Un tentativo di risposta di Gino Rago alle 3 questioni poste da Iosif Brodskij, rilanciate da Giorgio Linguaglossa, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Homo Sacer. Intervista a Giorgio Agamben di Antonio Lucci

Gif naomi Campbel

Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche…

Le Tre Domande

– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
– Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
– Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

donne con velo islamico02

Cara Signora Eeva Liisa Manner, troppo alto il ramo con la mela…

Gino Rago

Tentativo di risposta alle Tre Domande

Troppo alto il ramo con la mela
O troppo basso chi la vuole cogliere?

Qualcuno si solleva,
Qualche altro abbassa il ramo.
[…]
Lo scintillio del bronzo appena fuso
O le sue patine-fuochi d’artificio…

Non più.
Né la levigatezza del marmo senza vene.

La materia grezza. La pietra.
La colata di cera rappresa.

La ruggine sul ferro.
I rottami, gli avanzi, i detriti.

I rimasugli di fonderie, gli scarti,
Gli scampoli nelle sartorie,

I vetri rotti negli angoli delle vie,
Le parole delle nuove poesie…
[…]
Siamo uomini del dopo Hiroshima
In filiformi tralicci di gabbie.

Alberi. Fiumi. Uomini. Fiori.
Nessuno cerca il suono che manca,

A meno che il suono non significhi niente:
Ni-ente, non-ente.

Tutti vogliono un nome,
Perché ogni nome è una benedizione,

Ma che cosa è un nome?
Un occhio che brilla tra passato e futuro.

E invece è una maledizione,
La nostra maledizione.

Limature. Vinavil. Sagome. Legno.
Le nuove parole sono gli stracci.

Apri la porta senza bussare:
Un mucchio di cenci in un sacco di iuta.
[…]
Se non a Lei a chi altri confidare

Che la flanella dell’infanzia era morbida
Quando il Tempo di Newton non ci disturbava.

Dalla Finlandia un sibilo nel mio dormiveglia:
«La Poesia è l’eco che si ascolta quando la vita è muta».

È Lei ogni notte quella eco.
[…]
Il mio amico di Istanbul** in un verso ha scritto:
«La notte è la tomba di Dio,

Il giorno la cicatrice del dolore»
La cicatrice del dolore,

E’ la stessa di quella che Lei vede nel suo specchio?
[…]
«Quale specchio?»
Lei giustamente chiede,

«Lo specchio dove il tempo si incrina
E Greta Garbo assomiglia a Socrate…»

Non mi dà la risposta, che importa.
Importante è che il poeta ponga domande.
[…]
Thomas Bernhard, in cantina:
«Tutti qualche volta alzano la testa,

Credono di dover dire la verità,
O quella che sembra la verità.

Poi di nuovo incassano la testa nelle spalle…
E questo è tutto»

A Piazza Mastai
Sei personaggi in cerca di bottiglie di Dalmore.

Un messaggio da Stoccolma.
Il Signor T. al mio amico di Istanbul**:

« La strada dei poeti non finisce mai,
L’orizzonte corre sempre in avanti».

* E’ Giorgio Linguaglossa

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

tu scrivi:

«Sei personaggi in cerca di bottiglie di Dalmore»
e
«La strada dei poeti non finisce mai,
L’orizzonte corre sempre in avanti»

il dato di fatto da cui tu prendi le mosse è che la poesia odierna è rimasta orfana dell’io, è rimasta priva di un orizzonte di attesa, e, inoltre, è una poesia anedonica. Un linguaggio poetico sterile, intimamente cacofonico e amusaico del tutto inidoneo all’impiego poetico; ma tu invece di trincerarti nella narrativizzazione e nella poesia postruista ed euforbica degli epigoni  di oggi sei andato al di là. Non sono più i personaggi che vanno alla ricerca degli attori ma i personaggi che corrono dietro le «bottiglie di Dalmore».

Potrebbero sembrare, le tue, ad un lettore superficiale, delle annotazioni estemporanee, delle battute di spirito, e invece si tratta di considerazioni che vanno al nocciolo della questione. «Dopo la distruzione delle forme» avvenuta in questi ultimi settanta anni, siamo arrivati alla distruzione dell’orizzonte di attesa. È stato qualcosa che ha colpito al cuore la poesia del soggetto panopticon, dell’io plenipontenziario. L’io è stato de-fondamentalizzato, il soggetto legiferante è stato de-localizzato e l’ontologia negativa di Heidegger è stata sostituita con una ontologia positiva.

Si tratta di eventi epocali di cui la poesia italiana che si fa oggi non ha contezza alcuna, ma che la nuova ontologia estetica ha sollevato con tutto il conseguente peso di tali gigantesche problematiche. La nostra, la tua risposta sono state quella di apprestare e mettere a punto un nuovo dispositivo estetico che si esprime in distici, il cosiddetto «polittico», con salti temporali e spaziali, con sovrapposizione di immagini, di citazioni dirette e indirette, di personaggi e di punti di vista.

Una poesia, il «polittico» di sconvolgente novità e di enorme difficoltà di esecuzione. Il poeta ritorna ad essere poeta artifex, demiurgo della materia e dello spirito. Un risultato di estrema audacia.

La totalità dell’arte e della poesia di oggi, ovvero, degli ultimi decenni, è un’arte e una poesia sostanzialmente anedonica, scritta da persone anedoniche e indirizzata a una generalità di persone anedoniche, cioè incapaci di provare una emozione linguistica o emozione di carattere astratto, cioè sublimato.
Recenti ricerche hanno dimostrato che a determinare la complessità psicopatologica dell’anedonia vi sarebbero diversi e molteplici fattori: genetici, ambientali, culturali e sociali, i quali, a causa dell’interazione reciproca, contribuirebbero alla sua insorgenza clinica e sociale in alcuni strati della popolazione e in particolari ceti socio-culturali delle odierne società a comunicazione di massa, ovvero, «negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche» (Giorgio Agamben, Intervista sotto riportata).

Che cos’è l’anedonia?

Quali sono i suoi sintomi e le cause? E come si cura?

In psichiatria, l’anedonia è l’incapacità, parziale o addirittura totale, di provare appagamento o interesse per attività comunemente ritenute piacevoli, come ad esempio dormire, nutrirsi o il sesso. Questo tipo di invalidità è considerata in primo luogo come un disturbo dell’umore e, di conseguenza, può essere annoverata tra le malattie mentali, quali schizofrenia o i disturbi della personalità.

Il termine anedonia venne coniato alla fine dell’800 dallo psicologo francese Théodule Ribot per definire una sensazione contraria all’edonia, ovvero quell’attitudine generalmente positiva orientata alla ricerca e al conseguimento del piacere in ogni sua forma. Ma solo più tardi venne associata ad uno stato di anestesia organica, cioè ad un abnorme disinteresse per il piacere, specie per quello legato al cibo, al sesso, al sonno, e così via.

«… agli inizi degli anni Sessanta il sociologo tedesco Arnold Gehlen individua un fenomeno di cristallizzazione culturale che segna la fine del mondo dell’azione. Per Gehlen la cristallizzazione è appunto quella condizione che interviene allorquando le possibilità contenute in un certo contesto sono tutte sviluppate nel loro patrimonio fondamentale: la società diventa tanto uniforme e omogenea che non ci sono più differenze culturali e personali. Secondo questa impostazione, nulla di veramente importante e di decisivo può più accadere: tutte le attività sono coinvolte in questo processo generale di restringimento e raggrinzimento, una specie di “esonero” (Entlastung) da quell’ambizione di rapporto con l’essenziale e il decisivo su cui si fondava la possibilità dell’azione».1

1 M. Permiola, op. cit. p. 130

Homo Sacer. Intervista a Giorgio Agamben

Antonio Lucci

Il 25 ottobre 2018 è uscita in edizione unica per i tipi Quodlibet l’opera che ha tenuto Giorgio Agamben impegnato per vent’anni, vale a dire il progetto Homo sacer. Questo, apertosi con il volume omonimo, uscito nel 1995, si è concluso, infatti, con quello che porta la numerazione IV.2, L’uso dei corpi, uscito nel 2014. Nei volumi che fanno parte di quest’opera sono stati definiti e introdotti nel dibattito filosofico concetti che poi diverranno patrimonio comune (anche nel loro essere stati spesso oggetto di critiche) della filosofia contemporanea: quello di “sacertas”, di “nuda vita”, di “campo”, di “forma-di-vita”, la dicotomia “bios/zoe”, per nominarne solo alcuni. L’enorme successo in particolare del primo volume del progetto nel mondo anglosassone ha creato le premesse per la diffusione dei dibattiti avanzati da Agamben a livello planetario (Agamben è al momento, con ogni probabilità, il filosofo italiano più conosciuto all’estero), tra i cui effetti di ritorno vi è anche quella che poi sarebbe stata definita Italian Theory, ossia un movimento di autoriflessione e di interrogazione della filosofia italiana sulle proprie categorie fondative, che ha investito anche (e soprattutto) il mondo anglofono – interessato a comprendere come un pensatore come Agamben potesse essere posto in dialogo con altri autori, sempre italiani, che hanno animato i dibattiti teorico-critici dei decenni scorsi (tra tutti, Toni Negri e Roberto Esposito).
*

L’intervista che segue, che si concentra principalmente sul progetto Homo sacer e sulla struttura del volume in uscita, è frutto di una riflessione di chi scrive riguardo alle questioni “architettoniche” dell’opera agambeniana. Oltre a dovere un sincero ringraziamento a Giorgio Agamben per l’occasione di dialogo, vorrei in questa sede ringraziare l’amico Carlo Salzani per i preziosi suggerimenti che mi hanno portato alla formulazione di alcune delle domande presentate.

Antonio Lucci: Giorgio Agamben, escono in questi giorni, per Quodlibet, in un’edizione unica i nove volumi di Homo sacer, un lavoro che l’ha tenuta occupata, praticamente, per vent’anni. Lei stesso, nella prefazione all’ultimo dei volumi della serie, L’uso dei corpi, sosteneva che un’opera «può essere solo abbandonata», rifiutando, all’epoca, di mettere la parola “fine” al progetto. In questa edizione completa, Lei vede, a tre anni di distanza dalla pubblicazione dell’ultimo volume del progetto, un lavoro definitivamente chiuso, o qualcosa ancora passibile di integrazioni?

Giorgio Agamben: Nel pensiero, come nella vita, non è facile sapere che cosa è definitivamente chiuso e che cosa è ancora aperto. Una genealogia della politica occidentale come quella che ho intrapreso in Homo sacer potrebbe continuare senza fine. In questo senso, l’opera compiuta è sempre un frammento. L’apparenza di compiutezza di un’opera è dovuta piuttosto a ragioni per così dire architettoniche e stilistiche ed è soltanto perché l’edificio mi sembrava aver raggiunto una forma coerente che ho potuto abbandonarlo. Un’integrazione in senso tecnico è la lunga nota di quindici pagine sul concetto di guerra che ho aggiunto a Stasis in questa edizione. Ma preferisco considerare altre ricerche che ho pubblicato e potrò eventualmente pubblicare in futuro come opere autonome. Del resto ognuno dei nove volumi qui raccolti era nato con una vita propria e la loro composizione in un insieme non segue soltanto criteri logici e concettuali. Se il primo livello di una composizione filosofica è certamente concettuale, l’ultimo, come ricordava Benjamin, è di ordine musicale.

Antonio Lucci: Una domanda riguardante l’architettura generale del progetto, che prende il nome complessivo dal volume I: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Originariamente questo volume è l’unico a non essere numerato, il che potrebbe dare l’idea che il volume fosse stato pensato per essere autoconclusivo. D’altra parte, la chiusura dello stesso libro apriva già all’epoca alla possibilità di un ampliamento futuro delle ricerche lì presentate, come indica il passaggio conclusivo: «Se chiamiamo forma-di-vita questo essere che è solo la sua nuda esistenza, questa vita che è la sua forma e resta inseparabile da essa, allora vedremo aprirsi un campo di ricerca che giace al di là di quello definito dall’intersezione di politica e filosofia, scienze medico-biologiche e giurisprudenza. Ma prima occorrerà verificare come, all’interno dei confini di queste discipline, qualcosa come una nuda vita abbia potuto essere pensato e in che modo, nel loro sviluppo storico, esse abbiano finito con l’urtarsi a un limite oltre il quale esse non possono proseguire, se non a rischio di una catastrofe biopolitica senza precedenti» (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, p. 211).
Quando ha pensato e scritto questo primo testo, aveva già in mente di non limitarsi a un solo volume, ma di fare di Homo sacer un progetto?

Giorgio Agamben: Anche se sapevo con certezza che avevo intrapreso una ricerca di lungo respiro, non avevo ancora un’idea precisa della sua articolazione. Ho cominciato a intravederla con maggior chiarezza mentre lavoravo a Stato di eccezione. Compresi, cioè, che una ricerca come la mia doveva necessariamente comportare una serie di indagini archeologiche, che sono quelle che sono andate a formare la seconda sezione dell’opera (oltre allo stato di eccezione, la guerra civile, il giuramento, l’economia, l’ufficio – e va da sé che altre avrebbero potuto aggiungersi). Quanto all’ultima sezione, come la sua citazione suggerisce, ero consapevole fin dall’inizio che doveva essere dedicata a una definizione della forma-di-vita.

Antonio Lucci: I primi tre volumi usciti nel progetto, Homo sacerCiò che resta di Auschwitz e Stato d’eccezione, sono chiaramente animati da un interesse politico. Nel primo vengono teorizzate due delle categorie filosofiche che avranno poi più successo nella seconda metà degli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo millennio: quella di “nuda vita” e di “campo”. Si sono serviti di queste categorie filosofi, antropologi, sociologi, persino geografi. Nei libri successivi però, l’interesse politico esplicito sembra lasciare il posto all’analisi archeologica e i due succitati concetti perdono un po’ la loro centralità, mi sembra. Ritiene questi due concetti ancora centrali per la Sua filosofia?

Giorgio Agamben: Non ha senso distinguere l’analisi archeologica da quella politica. Una ricerca filosofica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia. I due concetti che lei ha menzionato, avevano il loro posto e il loro senso in una ricerca archeologica sulla struttura del potere e non possono essere separati da questa. Certo, al loro apparire a metà degli anni novanta, questi due concetti suscitarono polemiche e scandalo, e faticai non poco per far capire in che senso la produzione della nuda vita definiva l’operazione fondamentale del potere e perché il campo e non la città fosse il paradigma politico della modernità. Oggi, negli spazi integralmente depoliticizzati delle nostre società postdemocratiche (ndr. corsivo mio), in cui lo stato d’eccezione è diventato la regola, quei concetti sono diventati quasi banali. Comunque si preferisce spesso usarli in modo generico, al di fuori del contesto in cui erano stati creati e dal quale sono inseparabili; alcuni hanno perfino semplicemente rovesciato la nuda vita e la biopolitica in categorie positive, operazione quanto meno incauta.

31 commenti

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31 risposte a “Un tentativo di risposta di Gino Rago alle 3 questioni poste da Iosif Brodskij, rilanciate da Giorgio Linguaglossa, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica? Homo Sacer. Intervista a Giorgio Agamben di Antonio Lucci

  1. Nelle orbite occidentali anche si sovraccaricano,

    l’emancipazione quella femminile è nelle bocca. Masticata

    quella rotonda
    di piccole biglie senza bombetta.

    Le parenti misteriose di Magritte.
    Così avanzano come i treni nei camini,

    chewingum sul pensiero.
    E poi i volti come le parole. Non hanno gambe.

    GRAZIE OMBRA.

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  2. Dopo aver ascoltato la splendida lezione di Agamben, nel video postato da Giorgio Linguaglossa. Sul farsi del discorso.

    Ah.

    Ho tardato perché. Hai tardato. Ho tardato.
    Ho incontrato HURG. HuRg… HURG. HURG!

    HURG! HURG? HURG! Hurg.
    Hai fatto tardi perché hai incontrato un pericoloso Hurg!

    HURG, grosso. Ah è tornato. Ha catturato un Hurg!
    Hurg!? Hurg. Un grosso hurg. UUUh!

    UUUh! Uh uh uh. Andiamolo a prendere.

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    • caro Lucio,

      ho letto la tua composizione, l’ho letta ad alta voce, qui con me, seduto sul divano c’era Luciano Nota, il quale è rimasto sbigottito, e alla prima domanda che mi ha rivolto è stata: «ma Lucio ha fumato?».

      Devo dire che l’ho declamata ad alta voce, addirittura gridando. Mentre Luciano Nota si affacciava al balcone del 5° piano di via Pietro Giordani, 18 minacciando seriamente di gettarsi nel vuoto.
      Io, per contro, ho gridato: «È un capolavoro!»
      mentre Luciano: «Hai fumato pure tu?».

      D’improvviso, la chiamata al telefono di Edith Dzieduszycka e con la sua voce notturna e le sue dita sottili che suonavano la marcia funebre di Chopin ha completato il quadretto.

      Ecco, volevo dire questo: «Caro Lucio, è una poesia che devi assolutamente mettere nel libro che stai confezionando.»

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      • Fatte le dovute differenze di formazione culturale, di temperamento poetico, di epoche, di stile, ecc., fra Lucio Mayoor Tosi e Aldo Palazzeschi,
        la lettura del lavoro di Lucio Mayoor Tosi

        Ho tardato perché. Hai tardato. Ho tardato.
        Ho incontrato HURG. HuRg… HURG. HURG!

        HURG! HURG? HURG! Hurg.
        Hai fatto tardi perché hai incontrato un pericoloso Hurg!

        HURG, grosso. Ah è tornato. Ha catturato un Hurg!
        Hurg!? Hurg. Un grosso hurg. UUUh!

        UUUh! Uh uh uh. Andiamolo a prendere.

        mi spinge a concordare con il giudizio di Giorgio Linguaglossa e accosto i versi di Lucio Mayoor Tosi a quelli, temo dimenticati, del Palazzeschi de L’Incendiario e della lirica “E lasciatemi divertire”

        Aldo Palazzeschi
        E lasciatemi divertire
        da L’Incendiario, 1910

        Tri tri tri,
        fru fru fru,
        ihu ihu ihu,
        uhi uhi uhi!

        Il poeta si diverte,
        pazzamente,
        smisuratamente!
        Non lo state a insolentire,
        lasciatelo divertire
        poveretto,
        queste piccole corbellerie
        sono il suo diletto.

        Cucù rurù,
        rurù cucù,
        cuccuccurucù!

        Cosa sono queste indecenze?
        Queste strofe bisbetiche?
        Licenze, licenze,
        licenze poetiche!
        Sono la mia passione.

        Farafarafarafa,
        tarataratarata,
        paraparaparapa,
        laralaralarala!

        Sapete cosa sono?
        Sono robe avanzate,
        non sono grullerie,
        sono la spazzatura
        delle altre poesie

        Bubububu,
        fufufufu.
        Friu!
        Friu!

        Ma se d’un qualunque nesso
        son prive,
        perché le scrive
        quel fesso?

        bilobilobilobilobilo
        blum!
        Filofilofilofilofilo
        flum!
        Bilolù. Filolù.
        U.

        Non è vero che non voglion dire,
        voglion dire qualcosa.
        Voglion dire…
        come quando uno
        si mette a cantare
        senza saper le parole.
        Una cosa molto volgare.
        Ebbene, così mi piace di fare.

        Aaaaa!
        Eeeee!
        Iiiii!
        Ooooo!
        Uuuuu!
        A! E! I! O! U!

        Ma giovanotto,
        ditemi un poco una cosa,
        non è la vostra una posa,
        di voler con così poco
        tenere alimentato
        un sì gran foco?

        Huisc…Huiusc…
        Sciu sciu sciu,
        koku koku koku.

        Ma come si deve fare a capire?
        Avete delle belle pretese,
        sembra ormai che scriviate in giapponese.

        Abì, alì, alarì.
        Riririri!
        Ri.

        Lasciate pure che si sbizzarrisca,
        anzi è bene che non la finisca.
        Il divertimento gli costerà caro,
        gli daranno del somaro.

        Labala
        falala
        falala
        eppoi lala.
        Lalala lalala.

        Certo è un azzardo un po’ forte,
        scrivere delle cose così,
        che ci son professori oggidì
        a tutte le porte.

        Ahahahahahahah!
        Ahahahahahahah!
        Ahahahahahahah!

        Infine io ò pienamente ragione,
        i tempi sono molto cambiati,
        gli uomini non dimandano
        più nulla dai poeti,
        e lasciatemi divertire!

        Versi nei quali Palazzeschi allestisce una poesia fatta di suoni, e di parole, in apparenza senza significato.
        La gente, pensando al poeta, si meraviglia,si scandalizza, lo critica ferocemente.
        Ma il poeta avanza e sostiene il diritto inviolabile a divertirsi,
        a concedersi di giocare con le parole e con i suoni.
        Tornando a Palazzeschi, e ricordiamo che siamo nel 1910, il poeta de L’Incendiario intendeva con questi giochi esprimere il proprio rifiuto della tradizione letteraria del suo tempo, ma voleva esprimere nel contempo anche la consapevolezza della marginalità sociale del poeta e della poesia nella moderna società industriale di quegli anni… (1910 e dintorni).
        Lucio Mayoor Tosi si chiede e chiede:
        “Nel nostro tempo, nel nostro oggi, è diversa, rispetto ai tempi di Palazzeschi, la condizione della poesia e del poeta….?

        (gino rago)

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      • Grazie Giorgio, del sostegno che mi dai ogni volta. Hurg è nata come cartolina per gli amici de l’Ombra. Sì, è un po’ fuori dagli schemi. Non dare retta a Luciano Nota, pare trasgressivo in realtà è un ragazzo serio e assai morigerato. Provo vicinanza con la poesia di Luciano, per la costante innovazione delle metafore. Ma qui non se ne scrivono quasi più, di metafore. Prevale lo stile nominale e assertorio; anche nei casi più complessi, come Marina Petrillo, quasi non si trova una metafora.

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        • Caro Gino,
          a me la lezione del post moderno ha insegnato che non ha senso cancellare una maniera per sostituirla con un’altra, nuova. Questo andava bene per il moderno. Ora è tutta ricchezza (disse il miserabile), quindi ci può stare una rima, il titolo di una canzonetta, anche un estremo ermetismo. A patto che si scriva per frammenti. Palazzeschi sapeva dell’immensa libertà. E anch’io: allargo le braccia, le muovo, ed è qui. Sempre.

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        • Caro Lucio Mayoor Tosi,

          la poesia di Palazzeschi è rimasta un isolotto nella tradizione del novecento ed è stata subito «chiusa» dall’artiglieria della lirica economica e della lirica post-pascoliana. La chiusura della “Ronda” ha poi completato il quadro. Nel dopo guerra le cose erano cambiate: il neorealismo, lo sperimentalismo di Officina e lo sperimentalismo dei Novissimi e poi del Gruppo 63 hanno contribuito all’isolamento di Palazzeschi il quale non ha avuto continuatori e nemmeno epigoni e per di più è stato frainteso dai poeti che qui a Roma ad esempio facevano una poesia che loro chiamavano «giocosa» (Giorgio Weiss, Vito Riviello ed epigoni degli epigoni) quando in verità era soltanto brighellona e incautamente acritica. Ricordo che alla fine degli anni ottanta andai a vedere a teatro un paio di spettacoli di poesia giocosa con figuri che ciondolavano con pentole e coperchi imitando i clown e i saltimbanchi. Ma avevano vistosamente sbagliato indirizzo, dovevano andare al cabaret ad intrattenere il pubblico ozioso della capitale.

          Questo per dire che in Italia è stato impossibile infirmare la saccenteria e il perbenismo dorato della poesia professorale e confessionale che oggi più che mai imperversa. Palazzeschi era scomodo, di più, era (ed è) incomprensibile. Lo si ritiene un poeta giocoso. E come «giocoso» è stato archiviato. Per questo considero che il ripescaggio da parte tua della lezione palazzeschiana sia un vero toccasana per la poesia italiana da sempre ammalata di seriosità e di medietà. Certo, oggi che siamo usciti dal Moderno e ci troviamo non sappiamo più dove ma certamente in un altro territorio linguistico, riproporre “la fontana malata” di Palazzeschi non avrebbe alcun senso, ha però senso ripristinare in chiave nuova ontologia estetica la fumisteria da baraccone, la clownerie, le peripezie palazzeschiane da circo equestre come fai tu. Questa è un’operazione altamente meritoria in specie per medicare le ferite dei malinconici degli epigoni degli elegiaci che imperversano a frotte nella collana bianca e in quella verde e nelle collane versicolori…

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    • Così nasce la lingua, ancora oggi. Ecco, è questo che sono andato a vedere.

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      • Lucio,
        ma che razza di risposta è, la tua, he razza di commento è, il tuo:troppa fumosità, troppi vapori…

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        • Lucio,
          che razza di commento è il tuo…

          E’ questo che sempre, e soprattutto oggi, conta:
          «Una ricerca poetica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia.»

          accanto alla questione del Logos (come emerge dal dialogo fra l’accademico e il militante), secondo me.

          (gino rago)

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          • Avevo vagamente in testa Palazzeschi. E’ normale che ci si pensi. Sì, ho rifatto il suo gioco. Ma le sue sono parole in libertà. Le mie hanno significato e intenzione.
            Scusa per come mi sono espresso sopra, per avere poco meditato.

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            • Ecco per me le 2 quartine decisive del Palazzeschi di “E lasciatemi divertire”, 2 quartine, ovvero 8 versi ad alta tragicità umana e poetica
              (“Che ci son professori oggidì/ a tutte le porte”, e poi, il max di senso di sconfitta e di marginalità consapevoli in “gli uomini non dimandano/ più nulla ai poeti”). E siamo, giova ricordarlo, nel 1910. Ha ragione l’amico Linguaglossa: altro che ‘poesia giocosa’ quella che ci ha consegnato Palazzeschi e dirlo ‘giocoso’ è riduttivo e ingiusto, colpa anche di certa critica “accademica” tanto parruccona e spocchiosa quando inadeguata e incompetente…

              […]
              Certo è un azzardo un po’ forte,
              scrivere delle cose così,
              che ci son professori oggidì
              a tutte le porte.

              Ahahahahahahah!
              Ahahahahahahah!
              Ahahahahahahah!

              Infine io ò pienamente ragione,
              i tempi sono molto cambiati,
              gli uomini non dimandano
              più nulla dai poeti,
              e lasciatemi divertire!

              da L’Incendiario, 1910

              (gino rago)

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              • oops … quanto inadeguata e incompetente e non quando inadeguata e incopetente… OOOPPSSS

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                • La «voce» è quella che è presente nel gramma. Fuori del gramma la «voce» non esiste, è un ni-ente. La «voce» di una poesia de-istituisce tutta la poesia precedente, la de-coincide, e la nientifica. E questo è il miglior modo per articolare la tradizione. Non si dà mai una tradizione stilistica se non nei magazzini delle accademie, cose buone per le tesi di laurea e i dottorati di ricerca. Comunque la si giri, la «voce» deve essere irriconoscibile, se è riconoscibile, non si tratta di una «voce» ma di chiacchiera, del già stato, del defunto. Ecco perché dico che questa poesia di Lucio Mayoor Tosi è una «voce» assolutamente singolare, dotata di singolarità e quindi di irriconoscibilità. Tutta la restante poesia che noi riconosciamo rientra a buon diritto nella letteratura, nel buon costume letterario, fa parte del buon costume. Se fosse «riconoscibile» ricadrebbe nel genere del buon costume letterario, e quindi varrebbe zero.

                  La nuova poesia se è nuova deve lavorare sul gramma, e mai sulla «voce» che, di per sé è parente stretta della chiacchiera. Ogni linguaggio poetico una volta detto, si toglie, viene de-coinciso, non esiste più nel presente ma per il presente. È già parte del passato.

                  Scrive un filosofo italiano di oggi, Massimo Donà:

                  «Ciò che rende il linguaggio “segno del mondo” e il mondo “disponibile alla parola” è dunque quello stesso per cui il mondo è non-mondo e il linguaggio è non-linguaggio-atopon in cui il linguaggio si toglie e lascia essere il mondo, ma in cui, allo stesso modo, anche il mondo dissolve il proprio silenzio e si fa parola.
                  Solo in questo luogo-non-luogo può dunque abitare la condizione di possibilità del rapporto parola-mondo.»1

                  Un mio commento.

                  Il linguaggio, anche quello della poesia, è un linguaggio che si toglie. Ogni volta in ogni istante di tempo, il linguaggio è Altro, non è più se stesso; il luogo del linguaggio è il non-luogo. Il luogo del linguaggio è fuori dell’io, coincide e de-incide l’io nel quale provvisoriamente si trova. La voce è la presenza del linguaggio, è Figura del presente. La impossibilità del linguaggio ad ospitare tutto il dolore del mondo coincide e de-incide la sua stessa possibilità di essere.

                  1 Massimo Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 521

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  3. Antonio Sagredo

    Quale poesia “NON” scrivere nell’ epoca della fine della storia?
    – Quale poesia “NON” scrivere nell’ epoca della fine della metafisica?
    – Quale “NON” è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?
    —-
    Ora dunque queste sono le tre domande che fanno più paura delle stesse risposte, poiché nella contraddizione, più che nell’opposizione, è la sostanza della stessa domanda; allo stesso modo che Joyce pose fine al tedioso e usatissimo problema, o se volete dilemma “essere o non essere” sostituendo e dunque contraddicendo con l’ “avere o non avere” la modernità della sua epoca e della nostra. A parte il dilettante filosofo Josif Brodskij che già di per se si fa da parte, risparmiandoci qualche pagina di chiarificazione dialettica, bisognerebbe contraddire tutto il sistema su cui fino ad ora si è retta la “METAFISICA”.
    “Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica /storia/? “…
    la domanda è troppo logica e schematica, direi troppo razionale. E la risposta è che sia la metafisica che la storia >” non hanno” poesia e nè > “hanno” storia.
    La Poesia include talvolta inconsapevolmente sia la metafisica che la storia, ma il contrario non è dato e né previsto.
    La POESIA NON E’ , DUNQUE per contraddizione: LA POESIA HA!
    a.s.

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  4. Intendo dare un mio contributo al dibattito in corso su questa pagina, ricca di spunti, questioni e nodi da affrontare e sciogliere, attraverso questo

    Dialogo fra un critico accademico e un critico militante sulla Nuova Poesia e sulla Nuova Critica

    a cura di Gino Rago

    Domanda: Perché voi denigrate o de-valutate i poeti della tradizione consolidata ed esaltate poeti mediocri?

    Risposta: Perché tu ti avvicini alla «nuova poesia» con categorie fabbricate in un altro contesto storico e culturale, diffusamente impiegate, categorie cioè «stabili» (versoliberismo, assonanze, consonanze, orchestra sonora, ottave, sestine, enjambement, rime interne, rime esterne, rima…). Io invece leggo i testi della «nuova poesia» cercando di individuare in essi le nuove categorie ermeneutiche in quanto quelle consolidate sarebbero inadatte e inappropriate per comprendere la «nuova poesia».

    Domanda: Voi rifiutate, se ho ben capito, le categorie «stabili» per quelle «nuove e instabili»?

    Risposta: Il nostro personale sforzo di ricerca ermeneutica è proprio quello di trovare nuove categorie di interpretazione per un fenomeno nuovo qual è la nuova poesia italiana, in particolare la «nuova ontologia estetica». La poesia della nobile tradizione che arriva fino a Composita solvantur (1995) di Fortini non ci interessa più di tanto, preferiamo concentrarci sulla nuova poesia. Pensiamo che ciò sia legittimo. Quella è ormai la tradizione del Novecento e il miglior modo per rivitalizzarla e farla rivivere è fare della archeologia, recuperare e riposizionare all’interno della «nuova poesia» quella tradizione; non avrebbe senso continuare a versificare come hanno versificato i poeti della tradizione recente e meno recente.

    Domanda: Passiamo a un’altra questione cruciale: il rapporto con l’ontologia. Vi chiedo: intendete il discorso sull’ontologia come discorso sulla «sostanza»?

    Risposta: Nulla di più falso, l’ontologia è un modo d’essere dell’esserci. L’ontologia è un «modo» non una «sostanza». Noi riguardo alla nuova ontologia estetica abbiamo sempre parlato di «ontologia meta stabile» proprio per segnalare che l’ontologia di cui tratta la nuova critica militante e la nuova poesia non è quella «sostanza» stabile che costituirebbe il mondo secondo una vulgata che dalla filosofia scolastica e tomistica giunge al senso comune di oggi, quanto una «esigenza», un modus… Vorrei dare la parola a Giorgio Agamben :

    «Nella formula che esprime il tema dell’ontologia: on he on, ens qua ens “ l’essere come essere” il pensiero si è soffermato sul primo ens (l’esistenza, che qualcosa sia) e sul secondo (l’essenza, che cos’è qualcosa) e ha lasciato impensato il termine medio, il qua, il “come”. Il luogo proprio del modo è in questo “come”. L’essere, che è qui in questione, non è né il quod est né il quid est, né un “che è” né un “che cosa”, ma un come. Questo come originario è la fonte delle modificazioni (“come” deriva etimologicamente da quo-modo) Restituire l’essere al suo come significa restituirlo alla sua com-moditas, cioè alla sua giusta misura, al suo ritmo e al suo agio ( commodus, che in latino è tanto un aggettivo che un nome proprio, ha precisamente questi significati, e commoditas membrorum designa l’armonica proporzione delle membra). Uno dei significati fondamentali di “modo”, è infatti, quello, musicale, di ritmo, giusta modulazione ( modificare significa, in latino, modulare armonicamente: è in questo senso che abbiamo detto che il “come” dell’essere è la fonte delle modificazioni).
    Benveniste ha mostrato che “ritmo” (rytmos) è un termine tecnico della filosofia presocratica che designa la forma non nella sua fissità (per questa, il greco usa di preferenza il termine schema), ma nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove, è mobile e fluido.»1

    Domanda: Allora, c’è una drastica cesura tra la poesia e la critica del Novecento e quella che voi auspicate?

    Risposta: Vorrei essere chiaro per sgombrare il campo da equivoci: Sì. Quelle categorie ermeneutiche della critica accademica sono forse utili per interpretare la poesia del passato. Ma sono del tutto fuorvianti per leggere la «nuova poesia», come quella della «nuova ontologia estetica».

    Domanda: Voi ponete la questione del Logos?

    Risposta: Per un poeta porsi la questione del Logos (quale lessico, quale stile, quale retorica) è, penso, la questione cruciale e fondamentale, altrimenti si rischia seriamente di scrivere baggianate. E allora, in quale modo pensare il Logos?

    Cedo la parola al filosofo Michel Meyer:

    «La questione del logos è posta come domanda fondamentale del pensiero. Fondamentale, perché non poggia su nessuna risposta preliminare e, per questo, su nessuna domanda più prima ancora,
    e fondamentale, altresì, perché essa si vuole fonte della risposta prima. Fondamentale, dunque filosofica, cioè esente da presupposti e da asserzioni esterne che non discendano dall’interrogazione sul logos».2

    Domanda: Tornando alla poesia italiana?

    Risposta: È noto che la poesia italiana ed europea fin dagli anni settanta ha subito l’invasione della vita privata e del quotidiano nella forma-poesia. In Italia questa moda prende inizio con il libro di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1975) e, successivamente, con il libro di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae (1980).

    In questi ultimi anni è diventato sempre più palese che quelle tematiche private e privatistiche si sono esaurite. È un dato storico sotto i nostri occhi. Rimane presso i continuatori di quella impostazione privatistica della poesia un intendimento situazionista e privatistico, sono rimaste per un po’ in vigore le tematiche moraleggianti sub specie di riformismo orfico, e un descrittivismo psicologico di matrice neo-verista… ma, insomma, tutto sommato, una linea minoritaria di un tipo di poesia già minoritaria ai suoi albori.

    In questi ultimi anni, dicevo, è diventata sempre più palese una forte reazione a quella visione privatistica del privato e a quel minimalismo ingenuo. La «nuova ontologia estetica» è la più drastica e convinta reazione a un indirizzo e a un versante della recente poesia italiana che ha ormai esaurito (semmai ce l’ha avuto) l’iniziale effetto propulsivo. Quell’indirizzo di poesia privatistica è andata a sbattere sul muro dell’«impenetrabile tediosità del quotidiano» (per usare la dizione di Agamben), oltre di esso non era possibile andare. Quel tipo di autobiografismo introspettivo e auto ironico è finito nella rigatteria delle istituzioni stilistiche, questo mi sembra lampante per chi abbia occhi e orecchie per intendere e per osservare.

    Quell’autobiografismo è finito nella «nuda vita», nella vita vegetativa delle nuove post-masse che si nutrono di ipoverità. Quell’autobiografismo (nella poesia come nel romanzo nel cinema e nelle arti figurative) è finito nella ipoverità e nella insignificanza, nell’apologetica del tempo che fu e nell’apologia del corpo. Di tutta quella paccottiglia culturale oggi è rimasto un grande mercato di narrazioni agiografiche e ipoveritative.

    1 G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014 pp. 267 e segg.
    2 M. Meyer, Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 1991 pp. 267 e segg.

    (gino rago)

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  5. «5 giugno 1977.

    Vorrei scriverti, così semplicemente, così semplicemente. Senza che mai niente interrompa l’attenzione, a parte unicamente la tua, e ancora, cancellando tutti i tratti, anche i più inapparenti, quelli che marcano il tono, o l’appartenenza ad un genere (la lettera per esempio, o la cartolina), affinché la lingua rimanga segreta all’evidenza, come se essa si inventasse ad ogni passo, come se bruciasse all’istante, non appena un terzo vi mettesse gli occhi (a proposito, quand’è che accetterai di bruciare realmente tutto ciò, noi stessi?). È un po’ per banalizzare la cifra dell’unica tragedia che preferisco le cartoline, cent cartoline o riproduzioni nella stessa busta, piuttosto che una sola “vera” lettera.»1]

    1] J. Derrida, trad. it. La carte postale, Mimesis, 2015, p. 37

    Franco Intini

    Alcune riflessioni su una tazzina di porcellana che si rompe in casa di una poetessa

    Duchamp non era tipo che si arrabbiava.

    Se il tempo aveva deciso di firmare la sua opera non poteva che fargli piacere. Ebbe solo un sussulto davanti al Grande Vetro ma poi tornò tranquillo al gioco degli scacchi. La frattura definitiva era stata lanciata nell’ universo, il parallelo di vetro poteva reggere il confronto con Plank?

    Capì che Dio in persona talvolta ci mette l’ arguzia.
    Dopo non fu più lo stesso.
    Una tazzina di porcellana ripete il fatto dopo un secolo, cadendo dalle mani di una poetessa presa da pensieri nuovi, fenomeni tutti da enunciare.

    Espressione di una legge universale che necessita di una successione di eventi o semplice variazione brusca dell’entropia?
    La sedia occupa il posto estraneo.
    I fatti strani accadono semplicemente perché da un universo si passa in un altro di cui non possediamo il linguaggio.

    Cos’ è l’estraneo?

    In cucina tutto è nostro, appartiene al sistema familiare. Il frigo, le sedie, la lavastoviglie ruotano intorno ad un centro di gravità. Talvolta qualcosa si discosta, prende la via del disimpegno, appare l’altro come se ci fosse sempre stato alle costole qualcosa per togliere il cuore dal petto.
    Funziona così: il nulla onnipresente si sostituisce alla prestazione. Il frigo perde acqua, ne risente la conoscenza, girano discorsi sull’utile\non utile. Scoprire l’ambiguità dell’affezione è imbarazzante. L’estraneo è il nulla? Di fronte a esso si arrende il calcolo.
    Dei due solo l’uno è misurabile, l’altro è un’assurdità. Cadiamo in contraddizione quando affidiamo ad una copula il nulla?

    Il fenomeno però è delimitato e descritto perfettamente: variazione di ordine come per la tazzina. Un lapsus che sa l’atroce della faglia di Sant’Andrea.

    Il figliol prodigo tornò mai alla sua casa?

    La simmetria si perde se a camminare sono le vetrine? Accade però di vedere le parole sbirciare le vetrine, immergersi nel caso e cercare un gelato a limone, come se qualcosa le avesse liberate dalla dipendenza umana.
    La tazzina, la sedia sono dunque i costituenti del vaso che contiene il Soggetto?

    I gabbiani già sanno queste cose. Il tempo ha segnato anche la loro porcellana. Il profumo dell’acqua marina è nel passato ora ri\siedono in posti estranei, periferie prive di significato eroico, dove non è possibile gonfiare le ali controvento e schizzare nell’oltremare. La specie compete con colombi, topi e gazze su residui umani. Una frattura incolmabile, uno iato interrompe la continuità.

    Ma ancora più terribile è il dito di chi non ha più nome. Sia esso Dio\ Io o qualunque Non-Io che punta michelangiolesca\mente il centro di un cielo, anch’esso irreversibilmente diviso\lesionato sebbene in tondo perfetto. Ciò che resta fuori è non detto, crema nera, un massimo dell’ intenzione di dire. Null’altro.
    Chissà chi è creato e chi creatore.

    Lucio Mayoor Tosi

    Oggi è diversa solitudine. Il fatto breve, appena accennato si dilegua. L’immagine, per poterci stare nel verso, posta per intero, va ripiegata, accartocciata; ciò potrebbe essere dovuto al tempo attenzionale, che il poeta percepisce – non penso all’improbabile lettore ma segnatamente al tempo storico – per intuito, breve, da dedicare alle vie di fatto; quindi un po’ dovunque, nelle parole, segnato da inconsistenza.

    L’immagine, più riconoscibile delle parole, sta nell’insieme come vissuto. E le parole al vento.
    C’è spazzatura e spazzatura. Personalmente, dovendo scegliere preferisco il nonsense portato all’eccesso, che si trova oltre il paradossale: fai la spesa, l’amico dei posteri, serenata celeste… E’ come avere in testa un magazzino, nel tempo stipato di cose, rese ormai inadatte a qualsiasi utilizzo. E’ come che la Musa non ci faccia caso; d’altronde, quello era lo spazio riservato alla decorazione… alla ripetizione, al tema caro che caratterizzava il poeta – naturalista, esistenzialista, socialista, mistico, e chi più ne ha.
    L’intento è falsamente descrittivo, se figurativo non è neppure esistenziale.

    Scrive infatti Donatella Giancaspero:

    “L’intenzione di dire. Il fenomeno nuovo. L’evento.
    Ma, di colpo, cade dalle mani la tazzina di porcellana”.

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  6. Scrive Giorgio Agamben nella intervista postata qualche giorno or sono:

    «Una ricerca filosofica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia.»

    Vorrei riprendere l’argomentazione di Agamben sostituendo una sola parola: «filosofica» con «poetica». Credo sia perfetta così:

    «Una ricerca poetica che non ha la forma di un’archeologia rischia oggi di finire nella chiacchiera. E non solo perché l’archeologia è la sola via di accesso alla comprensione del presente, ma perché l’essere si dà sempre come un passato, ha costitutivamente bisogno di un’archeologia.»

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  7. Un aneddoto:
    ho scritto “Ah” dopo aver conversato amabilmente con il cane pastore di un’amica. Così ho pensato: tra mille anni avremo animali domestici parlanti. Basterà un piccolo clik dove comincia la lingua. Appunto. E poi Agamben.

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  8. Laboratorio di poesia, 30 marzo 2017,
    Libreria L’Altracittà,
    Roma

    Gino Rago
    Ars Poetica? Un contributo alla ri-lettura di una parte del ‘900 poetico italiano attraverso la lettura di
    Una poesia di Clemente Rebora, una poesia di Aldo Palazzeschi, una poesia di Pier Paolo Pasolini, attraverso un percorso ermeneutico fondato su una idea precisa (pasoliniana):

    Non la poesia è in crisi, ma la crisi è in poesia

    Clemente Rebora (1885-1957)

    La poesia è un miele che il poeta,
    in casta cera e cella di rinuncia,
    per sé si fa e pei fratelli in via;
    e senza tregua l’armonia annuncia
    mentre discorde sputa amaro il mondo.
    Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
    in quanti fiori sosta, e va profondo
    come l’ape il poeta!
    L’ultime cose accoglie perché sian prime;
    nettare, dolorando, dolce esprime,
    che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
    Così porta bontà verso le cime,
    onde in bellezza ognun scorga la mèta
    che il Signor serba a chi fallendo asseta

    (da Canti dell’infermità in Le poesie (1913-1957)

    Questi versi di Clemente Rebora se da un lato non dimenticano la quasi classica istanza didascalica della poesia, aperti come sono alla tematica di quella “fratellanza” volta a trovare l’uomo solidale con Dio, dall’altro sono versi esemplari del ”frammentismo vociano”, troppo spesso e troppo superficialmente confuso con la N.O.E (nuova ontologia estetica) per frammenti.
    La metafora reboriana miele-poesia-poeta-ape si sa che è di antiche origini. Ma nell’ars poetica di Rebora funziona come preparatoria alla parola-chiave della composizione: «dolorando». Ed è la dolorosa saggezza da consegnare agli uomini e al mondo, forse il messaggio più alto di Rebora…

    (Il rispetto e l’ammirazione verso questo frammentista vociano sono fuori discussione. Ma oggi, a distanza di quasi 100 anni, un secolo, da questi versi, è inevitabile che la poesia esplori nuovi sentieri estetici, che viaggi verso altri approdi “formali”, sentieri e approdi che son chiamati a misurarsi con la idea lanciata da Giorgio Linguaglossa, che io trovo geniale, (perché finora da nessuno studioso di poesia era stata non dico pensata ma neanche sfiorata) tutta nuova di “Spazio espressivo integrale” con tutte le moderne percezioni di “tempo”, di “nome”, di “immagine”, di “proposizione” con cui il poeta contemporaneo deve fare i conti se vuole sottrarsi al ruolo misero, infecondo del “seguace”, del giacente supino nella stagnazione. Anche in poesia o si è candela accesa o specchio, nella stanza al buio del mondo…
    Ogni giudizio critico sull’altrui poesia deve sempre partire dall’analisi dei versi e da qui articolarsi, senza condanne generiche, senza stroncature immotivate né lodi fuori posto).

    Per un Clemente Rebora che si cimenta con “La poesia è un miele…”, indaghiamo ora un Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Giurlani,
    (1885–1974), impegnato sullo stesso tema dell’ars poetica:

    Aldo Palazzeschi (1885-1974)

    Lo Scrittore

    (da Via delle cento stelle, Mondadori, Milano)

    Scrivere scrivere scrivere…
    Perché scrive lo scrittore?
    C’è modo di saperlo?
    Si sa?
    Per seguire una carriera come un’altra
    o per l’amore di qualche cosa?
    Chi lo sa.
    Amore della parola
    per vederla risplendere
    sempre più bella, lucida, maliosa,
    né mai si stanca di lucidarla.
    Per questa cosa sola
    senza neppure un’ombra
    della vanità?
    Scrive con la speranza
    di trovare una mano sconosciuta
    da poter stringere nell’oscurità

    In questa lirica la «febbre» espressiva del poeta si fa quasi ansia di comunicazione, se non aspirazione ansiosa alla fratellanza, di un uomo, coincidente con l’Io-poetico, che manifesta il terrore della solitudine, di un uomo-poeta che non vuole perché non può sentirsi solo. Desidera febbrilmente l’accensione di un palpito di solidarietà con i fratelli (possiamo dire «i suoi lettori») smarriti, sperduti nell’oscurità del vivere in un mondo anch’esso senza luce.

    Talune istanze didascaliche, più forti in Rebora, perdurano anche in questi versi . Ma in Palazzeschi vibra continuamente la domanda sul significato del proprio lavoro letterario, rincorrendo quasi la sentenza gelida, e saggia, nello stesso tempo, di colui che contempla gli uomini e le cose del mondo dall’alto di una specola , ovvero di un osservatorio speciale: quello del poeta consapevole.

    Ma in questi versi non è difficile cogliere anche la requisitoria mordace contro inclinazioni classicistiche, contro istanze estetizzanti proprio nel ritmo prosastico e nel tono diciamo “iconoclasta”dei suoi versi e che anche per questo entra di diritto nel substrato della sensibilità contemporanea.

    Un’ altra cifra, comune ai due “frammentisti vociani”, va individuata nell’adesione di Rebora e di Palazzeschi all’arcinota affermazione di Gertrude Stein: «Scriviamo per noi stessi e per gli sconosciuti». Affermazione che con Harold Bloom possiamo ampliare in un apoftegma direi “parallelo”:«Leggiamo per noi stessi e per gli sconosciuti», nell’atto della critica e nell’ardente speranza di imbatterci nel potere estetico di un’opera o più semplicemente in quella che Baudelaire definì «dignità estetica» di un’opera poetica.

    Saltiamo a piè pari , da Palazzeschi e Rebora, frammentisti vociani della prima stagione prezzoliniana, le esperienze rondiste, ermetiche, post-ermetiche ed anche l’esperienza della vocazione realistica in cui si chiese al poeta e alla sua parola lo sguardo della comprensione, e della pietà, a catturare l’eco di miserie di guerra in un mondo sconvolto, attraverso il suo stesso assioma rivelatore :

    «Non la poesia è in crisi, ma la crisi è in poesia»,

    consideriamo il sentimento di “ars poetica“ in Pier Paolo Pasolini:

    Pier Paolo Pasolini

    La mancanza di richiesta di poesia

    ( Da Poesia in forma di rosa, 1964)

    Come uno schiavo malato, o una bestia,
    vagavo per un mondo che mi era assegnato in sorte,
    con la lentezza che hanno i mostri
    del fango – o della polvere – o della selva…
    C’erano intorno argini, o massicciate,
    o forse stazioni abbandonate in fondo a città di morti
    con le strade e i sottopassaggi
    della notte alta, quando si sentono soltanto
    treni spaventosamente lontani,
    e sciacquii di scoli, nel gelo definitivo,
    nell’ombra che non ha domani.
    Così, mentre mi erigevo come un verme,
    molle, ripugnante nella sua ingenuità,
    qualcosa passò nella mia anima – come
    se in un giorno sereno si rabbuiasse il sole;
    sopra il dolore della bestia affannata
    si collocò un altro dolore, più meschino e buio,
    e il mondo dei sogni si incrinò.
    «Nessuno ti chiede più poesia!»
    E: «E’ passato il tuo tempo di poeta…»
    «Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci,
    e tutto ciò che fu vita ti duole
    come una ferita che si riapre e dà la morte!

    Poeta per vocazione, per scelta, per sorte, per disgrazia , per necessità, il timore della perdita della poesia in Pasolini coincide con la paura della perdita della grazia.

    Ma sebbene già insoddisfatto del linguaggio e della forma-poesia del suo tempo (su cui non è il caso di dilungarsi, dopo l’eccellente saggio di Franco Di Carlo su Trasumanar e organizzar) Pasolini immette negli ultimi versi di questa poesia una novità formale ed estetica : il parlato…

    E benché i tempi non fossero ancora favorevoli per certe imprese, Pier Paolo Pasolini già avvertiva in sé l’aspirazione di far muovere i suoi versi in un’area espressiva più vasta di quella fino ad allora esplorata e attraversata, una area espressiva che fosse in grado d’accogliere le nuove istanze in fermento in una società in movimento, in tumultuosa trasformazione, una società già sottoposta a ciò che F. Di Carlo ha analizzato come “Mutazione antropologica“ e “Omologazione” anche linguistica. Da qui la necessità pasoliniana di una nuova forma priva di forma.

    Il timore di perdere anche il diritto al sogno ovvero la possibilità stessa di fare poesia non è stata mai estranea a Pasolini che qui recepisce il mondo della civiltà moderna come «macchina livellatrice» in grado di creare schiavi malati. Per il poeta la città notturna , sentita come un labirinto di sottopassaggi e strade, di suoni ridotti a sciacquii, è un incubo. E la bestia affannata del poeta P A T I S C E l’incrinarsi del suo mondo di sogni ed è dolente il dileguarsi con i sogni di tutto ciò che fu vita… E se nessuno ti chiede più poesia, che metamorfosi può subire quell’essere fatto per ideali voli e improvvise Navigazioni

    Roma, Laboratorio gratuito di poesia,
    30 marzo 2017

    (gino rago)

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  9. De Gama e gli altri

    Vasco de Gama l’aveva coperta
    di galeoni, ma non era vinta.

    Magellano gettò una sfera nello spazio retiforme.

    Risuonava nell’universo e moltiplicava
    un fuoco di caverna.

    Multiformi bisonti appresero l’arte dei numeri.

    L’algebra cominciò il conto alla rovescia.
    Inghiottiva regole e teoremi per non chiudere il cerchio.

    Il fumo bastò per non scivolare nel nulla.
    l’ Erebus ebbe un balzo d’angoscia e raggelò.

    Si trattava il sistema tolemaico
    alla borsa di Singapore.

    La sicura è un polo inserito in un magnete.
    Girano intorno falene e cannella.

    I cobra impararono a ruotare dai monsoni.
    Ferdinando non era stato morso invano. Fu possibile saldare i mari.

    (…)

    La velocità del suono era salva.
    Toccò una frequenza ad ogni fuciliere rimasto vivo.

    L’immortalità si trasferì nelle metastasi
    e da queste ai discepoli.

    Celebrare l’impotenza spettò ai poveri di spirito.
    Papa Lucrezio intervenne a modificare l’atomo.

    Nessuna eguaglianza tra positivo e negativo.
    Barricate nelle strade di Napoli. Il Re protone.

    All’albero della libertà subentrò materia oscura.
    Roghi e patiboli sanfedisti. Elettroni a Piazza Mercato.

    Autunno: si torna vivi. Si accetta l’aratro nel corpo.
    La metastasi scende nel grano. A giugno il natale.

    Agosto è tempo di forza forte. Logos in catene
    che basta una metafora, una cicala di neutroni.

    (Francesco Paolo Intini)

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  10. Poi ritrattare l’abiura.
    La bruma sembianza del verso.

    Intingerlo, immergerlo.
    Di lana caprina di sete e radura.

    Oltre una parola si macchia,
    una beffa in virtù.

    Questa sorte che gioca ha la lingua essiccata
    al sole, al destino, al circo, al clown

    disteso, invisibile,
    la brezza e le risa.

    (La lezione, Rago, Tosy, Linguaglossa, Palazzeschi…)
    GRAZIE OMBRA.

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  11. Per Aldo Palazzeschi. Lasci, non occorre.

    Oggi ho detto Vipera. Sì, alla poesia. Di là
    stanno ancora ridendo.

    Il mio compito è scrivere scaramucce. Tre in uno,
    se ci riesco. E dargli un senso. Possibilmente.

    Spy story: dal punto di vista di un topo nel formaggio
    Emmenthal. Farvi divertire.

    (May-ago2019)

    Grazie, Gino Rago e amici.

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  12. Tourist info

    Nel soffio l’orca gravita sulla città Infibulata.
    Un dirigibile .Roba mista all’aria.

    I piedi affondano prima di arrivare al traliccio
    di luce. Sulla stessa tavola operatoria del minuto.

    In bianco pallido. I ferri chirurgici cadono e
    il lenzuolo fa marcia al treno eterno.

    La gru numero 4 si muove a scatti .Ordine vuoto dell’orizzonte. Non c’è cura per l’amore crudele

    Nei campi della Turingia si aspetta il tempo funicolare.
    Un bottone a conchiglia.

    La camicia di forza incrociata sotto il sole terribile.
    L’uomo si rannicchia al buio del sedile.

    In mezzo ai tramezzini di sale.Tutto dischiuso con una coltellata
    Tourist info: la nave cavalca onde anonime.

    Senza nessun piacere. Ore 12,55 a Nord del vulcano

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  13. Pingback: RidonDANZe 14.00 Confezionato alla maniera della Nuova Ontologia Estetica. Linguaglossa è in ferie! | RIDONDANZE

  14. Ci fa passare l’uomo. Apre il 6.
    La neve dei ribelli: storia in due email,

    gemelle ma speculari. L’uomo che non
    sapeva respirare. Sentirsi in colpa per tutto. 

    Allacciati a una sedia fluorescente.
    Le quattro ossa. Una seconda di seno.

    Non sapere come dire. Non saper tacere.
    D’improvviso senza tabacco.

    In piedi, con le mani in tasca. Starci
    a pensare.

    (May-ago2019)

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  15. Adesso me lo chiedi.
    Un passo incerto e l’altro pure. La claudicanza.

    L’errore nobile pure sincero.
    Può darsi che le sedie non sopportino il peso

    ma l’anima
    ha il sapore asprigno.

    Dondola si consola. La forma esatta senza gravità.

    Dall’alto un passaggio a livello. Il treno in secondo piano. Un paesaggio.

    Passaggi a raso, paesaggi lisi.
    Un drone profondo.

    GRAZIE OMBRA.

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  16. Una semplice impalcatura. Sostiene.
    La voce ha pure un suono.
    Invece è lo stesso rumore delle onde, delle orde,
    delle orbe. Commentavano
    le impalcature sfitte, e tutto intorno
    l’ordito di una siepe cieca, un tromp-l’oeil.
    La schiuma andata, la pelle spessa.
    Nella stessa tasca uno squillo.

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  17. Talìa

    Con quanta facilità i poeti da termosifone vergano versi.
    Il termo-camino a pellet brucia gli scarti della segatura.

    Rovistando carte. Scritti apodittici targati che recitano:
    – Nati per divertire le allodole. MinimI comunI multiplI.

    La civetta di Minerva spennata dalla pax deorum.

    Germanico, serra le fila delle legioni che il tempo è storia,
    L’incendio doloso e l’omicidio preterintenzionale.

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    • Adesso capisco perché quando la scrivevo
      ti avevo in mente.
      L’Ombra sconquassa.
      Un abbraccio Talia.

      GRAZIE OMBRA.

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    • ho posto Tre Domande intorno alla poesia alle quali i poeti, o chi si ritiene di essere un poeta, non sanno cosa rispondere:

      – Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?
      – Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?
      – Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

      Ecco, io penso che la tua poesia sia un ottimo esempio di come si possa scrivere poesia dopo la fine della metafisica, i tuoi “poeti da termosifone” ciarlano e riempiono i cataloghi di inutili libri di poesia. Prima di scrivere una poesia bisogna pensare alle conseguenze che la fine della metafisica pone al linguaggio poetico, occorre aver interiorizzato questa problematica. Penso che il Cialtrùn de Milàn, il Salvini, con i suoi accoliti intellettualoidi da spurgo siano un ottimo complemento per la scrittura poetica. Penso che prima o poi Germanico ti risponderà…

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