Mario Gabriele, How The Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 $ 20.00, Poesie di Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo

Antology How the Troja war ended I don't remembercaro Giorgio,

non appena mi è pervenuta la tua antologia How the Trojan War Ended I Don’t Remember, mi sembrava di aver ricevuto un regalo da Santa Claus, dopo la lunga attesa per la pubblicazione.

Mi sono sentito tra i pochi fortunati a ricevere il volume in quanto gli altri autori antologizzati hanno dovuto attendere non poco, prima di venirne a conoscenza.
Ebbene, come fa il cane quando annusa il padrone, ho voluto captare subito l’odore tipografico, passare la mano sulla prima e quarta di copertina, sfogliando le pagine una ad una, ipotizzando la grammatura della carta e tutta la tecnica della pubblicazione.
La curiosità di leggere le poesie, ma credo l’abbiano fatto anche gli altri autori, mi ha portato a trovare subito la Sezione Contents dove si citano i nomi e le opere dei poeti presenti.

La prefazione di John Taylor mi ha sorpreso per la sinteticità espressiva, senza creare altarini e Hit Parade.Ne è un esempio la sezione che mi riguarda,dove il prefatore così si esprime: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Teniche sviluppate da T.S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C.P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.
Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con In viaggio con Godot o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola».

Certamente, per redigere queste frasi, il prefatore è stato un attento lettore dei testi. La sinteticità e l’acuta impostazione critica fanno del lavoro di John Taylor, un esempio di scrittura estetica che non è storiografia o eccesso di intrattenimento, – no stop -, come è accaduto per certi nostri antologisti del Novecento. Qui non ci sono limiti culturali e metodologici o infrazione critica. Tutto è ben ponderato e circoscritto.
Altro aspetto singolare è la traduzione in Inglese dei testi fatta da Steven Grieco Rathgeb, molto rigido nella misura dei versi e nelle rettifiche.

Strilli Lucio Ho nel cervelloOgni antologista ha di fronte a sé un compito difficile, trattandosi di selezionare opere e autori per tracciare una storia o un segmento della poesia italiana.
Scrive Giacinto Spagnoletti nella sua introduzione in La letteratura italiana del Novecento, Grandi Tascabili Economici. Newton (1994): «Se di -un sentimento- e non di un metodo – ha bisogno fortemente il critico di oggi, esso consiste nel far parlare i più interessati, gli scrittori e i suoi lettori». È ciò che hai fatto tu, caro Giorgio Linguaglossa, nel redigere questo lavoro che rimarrà un anello di congiunzione con il futuro.
Le eventuali omissioni di altri autori in questa Antologia non sono da considerare repressione, oppure ostinata invisibilità e indifferenza. Si è trattato di un dossier, di un eccellente patentino poetico in work-progress, in terra americana, cioè di un percorso estetico e linguistico che sicuramente sarà ampiamente pubblicato nella prossima antologia linguaglossiana verticalizzata sulla NOE.

“Le antologie si fanno (si sono sempre fatte e si faranno) così come si fanno i codici di giustizia, i partiti della libertà, le chiese della fede religiosa, le città perfette dell’utopia sociale: è il segno oggettivo della loro necessità e dunque della loro utilità. Sempre che non diventino operazione politicamente interessate di restaurazione, di frenaggio” (Giuseppe Zagarrio) Ma il “frenaggio” qui non esiste, diciamolo francamente!

(Mario M. Gabriele)

Strilli RagoPrefazione di John Taylor tradotta in italiano da Mario Gabriele

Il titolo dà il tono a questa vivace antologia. I versi dei quattordici poeti inclusi in – Come la guerra di Troia è finita, non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2017)– evoca l’Eredità greco-romana in vari modi, attraverso il reale, il leggendario e le mitiche figure che vanno da Ulisse ad Apollo, da Medea e Ecuba a Gaio Cornelio Gallo, per non parlare di alcuni prolungamenti greci moderni di questa cultura ad esempio quelli di Maria Nefeli di Ulisse Elytis (riportato da Chiara Catapano).

La raffinata poesia di Steven Grieco-Rathgeb è presente anche qui, torna ancora più in profondità nel nostro crogiolo culturale e filosofico, facendo apparire il concetto sanscrito di “jaagriti”. La parola significa, come spiega, “essere sveglio (di solito associato con gli altri due stati mentali umani, dormire con sogno e sonno profondo).

È stimolante estendere la similitudine e affermare che qualcosa come “jaagriti” è forse l’obiettivo, o la motivazione, della poetica espressa da tali poeti attenti alla presenza del passato nel presente. In altre parole, una specie di visione onirica o immaginativa unita a veglia – un gioco avventuroso, un”sognare ad occhi aperti” pieno di risorse, per così dire, durante il quale il poeta afferra il presente come tessuto, non essenzialmente con ricordi personali, ma anche e soprattutto con aspetti della mitologia e della storia (e della storia delle idee) per estendersi ben oltre il sé individuale. Gli elementi archetipici sono stati scavati dal poeta di questo vasto passato, registrato o immaginato, con la funzione di illuminare il presente, anche se a volte in modo bizzarro, fantastico o comico.

Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Alcuni lettori potrebbero persino ricordare lo storico di C. P. Cavafys le cui poesie rianimano tale figura del passato.

Strilli De Palchi Dino Campana assoluto liricoDetto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Cavafys, o altri antenati modernisti; e talvolta persino una sorta di giocosità scorre in sequenze interconnesse, come quella deliziosa di Mario Gabriele con “In viaggio con Godot” o come la suite di nove poesie di Lucio Mayoor Tosi che inizia con Woody Allen e termina con Zorba e Marc Chagall, tutti nel frattempo, danno un giro metaforico al “tonno in scatola”.

Per non dire altro. Ad esempio la poesia ludica tiene a bada la serietà. Antonio Sagredo imposta allo stesso modo “Farcical” a Roma, in cui il narratore confessa di trascorrere le sue “notti”nelle taverne / lungo la strada rossa di Scipione, / simile a un prete sotto quelli indifferenti lampioni, / con il tasso di mortalità di Roma ancora lontano dall’essere decente “, per riassumere la sua vita attuale in questo modo: “Oggi celebriamo il saggio: / Ho letto i Cantici ripetutamente / e come i Cesare sono stato ucciso mille volte!”
A sua volta, Letizia Leone, la cui lunga poesia è stata tratta dal suo libro La calamità di base si concentra su Marsia il Satiro, forgiando il satirico con la mescolanza di immagini che raccontano le apparenze del passato e del presente: “. … un peloso satiro / con un nuovo flauto luccicante, tirò fuori da una dea, / un sex toy, / un dispositivo per magia amatoriale!”

Inutile dire che queste e molte altre poesie sono piene, zeppe di allusioni culturali, sardoniche, beffarde, spoofing, con indicazioni serie a questioni filosofiche.
Anna Ventura, ad esempio, evoca Trimalchio, la tartaruga etrusca di Volterra”, Torquemada, e infine Barbablu, di cui presenta se stessa come la “terza moglie, quella / che ha osato prendere la chiave / e spalancare la porta dell’orrore “, aggiungendo che questo non deve essere detto a Cartesio il quale “giace / dentro la sua tomba piatta, all’ombra / di una chiesa poco illuminata, / ma la sua luce abbaglia ancora / la sua follower: gli illuminati, disprezzati / in un mondo che fa altrettanto /senza motivo.”
In realtà, le stesse questioni della ragione – le sue carenze e conseguenze, per non dire pericoli e catastrofi: spuntano piuttosto spesso. Un altro modo di leggere questa antologia è chiedersi come decriptarla, o come la mancanza o abuso di ciò, giochi rispetto alla condotta umana così come è stata mostrata nel corso dei secoli.

Strilli Busacca è troppo tardiGiuseppe Talia solleva espressamente questa domanda in “Paradossi” che unisce scienza (o, più precisamente, logica formale) e storia: “Le teorie di Frege sono quasi un fallimento / perse nel predicato che non puoi prevedere / quando il paradosso dell’assioma / non è altro che una contraddizione: “Cesare conquistò la Gallia. “Ma in che modo? / Con un carattere sintetico a priori diresti / in relazione allo spazio operativo / e alle semplici proporzioni analitiche/ al numero di soldati usati e civili morti/.
“Nella sua poesia” Aspetta e guarda cosa succede”, Renato Minore decolla da uno degli spettacolari risultati del ragionamento tecnologico: pixel. Mentre la poesia si svolge per mezzo di linee permutate, altre possibilità interpretative lampeggiano di tanto in tanto, anzi come i pixel, suggerendo metafore legate direttamente ai nostri tempi: “Esiste il comodo ritorno della specie / continua a rannicchiarsi nella testa di uno spillo / Ma noi sogna ciò che abbiamo interpretato / E danno quel poco che è ancora richiesto di loro “. E se siamo consapevoli di” sognare ciò che abbiamo interpretato “, non è una specie di stato “jaagriti” ancora una volta? In ogni caso, chiediamolo: dove sta andando l’umanità della nostra umanità?

Sebbene ci siano eccezioni, tra cui poesie di alcuni dei suddetti poeti (cioè pezzi che dissezionano le “affiliazioni”, come quelle tra poeta e genitore, tra poeta e fratello, o esplorando altre chiavi personali eventi), l’antologia tende a mettere in luce versi che sono molto più massimalisti che minimalisti. Raggruppando le sue poesie sotto il titolo Dovrei tornare a Caesar’s Court?, “Giorgio Linguaglossa (che ha messo insieme questa antologia) sfida implicitamente i poeti contemporanei a rispondere alla stessa domanda. Si hanno pochi problemi a percepire che ci si rivolge in particolare ai poeti orientati verso i particolari modesti della vita quotidiana in sé o verso le loro vicissitudini, le proprie esistenze attuali, anziché verso quelle storiche, mitiche, scientifiche, e sfondi filosofici rovistati dalla maggior parte dei poeti in questa antologia. Tale, ovviamente, è solo una delle linee di battaglia che possono essere tracciate tra poeti contemporanei in Italia o altrove.

Le differenze radicali che possono esistere tra i tipi di soggetti considerati, sono visibili anche nella poesia di Gino Rago: titolo generale per i suoi pezzi interconnessi. “We are Here for Hecuba” sicuramente suggerisce l’intenzione di aprire una prospettiva più ampia di quella delimitata nel bene e nel male da un’ispirazione strettamente autobiografica o da un oggettivismo del genere “niente idee ma nelle cose”.
In una delle sue poesie, Donatella Giancaspero sottolinea: che “nulla di ciò che siamo / mostra la superficie. ”L’osservazione definisce appropriatamente il non autobiografico orientamento di questa antologia.

Eppure, come dovrebbe anche essere chiaro, le variazioni di questa poetica generale sono molte. Anche la poetica contrastante viene prodotta, sebbene essa non sia necessariamente rappresentativa di tutto il lavoro del poeta in questione.

Antonella Zagaroli, che ha citato teorie scientifiche in alcuni suoi testi precedenti, aspira ad essere “Saffo crudo e ribelle” (al contrario di”Emily”) e offre un’immagine personale toccante alla fine della stessa poesia dichiarando: “Io sono il raccolto, poi appeso indietro la mela / nel giardino appartato.”Altrove, dichiara, in modo evidente riguardo al contesto generale di questo antologia: “A chiunque cerchi ancora una voce con risposte / il passato insegna niente ”. Alcuni dei pezzi più stravaganti di altri poeti raggiungono o rappresentano la stessa conclusione: nemmeno il passato può aiutarci a capire cos’è il presente. Forse l’intera antologia potrebbe essere incoronata con la massima di George Santayana: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo ”— come un’epigrafe, a condizione che le sue parole solenni siano stati seguiti da diversi punti interrogativi.

E poi c’è Alfredo de Palchi. Nato nel 1926, è il poeta più anziano selezionato e autore di un’opera che è allo stesso tempo tematicamente coerente e variata. Le poesie qui scelte appartengono ai suoi pezzi relativamente recenti, e costituiscono un angolo autobiografico piuttosto diverso da quello espresso in alcuni dei suoi primi scritti, che raffigurava la sua sofferenza durante le conseguenze della seconda guerra mondiale. Eppure anche allora, come ora, le analogie sono presenti nel suo lavoro. Qui, in una poesia del 2009, scrive: “Se solo io potevo rivivere l’esperienza / l’inferno sulla terra dentro / la fisica dell ‘”oscurità” la materia “sta crollando / in un buco pieno di vuoto / finché non diventa” energia oscura ” in qualche altro / universo in qualche altro vuoto / dove / la sequenza di la vita si ripeterebbe. “La poesia procede verso una conclusione tipicamente tonica, per non dire altro, ma non bisogna trascurare l’immagine di Alfredo De Palchi della sequenza di vita che viene “ripetuta” e che individua ordinatamente uno dei punti centrali di questa antologia. La necessità di una ripetizione, per così dire, è formulata in vari modi, implicitamente o esplicitamente, a seconda del poeta, e la domanda di fondo che tende a unificare molte delle loro singole poetiche è quindi questo: per cogliere il presente che si svolge davanti ai nostri occhi, dobbiamo prima di tutto cercare di afferrarlo prima che accada, o forse dopo, o attraverso alcuni paralleli ingannevolmente inverosimili?

Renato Minore 1

RENATO MINORE

La piuma e la biglia

1

C’erano quattro biglie colorate pronte a partire,
ma lo sparo fu rinviato
da sempre. Da sempre le biglie
formavano un quadrato
immaginario e al centro
c’era l’invisibile punto
di convergenza di tutti
i loro colori.

La pista allungata, infinita,
era una distesa
di acqua e di sabbia,
ma senza acqua né sabbia.

2

Rossa la prima e potevi
aver voglia di spaccarla
per trovare i semi
come dentro la melagrana.
Verde la seconda come
quando saltella la capra
sopra i prati e i prati
hanno il luccichio
della pioggia appena velata.
Bianca era la terza
ed era neve, neve
coagulata o neve sparsa
o cielo torbido che vela
le forme perché cancella
luce e ombra.
Nera la quarta ed era
specchio quasi opaco, l’immagine
riflessa era dietro
la superficie, non dentro,
come se il vuoto fosse
pieno di quel vuoto
nero nerissimo.

3

Immobili le biglie attendevano
che dall’una venisse
la mossa per la prima partita.
Ma il silenzio
non faceva scandalo, era
il colore naturale,
rosso o verde bianco nero
come le biglie che non partivano.

4

Dall’imbuto di quel vuoto
scese una piuma leggera
vero soffio di zefiro,
e scese in una linea
immaginaria avvitandosi
su se stessa per piccoli
movimento che le venivano
dal suo essere così incorporea
in quel silenzio complice.

5

Sfiorò
la biglia rossa e nel vuoto
la scossa fu elastica, dolcissima,
la biglia ruotò lentissima,
si capovolse toccando
quella verde che toccò
la bianca e la bianca corse verso la nera
e il moto ondulante si trasmise
mentre la piuma scendeva
nel fondo e forse
ancora vi scivola
come Narciso alla fonte.

The Feather and the Marble

1
There were four colored marbles ready to go,
but the shot got delayed
from time immemorial. From then the marbles
formed an imaginary
square and at its center
was the invisible converging
point of all t
heir colors.

The stretched-out, endless track
was an expanse
of water and sand,
but without water and without sand.

2

Red the first one and you may
have wanted to crack it open
to find the seeds
like inside a pomegranate.
Green the second as
when a goat hops
over the meadows and the meadows
have the shimmer
of light misty rain.
White was the third
and it was snow, clotted
snow or scattered snow
or murky sky that blurs
shapes because it deletes
light and shade.
Black the fourth and it was
an almost opaque mirror, the reflected
image was behind
the surface, not inside,
as if the void were
full of that black
very black void.

3

The marbles were still, waiting
for a move from one of them
to start the first game.
But the silence caused no scandal, it
was the natural color,
red or green white black
like the marbles that wouldn’t start.

4

From the funnel of that void
down came a light feather
a true zephyr’s breath,
and it came down in an imaginary
line twirling
on itself in the small
movements it got
from being so incorporeal
in that complicit silence.

5

Grazed
the red marble and in the void
the shudder was elastic, ever so soft,
the marble turned slow slow
upside down touching
the green that touched
the white and the white rushed to the black
and the undulating motion was relayed
while the feather went down
to the bottom and maybe
still slips
like Narcissus at the source.

Gino Rago 3

Gino Rago

GINO RAGO

Noi siamo qui per Ecuba

Paride amò nel talamo di Troia
senza mai saperlo

forse un’idea. Una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro. Senza carne.

Noi siamo qui per Ecuba. Tutto le fu tolto
per una bolla d’aria. Dissennato

il massacro sull’Acropoli
per la spartana rapita, una sposa fuggiasca.

Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta.

A suo dire mossa dall’Olimpo
come fuoco nel sangue o fremito nei lombi

Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.

Siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Sconfitta va verso la nave.

Lo sguardo fisso nell’occhio dell’Acheo.
Quasi a sfida delle avverse dee

nel disastro aduna sulle schiave
la gloria d’Ilio. Eterna come il mare.

La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.

La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.

L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.

Per tutto il tempo viva.
Di cetra in cetra. Da Oriente a Occidente.

Quel sangue prillerà nel canto dei poeti.
Arrosserà per sempre il porfido del mondo.

L’unghia dell’Aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo

alla sua vela : “Si vada verso l’Isola . . .”
L’inno dei forti piega le Troiane. Si stacca dalla costa.

E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.

We Are Here for Hecuba

In Troy’s bridal room,
Paris may never have known

that he loved an idea. An ashen curl.
A cloud of nothing. Cirrus. Fleshless.

We are here for Hecuba. A bubble of air
left her bereft of all. Mad carnage

on the Acropolis for the abducted Spartan woman,
the fugitive wife.

She reached Priam by sea, a hologram
of Sparta’s lovely Queen.

Impelled, she claimed, by the Olympians
like fire in the blood or a shudder in the loins,

Helen never came to Troy.
A city consumed by the flames.

We are here for the King’s wise companion.
Defeated, she walks to the ship.

Looking the Achaean straight in the eye.
As if to challenge the contrary goddesses,

amid the disaster she gathers Ilium’s glory upon the
enslaved women. Eternal as the sea.

The woman. Now a trophy of war.
The mother. On the ashes.

The Queen. Over the abyss.
We are here for Hecuba.

The only one that knows Ilium as her very soul.
Never will oblivion swallow her up.

Alive for all time.
From lyre to lyre. East to West.

That blood will whirl in the poets’ songs.
it will forever redden the world’s porphyry.

Dawn’s fingernail already shows on the horizon.
Odysseus’ whip cracks peremptorily

to his sail: “Let us to the Island . . . ”
The hymn of the strong bends the Trojan women. Leaving the shore.

In its wake, a trickle of water on death.

*

Fatelo sapere alla Regina

Fatelo sapere
alla Regina, ditelo anche al Re:

noi non abbiamo
bisogno di niente, né per la carne viva

né per il fiacco spirito del tempo.
Siamo ricchi di noi, dei profumi

del sole nelle primavere:
è questo mare aperto

il nostro poema di parole
sull’acqua, ci basta lo sciabecco

a sollevare spume. Olio
e ferite, vino e fatica,

festa e camicia pulita,
vento a danzare

nell’erba, amore nelle mani
che cercano

altre mani, oblio di anemoni
sui nervi delle pietre,

mulinelli di zagare all’alba.
Ditelo alla Regina, fatelo

sapere anche al Re:
non ci servono rubini

alle corone
né domandiamo le monete

d’oro. Siamo ricchi di noi
per l’incanto del cuore, la quieta

sapienza del pane, la saggezza *
del sale: per le sciabole
rosse dei papaveri nel grano.

Let the Queen Know

Let the Queen
know, and tell the King:

there is nothing
we need—neither for the living flesh

nor for time’s feeble spirit.
We are rich within, and with the sun’s

fragrance in the spring seasons:
this open sea

is our poem made of words
upon the water—the xebec is all we need

to lift the froth. Oil
and wounds, wine and toil,

a feast and a fresh shirt,
a wind to dance to

in the grass, love in the hands
that seek

other hands, buttercups’ oblivion
on the stones’ sinews,

twirling orange blossom at dawn.
Tell the Queen, and let

the King know:
we need no rubies

for crowns nor do we demand gold
coins. We are rich within

for the heart’s delight, the quiet
knowledge of bread, the wisdom

of salt; for the poppies’
red sabers amid the wheat.

Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto

Ettore senza scudo quasi a cibare i corvi.
Astianatte nella Pietas di braccia senza carne.

Andromaca. Né più moglie né madre.
Ecuba ora perde la parola. Non emette

un’onda la sua voce. Le rimane solo il gesto.
Il linguaggio dei segni volge sulle schiave

e a sé soltanto dice: “Nella terra di quali uomini
sono giunta? Sono selvaggi, senza giustizia,

o nella mente serbano e nei gesti
anche un esile rispetto degli dèi?”

Nell’Isola di Ulisse un poeta scioglie il canto
per la forestiera giunta come schiava:

“Sei bella. Sei bella come una Regina
con quei capelli tutti inghirlandati.

Slegali. Trema tutta la terra
se ti vanno a sfiorare

le caviglie alate . . . ” Un pastore (o un dio
greco) a Ecuba offre una ricotta calda.

Non guerrieri più all’orizzonte ma capre.
Soltanto capre sul prato di smeraldo.

“Ogni campano cerca la sua capra, ogni capra
il suo campano. Duecento strumenti

antichi come il pane. L’Isola è una cassa
di risonanza fra l’altopiano e il mare.”

Ecuba fa sue le parole del pastore.
(Rammenta che fu la capra Altea

a dare latte a Zeus ancora in fasce).
Ma un refolo salmastro tormenta la sua chioma.

Muore lo Scamandro fra i due accampamenti.
Si essiccano le fonti. Non è più lieto il timbro

delle due sorgenti sotto Troia.
E’ troppo mesto il cuore in esilio.

Le sonagliere dei mirti vanno verso il porto.
Odisseo tace. Beve a una coppa. Scruta il ventilabro.

I flutti lo richiamano. Lo invitano alla sfida.
Ecuba osserva il suo padrone. Ne avverte i palpiti.

Ne conosce i fremiti. Ne indovina i piani.
Ma Ilio è perduta. La sua città la inonda di ricordi.

E nelle mani stringe le carni sempre vive dei suoi morti.

The Myrtle-Leaf Harness Bells Go to the Harbor

Hector without his shield, like fodder for the crows.
Astaniax in the pietas of arms without flesh.

Andromache. No longer a wife nor a mother.
Now Hecuba is struck dumb. Her voice

utters not a ripple. She has only gestures left.
In sign language she addresses the slave women,

to herself she only says: “To the land of what men
have I come? Are they lawless savages,

or do they in mind and deed still have
a scrap of respect left for the gods?”

In the island of Ulysses a poet strikes up a song
for the foreign slave woman now here:

“You are lovely. Your are as lovely as a Queen
with your head wreathed in flowers.

Let your hair down. Were it to graze
your winged heels,

the whole earth would shudder.” A shepherd
(or a Greek god) offers Hecuba freshly curdled cheese.

On the skyline no warriors now, but goats.
Only goats on the emerald meadow.

“Every bell seeks its goat, every goat
its bell. Two hundred instruments

old as bread. The island resounds
from the highland to the sea.”

Hecuba uses the shepherd’s words as her own.
(She recalls that it was the goat Althaea

who fed milk to Zeus the swaddling babe.)
But a breeze with a salt tang tosses her hair.

The Skamander between the two camps dies.
The wells dry up. No longer do they sound a joyful tone beneath Troy.

Deep and mournful is the exiled heart.
The myrtle-leaf harness bells go to the harbor.

Odysseus is silent. He drinks from a cup. Gazes at the winnow.
The sea swell calls him, rises to challenge him.

Hecuba studies her master. She senses his throbbing.
She knows how he shudders. She guesses how he plans.

But Ilium is lost. Her city floods her with memories.
And in her hands she grasps the living flesh of her dead.

 

Antonio Sagredo Alfredo de Palchi

Antonio Sagredo a sx con Alfredo de Palchi

ANTONIO SAGREDO

Ho costretto la parola a vivere
sotto i ponti rugginosi di umide orbite
dove le lagrime sono il metallo fuso della ragione.

Sono vissuto levitando il mio pensiero esatto
mentre il mare divorava i miei occhi insensati.

Il verdetto oppose un forse al tribunale della memoria.

E scoppiarono macelli di rime nei riformatori
strapparono l’incanto ai come di sofferenti metafore
sinistri untori segnarono a sangue la parola viva!

Smorfie d’universi . . . denti invisibili . . . non-materia . . .

Energia, sei oscura . . . il numero è caduto nei suoi misteri!
Tutta la fisica dei secoli passati è franata
in coriandoli
in filastrocche di bordelli.

Danza il futuro nel serraglio di Erodiade!

Con quali passi tumefatti ho tagliato gli ormeggi?
Con quali languide parole ho cantato: crack . . . crack . . . crack?

(Roma, 7 aprile 1971)

I forced the word to live
under rusty bridges of damp orbits
where tears are reason’s melted metal.

Through life I’ve let precise thoughts float
while seas devoured my senseless eyes.

In memory’s court the verdict was uncertain.

And reform-school rhyme-rackets burst
and stripped pained metaphors of their charm,
grim plague-spreaders branded the live word in blood!

Universe-grimaces. Non-matter. Unseen teeth.

Energy, you obscure force . . . In its mystery
the number drops! All physics of past centuries
crumbled in confetti
and brothel nursery rhymes.

The future dances in Hérodiade’s menagerie!

With which swollen steps did I break the moorings?
With which faint words did I sing: crack . . . crack . . . crack?

(Rome, 7 April 1971)

*

Farsesco

Passavo di cantina in cantina le notti
tra le rosse strade di Scipione,
ieratico, sotto quei lampioni indifferenti,
poi che Roma non ha una mortalità decente.

Una voce:

e tu, dio, che invano guardavo negli occhi
attratto dai tuoi specchi inaccessibili
volgevi altrove i tuoi interessi divini,
come una donna accetta altri amori.
altra voce:

ma il tuo amore nessuno lo canta,
contro tutti e contro tutte
leverò le mie ossessioni
sarò . . . nella mia follia . . . un semi-serio!

Oggi è la festa della Saggezza:
ho letto tante volte i Cantici
e sono stato ucciso mille volte, come i Cesari!

(Roma, maggio 1981)

*

I spent my nights in wine taverns
down Scipio’s red street,
priest-like under those indifferent streetlights,
with Rome’s death rate still far from decent.

a voice:

and you god-into whose eyes I stared in vain,
drawn to your mirrors just out of my reach
turned your godly interests elsewhere
as a woman might welcome other loves.
another voice:

but no-one ever sings your love;
I’ll raise up my obsessions
against all men and women,
be half-serious in my madness!
Today we celebrate the Wise:
I’ve read the Canticles time and again
and like the Caesars I’ve been slain a thousand times!

(Rome, May 1981)

*

Io, qui, nella tua maschera rosa
oltre la forma dello specchio montone
òrbito i due centri al di fuori delle leggi
dove a stento la morte s’inarca come un ponte.
In altre stanze, arrivi disattesi, già sento

vagiti in lotta, smarriti, beffati dal cavo gioco
di perle ofidiche, perché uno solo è pronto per l’orrore:
il premio di una maschera, una medaglia, il tallone
dietro l’anima, il grumo dell’ultimo respiro.
Crestati imbonitori, rospi di luce, siete gravidi
d’applausi oltre la soglia coi primi passi
del bardo inglese vestito di gramaglie,
per essere in uno altare e ostia, sacerdote albino
goloso di fonemi e di frattali. E sono ratti
comparse spettri, viscido sudario
sotto i tori di ciechi simulacri,
ruggiti di rame contro i nostri morti,
giocatori d’azzardo, astragali di vermi quando la notte,
chiusa al canto, notifica con lingua mercuriale
il malgoverno e il tuo sguardo simili a monete
di menzogna.

(Roma, ottobre 1989)

*

I here, clad in your pink mask
beyond the form of the mirror ram,
I orbit two centers outside the law
Where death barely bends like a bridge.
In other rooms, arrivals ignored I hear
sparring cries, lost, tricked by the hollow play
of snake pearls, as only one is set for horror:
the prize of a mask, a medal, the heel
behind the soul, the last breath’s clot.
Crested showmen, light-toads, you’re pregnant
with applause, first steps beyond the door
of the English bard dressed in pall,
at once host and altar, albino priest
avid for fractals, phonemes. And rats
as phantom extras, the sticky shroud
below bulls of blind likeness,
copper roars against our dead,
gamblers, anklebone of worms
when the night, closed to song,
with mercurial tongue informs misrule
and your gaze like coins of lies.

(Rome, october 1981)

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19 risposte a “Mario Gabriele, How The Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019 pp. 330 $ 20.00, Poesie di Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo

  1. Alla limpida e coltissima relazione di Mario Gabriele sull’Antologia “How the Trojan War Ended…” ,che ringrazio, ammirato e grato, accosto qualche altra mia meditazione:

    Giorgio Linguaglossa (a cura di)
    AA.VV, How the Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019, pag. 342, 20 $

    Prefazione di John Taylor

    Novità editoriale

    Negli Stati Uniti è uscita la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» di quel paese. Curata da Giorgio Linguaglossa, tradotta da Steven Grieco Rathgeb e con prefazione di John Taylor, per i tipi e le cure di Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, l’Antologia How the Trojan War Ended I Don’t Remember, nel titolo ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per le Edizioni Progetto Cultura di Roma “Come è finita la guerra di Troia non ricordo…” con la prefazione di Giorgio Linguaglossa.
    I poeti presenti in “How the Trojan War Ended I Don’t Remember” si dispiegano lungo un arco generazionale di circa cinquant’anni, dal 1926, anno di nascita di Alfredo de Palchi (il primo libro è del 1967, Sessioni con l’analista) passando per Anna Ventura, il cui primo libro Brillanti di bottiglia è del 1978, fino alla più giovane, Chiara Catapano. I poeti antologizzati, Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura, Antonella Zagaroli, si muovono per lingua, lessico e scelte tonali nello spazio espressivo integrale nel ripudio diffuso dell’Io narcisistico del diario quotidiano. Qualche autore/autrice poi si volge al metodo mitico e ai miti. Guarda a ciò che negli ultimi trent’anni nei cinque continenti e in centinaia di lingue, con stili e obiettivi assai diversi, si sta verificando nel mondo reale attraverso le tragedie archetipiche di Sofocle, di Eschilo, e soprattutto di Euripide: il mondo dei miti è diventato uno dei prismi culturali ed estetici in cui questo mondo conflittuale e dis-funzionale ha tentato e cerca di vedere riflessa la propria immagine. A tale proposito scrive John Taylor nella Prefazione: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o riutilizza il passato nel presente…i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano…» Da un autore all’altro, da un’autrice all’altra, anche se ci sono sfumature per storie personali e temperamenti poetici differenti, si ritrovano un identico sentimento, quello di una sorta di «spavento del destino e della storia» che però non ha prodotto la «paralisi della poesia pensante», e un identico pensiero, da racchiudere in una sola etichetta appropriata, quella di «umanesimo critico». Perciò i 14 poeti scelti e antologizzati dal curatore Linguaglossa si impongono come figure luminose le quali anche nel Grande Gelo della parola ibernata e della stagnazione estetica e morale, per dirla con Tzvetan. Todorov, « continuano a credere che l’uomo merita di rimanere lo scopo dell’uomo». Per la completa fruizione di questa Antologia “americana” non si può fare a meno della dotta nota di lettura di Letizia Leone, quando per esempio la Leone afferma che il curatore della Antologia propone una sorta di nuova poesia modernista italiana che il critico John Taylor coglie e segnala in prefazione come «versi più massimalisti che minimalisti»; né si può fare a meno dell’intervista-colloquio di Marie Laure Colasson a Giorgio Linguaglossa ( entrambe proposte sulle recentissime pagine de L’Ombra delle Parole), soprattutto quando l’amico Linguaglossa incalzato dalla intervistatrice Colasson si pronuncia così sul “Perché” di questa Antologia di poesia italiana contemporanea: «Era necessario mostrare un percorso significativo della poesia italiana contemporanea, indicare alcune radici, da dove si viene: dal modernismo europeo, e dove si va: verso un nuovo modernismo. Il mio intento è quello di mostrare come certe linee di forza che hanno attraversato e fermentato l’area della poesia del modernismo europeo agissero, fossero presenti da lungo tempo anche in Italia[…] Riformulo in altro modo la mia precedente risposta. Perché uno o due poeti di altissimo livello possono trovare terreno fertile per svilupparsi soltanto quando il terreno della koinè linguistica e stilistica è stata messa a punto da un lavoro a monte, quando è stata preparata dal lavoro di almeno due, tre generazioni di poeti, quando sono state messe a punto quelle condizioni filosofiche di poetica, lessicali e stilistiche che soltanto possono consentire la nascita e lo sviluppo di una poesia italiana di alto livello».Si registra un sostanziale accordo fra questa chiosa dell’amico Linguaglossa e lo spirito generale che attraversa il pensiero del critico statunitense, specialmente quando nella meditazione centrale della prefazione John Taylor così scrive:
    « […] Although there are exceptions, including poems by some of the aforementioned poets (that is, pieces dissecting “affiliations,” such as those between poet and parent, between poet and sibling, or exploring other key personalevents), the anthology tends to highlight verse that is much more maximalist than minimalist.
    Grouping his own poems under the title “Should I Return to Caesar’s Court?,” Giorgio Linguaglossa (who has put together this anthology) implicitly challenges contemporary poets to respond to the same question. One has little trouble sensing that he especially targets poets oriented towards the modest particulars of daily life per se, or towards the vicissitudes of theirown current existences, instead of towards the historical, mythical, scientific and philosophical backgrounds rummaged through by most of the poets in this anthology. Such, of course, is just one of the battle lines that can be drawn between contemporary poets in Italy or elsewhere. The radical differences that can exist between the kinds of subject matter considered, by any given poet, as appropriate or promising for poetry, are also visible in Gino Rago’s general title for his interconnected pieces. “We are Here for Hecuba” assuredly suggests an intention to open up a wider perspective than is delimited, for better or worse, by a strictly autobiographical inspiration or an objectivism of the “no ideas but in things” genre…».
    (Sebbene ci siano eccezioni, tra cui poesie di alcuni dei suddetti poeti (cioè pezzi che dissezionano le “affiliazioni”, come quelle tra poeta e genitore, tra poeta e fratello, o esplorando altre chiavi personali eventi), l’antologia tende a mettere in luce versi che sono molto più massimalisti che minimalisti. Raggruppando le sue poesie sotto il titolo Dovrei tornare a Caesar’s Court?, “Giorgio Linguaglossa (che ha messo insieme questa antologia) sfida implicitamente i poeti contemporanei a rispondere alla stessa domanda. Si hanno pochi problemi a percepire che ci si rivolge in particolare ai poeti orientati verso i particolari modesti della vita quotidiana in sé o verso le loro vicissitudini, le proprie esistenze attuali, anziché verso quelle storiche, mitiche, scientifiche, e sfondi filosofici rovistati dalla maggior parte dei poeti in questa antologia. Tale, ovviamente, è solo una delle linee di battaglia che possono essere tracciate tra poeti contemporanei in Italia o altrove.
    Le differenze radicali che possono esistere tra i tipi di soggetti considerati, sono visibili anche nella poesia di Gino Rago: titolo generale per i suoi pezzi interconnessi. “We are Here for Hecuba” sicuramente suggerisce l’intenzione di aprire una prospettiva più ampia di quella delimitata nel bene e nel male da un’ispirazione strettamente autobiografica o da un oggettivismo del genere “niente idee ma nelle cose”).
    Questa Antologia curata dall’amico Linguaglossa viene da lontano, soprattutto dal martellante lavoro sul frammento e sul frammentismo intrapreso e sostenuto senza risparmio di energie da L’Ombra delle Parole e se da un lato l’Antologia How the Trojan War Ended … cristallizza per molti dei poeti antologizzati gli esiti di una ricerca poetica di quasi un lustro fa, dall’altro ha saputo costituire una solida, certa base di partenza verso altri approdi poetici come ad esempio quello della forma-polittico-in-distici che rispetto allo stato attuale della poesia contemporanea in Italia costituisce per me la punta più avanzata della nostra poesia.

    (gino rago)

  2. «All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza,
    abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella contrada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo.Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi
    ideali che sono le parole.

    È infatti nel cerchio del dire che le cose, prendendo la parola, si fanno incontro agli uomini e si lasciano da loro comprendere, si raccontano. Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose per me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.»1

    È un invito a leggere questa Antologia come un abitare il nostro mondo, o quella piccola parte di mondo che noi siamo e che siamo soltanto per mezzo delle parole. Sono le parole che ci dischiudono un mondo, senza di esse non sapremmo neanche nulla di questo mondo. Ecco, il poeta è colui che abita le parole e che si inoltra nella contrada, che esplora gli Holzwege e gli Irrvege.

    Abitare non equivale a venire alla presenza ma ek-sistere nella temporalità e nello spazio, e questo è possibile soltanto mediante la forma.
    Alla fine della metafisica si scopre che la fine è nient’altro che un nuovo inizio. Solo che esso è irriconoscibile. Il lessico, la struttura grammaticale della nuova metafisica, della metafisica che viene dopo la metafisica, è, di fatto, irriconoscibile.

    Scrive Andrea Brocchieri interpretando il pensiero di Heidegger:

    Alla fine della metafisica, attraverso una risonanza (Anklang) e retroflette l’essere indietro nel tempo, la fine s’incontra con il suo momento iniziale.
    In questo incontro l’essere non appare più solo come l’uniforme presenza dell’ente, ma – all’inverso di quel che risaltava nel primo principio – ora emerge e prende rilievo l’essere come assenza (Ab-wesenheit), come sottrazione (Entzug). Questo è ora l’elemento dominante, ciò che è da pensare. La storia della metafisica si spinge oltre se stessa (Sprung), si retroflette e ricade indietro, spezzando l’ordine del suo tempo cronologico;questa frattura (Zerklüftung, Kluft) nell’essere fa insieme emergere (1) l’essere come assenza e (2) la possibilità dell’altro principio, vale a dire del principio di un altro mondo storico. Il gioco passa all’altro principio (Zuspiel).

    Si tratta anche qui di “saltare” attraverso questa frattura storica che ci consentirebbe di raggiungere la nostra propria origine, di er-eignen (raggiungere) il luogo (Ort) da cui siamo venuti e da cui – in ogni caso – ripartiremo. Er-eignis, in senso “seinsgeschichtlich”, indica questo evento del ricongiungimento con il luogo originario, l’autentica Heimat dell’Occidente, cioè l’esserCi pensante del primo pensiero greco.Qui Heidegger ripresenta la dinamica della possibilizzazione di Sein und Zeit esplicitandone il senso storico, ovvero la ribalta sul piano non prioritariamente esistenziale ma prioritariamente della storia dell’essere. Da questo punto di vista l’Ereignis è il gioco che possibilizza il mondo storico.

    Andrea Sangiacomo in Scorci_1. Pagina 10
    Andrea Brocchieri https://www.academia.edu/5304733/Heidegger_la_possibilit%C3%A0_nel_pensiero_dellEreignis?email_work_card=view-paper

  3. Giuseppe Talìa

    Devo ringraziare l’amico Mario M. Gabriele per aver postato in traduzione italiana la prefazione all’antologia How The Trojan War Ended I Don’t Remember di John Taylor.

    Purtroppo ancora non ho ricevuto le copie, pare siano tornate indietro, in America.

  4. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/09/21/mario-gabriele-how-the-trojan-war-ended-i-dont-remember-an-anthology-of-italian-poets-in-the-twenty-first-century-chelsea-editions-new-york-2019-pp-330-20-00-poesie-di-renato-minore/comment-page-1/#comment-59257
    Una poesia di Marie Laure Colasson
    (trad. di Edith Dzieduszycka)

    Roulement de tambour
    La pluie
    Une fleur rouge
    Ses pas verts
    Un envol cinématographique

    Entre deux hommes
    Un mort un vivant
    Si différents
    Comparaison confusion
    Charlotte enfourche son Harley Davidson
    S‘échappe

    Les oiseaux
    Flèches du ciel
    Revêtent leurs combinaisons spatiales
    Pour affronter les astres

    “fleurs de nénuphars”
    Dans la poitrine
    Zaza enfile des vérités
    Comme des perles
    Avec humour

    Sœur Candida de la perversion
    Droguée de Sporanox
    Pourtant la nuit …………

    L‘astrophysicien
    Observation au télescope
    Couleurs et ombres
    Changeant selon les heures
    Se gratte le crane

    Barbara et Rimbaud
    Un voyage à travers les océans
    “ allèrent (….) à la plage
    Et firent beaucoup d ‘ enfants “

    Langueur et envolées des violons
    Cristallisations les yeux clos
    Méditation de Massenet

    Miss Vitamines
    A B C D E
    Quatre-vingt milliards de probiotiques
    Transformation subite
    En poupée gonflable

    *

    Rullo di tamburo
    La pioggia
    Un fiore rosso
    I suoi passi verdi
    Un volo cinematografico

    Tra due uomini
    Uno morto uno vivo
    Così diversi
    Confronto confusione
    Charlotte cavalca la sua Harley Davidson
    Scappa

    Gli uccelli
    Frecce del cielo
    Indossano le loro tute spaziali
    Per affrontare gli astri

    “fiori di ninfea”
    Nel petto
    Zaza con umorismo
    Infila verità
    Come fossero perle

    Sorella Candida della perversione
    Imbottita di Sporanox
    Però di notte………

    L’astrofisico
    Osservazione al telescopio
    Colori e ombre
    Mutanti a secondo delle ore
    Si gratta il cranio

    Barbara e Rimbaud
    Un viaggio attraversando gli oceani
    “si recarono (…) in spiaggia
    E fecero molti figli”

    Languore e voli di violini
    Cristallizzazioni ad occhi chiusi
    Meditazione di Massenet

    Miss Vitamine
    A B C D E
    Ottanta miliardi di probiotici
    Immediata trasformazione
    in bambola gonfiabile

    Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole

    Le poesia sopra postata offre al lettore una pinacoteca di Figure che transitano nel nulla con il nulla sullo sfondo e il nulla nelle Parole. Sbaglierebbe chi giudicasse questa poesia come un «gioco» alla maniera novecentesca di Apollinaire o di Jean Genet, qui non c’è nessun «gioco», e, se c’è, è un gioco serissimo e leggerissimo che ha a che fare con le Figure che si presentano sull’orizzonte dell’apparire per poi, subito dopo, scomparire, e magari ricomparire in altre guise, sotto altre vestizioni. L’orizzonte degli eventi è abitato da Figure. Anzi, le Figure sono propriamente l’orizzonte degli eventi e gli enti abitano quest’orizzonte. Miss Vitamine, Charlotte, Zaza, Sœur Candida de la perversion sono propriamente delle Figure in transito, appena nominate, sfuggono via, hanno un barlume fuggevole di esistenza, e poi più nulla, appena nominate sono già nel passato. Lo sfondo di questa poesia è il nulla, il senza-fondo. Ed è sullo sfondo di questo senza-fondo che possono transitare le fuggevoli Figure che popolano questa poesia. In tal senso, le Figure sono eterne, perché eternamente si rinnovano ed eternamente transitano nel nulla.

  5. Claudio Borghi

    Ho preso atto della pubblicazione di questa antologia in principio davvero con piacere per gli autori che hanno avuto questa soddisfazione, per quanto con alcuni di questi negli anni passati io abbia avuto confronti piuttosto accesi, ma animati da sincera passione e da una condivisione profonda della necessità del fare poesia. Ho avuto anch’io recentemente la soddisfazione di vedermi pubblicato in Chelsea Editions un volume antologico, con un’ampia selezione di inediti, “The still flight”, uscito nel dicembre scorso. Il libro ha ottenuto buoni riscontri negli Stati Uniti, senza che io muovessi un dito per autopromuovermi. Circa l’antologia recentemente uscita, un senso di disagio mi è però nato in seguito, leggendo sul sito della casa editrice la scheda del libro, dove trovo scritto, fra l’altro: “The reader of this fine edition printed in large type will become familiar with some of the major Italian poets of today and with some who are not yet major.” Una frase del genere mi ha messo i brividi, non certo perché potrebbe non corrispondere al vero (in base a quali parametri qualcuno decide chi è migliore di chi?!), ma semplicemente perché l’ha evidentemente scritta il compilatore della raccolta, cioè Linguaglossa. Il quale ha fatto di tutto in questi ultimi anni per promuovere le sue idee critiche e poetiche, sminuendo o radendo a zero la reputazione di poeti che vanno per la maggiore, come De Angelis o Magrelli, Buffoni o Gualtieri, che, guarda caso, De Palchi ha accolto nella sua preziosa collana, in quanto evidentemente li stima. Mi è venuto allora il dubbio che Linguaglossa, accecato dalla volontà di mettere se stesso e i poeti che si riconoscono nel suo pensiero e nella sua visione della letteratura al centro dell’attenzione, sia arrivato al punto di perdere qualsiasi senso della misura, considerando alcuni autori nell’antologia come tra i maggiori poeti italiani viventi, gli altri in procinto di diventarlo. Incredibile: quale poeta o critico scrive o antologizza altri formulando un giudizio simile? La questione centrale non è chiaramente se uno sia migliore dell’altro, che mi sembra un gioco infantile, quanto piuttosto fare un sevizio alla poesia italiana per i lettori negli Stati Uniti. Chi legge se ne frega se l’estensore della raccolta ritiene chi ha antologizzato migliore di altri, in quanto di leggere e farsi un giudizio è capace da solo. Mi è allora nato un senso di dolore che si è fatto sempre più acuto, al punto che ho deciso di scrivere. Non voglio esprimere, sia chiaro, nessun giudizio sul valore degli autori antologizzati, molti dei quali sinceramente apprezzo, circa i quali penso essermi espresso in modo chiaro nel periodo in cui ho partecipato ai dibattiti, per quanto non sempre sereni e improntati a correttezza e rispetto, su questa rivista. Circa la mia esperienza personale, nel cuore mi è rimasta la traccia profonda dell’incontro prezioso e unico con Alfredo, che ringrazio per avermi valorizzato e che certo ha apprezzato De Angelis e Magrelli, Buffoni e la Gualtieri, ecc., visto che li ha pubblicati, e non so quanto condivida il giudizio su autori che Linguaglossa ha innalzato a un tanto elevato rango. Ho sempre concepito la letteratura, la filosofia e la scienza, come confronto e dialogo. Spiace constatare che qualcuno riduca il pensiero creativo, potente nella sua volontà di penetrare il mistero ma esile come le ali di un insetto, a una questione di primato.

    In ogni caso, buona fortuna, buon libro a tutti voi.

  6. gentile Claudio Borghi,

    il testo da lei citato in inglese è del prefatore John Taylor:

    “The reader of this fine edition printed in large type will become familiar with some of the major Italian poets of today and with some who are not yet major.”

    Ergo, le sue argomentazioni e illazioni e diffamazioni sul mio operato critico sono destituite di fondamento.

  7. Claudio Borghi

    Gentile Giorgio Linguaglossa,

    al solito la metti sul personale e mi accusi di averti diffamato. Io non ho diffamato proprio nessuno, ho solo espresso un mio stato d’animo e tratto conclusioni che mi sembrano venire limpide dalla logica dei fatti, visto quello che scrivi da anni su questa rivista. Stando alla traduzione letterale dell’introduzione critica che Mario Gabriele ha riportato, non risulta che John Taylor, poeta e critico serio e ponderato, come del resto traspare dalla limpida nota in cui si sbilancia mai in giudizi di merito, possa aver redatto una quarta di copertina così sbilanciata, riportata nella scheda del libro nel sito dell’editore, in cui Tayloro è citato, tra virgolette, dopo la frase che io ho riportato.

    Perché darmi del lei, poi, per rimarcare il tono risentito della risposta? Lasciamo stare. Porta avanti la tua promozione, ne hai pieno diritto, la rivista è tua, ma non puoi impedire a chi la pensa diversamente da te di esprimersi, specie nel mio caso, visto che ho sempre tentato di tessere un confronto serio con tutti voi e sono stato trattato, come ben sapete, tu e diversi autori che hai antologizzato e tanto entusiasticamente valorizzato, in modo per niente accogliente, a ben vedere senza ragione, o con la ragione, da parte tua, di stilare graduatorie circa la qualità letteraria fondate su discutibilissimi criteri di merito su chi è più moderno.
    Te la lascio tutta la tua modernità nichilista.
    Buona fortuna.

  8. Signor Borghi,

    è pregato, se deve citarmi, di verificare prima se le le parole che lei mi affibbia siano mie o di altri. Nel caso in questione, lei mi attribuisce giudizi negativi e diffamatori su altri poeti italiani che non corrispondono a quanto io ho scritto. Per l’avvenire, la prego di citare esattamente le mie parole senza affibbiarmi giudizi sommari che io non ho mai pronunciato, e di astenersi dall’usare lessico e toni diffamatori.

  9. Claudio Borghi

    La mia replica è stata cancellata. Segno che su questa rivista non è possibile esprimere libere opinioni

  10. Claudio Borghi

    Ah adesso è ricomparsa… Siggnor Linguaglossa, se vuole discutere entri nel merito, non continui ad accusarmi assurdamente di averla diffamata. Se John Taylor ha formulato quel giudizio, io le chiedo scusa. Se così non è la cosa è inquietante. In ogni caso è impossibile discutere perchè lei la mette subito sul piano della contesa. Buona fortuna, ripeto, e grazie per non avermi cancellato come ha fatto con qualche commento comparso nel frattempo che non ha gradito.

  11. DAVIDE INCHIERCHIA

    Gentile Giorgio Linguaglossa,
    intervengo brevemente dopo tanti mesi soltanto per segnalare un profondo disagio che assale sempre più pesantemente un profano della poesia contemporanea – quale io sono – ogniqualvolta ritorno a visitare speranzoso questa Rivista.
    In effetti chi, come me, proveniente dal mondo della filosofia ambisce a farsi un’idea della cultura poetica italiana degli ultimi decenni, fatica non poco ad orientarsi in un luogo dove il discrimine tra “nuovo” e “passato”, o tra “classico” e “moderno” si fonda su discutibilissime – per nulla oggettive – gerarchie personalistiche, impressionismi rapsodici e un malcelato, compiaciuto autoreferenzialismo.

    In tutto ciò io ravviso, con amarezza, una tendenza sempre più diffusa negli ambienti intellettuali – non solo letterari – volta a ridurre la ricerca conoscitiva a mera pulsione individualistica, l’espressione artistica ad esaltazione quasi caricaturale delle proprie irrisolte idiosincrasie, e l’esperienza del senso ad un’enfatica, ma del tutto contraddittoria nientificazione post-esistenzialistica dell’umano sentire e dell’umano sapere (la sedicente cultura della “post-verità”: tanto celebrata nella sua presunta ‘attualità’, quanto ormai obsoleta sul piano epistemologico e speculativo: si veda l’ultimo audace studio di E. SEVERINO “Testimoniando il destino”, Adelphi 2019).

    Il punto è, caro Linguaglossa, che “dire” qualcosa è condizione necessaria ma NON sufficiente perché qualcosa abbia significato (nella fattispecie significato poetico): irrinunciabile è sempre il “pensare”, ovvero lo sforzo di attingere a quel nucleo generativo di Aletheia, che traluce nel nostro stesso “essere manifesti” a noi stessi e che non si cancella con qualche pennellata di nichilismo ‘mediatico’, sia pur raffinato e tecnicamente agghindato.

  12. gentile Davide Inchierchia,

    lei scrive di mie, nostre:

    «discutibilissime gerarchie personalistiche, impressionismi rapsodici e un malcelato, compiaciuto autoreferenzialismo […] esaltazione quasi caricaturale delle proprie irrisolte idiosincrasie […] nientificazione post-esistenzialistica […] nichilismo ‘mediatico’…».

    Capisco che la pubblicazione di una Antologia della poesia italiana contemporanea negli Stati Uniti (la prima e unica) nella quale sono presenti poeti che lei non ritiene rappresentativi possa dar luogo alla sua ripulsa, ma almeno se ha qualcosa da dire scenda nel merito delle argomentazioni e delle tesi esposte nella rivista senza rifugiarsi nel genericismo di accuse personalistiche tese a intorbidare il percorso intellettuale della rivista. Scenda, la prego, dal suo trono d’avorio e entri concretamente nella disamina delle proposte di poetica e di poesia presentate, così renderà un tributo alla sua intelligenza e alla nostra modesta anche.

  13. DAVIDE INCHIERCHIA

    Gentile Linguaglossa,
    la mia “ripulsa” non nasce affatto dalla pubblicazione americana di una selezione di poeti italiani: iniziativa di per sé legittima ed anzi encomiabile. Come ho onestamente ben precisato (qui e in altre passate occasioni) non ho la presunzione di saper giudicare o anche solo valutare il valore artistico di un’opera poetica o di un autore: non ne ho né la competenza né l’interesse.
    Il mio contributo – insieme più semplice e più radicale – intendeva ed intende circostanziare il limite filosofico, ossia di ‘pensabilità’, degli assunti teorici su cui questa Rivista si erge: un intreccio di presupposizioni ideologiche, ribadite anche negli interventi di questa sezione, riassumibili a mio avviso in due nodi concettuali ben precisi:

    – la condizione “post-metafisica” come “fine” della metafisica
    – il pensiero del “non-essere”

    Pongo soltanto due domande:
    1) Se meta-fisica, nella originaria definizione trascendentale parmenideo/platonico/aristotelica, è la condizione stessa del pensante il cui “essere-in-atto”, pensandosi, costituisce ogni “essere-possibile”, chi o cosa penserà la (presunta) condizione di post-metafisica? Un post-pensiero? Ma un post-pensante sarebbe un pensante che si sdoppia tra un sé pensante e un non-sé non pensante: contraddizione (A = nonA)
    2) Di conseguenza e analogamente, se essere è lo stesso che pensare – poiché essente in senso stretto “è” il pensante che “sa” se stesso e, sapendosi, sa ogni “altro” da sé – chi o cosa penserà il (presunto) “non-essere”, senza cadere nella suddetta aporia?

    Come può vedere, caro Linguaglossa, qui non c’è alcuna torre d’avorio, ma solo la volontà di fare chiarezza su quel sostrato logico-ontologico della metafisica che la “nuova ontologia” (beninteso: non solo della NOE, ma di tanta cultura contemporanea di matrice heideggeriana) afferma di dover oltre-passare.
    Certo, si può continuare a scrivere e a leggere poesia dove si inscenano infinite immagini del mondo (così come in fisica quantistica si possono continuare ad ipotizzare infiniti “mondi possibili”). Tuttavia poi si deve tornare a fare i conti con la “realtà” di questo mondo, e col “pensiero” che ne delimita l’orizzonte.

  14. gentile Inchierchia,

    lei scrive con lessico e tono intimidatori:

    «poi si deve tornare a fare i conti con la “realtà” di questo mondo, e col “pensiero” che ne delimita l’orizzonte».

    Ovviamente, dobbiamo rendere conto a Lei in quanto si identifica con colui che «delimita l’orizzonte» e impersona la «realtà di questo mondo», vero?

    Davvero, forse ne è inconsapevole ma le sue parole recepiscono intera la sua supponenza.
    Quanto alle sue due «domande filosofiche» (in realtà dei giochetti verbali), la lascio volentieri alla sua filosofia «parmenideo/platonico/aristotelica».
    Buonasera.

  15. DAVIDE INCHIERCHIA

    gentile Linguaglossa,
    non mi sembra corretto estrapolare una mia frase conclusiva, che con tutta evidenza ha senso soltanto in riferimento all’intero mio intervento, e conferirle un senso arbitrariamente “intimidatorio”. E perché lo sarebbe? Forse perché il mio discorso non rientra nei parametri NOE?
    Noto del resto che, anziché argomentare una risposta, preferisce liquidare le domande metafisiche che ho sollevato come “giochetti verbali”: per quale ragione poi le mie sarebbero da definire tali e, invece, le sue lunghe disquisizioni poetico-estetologiche no?

    Vede, a me hanno insegnato che se si vuole restare nell’ambito di una autentica ed onesta ricerca teoretica – come nella presente Rivista pur si dichiara a gran voce – non basta ‘etichettare’ i pensatori, credendo così di avere già risolto il problema:
    ritiene forse che il pensiero dell’Essere sia catalogabile come questione ‘antiquaria’ o, peggio, ‘dogmatica’ unicamente citando qualche estemporanea pagina heideggeriana?

    Prima di dare all’interlocutore del supponente, caro Linguaglossa, rifletta bene su quanta supponenza si cela dietro quel “la lascio volentieri alla sua filosofia «parmenideo/platonico/aristotelica»”.
    Già solo il fatto che lei insista a qualificare la filosofia come “mia” o “sua” – confondendo Logos (pensante) e linguaggio (pensato) – fa sorgere seri interrogativi sulle sue competenze in materia.
    La lascio ugualmente alla sua “post-metafisica”, se le piace e le è più congeniale, ma non si stupisca o si irriti se qualcuno solleva dei dubbi legittimi sulla sua attendibilità razionale, cercando di segnalare la differenza cruciale che sussiste tra dialettica e (neo) sofistica. E’ il metodo socratico, non l’ho inventato io: se ne faccia una ragione.

  16. gentile Inchierchia,

    le rispondo con una glossa postata nel polittico di oggi:

    È un invito a leggere l’Antologia How The Trojan War Enden I Don’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019, a cura di Giorgio Linguaglossa con Prefazione di John Taylor, traduzioni di Steven Grieco Rathgeb) come un abitare il nostro mondo, o quella piccola parte di mondo che noi siamo e che siamo soltanto per mezzo delle parole. Sono le parole che ci dischiudono un mondo, senza di esse non sapremmo neanche nulla di questo mondo. Ecco, il poeta è colui che abita le parole e che si inoltra nella contrada, che esplora gli Holzwege e gli Irrvege.

    Abitare non equivale a venire alla presenza ma ek-sistere nella temporalità e nello spazio, e questo è possibile soltanto mediante la forma.
    Alla fine della metafisica si scopre che la fine è nient’altro che un nuovo inizio. Solo che esso è irriconoscibile. Il lessico, la struttura grammaticale della nuova metafisica, della metafisica che viene dopo la metafisica, è, di fatto, irriconoscibile.

  17. DAVIDE INCHIERCHIA

    gentile Linguaglossa,
    lei scrive:
    «Abitare non equivale a venire alla presenza ma ek-sistere nella temporalità e nello spazio, e questo è possibile soltanto mediante la forma. Alla fine della metafisica si scopre che la fine è nient’altro che un nuovo inizio».

    Platone, nel V° secolo a.C., già scrisse che la “forma” (eidos) è il nostro modo, tutto umano, di partecipare al manifestarsi dell’essere. Noi tutti ci troviamo all’interno di una Caverna e ciò che ci sta di fronte sono “ombre” di cose che stanno dietro di noi, irradiate e attraversate dalla luce di un Sole che – a sua volta – è dietro le cose, al di sopra di noi: il Sole non si può vedere direttamente, ma ne possiamo “partecipare” attraverso le ombre che ci proietta.
    (Cfr. PLATONE, Repubblica, Libro VII, 514a – 517d)

    Ecco, caro Linguaglossa, le origini ‘mito-poietiche’ di quella metafisica che dunque, già nel suo primo inizio, è già radicalmente consapevole della sua fine:
    una “fine” che è – in realtà – il suo medesimo “fine”: infinitamente ritornante, ovvero che non può mai “finire”.

    La saluto

  18. Infatti, gentile Inchierchia,

    siamo d’accordo… almeno su questo punto…
    L’essenza del Niente è la nientificazione, che ci porta dinanzi alla consapevolezza che «ci perdiamo completamente nell’ente».
    “L’essenza della metafisica è l’andare oltre ente: in quanto trascendenza l’esserci si trova perciò da sempre in essa… il pensiero è metafisico in quanto proiettato nell’oltrepassamento dell’ente è tuttavia destinato a smarrirsi in esso.
    Provo a dire qualcosa del nostro modo-di-vita e della nostra costituzione esistenziale con le mie parole:
    L’arte, la poesia fa parte integrale di questo oltrepassamento dell’ente rispetto a se stesso; e in questo oltrepassamento si può riconoscere come irriconoscibile, come essere spaesato, fuori luogo e fuori tempo. Nell’arte fuggiamo dall’angoscia che che sempre costitutivamente ci occupa, fuggiamo dalla insignificanza. È questa la nostra Stimmung, il nostro particolare essere nel mondo, in fin dei conti la nostra metafisica è il nostro esistenzialismo.

    L’essenza della metafisica è possibile scoprirla soltanto se si dà l’oltrepassamento di essa…

    Ad ogni epoca della metafisica corrisponde una determinata situazione emotiva, una determinata Stimmung.
    L’esserci «è la località della verità dell’essere»1, e Il tempo si rivela ora come l’orizzonte entro cui va pensata la verità dell’essere, ossia entro cui l’essere si svela e si occulta.

    Scrive Livio Cinardi:

    «Ciò che nella domanda è in domanda è l’essere che avverto, ex-per-isco come Stimmung, come tonalità emotiva, come stato d’animo, come vibrazione. Io sono toccato da ciò che cerco, ovvero gettato nel cercare. Per questo lo cerco. La gettatezza è allo stesso tempo pro-getto. È una co-struttura. L’esserci è quell’ente che in quanto è gettato nel mondo, gettato in ciò che è, si lascia toccare da questo getto (che è dell’essere dell’esserci) e in questo getto che lo tocca e lo riguarda, progetta se stesso. Questo pro-gettare se stesso,questo gettare-innanzi se stesso, è trascendenza, è esistenza. Essere già sempre oltre. Non in senso religioso: non è verso dove, ma è oltre, in senso ontologico, costitutivo: fenomenologico. L’esserci ontologicamente non è già, lo ripetiamo, de-finito (non ha una essenza che lo determini). l’esserci è in quanto poter-essere, in quanto possibilità.»

    1] M Heidegger, Introduzione a Che cos’è metafisica? cit. p. 1!1

  19. DAVIDE INCHIERCHIA

    gentile Linguaglossa,
    certo, in parte concordo. Indubbiamente Heidegger è stato un grande de-costruttore del concetto di “metafisica” e ha determinato una sorta di punto di non-ritorno con cui ancora oggi, volenti o nolenti, ogni linguaggio filosofico (e non solo filosofico) è chiamato a confrontarsi.

    Mi permetto tuttavia di precisare che il testo sopra citato risale al cosiddetto “primo” Heidegger, al suo periodo appunto esistenzialista (categoria comunque da lui mai accettata fino in fondo).
    Ma non si deve altresì misconoscere che c’è tutta una riflessione successiva, dalla fine degli anni ’30 agli anni ’70 – di fatto la produzione maggiore dell’Autore – nella quale Heidegger come noto intraprende una lunga, complessa e mai conclusa rielaborazione della questione metafisica, diversamente articolata rispetto alle tematiche originatesi in Essere e Tempo.
    Ora, a partire da questa cosiddetta “seconda” fase (Kehre), Heidegger pone una nuova – in realtà antichissima – domanda che possiamo sintetizzare e schematizzare così:

    è l’Esserci a MANIFESTARE l’Essere o, all’inverso, è l’Essere a MANIFESTAR-SI nell’Esserci?

    Ecco allora che proprio Heidegger, colui che aveva diagnosticato la “fine” della metafisica, si ritrova a dover riconsiderare (platonicamente!) la PRESENZA dell’Essere come “principio” eidetico – ossia NON “contenuto” del pensiero, bensì costitutivo del nostro stesso “atto” pensante quale sua Luce (Lichtung) – e la TRASCENDENZA come “essenza” di Aletheia, ontologicamente precedente e fondante l’Esserci: dunque irriducibile al Dasein e a qualunque sua pur legittima fenomenologia storico-esistenziale.
    Da qui la necessità urgente del “pensiero poetante”, dalla grande ispirazione holderliniana, ovvero il ritorno prepotente e ‘destinale’ della metafisica in quanto “poiesi” dell’Essere.

    Attenzione, insomma, quando ci si riferisce ad Heidegger e lo si scambia troppo frettolosamente per un ‘post-metafisico’…
    Buona sera

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