quasi completamente al termine “infanzia” e adotterà quello di“potenza”»
(ibidem).

È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio
Gli animali non entrano nella lingua: sono sempre già in essa. L’uomo, invece, in quanto ha un’infanzia, in quanto non è sempre già parlante, scinde questa lingua una e si pone come colui che, per parlare, deve costituirsi come soggetto del linguaggio, deve dire io. […] Allora la natura dell’uomo è scissa in modo originale, perché l’infanzia introduce in essa la discontinuità e la differenza fra lingua e discorso. Ed è su questa differenza, su questa discontinuità che trova il suo fondamento la storicità dell’essere umano. Solo perché c’è un’infanzia dell’uomo, solo perché il linguaggio non s’identifica con l’umano e c’è una differenza fra lingua e discorso, fra semiotico e semantico, solo per questo c’è storia, solo per questo l’uomo è un essere storico. […] È l’infanzia, è l’esperienza trascendentale della differenza fra lingua e parola, che apre per la prima volta alla storia il suo spazio. Per questo Babele, cioè l’uscita dalla pura lingua edenica e l’ingresso nel balbettio dell’infanzia […] è l’origine trascendentale della storia. Il mistero, che l’infanzia ha istituito per l’uomo, può infatti essere sciolto solo nella storia, così come l’esperienza, come infanzia e patria dell’uomo, è qualcosa da cui egli è sempre già in atto di cadere nel linguaggio e nella parola. Per questo la storia non può essere il progresso continuo dell’umanità parlante lungo il tempo lineare, ma è, nella sua stessa essenza, intervallo, discontinuità, epoché [diremmo: «dialettica in stato d’arresto», cairologia, «tempo che resta»]. Ciò che ha nell’infanzia la sua patria originaria, verso l’infanzia e attraverso l’infanzia deve mantenersi in viaggio.
(ivi, pp. 50-52)
Questo (Er)Fahren, questo essere-in-cammino verso e nell’infanzia, sancisce il luogo inaugurale della storicità e, al tempo stesso, quello ontologico dell’esperibilità del linguaggio nel suo aver-luogo – ovvero la via, il sentiero (interrotto?) per quel «messianismo cairologico» di cui abbiamo
tracciato le linee e che è in questione nella seconda parte del testo. Siano i due saggi heideggeriani, Die Sprache (1950) e Der Weg zur Sprache (1959), entrambi contenuti in Unterwegs zur sprache (1959). Nel primo, dopo aver chiarito che noi vorremmo riflettere sul linguaggio e soltanto su di esso. Il linguaggio è linguaggio e nient’altro. Il linguaggio è il linguaggio. L’intelletto educato alla logica, uso a tutto sottoporre al processo calcolante, e perciò appunto il più delle volte presuntuoso, chiama questa proposizione una vuota tautologia. Dire due volte nient’altro che la stesa cosa: linguaggio è linguaggio, come è possibile che questo ci porti avanti? Ma noi non vogliamo andare avanti. Vorremmo soltanto ci fosse dato di giungere là dove già siamo. […] Il linguaggio è il linguaggio. Il linguaggio parla. Se ci lasciamo cadere nell’abisso evocato da questa affermazione, non precipitiamo nel vuoto. Cadiamo in un’altezza, la cui altitudine apre una profondità. L’una e l’altra costituiscono lo spazio e la sostanza di un luogo nel quale vorremmo farci di casa [heimisch] per trovare una dimora per l’essenza dell’uomo. Riflettere sul linguaggio significa pervenire al parlare del linguaggio in modo che questo parlare avvenga come ciò in cui all’essere dei mortali è dato ritrovare la propria dimora.
In cammino verso il linguaggio, (pp.28-29),
Heidegger si lancia all’ascolto della «parola pura» (ivi, p. 31) e lo fa leggendo la poesia di Trakl Ein Winterabend. Nella dissertazione introduce la quadri partizione del Geviert, e la dinamica filosofica del rapporto (dell’intimità, Innigkeit) tra mondo e cosa:
Mondo e cose non sono realtà che stiano l’una accanto all’altra; essi si compenetrano vicendevolmente. Compenetrandosi, i Due passano attraverso una linea mediana [eine Mitte]. In questa si costituisce la loro unità. Per tale unità sono intimi. La linea mediana è l’intimità. Per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine das Zwischen (il fra, il frammezzo). La lingua latina dice: inter. All’inter latino corrisponde il tedesco unter. Intimità di mondo e cosa non è fusione [Verschmelzung]. L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si distinguono e restano distinti. Nella linea che è a mezzo dei Due, nel frammezzo di mondo e cosa [In der Mitte der Zwei, im Zwischen von Welt und Ding], nel loro inter, in questo unter, domina la cesura [Schied]. L’intimità di mondo e cosa si dispiega essenzialmente [west] nella cesura [Schied] del frammezzo, si dispiega essenzialmente nella dif-ferenza [Unter-Schied]. Il termine dif-ferenza è qui sottratto all’uso corrente e consueto. Non indica un concetto generico, nella cui area rientrino molteplici specie di differenza. La dif-ferenza, di cui qui si parla, esiste solo come quest’una. È unica. La dif-ferenza regge – non però con essa identificandosi – quella linea mediana [her die Mitte ] nel moto e nella relazione alla quale e grazie alla quale mondo e cose trovano la loro unità. L’intimità della dif-ferenza è l’elemento unificante [das Einigende], di Ciò che differenziando porta e compone. La dif-ferenza porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al loro esse cose. Portandoli a compimento, li porta l’un verso l’altro. La composizione operata dalla dif-ferenza non è qualcosa che avvenga in un secondo momento, quasi la dif-ferenza sopraggiungesse recando una linea mediana e con questa congiungesse mondo e cose. La dif-ferenza, in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il loro essere l’uno per l’altro, di questo fondando e compiendo l’unità. […]La dif-ferenza non è né distinzione né relazione [weder Distinktion noch Relation]. La dif-ferenza è semmai la dimensione del mondo e delle cose. Ma in questo caso “dimensione” non significa una regione a sé stante,dove questo o quello può prender dimora. La dif-ferenza è la dimensione, in quanto misura nella sua interezza,facendolo essere nella sua propria essenza, lo spazio di mondo e cosa. […]
Nel nominare, che chiama cosa e mondo, quel che è propriamente nominato è la dif-ferenza.
(In cammino verso il linguaggio, pp. 37-38)
Heidegger chiosa:
“Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario [die Sage] in quanto Mostrare [die Zeige].
Il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno, ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini soltanto acquistano la possibilità d’essere segni. […] Perfino là dove il Mostrare si realizza grazie a un nostro dire, c’è sempre un lasciarsi mostrare che precede questo nostro mostrare come additare e rilevare. Solo quando si consideri il nostro dire in tale prospettiva, è possibile una determinazione adeguata di quel che è essenziale in ogni parlare. […]Ma il Dire originario in se stesso cos’è? È esso qualcosa di staccato dal nostro parlare, sí che per giungervi dovrebbe venir prima gettato un ponte? O è invece il Dire originario il fiume della quiete, che già di per sé collega le sue rive, il Dire e il nostro ri-dire, nell’atto stesso che le fa essere?”
(ivi, pp. 199-200)
Possiamo dunque, a questo punto, affermare che nell’«in-fanzia» di Agamben parla, consapevolmente o inconsapevolmente, la Sage heideggeriana, l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio si situa nella traccia heideggeriana, quel «mostrare» che origina il linguaggio nel suo Geflecht, di quel fiume originario della Stille «che già di per sé collega le sue rive […] nell’atto stesso che le fa essere». Continua a leggere