Marie Laure (Milaure) Colasson nasce a Parigi e vive a Roma. Pittrice, ha esposto in molte gallerie italiane e francesi, sue opere si trovano nei musei di Giappone, Parigi e Argentina, insegna danza classica e pratica la coreografia di spettacoli di danza contemporanea. Scrive poesie nella sua lingua naturale, il francese ma non ha mai pubblicato prima d’ora le sue poesie.
Lettura di Mario Lunetta
I frammenti espropriati di Marie Laure Colasson
Marie Laure Colasson, che ha alle spalle un probantissimo lavoro di costruzione linguistica nell’ambito di un’astrazione geometrica carica di sorprese, continua a mettere lo spettatore con le spalle al muro presentando questa nutrita serie di collages trattati con la mentalità di un pittore di affreschi che abbia imposto al baricentro del discorso una concentrazione repentina. Non c’è in queste opere di affascinante tenuta una stilla di pietà, ma solo un fortissimo entusiasmo ritmico-cromatico strutturato su una volontà di costruzione continuamente smembrata dall’interno, in attesa di un evento che stia per accadere, inevitabile, quasi un racconto noi squadernato per morceaux che fanno insieme puzzle e organismo.
I frammenti del mondo, ricomposti e obbligati a esprimersi in un’altra lingua, sono come ripescati da una qualche profondità misteriosa sorpresa da un vortice. È come se tutto fosse attraversato da una sorta di apocalisse cui si oppone tuttavia una muscolatura di rilevante solidità dinamica, in cui la stessa inquietudine non si sterilizza in sé, per farsi invece profonda passione per la vita.
Vi alitano dentro lo spirito di Kandinskij e la potenza operaia di Léger, rimessi in circolo in questo enigmatico viaggio volumetrico-coloristico da una seria di spinte illocalizzabili. Non c’è niente di contemplativo e di riposante in queste opere di straordinaria vitalità e di ferma intelligenza. C’è, al contrario, la volontà inesausta di misurarsi senza infingimenti con un universo di rapporti violentemente squilibrato, cui non è più plausibile fornire alibi che ne mettano tra parentesi le lacerazioni sanguinose. Sarei tentato, sulla suggestione di un pensiero materialistico che in questa suite mostra la sua energia in un dispiegarsi di assetti formali assolutamente anti-mimetici e anti-narrativi, di richiamare in pista quella categoria di «politicizzazione dell’arte» in termini di puro linguaggio – appunto – della contraddizione e del conflitto, che ha costituito l’asse della riflessione teorico-pratica di Brecht-Benjamin in tempi lontani che sembrano continuamente riaprirsi.

Marie Laure Colasson
Marie Laure Colasson ama in pari misura i fulgori cromatici più inattesi e il montaggio animoso delle sue tranches. I rossi, i blu, i viola, i bianchi, i cromo lampeggianti, i neri così mal tollerati dagli impressionisti, e che nel Novecento hanno assunto nuova dignità e dimensione significante, sono tuttavia per l’energia del suo sguardo pensante non luoghi di un altrove deresponsabilizzato, ma stazioni di un’indagine nella cui chiarezza si annida comunque un grumo di oscurità irrisolta. È la dannazione dialettica di tutte le forme di un’arte adulta che si assuma l’onere di una rinuncia all’innocenza e ad ogni (colpevole) ingenuità. Ed è, insieme, la sua liberazione, ottenuta – come in questo caso brillantemente avviene – grazie al rapporto paritetico che si stabilisce magicamente tra i possibili scenari-fondale e il groviglio in close-up delle varie fisiologie bloccate in uno spazio sempre a rischio di rottura. Il colore splende. La struttura ne assorbe la fantasmagoria. E il gesto risoluto e lunghissimo di Colasson ne porta magnificamente a sintesi gli spezzoni «realistici» ritagliati dal magma come impeccabile riciclo dei dettagli e degli scarti, i lampi lirici mai evasivi e invece invariabilmente dinamici, realizzati su nove fotografie-work dello scomparso amico e fotografo Alfonso Priori, che omaggiano la danza (dalla stessa artista magistralmente praticata) nella sua fatica e nella sua leggerezza, e le valenze oniriche (non di rado prossime all’incubo) che compongono sulla masonite una sorta di cosmogonia nutrita e potenziata dalla sua stessa splendida crudeltà
(Mario Lunetta, Accademia Platonica, settembre, 2010)
Giorgio Linguaglossa
Le cose non sono più cose
Le cose non sono più cose. Sono state deprivate di essenza in quanto private della possibilità di un loro uso umano.
È questa la « scandalosa manifestatività del vero». Anche nella pittura astratta della Colasson, gli oggetti sono scomparsi. Ciò che resta sono degli spigoli, delle striature, delle semi superfici illuminate malamente che nuotano in un fondotinta lucido, monotonale, uniforme, un fondotinta neutro, quello liofilizzato dalla comunicazione medialmediatica che si presenta come fondo-sfondo, o come sfondo-fondo, come fondale neutro e cieco, dove le cose che un tempo galleggiavano sono disparite e delle quali rimangono dei semi profili, degli spigoli, degli stipiti malamente illuminati da una luce che si profila e si prolunga inutilmente di contro allo sfondo-fondo tonalmente lucidato a dovere, quasi fosse un relitto kantiano quel dovere di lucidare lo sfondo-fondo dove le cose e il senso sono stati inghiottiti.
Una volta Kierkegaard scrisse che «una proposizione è astratta quando è priva del pronome personale».
Ecco. Una poesia si può definire «astratta» quando è priva del pronome personale io, tu, egli, noi, voi, essi.
È un processo storico che lo decide, non lo decidiamo né io, né la nuova ontologia estetica, né Marie Laure Colasson, né nessun altro.
Ecco perché una pittrice come Marie Laure Colasson fa pittura «astratta», perché è venuto meno il collegamento delle immagini e dei colori con l’«io» autoriale.
Quei colori della Colasson hanno qualcosa di intimo e di arbitrario, di espropriato, noi non ci perdiamo in essi come può avvenire davanti ad una tela di Rotcko o di un Kandinsky. Dinanzi ai colori della Colasson invece noi non ci perdiamo, ne siamo allontanati, come di cosa estranea a noi, come di un corpo estraneo, ne siamo espropriati. Si tratta di colori estraniati, che estraniano. Guardavo di frequente quelle tavole con i colori striati e non mi capacitavo di quel che vedevo e di quel che sentivo, avvertivo qualcosa che non mi sapevo spiegare. Adesso ho capito, si tratta di colori che non vengono e non stanno, colori che baluginano un attimo e se ne vanno, il pittore li ritrae nell’attimo del loro ritrarsi, un attimo prima del loro definitivo scomparire inghiottiti dalla notte del nulla.
In questo trovo una particolare specularità tra queste tavole della Colasson e la poesia della nuova ontologia estetica: sia le fraseologie «astratte» della sua poesia che la pittura «astratta» della Colasson sono governate dalla medesima legge del nulla che tutto inghiotte con voracità e opacità.
I colori sono l’Einkleidung, il rivestimento formale, il travestimento travisamento dello Stoff, della messa a nudo della materia. Questa struttura inattingibile può essere messa in scena sotto forma di Einkleidung, poiché quella «stoffa» risulta inattingibile, nasconde e mostra lo Stoff ontico, vale a dire che la verità di ciò che è presente senza velo co-incide la non verità di ciò che si vede senza velo.
I colori [ “I rossi, i blu, i viola, i bianchi, i cromo lampeggianti, i neri, così mal tollerati dagli impressionisti…”dei quali parla Mario Lunetta nel suo ottimo minisaggio di presentazione] nelle Opere di Marie Laure Colasson che Giorgio Linguaglossa oggi ci propone, sembra che abbiano cominciato a rivendicare una propria, forte autonomia rispetto al predente loro destino artistico di adesione alla realtà.
Nelle Opere della Colasson sembra che i colori siano chiamati dall’Artista a esercitare costanti pressioni sulla stessa forma. E i colori nella ricerca d’arte di Marie Laure Colasson sono le “parole” con le quali l’artista scrive i suoi frammenti…
A me pare che lo stesso Giorgio Linguaglossa confermi questa tesi quando nella sua acuta nota critica sostiene
[“Quei colori della Colasson hanno qualcosa di intimo e di arbitrario, di espropriato, noi non ci perdiamo in essi come può avvenire davanti ad una tela di Rotcko o di un Kandinsky. Dinanzi ai colori della Colasson invece noi non ci perdiamo, ne siamo allontanati, come di cosa estranea a noi, come di un corpo estraneo, ne siamo espropriati. Si tratta di colori estraniati, che estraniano”] perché l’artista stessa è nella “estraneazione” da sé, dall’opera, dal mondo.
Qui con questa ricerca d’arte di Marie Laure Colasson si registra il superamento definitivo dei tradizionali canoni estetici, dell’arte come imitazione della natura, dell’opera ancorata all’estetica del “bello”.
Una confessione: avrei gradito che ogni Opera della Caulasson portasse un titolo o una didascalia, nel rafforzamento dei legami fra parola e arte, fra idea e immagine…
(gino rago)
I colori [ “I rossi, i blu, i viola, i bianchi, i cromo lampeggianti, i neri, così mal tollerati dagli impressionisti…”], dei quali parla Mario Lunetta nel suo ottimo minisaggio di presentazione, nelle Opere di Marie Laure Colasson, che Giorgio Linguaglossa oggi ci propone, sembra che abbiano cominciato a rivendicare una propria, forte autonomia rispetto al precedente loro destino artistico di “adesione” alla realtà.
Nelle Opere della Colasson sembra che i colori siano stati chiamati dall’Artista a esercitare costanti pressioni sulla stessa forma. E i colori nella ricerca d’arte di Marie Laure Colasson sono le “parole” con le quali l’artista scrive i suoi frammenti…
A me pare che lo stesso Giorgio Linguaglossa confermi questa tesi quando nella sua acuta nota critica sostiene:
“[…]Quei colori della Colasson hanno qualcosa di intimo e di arbitrario, di espropriato, noi non ci perdiamo in essi come può avvenire davanti ad una tela di Rotcko o di un Kandinsky. Dinanzi ai colori della Colasson invece noi non ci perdiamo, ne siamo allontanati, come di cosa estranea a noi, come di un corpo estraneo, ne siamo espropriati. Si tratta di colori estraniati, che estraniano[…]”.
Perché?
Perché l’artista stessa è nella “estraneazione” da sé, dall’opera, dal mondo.
Qui con questa ricerca d’arte di Marie Laure Colasson si registra il superamento definitivo dei tradizionali canoni estetici, dell’arte come imitazione della natura, dell’opera ancorata all’estetica del “bello”.
Una confessione: avrei gradito che ogni Opera della Caulasson portasse un titolo o una didascalia, nel rafforzamento dei legami fra parola e arte, fra idea e immagine…
Come per esempio Marie Laure fece, in una collettiva con Mimmo Rotella, con Emilio Isgrò, con Lamberto Pignotti, fra gli altri e le altre che esponevano
( se non erro in una importante località della Calabria) con la stessa Colasson, quando sotto l’Opera che esponeva apparivano
Marie Laure Colasson, “Green Chronicle 3”, 2010, tecnica mista, cm. 32×82
(gino rago)
Nei dipinti di Marie Laure Colasson, il nero agisce come ombra; ombra che toglie. Quindi l’opera è in luce. In luce ma viene cancellata. Potremmo chiamarle ombre di luce.
Sul tema dell’ombra sto lavorando anch’io, con la pittura. Ha risvolti esistenziali molto interessanti; perché l’ombra è “presenza”, ma non si sa di chi o cosa. Presenza e basta.
Non do giudizi sui quadri della Colasson, lavora con colori- luce, quindi esclude i mezzi toni. Altro non direi, le opere andrebbero viste meglio.
Il fatto è che si potrebbe trattare di pittura di “nuova ontologia estetica” se avesse risvolti ontologici, se venissero considerati tempo e spazio… ma è il mezzo, la pittura stratta in sé, che troppo si è accomodata sul decorativismo, perfetta per ogni architettura, ambiente, ecc. (tutto ciò che ha significato rischia di non piacere, quindi l’astrattismo). Il fatto è che da tempo la pittura sembra reclamare il movimento, la terza dimensione, lo spazio. Per questo dico che la pittura, in quanto arte ferma, ha il tempo ormai contato. La pittura è un’arte che manca nel linguaggio. Muta e simbolica. Tutto ciò che le resta sta nel gesto magistrale dell’artista. E con questo divertirsi. Il piacere dell’interpretazione è dato dalla sola esecuzione. Così come sono vuote tante immagini della NOE.
Questi astratti appartengono ad un lungo lasso di tempo, anni, degli ultimi venti anni, la Colasson sarà sicuramente più precisa di me. Per quanto riguarda il «tempo», certo la pittura astratta è per eccellenza una fuga dal tempo in quanto il tempo si risolve tutto nel colore o nel non-colore; le striature dei colori rimandano al tempo per vie indirette, per allusioni, per rinvii. Negli astratti della Colasson il tempo è già dato per scontato all’interno del movimento tra le esili superfici che brillano di luce, è un tempo implicito; oserei dire che il colore nella sua pittura equivale al vocativo nella sua poesia.
Un colore è in relazione con l’altro, così come nella poesia della pittrice un vocativo chiama l’altro, ma senza che vi sia un vero dialogo quanto per via di mera manifestatività, mero venire alla luce di ciò che è nell’ombra. Tutta la ricerca pittorica della Colasson si risolve nel rapporto Luce-Ombra e in quello Fondo-sfondo e superfici di luce. Ma l’elemento significativo mi sembra stia nella debolezza delle striature di luci come qualcosa che si sta già ritraendo nello sfondo. C’è qualcosa di provvisorio, di transeunte in quelle striature di luce… Gli astratti della Colasson chiamano, vocano i colori dallo sfondo per portarli in evidenza… Direi che gli astratti della pittrice francese sono abitati da colori-vocativo, colori chiamati, convocati e, subito dopo, in procinto di disparizione.
È significativo che nella poesia di Marie Laure Colasson abbiamo in opera un procedimento per vocativi con la scomparsa totale dell’io plenipotenziario , dei verbi, della punteggiatura, delle preposizioni. Le onomata risultano galleggiare sulla superficie di un tessuto grammaticale alleggerito. L’assenza dei verbi è la spia segnaletica della ontologia modale del linguaggio: la assenza di azione verbale, implica assenza di azione sulle cose, che risultano galleggiare in uno spazio di albume d’uovo, incolori e inodori. Si assiste a alla scomparsa del «destino» in termini severiniani, secondo cui le cose che si danno nella loro datità, sono uscite fuori dal valore di scambio e dal valore d’uso, si rivelano cose della «nuda vita».
La poesia della Colasson è fitta di vocativi e lo stile è nominale. I vocativi si rivolgono ad altri vocativi, sono estranei al discorso in atto, chiamano qualcosa o qualcuno che è scomparso dall’orizzonte degli eventi, la poesia non traccia alcun orizzonte degli eventi ma si limita a vocare i nomi e le situazioni del passato. In questa accezione la poesia si dà come archeologia del tempo trascorso, il passato come galleria di spettri
Con la scomparsa di Toni Morrison sento di avere perduto aria, ombra, luce.
Parliamo allora dei colori-luce. Oggi l’informazione visiva non ha nulla di naturale. Fate caso, in TV, ai fondi di luce che fanno ambiente nei notiziari o nei talk show. Un tempo quei fondali venivano dipinti, o costruiti con mestiere dagli scenografi. Oggi bastano delle luci. Ma è da questo ambiente che passa oggi la comunicazione visiva. Tutti i colori sono squillanti, tutti i colori servono per intrattenere. E noterete che sono colori semplificati, anche se non necessariamente primari (rosso, blu, giallo) e colori di contrasto (verde-viola, arancio-blu, ecc). Mi sembra che la pittura della Colasson si attenga a questo linguaggio. Infatti le varianti sono minime. Sembra che l’artista sia impegnata nel fare a pezzi l’astrattismo geometrico, come per cercare in queste forme una verità nascosta. Questa ricerca è di per sé narrazione. La verità abita lo spazio vuoto ed è costante divenire. Ciò che appare è anche quanto c’è da capire. Nessun rimando filosofico, nemmeno un’impronta perché tutto è estetismo formale. Formalismo. Dopo il moderno, abbiamo molto da recuperare, ritrovare…
Trascrivo qui il commento di Marie Laure Colasson la quale non riesce a pubblicarlo:
«Gli astratti proposti risalgono agli anni 2010-2014 e si collocano lungo la mia ricerca di applicarmi sul colore e sui colori per evidenziarne le problematiche squisitamente interne, cioè che i colori sono diventati in se stessi problematici. Che cosa significa questo fatto? Significa che un pittore non può prendere per buoni i colori che trova già pronti, come un poeta non può prendere per buone le parole che una tradizione letteraria mette a disposizione, e men che mai può prendere i colori del circolo mediatico, come bene scrive Lucio Mayoor Tosi. L'”astrattismo geometrico” di cui parla Lucio è sempre una scatola vuota che un pittore deve ri-scrivere, non v’è una geometria buona per tutte le volte, la geometria va re-inventata ogni volta. Grazie a tutti gli intervenuti e ai pazienti lettori».
Grazie, Marie Laure, per la gentile risposta; che è per me di chiarimento, specie per quella geometria che si re-inventa.
Non ho ancora risolto, nel valutare un’opera d’arte, se leggerla da dentro o se con distacco. Le due letture a me sembrano incompatibili. Una nientifica l’altra. Trarne le somme a me sembra compito per menti logiche, asservite al capitalismo in quanto basato sul principio di valore, che una volta stabilito diventa pecuniario. Tanto varrebbe affidare la critica a un computer.
No, l’unica critica ragionevole a me sembra quella dei filosofi. Non dicono mai niente che non si possa dimostrare. Ai letterati questo non sempre succede. Ne nasce un circolo vizioso, dove dentro e fuori van d’accordo solo quando si tratta di bollare un dilettante. E tante volte nemmeno lì ci azzeccano. No, servono filosofi.
Nella pittura di Marie Laure Colasson possiamo rilevare che l’io è scomparso, al suo posto è subentrato un impersonale e anche la metafora paesaggistica è scomparsa per far luogo ad un movimento musicale a solenoide tutto giocato sulla differance tra due moduli astratti: «il verticale» e «il cerchio o semicerchio». Ecco, qui siamo già sulla via della Nuova pittura. Siamo già dentro la nuova ontologia estetica.
Le gravi danze, la grave danza. Così simmetrica al profilo in ombra. Ma come porti
i capelli scompigliati al vento o raccolti
nello chignon di un nido?
Nei test di gravidanza, con tutti i colori a
lato o li porti alla bella marinara?
La infondo al mare
la telescrivente è spenta.
La gravità dell’onda quando diventa
anomala. Un filtro solo di colore.
Grazie Ombra.
Conosce la signora Colasson il pittore siciliano Turi Sottile che vive e lavora a Roma?
a. s.
Dal Catalogo Gallimard-Poesia
Armand Gatti
Comme battements d’ailes.
Poésie 1961-1999
Édition de Michel Séonnet
Collection Poésie/Gallimard (n° 546), Gallimard
Parution : 20-06-2019
La vie de Dante Sauveur Gatti dit Armand Gatti (1924-2017) est en elle-même comme une extraordinaire fresque épique où l’écriture protéiforme mais toujours essentiellement poétique est indissolublement liée à l’action. Fils d’un éboueur, anarchiste italien, et d’une femme de ménage, Gatti s’engage dans la Résistance à dix-huit ans. Arrêté, il s’évade et devient parachutiste à Londres : tel est le début d’une épopée où le poète, mais aussi journaliste (Prix Albert Londres en 1954), cinéaste, dramaturge, metteur en scène croise toutes les grandes aventures révolutionnaires de son siècle et côtoie les plus grands protagonistes de l’action politique, de l’art et de la littérature comme, par exemple, Che Guevara, Mao Tse toung, Jean Vilar, Boulez, Soupault, Michaux, Kateb Yacine, Marion Brando ou Chris Marker…
Au cœur de tout cela, l’écriture poétique est l’outil permanent et privilégié :
il s’agit d’inventer une révolte par le langage qui ouvre à l’émancipation des consciences.
Marqués par un lyrisme ardent et concret, d’une oralité vigoureuse, les poèmes de Gatti sont d’une constante liberté formelle et toujours aux prises avec le concret du monde, questionnant histoire et utopie.
Sa parole libertaire n’a aucun équivalent dans notre littérature.
(gino rago)a cura di
dal Catalogo Gallimard-Poésies
Paul Valéry
L’amateur de poémes
Collection Poésie/Gallimard (n°6), Gallimard
Parution : 02-06-1966
L’amateur de poèmes
SI je regarde tout à coup ma véritable pensée, je ne me console pas de devoir subir cette parole intérieure sans personne et sans origine ; ces figures éphémères ; et cette infinité d’entreprises interrompues par leur propre facilité, qui se transforment l’une dans l’autre, sans que rien ne change avec elles. Incohérente sans le paraître, nulle instantanément comme elle est spontanée, la pensée, par sa nature, manque de style.
MAIS je n’ai pas tous les jours la puissance de proposer à mon attention quelques êtres nécessaires, ni de feindre les obstacles spirituels qui formeraient une apparence de commencement, de plénitude et de fin, au lieu de mon insupportable fuite.
UN poème est une durée, pendant laquelle, lecteur, je respire une loi qui fut préparée ; je donne mon souffle et les machines de ma voix ; ou seulement leur pouvoir, qui se concilie avec le silence.
JE m’abandonne à l’adorable allure : lire, vivre où mènent les mots. Leur apparition est écrite. Leurs sonorités concertées. Leur ébranlement se compose, d’après une méditation antérieure, et ils se précipiteront en groupes magnifiques ou purs, dans la résonance. Même mes étonnements sont assurés : ils sont cachés d’avance, et font partie du nombre.
MU par l’écriture fatale, et si le mètre toujours futur enchaîne sans retour ma mémoire, je ressens chaque parole dans toute sa force, pour l’avoir indéfiniment attendue. Cette mesure qui me transporte et que je colore, me garde du vrai et du faux. Ni le doute ne me divise, ni la raison ne me travaille. Nul hasard, mais une chance extraordinaire se fortifie. Je trouve sans effort le langage de ce bonheur ; et je pense par artifice, une pensée toute certaine, merveilleusement prévoyante, – aux lacunes calculées, sans ténèbres involontaires, dont le mouvement me commande et la quantité me comble : une pensée singulièrement achevée.
(gino rago) a cura di
Sereno Ferragosto 2019 ai poeti, alle lettrici, ai lettori, ai redattori, alle redattrici de L’Ombra delle Parole
(gino rago)
Sereno Ferragosto a tutti. Buon riposo.
VITTORIO SERENI
I VERSI
Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non era più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
(da Gli strumenti umani, 1965)
.
.
Zbigniew Herbert
È di pessimo gusto
imporre a chi
si esercita nel mestiere di fantasma
di diventare – improvvisamente –
uno spettro
.da L’epilogo della tempesta (Poesie 1990-1998),
.
GIORGIO CAPRONI
LE CARTE
Imbrogliare le carte,
far perdere la partita.
È il compito del poeta?
Lo scopo della vita?
(da L’opera in versi, 1998)
.
.
Sandro Penna,
La veneta piazzetta
La veneta piazzetta,
antica e mesta, accoglie
odor di mare. E voli
di colombi. Ma resta
nella memoria – e incanta
di sé la luce – il volo
del giovane ciclista
vòlto all’amico: un soffio
melodico: «Vai solo?».
.
.
EEVA-LIISA MANNER
TEOREMA
Sia dura la prosa, susciti pure inquietudini
Ma la poesia è un’eco che si ascolta quando la vita è muta:
sui monti scivolano le ombre: immagine di vento e nubi,
il passaggio del fumo o della vita: terso, oscuro, terso,
un fiume che scorre lieve, boschi profondi di nubi,
case in lenta rovina, vicoli che esalano calore,
la lisa soglia che si consuma, la quiete dell’ombra,
il passo timoroso di un bambino nell’oscurità di una stanza,
una lettera che viene da lontano spinta sotto la porta,
talmente enorme e bianca da riempire la casa,
oppure una giornata così rigida e tersa da lasciar sentire
il sole che inchioda l’azzurra porta inabitata.
(da L’Ombra delle parole – Trad. Viola Capková )
.
(gino rago)
a cura di
Helle Busacca I quanti del suicidio Elliot, Roma, 2013, pp.330 € 18.70
Helle Busacca (1915-1996) nasce in una famiglia agiata di San Piero Patti, in provincia di Messina, dopo aver trascorso parte della sua giovinezza nel paese natale, Helle si trasferisce a Bergamo e successivamente a Milano insieme ai genitori. Laureata in Lettere Classiche presso la Regia Università meneghina negli anni seguenti è insegnante di lettere in diversi licei spostandosi negli anni di città in città: Varese, Pavia, Milano, Napoli, Siena e, infine, Firenze, dove muore il 15 gennaio 1996. Le sue carte (che contengono corrispondenza, bozze e prime stesure di opere pubblicate, nonché numerosi manoscritti inediti) sono conservate in un Fondo speciale presso l’Archivio di Stato di Firenze.
Mi è stato chiesto di spiegare in modo più semplice perché Helle Busacca sia una poetessa così importante per la storia della poesia del tardo Novecento italiano. Qual è la peculiarità della sua poesia, quel disco di polivinile della sua poesia rispetto alla poesia degli anni Settanta. Tenterò di rispondere. Ciò che salta agli occhi a distanza di più di quaranta anni dalla pubblicazione de I quanti del suicidio (1972) è la completa estraneità del suo linguaggio poetico rispetto ai linguaggi che erano moneta corrente in quegli anni. Partirò dalla constatazione più semplice e immediata: il «parlato» della poesia di Helle Busacca. La Busacca inventa un parlato, diciamo così, telefonico, sembra che stia davanti al telefono o al registratore, parla in modo semplice e immediato, vuole farsi capire da tutti, parla un linguaggio che ho definito «pre-tecnologico», cioè posteriore e anteriore ai linguaggi «tecnologici» che venivano usati dalla poesia dei suoi anni.
La poesia della Busacca si dichiara subito estranea al linguaggio della riforma montaliana inaugurata da Satura (1971), non è poesia delle occasioni desultorie del quotidiano ma di una unica occasione: la morte del fratello «aldo» uno scienziato disoccupato morto suicida. È da questo punto che lei prende l’avvio. Tutta la poesia de “I quanti del suicidio” è un interminabile e fittissimo atto d’accusa contro la codardia del suo paese che ha permesso questo suicidio, contro il «sistema Italia». Prende le distanze dai linguaggi poetici delle istituzioni letterarie, li mette semplicemente da parte, li scarta, sono roba da non poter più essere utilizzati in un linguaggio poetico che voglia andare al nodo e al centro delle questioni. Il suo è un soliloquio telefonico con un interlocutore che non è posto più nel suo tempo ma in un altro tempo, in un’altra Italia dei tempi futuri. Da per scontato che non c’è più alcun ponte linguistico che unisca la sua poesia a quella che si faceva nel suo tempo: non ha nulla da spartire con la cultura dello sperimentalismo, non ha nulla da spartire con la poesia degli oggetti (ne “I quanti” c’è un solo oggetto: la morte per suicidio del fratello «aldo»), non ha nulla da spartire con la poesia dello scetticismo, del disimpegno e del disagio di fronte agli oggetti che si faceva a Roma (due nomi per tutti: Patrizia Cavalli e Valentino Zeichen che proprio di li a pochi anni esordiscono con i loro libri). La poesia di Helle Busacca è sola e disarmata, e vuole gridare allo scandalo, punta l’indice accusatorio contro tutti e tutto, contro il «sistema Italia». Sta qui la sua grandezza, inventa il «parlato». E non mi sembra poco. Del resto la comunità letteraria ha fatto di tutto per metterla nel dimenticatoio. La comunità letteraria ha risposto con un riflesso condizionato: rimuovendo la sua presenza ingombrante e imbarazzante.
Perché è bene leggere con attenzione e lentezza la poesia de I quanti del suicidio. Si tratta di una lunga Sinfonia del «Lutto». È la «parola luttuosa» che fa ingresso, per la prima volta, nella poesia italiana dl Novecento (se si fa eccezione per i Canti orfici di Dino Campana del 1914). La parola luttuosa non è solo quella che nasce da un «lutto» (la morte del fratello «aldo», scritto con la minuscola) ma anche e soprattutto quella che nasce dalla impossibilità di adoperare in poesia la parola dei viventi, degli zombi viventi. Di qui nasce la straordinaria invenzione del «parlato» di Helle Busacca.
È il parlato che parlano i morti, i «sonnambuli spermatici», le «ombre», avrebbe detto Albert Caraco. Questa scoperta, intendo quella della «parola luttuosa» è, a mio modesto avviso, centrale per comprendere lo snodo fondamentale della poesia del tardo Novecento. Da una parte la lingua dei «vivi» (o di coloro i quali credono di essere vivi) con l’ideologia del Progresso e della adeguazione del discorso poetico alla «cosa» (la società moderna), con tutte le varianti ideologiche e stilistiche, dall’altra il discorso poetico di chi rifiuta l’ideologia della «adeguazione» del discorso poetico alla «cosa» (leggi il «reale» nelle sue svariate manifestazioni fenomeniche). Questa ideologia viene spazzata via dalla poesia di Helle Busacca con un colpo micidiale. Ecco spiegata la solitudine della sua poesia. E non poteva essere diversamente. Il colpo inferto da Helle Busacca alle poetiche del Progresso e della «adeguazione alla cosa da rappresentare» è troppo forte per essere accettato. Di qui la repulsione e la rimozione della sua poesia da parte della comunità letteraria italiana. “I quanti” sono una lunghissima, tetra, infernale interrogazione di un punto: ha senso il suicidio del fratello «aldo»? Tutto il poema non è altro che la dimostrazione che il suicidio è privo di senso perché «tutti sono colpevoli di tutto», come scrisse Dostojevskij, tutti vivono sotto un sortilegio, il «totum è il totem» (Adorno), non che non vi siano colpevoli, siamo tutti colpevoli della morte del fratello «aldo».
Helle Busacca
II
Vedo i torturatori
i cunei le bragi le catene
ma vedo anche la morte.
Vedo gli assassini con la faccia
d’uom giusto che ti pugnalano nella schiena
in un angolo della stessa casa dove nascesti
le orrende matrigne che non sono
ahimè, soltanto nei versi
antichi di virgilio e nella leggenda
di helle e di suo fratello
vedo i fastigi delle loro case
al mare alzate sullo sfacelo
delle tue ossa e dei tuoi nervi
e cementate pietra su pietra
col sangue dei tuoi poveri reni
trafitti da aghi roventi
la febbre l’esilio il digiuno
che ti fa verde come quando
ti hanno trovato con la canna
del gas serrata fra i denti
ma vedo anche la morte.
Vedo la vampa degli alti forni
ultima a essiccare quel poco sangue
che ti rimane quando già
dice silvio eri pallido come un morto
e dice rossana che si leggeva
nei tuoi occhi che avevi tanto sofferto
e che eri già lontana e senza ritorno
anche mentre le offrivi le ciliegie
vedo la danza ubriaca
delle serpi che s’intorcigliano sopra il tuo petto
d’uomo, sui tuoi occhi che giovanna
dice meravigliosi, sul tuo sorriso
che alfredo duce magico, sulla tua fronte
splendida di tutti i numeri dell’universo,
tu, mi ricordo,
«quando ho veduto le piramidi
in egitto e i templi
di atene, mi sono chiesto:
ma dove sono coloro
che pure eressero tutto questo…
Ed è che li hanno assassinati
erano troppo grandi per la canea
erano un troppo colossale scorno
per ciò che grufola e vermina…»
Vedo i briganti del commercio
avvezzi a scorticare un pidocchio
per farne una pelle, che ti licenziano
in tronco e contro la legge
quando domandi un congedo
di due mesi per curarti in clinica la tua nevrosi
le femmine racimolate dalle stamberghe
in cui vendevano, di giorno,
maglieria al minuto, recando in dote
niente vestaglie e due sottovesti,
paludate in pelliccia di diamant-visone
e lontra persiano-perla, che con un gesto
spagnolo alla figlia di primo letto
regalano un soprabito di castoro,
dono al padre di quel «furfante» di mio fratello,
«e per quando vai al mercato a fare la spesa»
che a piene mani profondano
biglietti da diecimila per il caro gatto
siamese che sta crepando, «affettuosa e inerme
creatura che non sa parlare né può difendersi
dottore, non può far altro?»
le lacrime
orride sul ghigno orrido della bestia
ma vedo anche la morte.
Vedo anche la morte. E se uno
le va incontro come tu hai fatto,
come era ed è diverso,
o tu che ho nel cuore bambino,
fratello, quando giocavi
col cerchio, nel giardino, sotto gli alti pioppi,
i riccioli d’oro e gli occhi
già troppo interroganti e fiduciosi
mentre io già cercavo sulle ardue pagine
quello che ora mi segni a dito,
fatto tanto più grande,
tu, che eri dei nostri, di noi.
Noi, gli esseri umani.
C’è anche
la morte.
Non la feroce
che ci strappa quelli che amiamo
ci nega questo inutile sole
ma quella che offre un asilo
dagli assassini, dai mostri
lei sola come era nostra madre
di cui mi dicesti fra i singhiozzi
in uno dei tuoi ultimi giorni:
«CREDI CHE SE CI FOSSE
NOSTRA MADRE, SAREI
RIDOTTO COSI’?»
ed ha sentito,
la madre, la morte, ed è accorsa.
Vieni, aldo, vieni, aldo. E che le carogne
imputridiscano con le carogne,
che hai a fare con esse?
E alla voce
tu hai aperto le braccia, in un volo.
Ecco alcune poesie di una poetessa che ha cambiato la direzione della poesia italiana del tardo novecento.
Poesie di Maria Rosaria Madonna (1940-2002) comprese nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016) – Stige. Tutte le poesie (1990-2002) (Progetto Cultura, 2018 pp. 150 € 12)
Sono arrivati i barbari
«Sono arrivati i barbari, Imperatore! – dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani – sono già
alle porte della città!».
«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».
E che farà adesso l’Imperatore che i barbari sono alle porte?
Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono in Senato
con la bianca tunica e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli?
Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede l’Imperatore al funzionario dell’erario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede l’Imperatore al funzionario annonario
«E qual è la richiesta dei barbari?».
«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
si chiedono meravigliati i senatori.
«Chiedono che si aprano le porte della città
senza opporre resistenza»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».
Parlano la nostra stessa lingua i Galli?
Si sono riuniti in Senato il Console
con i Tribuni della plebe
e i Legati del Senato… c’è un via vai di toghe
scarlatte, di faccendieri
e di bianche tuniche di lino dalle dande dorate
per le vie del Foro…
Qualcuno ha riaperto il tempio di Giano,
il tempio di Vesta è stato distrutto da un incendio
alimentato dalle candide vestali,
corre voce che gli aruspici abbiano vaticinato infausti presagi
che il volo degli uccelli è volubile e instabile
e un’aquila si sia posata sulla cupola del Pantheon
che sette corvi gracchiano sul frontone del Foro…
corrono voci discordi sulle bighe del vento
trainate da bizzosi cavalli al galoppo…
che il nostro esercito sia stato distrutto.
Caro Kavafis… ma tu li hai visti in faccia i barbari?
Che aspetto hanno? Hanno lunghe barbe?
Parlano una lingua incomprensibile?
E adesso che cosa farà il Console?
Quale editto emanerà il Senato dall’alto lignaggio?
Ci chiederà di onorare i nuovi barbari?
O reclamerà l’uso della forza?
Dovremo adottare una nuova lingua
per le nostre sentenze e gli editti imperiali?
Che cosa dice il Console?
Ci ordinerà la resa o chiamerà a raccolta gli ultimi
armati a presidio delle nostre mura?
Hanno ancora senso le nostre domande?
Ha ancora senso discettare sul da farsi?
C’è, qui e adesso, qualcosa di simile a un futuro?
C’è ancora la speranza di un futuro per i nostri figli?
E le magnifiche sorti e progressive?
Che ne sarà delle magnifiche sorti e progressive?
Sono ancora riuniti in Camera di Consiglio
gli Ottimati e discutono, discutono…
ma su che cosa discutono? Su quale ordine del giorno?
Ah, che sono arrivati i barbari?
Che bussano alla grande porta di ferro della nostra città?
Ah, dice il Console che non sono dissimili da noi?
Non hanno barba alcuna?
Che parlano la nostra stessa lingua
*
Autodifesa dell’imperatrice Teodora
Procopio? Chi è costui? Un menagramo, un bugiardo,
un calunniatore, un furfante.
Non date retta alle calunnie di Procopio.
È un bugiardo, ama gettare fango sull’imperatrice,
schizza bile su chiunque lo disdegni; è la bile
dell’impotente, del pervertito.
Ma è grazie a lui che passerò alla storia.
Sono la bieca, crudele, dissoluta, astuta Teodora,
moglie dell’imperatore Giustiniano, la padrona
del mondo orientale.
E se anche fosse vero tutto il fango che Procopio
mi ha gettato sul volto?
Se anche tutto ciò corrispondesse al vero? Cambierebbe qualcosa?
È stata mia l’idea di inviare Belisario in Italia!
È stata mia l’idea di un codice delle leggi universali!
E di mettere a ferro e a fuoco l’Africa intera.
Soltanto i morti sono eterni, ma devono essere
morti veramente, e per l’eternità affinché siano tramandati.
Un tradimento deve essere vero e intero perché ci se ne ricordi!
Voi mi chiedete:
«Che cosa penseranno di Teodora nei secoli futuri?».
Ed io rispondo: «Credete veramente che i posteri abbiano
tempo da perdere con le calunnie e le infamie di Procopio?
Che costui ha raccolto nei retrobottega di Costantinopoli
tra i reietti e i delatori della città bassa?».
Ebbene, sì, ho calcato i postriboli di Costantinopoli,
lo confesso. E ciò cambia qualcosa nell’ordito del mondo?
Cambia qualcosa?
Il potere delle parole? Vi dirò: esso è
debole e friabile dinanzi al potere delle immagini.
Per questo ho ordinato di raffigurare l’imperatrice Teodora
nel mosaico di San Vitale a Ravenna,
nell’abside, con tutta la corte al seguito…
E per mezzo dell’arte la mia immagine travalicherà l’immortalità.
Per l’eternità.
«Valuta instabile», direte voi.
«Che dura quanto lo consente la memoria», replico.
«A dispetto delle calunnie e dell’invidia di Procopio».
*
La reggia che fu di Odisseo
Che cosa vogliono i proci che frequentano
la reggia che fu di Odisseo?
E che ci fa sua moglie Penelope
che di giorno tesse la tela con le sue ancelle
e di notte tradisce il suo sposo
nel letto dei giovani proci?
Sono passati dieci anni dalla guerra di Troia
e poi altri dieci.
I proci dicono che Odisseo non tornerà
e nel frattempo si godono a turno Penelope
la loro sgualdrina.
Si godono la reggia e la donna del loro re
sapendo che mai più tornerà.
Forse, Odisseo è morto in battaglia
o è naufragato in qualche isola deserta
ed è stato accoppato in un agguato.
La storia di Omero non ci convince
non è verosimile che un uomo solo
– e per di più vecchio –
abbia ucciso tutti i proci, giovani e forti.
La storia di Omero non ci convince.
Omero è un bugiardo, ha mentito,
e per la sua menzogna sarà scacciato dalla città
e migrerà in eterno in esilio
e andrà di gente in gente a raccontare
le sue fole…
*
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.
Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.
*
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
Alle 18 in punto il tram sferraglia
Alle 18 in punto il tram sferraglia
al centro della Marketplatz in mezzo alle aiuole;
barbagli di scintille scendono a paracadute
dal trolley sopra la ghiaia del prato.
Il buio chiede udienza alla notte daltonica.
In primo piano, una bambina corre dietro la sua ombra
col lula hoop, attraversa la strada deserta
che termina in un mare oleoso.
Il colonnato del peristilio assorbe l’ombra delle statue
e la restituisce al tramonto.
Nel fondo, puoi scorgere un folle in marcia al passo dell’oca.
È già sera, si accendono i globi dei lampioni,
la luce si scioglie come pastiglie azzurrine
nel bicchiere vuoto. Ore 18.
Il tram fa ingresso al centro della Marketplatz.
Oscurità.
Ecco un mio tentativo poetico abbozzato or ora in stile veneziano
Carnevale di Venezia
Carnevale di Venezia. Gondole, coriandoli e crinoline.
La vita in maschera e la maschera della vita.
La Maschera bianca e la Maschera nera
si scambiano il volto.
La Dama in veletta bacia Rudolf Nureyev.
Il Re di Denari getta il guanto di sfida.
Natalia Osipova col ventaglio rosso accenna un inchino
al pubblico in delirio.
Il Re dei Dadi gioca con la clessidra dell’amarezza
e frantuma le stelle in polvere
mentre Evelina Godunova sul Ponte dei Sospiri
batte col piede sul tamburello…
È morto Gabriel Garcia Marquez. Ecco il celebre incipit del romanzo Cent’anni di solitudine:
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
Tutti gli anni, verso il mese di marzo, una famiglia di zingari cenciosi piantava la tenda vicino al villaggio, e con grande frastuono di zufoli e tamburi faceva conoscere le nuove invenzioni. Prima portarono la calamita.
Uno zingaro corpulento, con barba arruffata e mani di passero, che si presentò col nome di Melquìades, diede una truculenta manifestazione pubblica di quella che egli stesso chiamava l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia. Andò di casa in casa trascinando due lingotti metallici, e tutti sbigottirono vedendo che i paioli, le padelle, le molle del focolare e i treppiedi cadevano dal loro posto, e i legni scricchiolavano per la disperazione dei chiodi e delle viti che cercavano di schiavarsi, e perfino gli oggetti perduti da molto tempo ricomparivano dove pur erano stati lungamente cercati, e si trascinavano in turbolenta sbrancata dietro ai ferri magici di Melquìades. “Le cose hanno vita propria,” proclamava lo zingaro con aspro accento, “si tratta soltanto di risvegliargli l’anima.” José Arcadio Buendìa, la cui smisurata immaginazione andava sempre più lontano dell’ingegno della natura, e ancora più in là del miracolo e della magia, pensò che era possibile servirsi di quella invenzione inutile per sviscerare l’oro della terra. Melquìades, che era un uomo onesto, lo prevenne: “Per quello non serve.” Ma a quel tempo José Arcadio Buendìa non credeva nell’onestà degli zingari, e cos i’ barattò il suo mulo e una partita di capri coi due lingotti calamitati.
Ursula Iguaran, sua moglie, che faceva conto su quegli animali per rimpinguare il deteriorato patrimonio domestico, non riuscì a dissuaderlo. “Molto presto ci avanzerà tanto oro da lastricarne la casa,” ribatté suo marito. Per parecchi mesi si ostinò a dimostrare la veracità delle sue congetture. Esplorò la regio ne a palmo a palmo, compreso il fondo del fiume, trascinando i due lingotti di ferro e recitando ad alta voce l’esorcismo di Melquíades. L’unica cosa che riuscì a dissotterrare fu una armatura del quindicesimo secolo con tutte le sue parti saldate da una crostaccia di ruggine, la cui cavità aveva la risonanza vacua di un’enorme zucca piena di sassi. Quando José Arcadio Buendìa e i quattro uomini della sua spedizione riuscirono a disarticolare l’armatura, vi trovarono dentro uno scheletro calcificato che portava appeso al collo un reliquiario di rame con un ricciolo di donna.
A marzo tornarono gli zingari. Questa volta traevano un cannocchiale e una lente grande come un tamburo, che esibirono come l’ultima scoperta degli ebrei di Amsterdam. Misero a sedere una zingara a un’estremità del villaggio e collocarono il cannocchiale sull’entrata della tenda. Per cinque reales, la gente poteva chinarsi sul cannocchiale e vedere la zingara a portata di mano. “La scienza ha eliminato le distanze,” proclamava Melquìades. “Tra poco, l’uomo potrà vedere quello che succede in qualsiasi luogo della terra, senza muoversi da casa sua.” In un mezzogiorno ardente fecero una mirabile dimostrazione con la lente gigantesca: misero un mucchio di erba secca in mezzo alla strada e le appiccarono il fuoco mediante la concentrazione dei raggi solari.
José Arcadia Buendìa, che ancora non era riuscito a consolarsi dell’insuccesso delle sue calamite, concepì l’idea di utilizzare quell’invenzione come arma di guerra. Melquìades, di nuovo, cercò di dissuaderlo. Ma finì per accettare i due lingotti calamitati e tre pezzi di denaro coloniale in cambio della lente. Ursula pianse di costernazione. Quel denaro faceva parte di un cofano di monete d’oro che suo padre aveva accumulato in tutta una vita di privazioni, e che lei aveva seppellito sotto il letto in attesa di una buona occasione per investirle.
José Arcadio Buendìa non cercò nemmeno di consolarla, completamente assorto nei suoi esperimenti tattici con l’abnegazione di uno scienziato e perfino a rischio della propria vita. Mentre cercava di dimostrare gli effetti della lente sulla truppa nemica, espose sé stesso alla concentrazione dei raggi solari e patì scottature che si trasformarono in ulcere e guarirono solo dopo parecchio tempo. Nonostante le proteste di sua moglie, messa in apprensione da un’invenzione così pericolosa, poco mancò non incendiasse la casa.
Passava lunghe ore nella sua stanza, facendo calcoli sulle possibilità strategiche di quella sua arma inusitata, finché riuscì a comporre un manuale di una stupenda chiarezza didattica e di un irresistibile potere di convinzione. Lo spedì alle autorità, allegandovi numerose testimonianze sulle sue esperienze e vari fascicoli di disegni illustrativi, affidandolo a un messaggero che attraversò la sierra, si perse tra pantani smisurati, risali fiumi impetuosi e fu sul punto di perire sotto il flagello delle belve, del paludismo e della disperazione, prima di riuscire a raggiungere una, strada di allacciamento con le mule della posta. Nonostante il viaggio alla capitale fosse in quei tempi poco meno che impossibile, José Arcadio Buendìa si riprometteva di intraprenderlo non appena il governo glielo avesse ordinato, allo scopo di dare dimostrazioni pratiche della sua invenzione alle autorità militari, e addestrarle personalmente nelle arti complicate della guerra solare. Per molti anni attese una risposta.
Alla fine, stanco di aspettare, si lamentò con Melquìades de l fallimento della sua iniziativa, e lo zingaro diede allora una prova convincente di onestà: gli restituì i dobloni in cambio della lente, e gli lasciò inoltre delle mappe portoghesi e diversi strumenti di navigazione. Scrisse di suo pugno una succinta sintesi degli studi del monaco Hermann, che lasciò a sua disposizione perché potesse servirsi dell’astrolabio, della bussola e del sestante. José Arcadio Buendìa trascorse i lunghi mesi di pioggia chiu. so in uno stanzino che aveva costruito in fondo alla casa perché nessuno turbasse i suoi esperimenti. Tralasciò completamente i propri doveri domestici, rimase nel patio per notti intere a sorvegliare il corso degli astri, e fu sul punto di contrarre un’insolazione mentre cercava di stabilire un metodo esatto per trovare il mezzogiorno.
Quando fu esperto nell’uso e nel maneggio dei suoi strumenti, ebbe una nozione dello spazio che gli permise di navigare per mari incogniti, di visitare territori disabitati e di allacciare rapporti con esseri splendidi, senza bisogno di lasciare il suo laboratorio. Fu in quel periodo che prese l’abitudine di parlare da solo, vagando per la casa senza badare a nessuno, mentre Ursula e i bambini si rompevano la schiena nell’orto per coltivare il banano e la malanga, la manioca e l’igname, la ahuyama e la melanzana. Improvvisamente, senza alcun preavviso, la sua febbrile attività si interruppe e fu sostituita da una specie di allucinazione. Rimase come stregato per parecchi giorni, continuando a ripetere a sé stesso a bassa voce una filza di sorprendenti congetture, incapace egli stesso di dar credito al proprio raziocinio. Alla fine, un martedì di dicembre, verso l’ora di pranzo, esplose in un colpo solo tutta la carica del suo tormento. I bambini avrebbero ricordato per il resto della loro vita l’augusta solennità con la quale il padre si sedette a capotavola, tremante di febbre, consunto dalla veglia prolungata e dal fermento della sua immaginazione, e rivelò la sua scoperta: “La terra è rotonda come un’arancia”.
Giacomo Pezzano –
Gli “Holzwege” del criticismo
da https://www.academia.edu/1763723/Gli_Holzwege_del_criticismo_percorsi_della_Wirklichkeit?email_work_card=thumbnail
«Gli “Holzwege” del criticismo: percorsi della Wirklichkeit
Le seguenti pagine cercano di tracciare un percorso speculativo intorno al concetto di“realtà” intesa come Wirklichkeit: a partire dalla sua presenza in uno degli snodi del criticismo kantiano, se ne mostreranno alcune “evoluzioni” che sembrano allo stesso tempo mantenere contatto con lo “spirito kantiano” e allontanarsene definitivamente. Emergerà – in un percorso in cui si tratta ogni volta di rimettere in questione ciò che è wirklich nella Wirklichkeit – come la Wirklichkeit conduce alla tematizzazione di un wirken che sembra essere la sua radice e la soluzione del suo enigma, pur potendo essere inteso di volta in volta in senso più strettamente filosofico (Kant-Hegel),economico-antropomorfo (Marx), biologico-naturalistico (Nietzsche-Susskind-Lorenz). In conclusione, si problematizzerà la modalità peculiare di relazione con il mondo propria dell’animale umano (la realtà umana), per notare come la realtà di quest’ultimo possa essere pensata in termini di relazionalità.
1. A partire dal criticismo: la questione della Wirklichkeit
Tutto ha inizio con una fine. Con la fine della metafisica, con il tentativo kantiano di porre fine alla possibilità della metafisica come forma di conoscenza, di metter fine ai sogni e ai voli visionari: certo, non ha torto chi sostiene che con Kant a ben vedere la metafisica non viene affatto negata, non solo perché viene comunque considerata espressione di un vero e proprio bisogno naturale, ma anche se non soprattutto perché si ritrova ad avere uno spazio ben preciso e circoscritto (come ogni ambito dell’esperienza umana, secondo il dettato di fondo dell’intero progetto delle Critiche), una sua autonomia e un suo locus naturalis, ancorché appunto non quello della conoscenza in senso stretto (“intelletto + sensibilità”, “concetto + forma a priori”,“forma + contenuto”, “categorie + spazio/tempo”, ecc.). Al di là di questo, tuttavia, la mossa kantiana viene qui letta prima di tutto come il tentativo di “riportare alla realtà” la filosofia e la scienza soprattutto, come quel gesto al quale potrà poi rifarsi il neopositivismo del Novecento che in maniera estrema (ed evidentemente non kantiana, sia chiaro) vedrà in ogni metafisico null’altro che un«attore» o un «musicista senza talento musicale», cioè qualcuno che è incapace di aderire alla realtà accettando il paziente lavoro di verifica e di correzione che il confronto con essa impone, preferendo invece partorire concetti (creare, secondo l’espressione tanto cara a Deleuze) autoreferenziali e automoventesi, privi dunque di qualsiasi riferimento a e radicamento nella realtà. Questo “richiamo alla realtà”, sul quale qui consideriamo erigersi l’intero edificio del progetto architettonico kantiano, può essere espresso come un “richiamo alla Wirklichkeit”, a tal punto che il vero e proprio compito lasciato in eredità da Kant (filosoficamente ma non solo) è proprio quello di decifrare lo statuto e il significato della Wirklichkeit
– di riappropriarsi sino in fondo della domanda esclusivamente filosofica circa la realtà della realtà. Ciò è soprattutto evidente in uno dei luoghi indubbiamente più importanti non solo della Critica della Ragion Pura
ma dell’intera filosofia di Kant in generale, ossia la Dialettica trascendentale e in particolare il capitolo sull’ideale della ragion pura: qui Kant, com’è noto, prende posizione contro la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, in quanto appunto l’esistenza non è un predicato reale
(«un concetto di qualcosa che possa sopraggiungere al concetto di una cosa»), una “nota concettuale”, bensì qualcosa che si aggiunge – e non può che farlo empiricamente – al semplice concetto, che si sovrappone al predicato logico determinandolo e dandogli contenuto (cfr. Kant 1998, 612-653). In sintesi, Realität e Wirklichkeit sono due realtà diverse, la prima solo analitica, la seconda sintetica, la prima meramente concettuale, la seconda effettuale, dunque effettivamente reale, ossia davvero reale.»
Commento di Giorgio Linguaglossa
Alla domanda posta qualche giorno fa ai poeti:
Quale poesia scrivere dopo la fine della Metafisica?,
rispondo:
Tutto ha inizio da una fine. Con la fine della metafisica tradizionale, ha inizio una nuova metafisica la cui tematizzazione sta all’arte e alla poesia individuare. Questo richiamo alla realtà ha l’intento di cambiare il concetto stesso che abbiamo di realtà come Realität. Perenta la stessa ragione giustificativa della dimostrazione dell’esistenza di Dio, è rimasta quella della dimostrazione dell’esistenza della realtà. Esiste la realtà? La distinzione tra Realität e Wirklichkeit, è importante perché ci consente di mettere a fuoco che è la Wirklichkeit la dimensione nella quale si muove la Nuova poesia della nuova ontologia estetica la quale non è soltanto un concetto alla maniera kantiana ma è una, appunto, dimensione «estesa e mutagena» nella quale vigono altri e diversi sistemi di misurazione, anch’essi intrinsecamente mutageni e modali. Oggi che la filosofia si rivolge a concetti come quello di «mappa», di «topologia», di «grammatica», di «mondo» e similari, anche la poesia deve mettere a fuoco adeguati strumenti retorici ed ermeneutici adatti alla esplorazione della nuova «dimensione estesa e mutagena» qual è il mondo di oggi.
Occorre rimettere in questione ciò che è wirklich nella Wirklichkeit – la Wirklichkeit conduce alla tematizzazione di un wirken che sembra essere la sua radice e la soluzione del suo enigma. Il reale è differente dalla realtà. Se la realtà è ciò che si presenta nell’orizzonte dell’apparire, il reale è ciò che resta ascoso all’apparire. L’arte e la poesia hanno questo telos: quello di far apparire nell’orizzonte degli eventi ciò che è nascosto, e lo possono fare soltanto cambiando radicalmente il paradigma. L’arte può rendere visibile il reale soltanto ripudiando il paradigma costituito. La nuova arte e la nuova poesia del nuovo paradigma si presentano sotto la veste dell’Enigma in quanto irriconoscibile.
Così, il soggetto della antica metafisica non corrisponderà più al soggetto della nuova metafisica, la «colonna sonora» della poesia del novecento non corrisponderà più alla «colonna insonora» della nuova poesia, il «tempo» della antica poesia unilineare e unitemporale non corrisponderà più al tempo, anzi, ai tempi della nuova poesia a «polittico», dove i tempi sono scomposti e si giustappongono in maniera irregolare e a-sistematica, dove l’entanglement della phoné della antica colonna sonora si ripropone in una nuova veste fenomenica e mutagena. Il tempo è diventato mutageno, e parlare di tempo al singolare è in se stesso una dizione erronea, più correttamente occorrerà parlare di «tempi interni» e «tempi esterni» alla parola, di dimensione intrinsecamente mutagena di ogni singola parola.
La Nuova poesia deve appropriarsi di questa nuova dimensione «estesa e mutagena» (in senso della pluralità dei tempi e degli spazi) per fondare la nuova Wirklichkeit del presente.
Direi che la Nuova poesia sta alla vecchia come la mappa satellitare sta alla tradizionale mappa geografica fissa.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/08/06/larte-figurativa-astratta-di-marie-laure-colasson-lettura-di-mario-lunetta-i-frammenti-espropriati-di-marie-laure-colasson-lettura-di-giorgio-linguaglossa-le-cose-non-sono-piu-cose/comment-page-1/#comment-58980
Mi scrive una poetessa, Annawrite Major:
Qui ci sono da affrontare argomenti filosofici del sistema hegeliano che io non comprendo appieno.
Concetti per me alquanto difficili ammetto non mi ritengo all’altezza
il realismo presentato come la convinzione che la realtà sia ontologicamente indipendente dai nostri schemi concettuali, dalle nostre pratiche linguistiche, dalle nostre credenze.
La morte di una vecchia metafisica ?
Capisco che la rappresentazione della realtà è così essenziale all’arte e che c’è una convinzione abbastanza avanguardista secondo cui l’arte e quindi anche un nuovo modo di intendere la poesia deve dar conto a forme di engagement delle “condizioni esterne “come diceva Sanguineti attraverso una ricerca di nuove forme e nuovi linguaggi.
Ci sono poesie in questo ambito di ricerca distanti dalla lirica di scuola con tutti i suoi clichè.
Poesie che vogliono distinguersi per linguaggio e cadenze ritmiche
Non amo molto le poesie che inducono troppo al ” poetese “.
Ma ho qualche dubbio su come la poesia debba essere e comunque qualcosa che abbia una sua soggettività.
Quali sono i modelli ?
Dov’è l’autore nella sua poesia ? Dove studiare? Da chi?
È necessaria una forma di personalizzazione emotiva che spesso non trovo in tanta poesia frammentata.
Ma leggo, ascolto, imparo.
Cara Annawrite,
quello che tentiamo di fare è molto semplice: tracciare un quadro dove vi sia un di più di realtà, un wirklichste Wirklichkeit, ovvero un quid di «più reale realtà». Se l’arte, la poesia si fermano all’idea di realtà che già sapevamo, è un’arte e una poesia di maniera, si tratta di un fare epigonico. L’arte e la poesia devono cercare nuovi punti di vista (standpunkt) dai quali sia possibile percepire una realtà più estesa, più profonda. Ma per far ciò occorre mettere in essere un nuovo paradigma, non solo della visione, ma dell’essere. Insomma, la questione è sempre una questione ontologica.
Citazioni.
Im Anfang war die Tat.
Wolfang Goethe
Quale chimera è dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, stupido verme della terra; depositario del vero, cloaca di incertezza e d’errore; gloria e feccia dell’universo. Chi sbroglierà questo ingarbugliamento?
Blaise Pascal
Che cosa è l’uomo? È questa la domanda prima e principale della filosofia.
Antonio Gramsci
Anthropos significa che, mentre gli altri animali non osservano nulla di quello che vedono, né vi ragionano sopra, né lo anathrei [considerano sopra] , l’anthropos , invece, non appena ha visto, e questo è il senso dello
opope [ha visto], anathrei [considera] e ragiona su quello che opopen [ha visto]. Per questo, appunto, unico tra gli animali, l’anthropos è stato denominato correttamente anthropos, anathron a opope [colui che considera ciò che ha visto].
Platone
Dobbiamo dunque pensare all’individuo animale come a un piccolo mondo che esiste in sé, con mezzi propri. Ogni creatura ha una propria ragion d’essere. Tutte le sue parti hanno un effetto e un rapporto diretto l’una con l’altra, rinnovando così il flusso continuo della vita.
Wolfang Goethe
La sola cosa incomprensibile dell’universo è che esso sia comprensibile
. Albert Einstein
Stranamente, una delle idee filosoficamente più pericolose è l’idea che pensiamo con la testa o nella testa. L’idea del pensare come di un processo che ha luogo nella testa; in uno spazio perfettamente concluso, conferisce al pensare un che di occulto
. Ludwig Wittgenstein
Una teoria politica sovversiva deve avere una casella vuota che solo l’iniziativa pratica è autorizzata a riempire. Ogni teoria politica degna di questo nome deve attendere l’imprevisto.
Paolo Virno
Un’arte che non apre all’impensato, che ricade tutta nel pensato, nasce già morta e finisce all’obitorio. L’apertura all’impensato è un elemento imprescindibile della comunicazione artistica, a differenza della comunicazione mediatica che è un prodotto del pensato, del già noto.
Giorgio Linguaglossa
Giorgio Linguaglossa
Sulla Metafisica di Matteo Pietropaoli
Nella Critica della ragion pura Kant conclude, detto in maniera grossolana, che la metafisica non è una scienza, se la sua pretesa di scientificità resta legata alla pretesa di fornire una conoscenza teoretica del soprasensibile; eppure tanto le sue istanze quanto gli oggetti del suo domandare sono qualcosa di ineludibile per l’uomo e anzi questi, nel vivere, ha già sempre dato in anticipo una risposta a tali questioni. Con queste conclusioni, senza tener ora conto dei fondamentali sviluppi dello stesso pensiero kantiano nella seconda e terza critica, si è data licenza a tre concezioni distinte della metafisica, che resistono tutt’oggi con maggiore o minore seguito:
1. La metafisica non è una scienza, quindi non è capace di cono-scenza e le sue istanze sono sì ineludibili ma conducono all’errore. Soltanto la conoscenza scientifica può evitare che si scada nella deriva della metafisica come logica della parvenza, sicché l’autentica eredità della filosofia antica e moderna, la sua capacità di far progredire e sviluppare l’umanità mediante la conoscenza, è raccolta dalle scienze.
2. La metafisica non è una scienza ma, intesa qui solo come
metaphysica generalis, va mantenuta in quanto serve a fornire a un tempo la teoria più generale e il correttivo per la conoscenza innanzitutto scientifica, tanto che la stessa critica kantiana è stata portata avanti come metafisica e non come scienza. Quindi l’importanza della metafisica permane non tanto nell’interrogazione su quelli definiti da Kant come gli oggetti della stessa, ma proprio nel carattere critico che ha permesso di metterne in luce i limiti conoscitivi. La metafisica è intesa come teoria della conoscenza.
3. La metafisica non è una scienza, bensì qualcosa di più originario che ha il suo significato in sé e non nel rimando alla conoscenza scientifica. Le istanze della metafisica non sono solo ineludibili e già anticipate ma fondamentali e da perseguire, ossia da esplicitare metafisica dell’esistenza [ Existenz]» nel loro senso e da approfondire per quanto riguarda il legame inscindibile che hanno con l’uomo e con la sua esistenza, tanto dal punto di vista teorico quanto da quello pratico. Con ciò si arriva a prendere sul serio la metaphysica specialis e quel che viene detto da Kant nella dialettica trascendentale, quale percorso tracciato del futuro della metafisica, ossia innanzitutto il tema della costante anticipazione di una totalità declinata negli aspetti di anima, mondo, Dio. D’altra parte queste tre concezioni si possono riassumere ancora più breve-mente in questo modo:
1. La metafisica non si occupa di un oggetto che riesce a conoscere, in termini scientifici non conosce niente, quindi tratta del niente e va rigettata.
2. La metafisica è proprio questa interrogazione sui limiti del conoscere che non ha di per sé un oggetto, ma nel riconoscere il niente del suo conoscere indirizza in maniera corretta il conoscere scientifico verso qualcosa.
3. La meta-fisica tratta del niente e deve trattare del niente come suo autentico oggetto, se per niente si intende tutto ciò che non è un ente, ossia tutto ciò che travalica ed è più originario dei singoli ambiti delle scienze, il transcendens puro e semplice.Questultima concezione si delinea su quella esposta da Heidegger nella conferenza del ’29 intitolata Che cos’è metafisica?, dove la questione della metafisica è di nuovo portata alla luce come primaria e interrogata in termini che sono fondamentali ai fini dello sviluppo qui presentato.
«La domanda sul niente mette in questione noi stessi che poniamo la do-manda. Si tratta di una domanda metafisica. L’esserci umano può rapportarsi nei confronti dell’ente solo se si tiene immerso nel niente. L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dellesserci. Ma questo andare oltre è la metafisica stessa. Ciò implica: la metafisica appartiene alla “natura dell’uomo”. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l’accadere fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in questo fondamento privo di fondo, essa è costantemente insidiata da vicino dalla possibilità dell’errore più radicale. Perciò nessun rigore d’una scienza rag-giunge la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata col parametro dell’idea della scienza»1.
In questa riflessione di Heidegger sono in realtà mantenute a un tempo le due istanze della metaphysica generalis e di quella specialis, negli aspetti appunto della sua ontologia fondamentale e di quella che è indicata come
metafisica dell’esistenza.
la domanda sul niente pone al fondo in questione il tutto di ciò che è, e così in primis noi stessi che poniamo tale domanda. Ma noi chi? Ogni singolo uomo inteso in quanto apertura di un orizzonte d’essere, in quanto punto di vista di questo orizzonte in cui si è inclusi, in quanto esserci. Solo sulla base di tale orizzonte d’essere ci può essere rapporto, e così qualcosa che è sempre mio, che sono sempre io, può rapportarsi nei confronti di altro che è, di un ente che non è questo punto di vista. In quanto esserci, l’essenza dell’uomo è per Heidegger proprio quella di andare oltre e aprire costantemente questo orizzonte che lo conduce al rapporto tanto teorico quanto pratico con l’ente, ossia con tutto ciò che è e con ogni singolo ente, compreso se stesso. L’andare oltre, ossia uscire fuori di sé come ente e aprire quell’orizzonte di rapporto, di comprensione, per cui ogni ente si mostra innanzitutto e per lo più
in quanto qualcosa, è ciò che costituisce l’essenza dell’uomo, vale a dire la sua esistenza. Questo però significa che fare metafisica non è qui interrogarsi su problemi logici, su questioni storiche o dottrinali, bensì andare oltre di sé come ente: «questo andare oltre è la metafisica». Il che al fondo vuol dire: l’essenza dell’uomo, in quanto esserci, di andare oltre, ossia di esistere, è a un tempo la sua essenza metafisica. L’uomo è fondamentalmente e già sempre metafisico, mai soltanto uno studioso di metafisica. Anzi, la metafisica è ciò che vi è di più proprio in esso, anche prima del suo essere uomo, perché è il suo accadere fondamentale di anticiparsi in quanto uomo, ossia riguarda il suo carattere di esserci, di apertura, di oltrepassamento, soltanto a partire dal quale ciascuno può individuarsi in quanto uomo e in quanto questo uomo.
* Per una trattazione estesa del tema proprio della metaontologia si veda M. Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione di Heidegger a partire dal “Kantbuch” , Mimesis, Milano-Udine 2013. Tra i rari scritti a riguardo si segnalano R. Terzi, Ontologia, metaontologia e problema del mondo in Heidegger, in «Epekeina» vol. 2, 1(2013), pp. 83-114; L. Tengelyi, L’idée de métontologie et la vision du monde selon Heidegger, in «Heidegger Studien» 27(2011), pp. 137-153, e soprattutto F.W. von Herrmann, Fundamentalontologie – Metontologie und die existenziale Anthropologie, in R. Esterbauer – M. Ross (eds.), Den Menschen im Blick. Phänomenolo- gische Zugänge, Königshausen & Neumann, Würzburg 2012. Sulla differenza tra la lettura dominante della metaontologia in Heidegger, al seguito dellinterpretazione di von Herrmann, e quella presentata qui e nella monografia su richiamata si veda anche M. Pietropaoli, Che cos’è la metaontologia? Un passo oltre Heidegger, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» (in corso di stampa).
1 M. Heidegger, Was ist Metaphysik (1929), in Wegmarken
(1976), in Gesamtausgabe, Band 9, ed. F.W. von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 121-122; tr. it. di F. Volpi,
Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 2008, pp. 76-77. Qui la traduzione di Volpi è stata in parte modificata.
https://www.academia.edu/32037612/Metafisica_dellesistenza._Il_possibile_sviluppo_metaontologico_a_partire_da_Heidegger_Giornale_di_Metafisica_2-2016_
L’autunno sulle labbra, nelle sinapsi
la primavera in gocce,
un vento amico di novità sottile.
Dall’altra parte di uno scialle teso,
il cielo umile. L’occhio di Ra pure
sulle onde ad uno sconquasso.
Un vertice si impenna nella sequenza
di sassi distratti
la torre chiusa sulla scogliera.
e un gabbiano di roccia.
Grazie Ombra.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/08/06/larte-figurativa-astratta-di-marie-laure-colasson-lettura-di-mario-lunetta-i-frammenti-espropriati-di-marie-laure-colasson-lettura-di-giorgio-linguaglossa-le-cose-non-sono-piu-cose/comment-page-1/#comment-59022
una poesia inedita di Luigi Manzi di recente apparsa su un blog [2013]:
Luigi Manzi
L’eco
Raggiungimi, dunque. Qui si tocca il cielo stellato
e il richiamo della ghiandaia pulsa ininterrotto.
A notte alta viene l’eco del cane forestiero
che al fondo delle valli insiste
e s’arrovella.
Forse sei in cammino. Ascolto il suono dei passi sul selciato
rimandati dall’andito.
Resto in attesa. Nel buio gelido risuona
il canto liquefatto del viandante che si ferma all’angolo
e al tuo somiglia; eppure tu sei altrove
e lui, per darmi ristoro,
a poco a poco s’addormenta, lascia che la melodia
si stemperi sulle labbra
e lenta
si disperda.
Una volta Pasolini disse che leggendo una poesia lui percepiva subito il sapore dei soldi, del salario che stava dietro quella poesia (dell’autore). Ecco, io direi che della poesia che data dalla seconda metà del Novecento, se avvicini l’orecchio alla sua palinodia o al tinnire della sua hilarotragoedia, puoi sentire il tinnire delle stoviglie: da cucina o di alto bordello dove si celebra il rito sacro di Atteone sbranato dai cani (qui i cani sono il salario e chi te lo dà), puoi avvertire, come nella poesia di Giovanni Giudici, il mandato catto-comunista di attenzione alla vita quotidiana degli “umili”, cioè i piccoli borghesi che edificavano a quel tempo la nazione.
Si può dire di tutto di questa poesia di Manzi, e il contrario di tutto, tranne che dietro di essa non ci senti alcun sentore della piccola borghesia; c’è una estraneità assoluta alla Attualità, al Quotidiano, al Privato (e alla ideologia hillmaniana dei nostri tempi). La poesia di Manzi prende le distanze da tutto (non è né di destra né di sinistra, non punta al centro, né al cielo della cielità né alla terra della presunta terrestrità).
È una poesia senza mandato, senza mandatario e senza messaggio. È una poesia che non si rivolge a nessuno né vuole convincere nessuno.
Per questo è una poesia convincente, una grande poesia.
giorgio linguaglossa
15 marzo 2013 alle 09:11
Ecco una poesia di Anna Ventura dal titolo «La parola alle cose», tratta dalla raccolta Le case di terra(1990).
Altissima sui sugheri,
cammino per le stanze.
E’ estate.
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
-oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.
La Ventura viene dopo il decennio de “La parola innamorata”, del post-sperimentalismo e del primo minimalismo romano-milanese, un vero e proprio diluvio di luoghi comuni e di banalismi di massa. La Ventura si pone la seguente parola d’ordine: diamo finalmente «la parola alle cose», facciamo parlare le «cose» e lasciamo stare le «parole» ormai troppo inquinate dai paroliferi e dagli alfieri delle parole d’ordine dei modelli maggioritari; nella sua poesia non c’è più traccia di «mettere la vita in versi» (di un Giudici che farà scuola e pessimi allievi), non c’è più traccia dei pasolinismi alla Gianni D’Elia (poesia di seconda e terza mano), qui non c’è traccia di fare poesia orfica (di seconda e terza mano: Alessandro Ceni e coetanei), non c’è più traccia del post-sperimentalismo auto referenziale di un Edoardo cacciatore e dei suoi innumerevoli imitatori, qui si va alla radice, e cioè di dare la parola alle cose. Mi sembra un coraggioso tentativo di fare tabula rasa di tutto ciò che i poeti citati e i loro epigoni (di seconda e terza mano) hanno fatto e contraffatto: uno sciame di scritture epigoniche che aveva la piccola borghesia massmediatizzata quale contro valore e controllore di quelle scritture nefaste.
Occorre distinguere la nozione sociologica di «piccola borghesia» da quella di carattere estetico di referente delle scritture poetiche destinate al consumo massmediatizzato di quella classe che nel corso del tardo Novecento e negli anni Dieci diventa una massa fluida e floreale. Dopo il Craxismo arriva la finta sinistra post-comunista del partito democratico e il fenomeno di teatro Berlusconi, e quella che era una classe ora diventa un Ceto Medio Mediatico in via di impoverimento sempre meno decisivo e importante per le sorti del Capitale finanziario.
Voglio dire: la poesia del tardo Novecento come reagisce a questa situazione?
A me sembra che ci siano state e ci siano, qua e là, delle prese di posizione da parte dei migliori poeti dinanzi a questa situazione macro culturale. La poesia di Anna Ventura è una di queste: salta il «referente» della «piccola borghesia», cioè non si rivolge più a quella piccola borghesia democristiana e cattocomunista del tempo di Giudici che nel frattempo è scomparsa, ma si rivolge ad un interlocutore impalpabile e indistinto (che non c’è e che non si sa se mai ci sarà).
Giorgio Linguaglossa
6 maggio 2013 alle 11:05
Leo Spitzer ci ricorda che «a qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale; e, viceversa… un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto».
In autori come Giudici e Pagliarani (per fare solo due nomi) l’aspetto saliente della loro poesia è dato dall’«effetto per evocazione» mediante la raffigurazione del loro ambiente piccolo borghese o dell’ambiente socio culturale e lavorativo nel quale vivono e si muovono i loro personaggi. Di qui lì’impronta “realistica” del loro modo di procedere; ma si tratta di un “realismo” quanto meno datato, oggi direi anche invecchiato, una procedura oggi non più utilizzabile se vogliamo. Pensare a certi effetti di sociostilistica di cui la loro poesia abbonda è, oggi, quantomeno operazione di nostalgia, operazione analgesica, numismatica.
È molto probabile che nel prossimo futuro la poesia di Giudici, di Pagliarani e dei loro epigoni, invecchi rapidamente tanto da rendere obsoleta e illeggibile quella poesia. Voglio dire che il Tempo entra prepotentemente nella forma-poesia facendola invecchiare, rendendola inservibile e illeggibile. Il Tempo è un agente attivo nelle opere d’arte.
Voglio dire che legare la problematica della autenticità ad un impegno sociolinguistico che la poesia deve avere (come facevano Giudici e Pagliarani), appare oggi come un atto di declinabile e deplorevole ingenuità.
Uno dei problemi che io ho posto con il libro “Dopo il Novecento” è appunto quello di propugnare una poesia della “autenticità” senza cadere nella trappola sociostilistica in cui erano caduti i poeti citati; resta certamente questo un problema aperto che non sta al critico risolvere ma ai poeti. Il critico può tuttalpiù rilevare certi elementi di criticità, non può né deve indicare le soluzioni. Io direi che mettere nella giusta luce il problema dell’autenticità in poesia ci risolverebbe anche quello immediatamente seguente di: quale stile?, quale Forma?
D’ESTATE
[Sogno sul Ticino]
Scrittura su massa d’impotenza.
Dominano formiche.
Scudiscio di protoni contro tigre.
Faust chiama Mefistofele per una metastasi.
Sogno sul Ticino.
Tuttavia la “Questio” rimane:
nascerà tecnologia da un verso?
[Il grande vecchio]
Roma si alza, incenerita.
Uncini verdi trafiggono i pini.
A tratti, lottando con l’autostrada-nascere è altro-
si affaccia il sole.
Uccelli col dorso argento dei gorilla
Svegliano il grande vecchio.
Sonnacchioso dubitare che la luce sia luce.
E dunque nessun Matteo è chiamato.
Ad agosto scenderà l’incantamento
Per addizione al non pensiero.
Sapore d’artato.
Una sofisticazione nel vino novello.
[Elea ]
Cubi di Essere salgono Elea.
Volontà di un Faraone.
Grumi di corteccia immortale.
Maria Carolina contro Eleonora Pimentel.
La dimenticanza non ce l’ha fatta.
Tra l’una e l’altra scorrono lazzari.
Figli, padri.
I campi ingrassano ogive di pomodoro.
Nessun appezzamento coltiva il pieno.
Arrivano in cima alla torre.
Parmenide guarda discreto la piramide.
La luce che scende una faccia
Risale perfetta da un’altra.
Stuprano, sgozzano, applaudono.
Ruffo assolve.
Ciò che chiudono nella geometria
è il Tempo.
Una sfera e nel cuore, a gusci concentrici,
proprio niente.
(…)
[Agosto]
Il colombo ha l’occhio obliquo dell’aereo atterrato sul campanile
Non c’è stato un muro da abbattere, un Giappone da piegare.
Enola Gay in fuga davanti ad una scia.
Gli ulivi in avvitamento nel terreno.
L’Altro è ritornato al suo posto con piedi uncinati.
Le gazze a caccia di colombini.
Alta tensione intorno al cranio.
Passano crociati.
Il campo visivo si allarga ai parrocchetti.
Raggi gamma nei pini.
Mettono curve dove c’erano triangoli. Trincee di bouganville attorno ai nidi.
La sostituzione del nero ai pieni di rosso nelle vie di Stalingrado.
In termini di papavero appare un sottomarino affondato
Che alza il periscopio quando l’oceano si riassorbe.
La mancanza di idee è bilanciata dall’abbondanza di sputi.
L’arenaria s’ingrossa. Gru affogate nel tufo.
Bracci carichi, DNA operativo.
I palazzi galleggiano su schiume di piombo.
(…)
I raggi alfa delle librerie
entrano ed escono da mazzi di banconote.
Basta metterle in un bankomat
per rincorrere il branco.
Il frammento riprende a splendere sul totale.
combaciano raggi X e onde radio.
Dopo aver disposto su un vetrino la via lattea
si parla di attività sociale.
I neuroni strisciano sotto i piedi.
Strappi sull’asfalto corrispondono a ferite letali.
Una piega di gravità e dentro
un crepaccio di tempo. Farmaco retard.
(…)
Non ci sono frammenti negli scorrevoli delle banche
E nemmeno il gestore capisce il tutto o niente.
I sotterranei non comprendono il dubbio
Soltanto i debitori hanno chiara la mandata fondamentale.
I soldi volano in alto. Non si avvede
Che i colombi sono reduci dello spread.
(…)
L’ultimo a scomparire
è l’orizzonte.
Da questa parte continua il gioco
di biglie tra le onde.
Sul biliardo i secoli rincorrono i secoli
li colpiscono e sbattono sulle sponde.
Oscure creature entrano ed escono dalla rena.
Montano tubi, scene.
Del tutto uguali al primo game.
Tocchi di Michelangelo sull’intonaco rosso.
Arriva inaspettata la notizia di una vincita record.
Prima o poi.
Il sole sorge da Gibilterra
E l’Io, tra le stelle è la Polare.
(Francesco Paolo Intini)
Sia come sia, se queste di Franco Intini abbiano o no la qualità di essere concettuali. A me sembra che sia tanto l’annegamento – l’acqua inquinata che (ci) attraversa – , dove ogni cosa è lasciata scorrere.
Fredda esposizione, ma di ogni sorta di fantasticherie; a tratti con sentita partecipazione visiva, come:
Da questa parte continua il gioco
di biglie tra le onde.
Sul biliardo i secoli rincorrono i secoli
li colpiscono e sbattono sulle sponde.
Versi che perforano le pareti di una sala giochi, dove “Oscure creature”… Abbracciare frantumi di realtà; parole come palline impazzite, ognuna con all’interno una sorpresa. E’ come un pesciolino che si dibatte, la nuova poesia.
Linguaggio, più che raffreddato, ibernato. Demandato ai posteri. Ma perché sono versi concettuali, che ogni tanto ancora vorrebbero dire. In questo senso, a mio modo di vedere, alcune metafore le volterei in diretti proclami. Vero è che la realtà è di per sé un tabù, ma si vorrebbe.
Grazie, Franco
anche per queste riflessioni su una poesia che sento autenticamente NOE. – Spero di non aver scritto troppe cavolate.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/08/06/larte-figurativa-astratta-di-marie-laure-colasson-lettura-di-mario-lunetta-i-frammenti-espropriati-di-marie-laure-colasson-lettura-di-giorgio-linguaglossa-le-cose-non-sono-piu-cose/comment-page-1/#comment-59047
Faust chiama Mefistofele per una metastasi.
Questo verso di Francesco Paolo Intini lo sceglierei come titolo della sua prossima raccolta.
Dice bene Lucio Mayoor Tosi quando scrive «l’acqua inquinata che (ci) attraversa – , dove ogni cosa è lasciata scorrere.
Fredda esposizione, ma di ogni sorta di fantasticherie».
Nella poesia di Intini non c’è alcun pilota automatico, le parole affiorano da una profondità che non è profonda, dalla superficie che noi siamo già da sempre. Siamo esseri superficiari, che ci accomodiamo alla superficie e prendiamo dalla superficie ogni sorta di oggetti, e di parole, e le acconciamo secondo i nostri usi e consumi. E la poesia non può che rendere evidente, anzi, evidentissimo questa relittuosità superficiaria delle parole, il loro essere amebatico, parassitario… le parole vivono in modo parassitario nel nostro universo linguistico. E la poesia non può che tradirle, rendere manifesto questo loro essere parassitario, essere ameba. Sarebbe sciocco e presuntuoso cercare un senso in questi versi. Forse sarebbe più giusto eliminare la parola «senso» dal vocabolario di Intini. È che le parole sono scomparse. Come i colori di Marie Laure Colasson. dove è evidente, guardando i suoi quadri, rilevare che i colori sono scomparsi, che quello che vediamo sono il ricordo di ciò che erano i colori, o meglio, non il ricordo ma la ricostruzione dei colori nella mente del la pittrice. Un tempo erano i colori che fondavano lo spazio, adesso, non lo fondano più ma lo sfondano, ne mostrano il carattere di sipario spento; lo spazio nelle sua pittura non è mai tridimensionale e nemmeno bidimensionale ma, direi, quadridimensionale, è lo spazio che resta quando scompare lo spazio e ne resta un ricordo brumoso, caliginoso, che sfuma via. È lo spazio della rammemorazione quando le cose sono già scomparse e ne restano le tracce, le ombre…
Intini a suo modo risponde alla grande domanda che avevo posto ai poeti qualche giorno fa:
quale poesia scrivere dopo la fine della Metafisica?
Ecco, direi che questa di Intini è la poesia che è possibile scrivere oggi dopo la fine della Metafisica. Come la pittura della Colasson ci dice che questo è un tipo di pittura che è ancora possibile dopo la fine della Metafisica.
Oggi ho scritto questi versi. Non saprei dire che cosa significano:
Le fanfare d’oro nuotano in branchi nel sole spento.
Mia madre posa una forbice sui tasti del pianoforte.
Le parole non dette scavano la galleria del nostro destino.
Le parole bianche sono oscene, non meno delle nere.
La Dama Bianca e la Dama Nera sul Ponte di Rialto si scambiano il testimone:
la forbice, la clessidra e il dado.
Dall’oscuro canale sbucò un nano gobbo, sulla zucca cilindro rosso e nacchere,
sgambettò, cincischiò con lo spartito di Vivaldi,
fece un inchino, uno sberleffo, uno slalom attorno alla Dama Bianca
con la maschera nera sul volto,
farfugliò qualcosa di indistinto che al momento non afferrai,
poi prese sotto braccio il gattaccio del mago Woland
e scomparvero nella nebbia veneziana…
Ma penso che anche questi versi, scritti senza l’ausilio di alcun pilota automatico, siano la sola poesia che è possibile scrivere dopo la fine della Metafisica.
Il fatto è che l’uomo è «un animale metafisico» (dizione di Albert Caraco), e non può che riprodurre la metafisica anche dopo la fine della metafisica. È un meccanismo infernale che non può arrestarsi mai.
Ecco perché la «nuova poesia» assume a proprio tema centrale il perché della poesia, se abbia ancora un senso la poesia. Poiché la crisi è in poesia la poesia reagisce diventando meta poesia, ricusando la vecchia metafisica per una meta ontologia della metafisica del poetico in base alla assunzione che il poetico non è uno spazio separato dal non-poetico, quanto che esso sia la stessa meta ontologia che diventa indagine metafisica. La meta ontologia verte su ciò che è al di fuori della ontologia, fuori dell’ontico e, precisamente, sul niente che costituisce le cose, sulla nientificazione che sta all’origine di tutte le cose e dell’esistenza.
Non c’è altro da aggiungere.
Per essere un buon Governante non devi amare lo Stato.
Per essere un virtuoso Papa non devi credere in Dio.
Per essere un bravo Poeta non devi bramare la Poesia.
Germanico, le fronde interne mugugnano, il malcontento
Serpeggia tra i Generali e i Tenenti giocano con le ossa rotte.
Solo gli assassini amano le vittime. Solo i ladri adorano Dio.
Solo i poetastri smaniano per la passione riluttante delle Muse.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/08/06/larte-figurativa-astratta-di-marie-laure-colasson-lettura-di-mario-lunetta-i-frammenti-espropriati-di-marie-laure-colasson-lettura-di-giorgio-linguaglossa-le-cose-non-sono-piu-cose/comment-page-1/#comment-59051
Scrive Tomas Tranströmer (1931-2015):
«…la musicalità delle parole nel senso che uno sperimenta con vocali e consonanti in un certo modo, non è mai stata una attrattiva particolare per me». Tuttavia, nella stessa occasione, parlando del proprio desiderio giovanile di divenire compositore, rivela: «…ma poi ci sono sempre taluni impulsi musicali, che mi arrivano e a volte ciò succede in relazione a una poesia, così c’è come una sorta di ombra della poesia che si fa avanti sotto forma di esperienza musicale. Il che io non registro ma resta là in qualche modo nella coscienza». Inoltre precisava che la musica è da lui considerata comunicare direttamente e ispirare in modo straordinario.
In un’altra occasione, dice: «Io sono stato influenzato dal linguaggio della musica, il linguaggio della forma, è difficile dire in quale modo». Qualche tempo dopo, a chi gli domandava se sentisse le limitazioni imposte dalla lingua, il poeta rispondeva così: «Le sento in modo straordinariamente forte – e forse la mia poesia è una sorta di compensazione per ciò che in realtà andrebbe espresso in musica. «La musica mi dà sempre forti emozioni. Senza musica non posso vivere. Tuttavia io non credo che si possano trasporre automaticamente le forme della musica nella lirica… Spesso forse c’è una sorta di orchestrazione nelle mie poesie. La musica ha questo in comune con la poesia, che è uno spazio di tempo, con un inizio e una fine, a differenza delle arti figurative.»
La musica. E io resto prigioniero
nel suo arazzo
*
La musica è una casa di vetro sul pendio
in cui le pietre volano
La Lugubre gondola, composizione per violino e pianoforte. In visita a Venezia presso la figlia Cosima e il marito di lei, Richard Wagner, nell’inverno 1882-1883, List si era ispirato al passaggio di gondole funebri dirette al cimitero, e aveva tentato d di riprodurre in musica l’impressione che ne aveva ricevuta. Trauergondel fu, secondo una dichiarazione dello stesso autore, una sorta di composizione profetica in quanto qualche tempo dopo (il 13 febbraio del 1883) Wagner moriva
Tomas Tranströmer
da La lugubre gondola (1996)
I
Due vecchi, suocero e genero, Liszt e Wagner, abitano sul Canal Grande
insieme alla donna irrequieta che è sposata con il re Mida
quello che trasforma tutto ciò che tocca in Wagner.
Il verde freddo del mare penetra attraverso i pavimenti nel palazzo.
Wagner è segnato, il celebre profilo da maschera1) è più stanco di prima
il volto una bandiera bianca.
La gondola è gravata dal peso delle loro vite, due biglietti di andata e ritorno
e uno di andata.
II
Una finestra del palazzo si spalanca e si fanno smorfie alla corrente improvvisa.
Fuori sull’acqua compare la gondola dell’immondizia spinta da due banditi con un solo remo.2)
Liszt ha buttato giù alcuni accordi, così pesanti3) che dovrebbero essere mandati
all’istituto mineralogico di Padova per l’analisi.
Meteoriti!
Troppo pesanti per trovar quiete, possono solo sprofondare sempre di più
dentro il futuro giù
fino agli anni delle camicie brune.4)
La gondola è gravata dal peso delle pietre del futuro rannicchiate.
Sguardi5) sul 1990
III
25 marzo. Inquietudine per la Lituania.6)
Ho sognato che visitavo un grande ospedale.
Niente di personale. Tutti erano pazienti.
Nello stesso sogno una bambina appena nata
che parlava con espressioni compiute.
IV
Accanto al genero che è uomo del suo tempo Liszt è uno sciupato grandseigneur.
È un travestimento.
L’abisso che prova e respinge tante maschere ha scelto proprio quella per lui –
l’abisso che vuol far visita agli uomini senza mostrare il suo volto.
V
L’abate Liszt è abituato a portarsi da solo la valigia nel nevischio e sotto il sole
e quando un giorno morirà nessuno lo aspetterà alla stazione.
Una tiepida brezza d’un generoso cognac lo rapisce nel bel mezzo di
un compito.
Ha sempre dei compiti.
Duemila lettere all’anno!
Lo scolaro che scrive cento volte la parola sbagliata prima di poter andare a casa.
La gondola è gravata dal peso della vita, è semplice e nera.
VI
Di nuovo nel 1990
Ho sognato che avevo guidato per duecento chilometri inutilmente.
Poi tutto si fece grande. Passeri grossi come galline
cantavano in maniera assordante.
Ho sognato che avevo disegnato tasti di pianoforte
sul tavolo di cucina. Io ci suonavo sopra, erano muti.
I vicini venivano ad ascoltare.
Note
1] In svedese Kasper è una maschera del teatro delle marionette, una sorta di Arlecchino.
2] Vi è qui un gioco di parole, intraducibile, tra enarade banditer “banditi a un sol remo” (con evidente allusione al modo in cui i gondolieri spingono la loro imbarcazione) e l’espressione svedese enarmad bandit, letteralmente “bandito con un solo braccio”! con cui si fa riferimento a una slot machine. Ciò, secondo S. Bergsten sottolinea l’aspetto di buffonata da fiera che assumerà il culto di Wagner.
3] L’allusione è probabilmente al fatto che sullo spartito Liszt ha inseriro l’indicazione «pesante».
4] Chiara allusione al fatto dall’ideologia nazista della figura e dell’opera di Wagner.
5] Letteralmente, in svedese glugg (plurale gluggar) indica una “apertura” o una “piccola finestra”.
6] Non si dimentichi che dal punto di vista storico i Paesi baltici hanno da sempre rivestito una grande importanza per gli Svedesi. Si consideri inoltre che Tomas Tranströmer, oltre ad avere rapporti personali di amicizia con intellettuali di quell’area, ha dedicato alla distesa del Mar Baltico (quello che al “tempo della grande potenza” [stormakstid], 1630-1721, poteva essere considerato il mare nostrum svedese) l’opera Österjöar (“Mari baltici”, 1974), nel cui titolo l’uso di un plurale apparentemente improbabile vuole invece sottolineare la molteplicità degli elementi naturali e culturali che la caratterizzano.
(traduzione di Gianna Chiesa Isnardi, Sorgegondolen, Herrenhaus, 2003, p. 126)
“E forse la mia poesia è una sorta di compensazione per ciò che in realtà andrebbe espresso in musica.” (T. Tranströmer )
Tra sogno e realtà si muove una gondola, sprofondando i remi nel tempo e lo spazio.
Liszt e Wagner appartengono alla realtà o al sogno?
Sono immagini potenti di un passato che naviga su un mare freddo di onde mute nate dal “piano sul tavolo di cucina” come si trattasse di un molo o del pavimento del palazzo sospeso sul canale.
È dunque la musica, il più immateriale soffio dello spirito umano, la più pura tra le sue energie, ad acquistare peso come se la morte, che vorrebbe rappresentare, la trasformasse in materia.
Un meteorite che penetra la storia umana fino all’ epoca delle camicie brune e la cui scia illumina la Lituania nel suo inquieto 1990, nazione indipendente finalmente.
Se la musica di Wagner si vestirà suo malgrado di croci uncinate, quella di Liszt supererà quel tempo fino al nostro dove sarà possibile osservare “una bambina appena nata\che parlava con espressioni compiute”
Epoca di miracoli per le nazioni neonate dunque, che l’abisso affida alla maschera di un “grandseigneur”.
L’abisso, il gran nulla che contiene tutte le epoche eruttandole in nome del logos affida a Liszt la composizione della musica perfetta.
Un alunno capace di ripetere centinaia di volte la scrittura di un accordo prima di andare a casa pur di cogliere la profondità da cui proviene.
E quando è finalmente colta, il pianoforte di Liszt assume la potenza del mare che sale su dal pavimento e fluisce nell’intera pietra dell’edificio.
Lo stesso improvviso diventare gigantesco delle cose, l’atmosfera in cui i passeri sono grandi come polli e la musica corrisponde al silenzio assoluto della cucina.
“Buona sera meraviglioso profondo!
La gondola è greve, carica di vite, è semplice e nera.”
Il signore dell’abisso è maestro dal nome indicibile.
Si può ascoltare il Parcifal senza proferire suono, con estrema pazienza portare sulla faccia l’ innocenza del bianco e cominciare come uno scolaro al primo giorno.
Liszt è tra quei banchi insieme al poeta, entrambi capaci di dare materialità e visibilità al silenzio, da versanti complementari però come onda e corpuscolo per la luce.
(Francesco Paolo Intini)
Francesca Brencio
IL CONFINE DEL SILENZIO.
ESTETICA E ONTOLOGIA NEL “POETICO” PENSARE DI MARTIN HEIDEGGER
il linguaggio del poeta non è solo il linguaggio della parola; esso è anche il linguaggio dell’immagine, è un linguaggio cioè fatto di immagini che permette di “lasciar vedere qualcosa”. L’immagine “lascia vedere l’invisibile, lo configura in un materiale che […] ne salvaguarda l’estraneità ossia la trascendenza”. Il poeta parla per immagini, “a fronte del cielo e a partire dal cielo, egli prende la misura della terra, l’orienta, ne orienta la vita su di essa e fa questo “misteriosamente attraverso quei segnavia che sono i Bilder”40. Attraverso questa operazione non si ha una sdivinizzazione del Sacro, ma anzi esso viene recuperato sottraendosi “all’obiettivazione e alla reificazione nel momento stesso in cui si consegna senza riserve alla cosa”. Preservare, conservare e custodire il divino e la dimensione del Sacro dall’esautorazione della metafisica e della teologia cattolica è l’ultima promessa che la poesia può mantenere. Il linguaggio poetico è“polisenso […]
La polifonia del poema […]
proviene da un punto unificante, cioè da una monodia, che in sé e per sé, resta sempre indicibile. La molteplicità dei significati propria di questo dire poetico non è l’imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi lascia essere”.
Nel suo essenziale accennare, la parola poetica rinvia all’ulteriorità che la metafisica non ha saputo cogliere della domanda sull’essere: “La poesia è istituzione in parola [worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”. Come suggerisce Gianni Vattimo, “quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”.
La poesia e, più in generale, il “poetico” pensare di Heidegger vogliono rimanere fedeli alla differenza, evidenziando la reciproca appartenenza del differente al pensiero della differenza, la quale è stata cancellata dalla metafisica nei termini di oblio dell’essere e di oblio della differenza:
“La stessa traccia primitiva della differenza è cancellata perché l’essere-presente appare come un essere presente la cui origine è riposta in un essente-presente-supremo”.
La differenza ontologica si configura all’interno della Seinsfrage heideggeriana come l’autentico discrimen che permette l’emancipazione del pensiero filosofico dall’impasse della metafisica tradizionale, cioè dalla riduzione dell’essere ad ente operata dal pensare rappresentativo “ego
fondato” e la sua conseguente interpretazione come ente semplicemente presente. La differenza ontologica rimarca la necessità del procedere heideggeriano verso una comprensione dell’essere che sia libera dal retaggio metafisico e dalla rappresentazione tradizionale del soggetto, quale è stata compiuta da Descartes ad Hegel. L’oblio della differenza quale giunge a noi dalla metafisica è iscritto nella storia dell’essere: è essenziale per la metafisica occidentale, nel senso di iscritto nella propria essenza, non pensare la differenza, dimenticarla. Solo così essa può giungere al punto estremo del suo compimento, esautorandosi dall’interno, in quanto in essa si consumano tutte le figure che mostrano l’essere e le sue epoche: l’apparire, il ricordo, l’oblio, l’oblio dell’oblio. Il “poetico” pensare permette l’accesso diretto ed autentico alla differenza: “E’ l’originario che, nella sua differenza dall’ente semplicemente – presente nel mondo, costituisce l’orizzonte del mondo, lo be-stimmt, lo determina, lo intona, lo delimita e squadra nelle sue dimensioni costitutive”. In tale accesso, si realizza la parola poetica inaugurale, quale può scaturire solo dal silenzio.
[…]
“La poesia è istituzione in parola [worthaft] dell’essere […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento”43. Come suggerisce Gianni Vattimo, “quel che importa è che in questa teorizzazione della portata ontologicamente fondante del linguaggio poetico, Heidegger fornisce la premessa per liberare la poesia dalla schiavitù del referente, dalla sua soggezione a un concetto puramente raffigurativo del segno che ha dominato la mentalità della tradizione metafisico-rappresentativa”44
https://www.academia.edu/8564952/IL_CONFINE_DEL_SILENZIO._ESTETICA_E_ONTOLOGIA_NEL_POETICO_PENSARE_DI_MARTIN_HEIDEGGER
40 S. GIVONE, Heidegger e la questione romantica, in “Aut-Aut”, n°. 234, 1989, p. 53.
43 M. HEIDEGGER, La poesia di Hölderlin, cit., p. 50.
44 G. VATTIMO, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in AA. VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, p. 293
grazie a tutti/tutte de L’Ombra delle Parole per vs lettura
https://giovanniabbateblog.wordpress.com/2019/04/05/gino-rago-sul-novecento-poetico-italiano-lo-spirito-del-45-post-ermetismo-avanguardie-sperimentalismo-sanguineti-pasolini-gruppo-63-anti-opera-con-un-appunto-di-giorgio-linguaglossa/
(gino rago)