Francesco Paolo Intini, Dedalo, il Minotauro, Guantanamo, Giorgio Linguaglossa su una poesia di Giuseppe Talìa, Due poesie inedite di Giorgio Stella

20190728_093756

Marie Laure Colasson Abstract

 Francesco Paolo Intini

Dedalo, il Minotauro, Guantanamo

Percorrere la via della poesia ha senso solo se ci si mette in ascolto del nuovo che affiora dalla società di cui si è figli.
La bambina di fronte al quadro di Picasso crescerà col sospetto che qualcosa nel bel racconto di mamma e papà non funziona.

Gli occhi fuori posto evidentemente stravolgono le regole comuni e collocano l’autore tra i pazzi abitatori di questo pianeta.
La follia di gruppo però non è la stessa del singolo che pensa di essere Napoleone Bonaparte.

Come spiegare infatti, la pletora di artisti che fa squarci nella tela o allunga il collo oltre ogni misura o il ready made che annienta d’un colpo qualunque accomodamento al piacere retinico e punta invece alla mente.

La partecipazione ai fatti della mente dunque, il cui modus operandi assomiglia a quello di Dedalo. Da par suo il costruttore di labirinti non dà alcuna chance alla bestia ospite.

Che altra immagine per il linguaggio?
Quante porte apre una parola?

Tutto per intrappolare il Minotauro, figlio di una passione inconfessabile che rigetta i protagonisti nella bestialità della forza bruta.
Chernobyl e Minotauro soggiornano nel fondo dell’umanità ma le cautele della ragione sono anche le sue conquiste.

E questo poter distruggere ogni cosa non sa che farsene di Icaro che gli si oppone con un volo imprudente, troppo vicino al Sole, che rappresenta il livello altissimo delle forze in gioco.

Le stesse che bisognerà affrontare e comprendere non con le ali della fantasia ma con quelle dell’immaginazione, della misura e dell’ingegno.
Tutto ciò impone la creazione di modelli, le teorie da confermare o falsificare, il lavoro ostinato alla catena di montaggio degli specialisti del calcolo scientifico.

Lo sforzo è titanico ma probabilmente pone la mente al servizio della Natura per accelerarne il decorso e superare i limiti delle leggi del caso.
Quanto tempo è occorso per sintetizzare l’Uranio? Quanto invece per un atomo di Darmstadio?

Se la tavola periodica è il DNA dell’universo, l’ultima parte di essa rappresenta la differenza tra l’operare secondo le leggi del caso e quelle dell’immaginazione scientifica.

In questa ottica Dedalo continua a costruire i suoi labirinti.
Il poeta crea nuove possibilità, tirandole fuori dal fuoco dell’intuito, complica sempre di più il tracciato per essere all’altezza di una bestia che talvolta si fa tirannia e campi di sterminio, ma sempre più spesso utilizza le armi del mimetismo per starci addosso e persuaderci che questo è l’unico modello di società possibile.

Auschwitz e Guantanamo, campi libici e Pinochet stanno accanto alle ragioni del mercato.

Mentre Icaro vola con la sua fantasia inutilmente spiegando ali senza futuro se non per una malinconica impotenza contro il dolore o la dolcezza di un ricordo, di quando sembrava possibile commuovere le pietre scagliate per uccidere il suonatore di cetra.

Il riemergere costante della bestialità, la sua onnipresenza invasiva mette invece all’ordine del giorno il bisogno non di cera che impasta le ali ma di nuovi materiali a base di ciò che nel frattempo è entrato nell’universo.

E dunque è il livello di scontro ad imporre la ricerca dell’indicibile che nasce dagli oggetti stessi, come qualcosa che si può ascoltare a condizione che il proprio Io si faccia da parte in quanto già compromesso, già solleticato in mille modi dai processi di reificazione e dunque non pìù credibile.

Gif Gladiatore 2

Giorgio Linguaglossa

Su una poesia di Giuseppe Talìa

 Vorrei dire qualcosa sulla indubbia genialità della poesia di Giuseppe Talìa, anzi, sulla lettera che il personaggio Talìa invia a tale «Germanico». Per informazione del lettore diremo che questa fa parte di un gruppo di poesie inviate da tale Talìa al generale Germanico Comandante delle legioni del Nord.

 Ma qual è il punto? Di che cosa qui è questione? Si tratta di una poesia di carattere storico? Si tratta di una allegoria? Di un pastiche? O che altro diavolo non so, non saprei, ma so per certo che qui Talìa ha messo in atto in modo brillantissimo l’idea della de-soggettivazione del soggetto e dello spostamento-collisione dei piani di elocuzione. Il soggetto non c’è, o meglio, il soggetto che legifera sulla poesia e nella poesia c’è e non c’è, è, in verità si tratta di una finzione. Quel soggetto che scrive a Germanico è una finzione, un falso, ecco il punto. E preso atto di questo assunto, la composizione prosegue senza offrire al lettore alcun appiglio di sicurezza intorno a ciò di cui si dice. O meglio: ciò di cui si dice lo si dice in modo tale da smentire ciò di cui si dice, e smentire anche il modo con cui si dice. Doppio effetto di straniamento, quindi, ma trattato in modo nuovissimo, da farlo sembrare un gioco o uno scherzo.

 È che tutta la composizione ha l’aria di prendere in giro il lettore, e invece si tratta di una cosa serissima, la vera questione è che ciò di cui si dice non corrisponde affatto al modo con cui si dice, si verifica qui uno scollamento, una distanza tra i due fattori del discorso poetico, e la poesia contiene in sé i due piani del discorso facendoli friggere e collidere l’uno contro l’altro, il fattore serioso e il fattore derisorio.

La composizione assume la forma di una lettera ad un destinatario. Facciamo un passo indietro. È accaduto questo, che nel corso di questi ultimi decenni le «forme» sono scomparse, inabissate, frantumate, e chi voglia scrivere una poesia deve fare i conti con questo semplice problema: quale «forma» adottare con la mia poesia se tutte le «forme» sono inutilizzabili e sono state fatte affondare? È ovvio che per dire qualcosa di nuovo in poesia si deve individuare una «forma» con la quale dirla, una «forma» superstite, una sopravvissuta, magari un fantasma di «forma» o una finzione di «forma». Avviene così che Talìa, in mancanza di meglio, è costretto a rivolgersi alla forma più antica da quando esiste la scrittura: le forma-missiva. In tal modo risolve il problema della «forma».

Ma c’è anche un secondo problema che Talìa deve affrontare, e non piccolo: in quale stile si deve scrivere? Ecco. Un poeta meno dotato adotterebbe la forma-non-forma narrativa del raccontino con gli a-capo, e farebbe quello che tutti hanno fatto e fanno in queste ultime decadi, cioè scriverebbe una prosetta con degli a-capo. Talìa no, adotta il distico, che gli impone però una gabbia abbastanza stretta. Alla fine di ogni distico ha solo due possibilità: mettere il punto o rinviare al distico successivo la prosecuzione del discorso poetico. Non è affatto un elemento secondario, anzi, si tratta di una costrizione che il distico impone all’autore. E allora chiediamoci: come fa Talìa a risolvere il rebus? Leggiamo la poesia:

Giuseppe Talia

Caro Germanico,

oggi il sicomoro ha fatto frutti: cachi belli e rotondi.
Teofrasto, stupito, ne ha salvato l’immagine

in uno screenshot da pubblicare su facebook.
“Una simile piantaccia polverosa ha fatto frutti?”

Immediatamente la cia, la cei, il cicap
hanno rilasciato tutti un’agenzia.

Per la cia il fenomeno è probabilmente dovuto
alla velocità dei dati delle reti 5G, all’efficienza spettrale

della velocità di trasmissione della banda larga per cui
tra la radice del sicomoro, i rami in fibra convergente

si è creato un cloud e quindi Parmenide aveva ragione:
“una che “è” e che non è possibile che non sia…”

La cei ci va cauta. Per caso i frutti sanguinano?
Qualche cachi, in verità, presenta una maturazione

precoce: gli acidi, gli zuccheri e gli aromi rilasciano
una poltiglia dall’esocarpo crepato.

Non si registrano volti wanted dell’iconografia globale
se non per quel cachi in alto a destra che pare

assomigliare a San Carpoforo.

Comunque, nel dubbio, i fedeli hanno acceso alcune candele
sotto l’albero e l’industria dei gadget è già in opera.

Il cicap sguazza nella melma scivolosa della polpa.
Ne acquisisce campioni. Il Diospyros kaki desta sospetti.

Teofrasto continua a dire: “una simile piantaccia polverosa?”

Talìa adotta il tropo dell’iperbole, cioè rilancia ad ogni distico il discorso su un piano sempre più assurdo ed estremo, seppur mantenendo inalterato il tono serioso di un discorso verosimile o para razionale. L’apparenza di voler mantenere un discorso razionale e verosimile cozza e si scontra con l’assurdità di tutta una serie di nuove condizioni nelle quali il discorso serioso e razionale va ad impantanarsi. È qui il salto di fantasy decisivo. Talìa mostra che il senso e il non-senso del nostro mondo e anche della poesia sono entrambi destituiti di contenuto veritativo, il senso equivale al non-senso del tutto, poiché il Tutto è un Totem e il Totem è falso, posticcio. Non c’è alcun senso (così come non c’è alcun Totem) che la poesia possa mostrare perché il senso non c’è. La mondità del mondo non contiene alcun senso e che anche la parola «senso» è sbagliata, un inganno, una parola truffaldina che è stata foriera di conseguenze nefaste.

Giorgio Stella

 […]

L’altra parte dell’alveare è a schema la riga è fatta per gli aspiranti
dello scudo universale – problema da dilettanti -, burle da sommarsi ai [capitelli della capitaneria di porto, l’orto [non urto]

[…]

d’attrito splendente le capsule in fiore il coccio del loto ma chi ha frodato
la banchina con la conchiglia della fondazione? chi per primo ha richiesto [doppia razione di campi di cotone?

[…]

‘d’altra parte Signor […] non si riprese mai del tutto dalle percosse subite, sanguinava pure quando era curata la ferita…’ -.

– “Egregio Lei […] le solennità delle belle parate non portano santi nei calendari tantomeno quei faretti accesi quando si risale dagl’abissi con termometri di scorta contando le uova di riserva…” – […].

[…]

Per arrivare alla spiaggia ci vogliono cinque minuti a piedi dall’Hotel, senza macchina! Certo per chi cammina di meno ce ne vorranno dieci.

I nostri posteri risaliranno alla nostra epoca dai cavalli fermi a Piazza di Spagna; li hanno fotografati Dolce & Gabbana, sul Duomo di Milano una [volta ci salirono i Beatles.

Lucio Mayoor Tosi

Caro Giorgio Stella,

da questi tuoi versi arriva il profumo Nuova poesia. E’ estate. Ma piuttosto che niente, vado a ragionare sul frammento: se abbia senso procedere per strofe, e non invece restituire alle parole la loro reale indipendenza; nell’ordine in cui sono arrivate; e quindi possano servire punti. In queste tue strofe, i frammenti sono nitidi. Forse il punto mette noia, farlo sistematicamente… diciamolo a bassa voce: qui salta fuori la questione dello stile. Perché il “punto” tende al massacro…

Questa tua poesia è per me un capolavoro.
Bellissima.

Giorgio Linguaglossa

Penso anch’io che questa sia una poesia nuovissima, una poesia con targa NOE svolta in modo personalissimo da Giorgio Stella con il suo inconfondibile stile magnetico. E poi forse toglierei il bisticcio di parole: «l’orto [non urto]», perché rimanda con la memoria al gioco dei significanti della poesia di un certo novecento che sarebbe bene dimenticare. Lascerei soltanto «l’orto», magari con dei puntini di sospensione…

È incredibile la velocità di assimilazione dei segreti della NOE da parte di Giorgio Stella. Ciò vuol proprio dire che certe cose aleggiano nello spirito del tempo, sono qui accanto a noi ma noi non le vediamo, occorre che qualcuno ci apra gli occhi e ci faccia vedere le cose, quelle lì che non vedevamo. Alla luce delle nuove cose sarei portato a chiedere a Giorgio Stella come considera la sua precedente poesia, quella scritta durante i venti anni precedenti.

Giorgio Stella

Carissimo Giorgio Linguaglossa considero i miei vent’anni di poesia scritta [pubblicata o no è uguale] niente che abbia a che fare con la poesia; mi auguro solo che i pochi esemplari in circolazione spariscano… neppure prove d’autore o falsi d’autore… magari… Riguardo le letture è diverso non ho mai buttato un libro di versi in vita mia ma oggi un 80 x cento sarebbe impossibile rileggerli, mentalmente cambi  i versi che stanno dove dovevano esserci. La questione tempo ci mette una pietra sopra. Sottrarre alla NOE questa manciata di anni che mi rimangono sarebbe un ulteriore fallimento nelle cose che per sfortuna mi hanno sopravvissuto.
Un abbraccio.

Giorgio Linguaglossa

caro Giorgio Stella,

credo che nei poeti della nuova poesia sia presente la consapevolezza che il concetto di poesia legato alla priorità e centralità del significante (con tutta la serie di tropi che ne derivano: assonanza, consonanza, rima, phoné, fonologia etc.), vada progressivamente e definitivamente in disuso. Parallelamente concresce la consapevolezza che una serie di tropi vengono a rimpiazzare quella antica centralità del significante che costituisce lo stigma e la caratteristica della poesia novecentesca.

Penso ad esempio alla poesia di Anna Ventura che già con il primo libro del 1978 Cocci di bottiglia, il ruolo del significante sembra molto ridotto, anzi, quasi assente. E non è un caso che il ruolo del significante, in poetesse della seconda metà del novecento come Helle Busacca con I quanti del suicidio del 1972 e Maria Rosaria Madonna con Stige del 1992, subisca un netto e drastico ridimensionamento. Ma anche in una poetessa di primissimo piano come Giorgia Stecher la cui attività si svolge durante gli anni ottanta e novanta fino al 1996, anno della sua morte e della pubblicazione del suo ultimo libro, Altre foto per Album. Anche nella poetessa siciliana il ruolo del significante viene ad essere ridotto in modo considerevole.

È un processo che attraversa la seconda parte del novecento. Oggi è quindi possibile tracciare il filo rosso di demarcazione della nuova poesia da quella genericamente novecentesca. E questo fenomeno qualcosa vorrà pur dire.

Definire la nuova poesia implica quindi il ridefinire la poesia genericamente intesa come novecentesca e post-novecentesca.

Giorgio Stella

Carissimo Giorgio Linguaglossa, certo, mi ero espresso male … [le cose che per sfortuna mi sono sopravvissute…] intendevo le cose che ho scritto io.

Rifondare la poesia magari partendo da Le ceneri di Gransci forse [parer mio] il libro più alto del novecento. Ma qui c’è anche una cernita di nomi… rileggere x me un Tonelli o un Damiani miei ex eroi [eroi è proprio un titolo di un libro del secondo] non porterebbe a niente per questo come dice lei ora che abbiamo una tracciabilità la stessa dovrebbe essere panoramica all’alfabetizzazzione che la comprende tutto qua. Se penso che ho preso sul serio un Eugenio Lucrezi, che ne elemosinai l’amicizia tradita pur se mi recensì su “Levania” che libri tipo bingo-blues o bambo-blues è uguale li ho letti tutti di lui [due regalati e autografi! ma sti…] che credevo davvero provenissero non dalla nuova parola poetica ma nella nuova parola poetica mi ‘schiaffeggerei’ x non essere volgare allo specchio da solo. La NOE ha un vantaggio messo poco in risalto a mio parere… quando hai scritto una poesia noe non dico te la ricordi a memoria ma non la scordi questo forse varrà per me… prima perso nel poema a mala pena ricordavo un paio di versi dello stesso ma giammai la trama rigorosamente intessuta dei filtri che tale lo rendevano!… non so se piangere o se ridere… rido… perché oggi è giorno di letizia arrivano i suoi libri! aspetto il corriere espresso come un bambino il balocco sotto l’albero di natale.

Concludo non è ‘nostro malgrado’ ma neppure ‘per caso’ mi permetto il nostro. Un abbraccio.

Giorgio Linguaglossa

Lo spettacolo è «il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (Guy Debord, La società dello spettacolo.).

Nella società dello spettacolo delle economie globali il linguaggio è diventato lo spettacolo di se medesimo, lo spettacolo allo specchio; lo spettatore (e il lettore ad esso ragguagliato) è completamente dominato dal linguaggio delle immagini teleindotte dal sistema mediatico, o, se si vuole, dalle immagini del linguaggio spettacolarizzato, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso perde ogni significato.

Che cos’è il Vero? Risponde Debord: È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Tutto ciò che non è comunicabile è destituito di significato, e quindi è un nulla.

Il linguaggio delle società dello spettacolo è costituito da un immenso deposito di immagini. È il linguaggio dello spettacolo che presta al linguaggio della poesia i propri stilemi e le proprie iconologie.

Come ci insegna il commento del post precedente di Donatella Giancaspero al radiodramma di Beckett, un’arte e una poesia del nostro tempo che voglia essere all’altezza del proprio tempo deve assumersi l’onere di dichiarare l’abiura del linguaggio dello spettacolo, idest del linguaggio della comunicazione. Laddove c’è comunicazione c’è falsa coscienza, falso, falsificazione, c’è il vero indotto dalla comunicazione globale, c’è il vero ridotto al falso.

Tutta quella paccottiglia letteraria che ci parla del vero mostrandocelo come vero, quelle angosce e quelle idiosincrasie mostrate come vere, invece sono false, sono falsa coscienza. Tutta quella paccottiglia letteraria neorealistica che va di moda oggi che ci parla del vero assume a proprio modello la telecommedia.

Oggi finanche l’ironia e il sarcasmo sono armi spuntate contro la paccottiglia letteraria che viene spacciata per letteratura dagli uffici stampa degli editori.

Giorgio Stella

Solo per appuntamento riceve lo studio.
Cantiere all’aperto festeggia la pioggia.

[…]

Cifra esagerata la mensa nella scuola dell’obbligo.
Abbonamento saldato ma nessuna rivista.

[…]

Si pubblicizzano gli alcolici come biscotti per latte.
Salendo le scale l’infermiere ricorda ‘si tratta di un minore’.

[…]

Negozio di confetti artigianali.
Gli affluenti dei fiumi sono le carte geografiche del domani.

[…]

Dal veterinario c’è sempre la bacheca degl’animali scomparsi.
Nella Roma papalina la sifilide era il ‘mal-francese’.

Giorgio Linguaglossa

Questi distici di Giorgio Stella mi sembrano particolarmente convincenti perché oscillano, invisibilmente, tra lo stile e la maniera, si situano in un punto mediano equidistante dai due poli costituiti dallo stile e dalla maniera. Così il procedimento della NOE agisce in quella terra di mezzo tra l’appropriazione e l’espropriazione del linguaggio, talché il linguaggio è qualcosa di noto ed ignoto al contempo, qualcosa di familiare e di estraneo, di indiscernibile… qualcosa di già conosciuto e di sconosciuto… in questo territorio di mezzo il linguaggio poetico agisce, diciamo così, da solo, non viene agito dal soggetto, anzi il soggetto viene de-istituito, de-coinciso, e-sautorato.

13 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, Senza categoria

13 risposte a “Francesco Paolo Intini, Dedalo, il Minotauro, Guantanamo, Giorgio Linguaglossa su una poesia di Giuseppe Talìa, Due poesie inedite di Giorgio Stella

  1. Un punto di forza dell’inedito di Franco Paolo Intini sento di doverlo segnalare nella differenza, che l’autore coglie, precisa e rilancia, fra “immaginazione” e “fantasia”.

  2. Per i frammenti di Giorgio Stella, ben commentati dell’amico Linguaglossa, direi che risponde al vero quel detto secondo il quale “bisogna avere il caos dentro per partorire una stelle danzanti…”

    Frammenti-immagini di Giorgio Stella che ci chiedono, per dirla con Simic: “Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?”

    Sotto tale particolare aspetto di parole che vengon dall’ultravioletto dell’anima emblematico mi sembra questo suo verso:

    “I nostri posteri risaliranno alla nostra epoca dai cavalli fermi a Piazza di Spagna[…]”

    (gino rago)

  3. Troppi refusi nel commento precedente.
    Lo ripropongo sottoposto a bonifica linguistica così:

    Le stelle danzanti nei versi di Giorgio Stella

    Per i frammenti di Giorgio Stella, ben commentati dall’amico Linguaglossa, direi che risponde al vero quel detto secondo il quale:
    “bisogna avere il caos dentro per partorire una stelle danzanti…”

    Frammenti-immagini di Giorgio Stella che ci chiedono, per dirla con Simic: “Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?”

    Sotto tale particolare aspetto di parole che vengono dalle frequenze dell’ultravioletto dell’anima emblematico mi sembra questo suo verso:

    “I nostri posteri risaliranno alla nostra epoca dai cavalli fermi a Piazza di Spagna[…]”

    (gino rag

  4. Colpa dell’afa sahariana. Troppi refusi nel commento precedente.
    Lo ripropongo sottoposto a bonifica linguistica così:

    Le stelle danzanti nei versi di Giorgio Stella

    Per i frammenti di Giorgio Stella, ben commentati dall’amico Linguaglossa, direi che risponde al vero quel detto secondo il quale:
    “bisogna avere il caos dentro per partorire stelle danzanti…”

    Frammenti-immagini di Giorgio Stella che ci chiedono, per dirla con Simic: “Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?”

    Sotto tale particolare aspetto di parole che vengono dalle frequenze dell’ultravioletto dell’anima emblematico mi sembra questo suo verso:

    “I nostri posteri risaliranno alla nostra epoca dai cavalli fermi a Piazza di Spagna[…]”

    Nell’era della stagnazione anche estetica, Giorgio Stella scongela le parole
    ibernate dando loro calore e colori.

    (gino rago)

  5. Per 30 anni sono stato «inoperoso». Qualcosa mi sfuggiva, ma non riuscivo a capire che cosa. Dal 1985 al 2015 sono restato nell’inopia della inoperosità, quando all’improvviso…

    Scrive Giorgio Agamben:

    «Poeta non è chi possiede una potenza di fare e, a un certo punto, decide di metterla in atto. Avere una potenza significa in realtà: essere in balia della propria impotenza. In questa esperienza poetica, potenza e atto non sono più in relazione, ma immediatamente in contatto. Dante esprime questa speciale prossimità di potenza e atto quando scrive, nel De monarchia, che tutta la potenza della moltitudine sta sub actu, “altrimenti si darebbe una potenza separata, il che è impossibile”. Sub actu significa qui, secondo uno dei possibili significati della preposizione sub, la coincidenza immediata nel tempo e nello spazio (come in sub manu, immediatamente a portata di mano, o sub die, subito, nel giorno stesso)..
    Nel punto in cui il dispositivo è così disattivato, la potenza diventa una forma-di-vita e una forma-di-vita è costitutivamente destituente.

    Tutti gli esseri viventi sono in una forma di vita, ma non tutti sono (o non sempre sono) una forma-di-vita. Nel punto in cui la forma-di-vita si costituisce, essa destituisce e rende inoperose tutte le singole forme di vita. È soltanto vivendo una vita che si costituisce una forma-di-vita, come l’inoperosità immanente in ogni vita. la costituzione di una forma-di-vita coincide, cioè, integralmente con la destituzione delle condizioni sociali e biologiche in cui essa si trova gettata. La forma-di-vita è, in questo senso, la revocazione di tutte le vocazioni fattizie, che depone e mette in tensione dall’interno nel gesto stesso in cui si mantiene e dimora in esse. Non si tratta di pensare una forma di vita migliore o più autentica, un principio superiore o un altrove, che sopravviene alle forme di vita e alle vacazioni fattizie per revocarle e renderle inoperose. L’inoperosità non è un’altra opera che sopravviene alle opere per disattivarle e deporle: essa coincide integralmente e costitutivamente con la loro destituzione, col vivere una vita.
    […]
    Contemplazione e inoperosità sono, in questo senso, gli operatori metafisici dell’antropogenesi, che, liberando il vivente uomo da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato, lo rendono disponibile per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare “politica” e “arte”. Politica e arte non sono compiti né semplicemente “opere”: esse nominano, piuttosto, la dimensione in cui le operazioni linguistiche e corporee, materiali e immateriali, biologiche e sociali vengono disattivate e contemplate come tali per liberare l’inoperosità che è rimasta in esse imprigionata».1

    Un aneddoto

    Quando ritornai a Roma nel 1985 dopo il girovagare in alcune carceri italiane del nord, mi predisposi a scrivere poesia, ma, con mia sorpresa mi resi conto che non avevo alcunché da dire. Leggevo la poesia dei contemporanei e quella del novecento ma restavo senza idee, senza parole, mi sentivo, come dire, disattivato, o, per usare un termine di Agamben, «inoperoso». Non riuscivo a scrivere nulla che non fosse già stato scritto. (Ero già allora molto auto critico per non rendermene conto). E così passarono tre anni di inoperosità, quando, all’improvviso, scrissi Blumenbilder (natura morta con fiori), che poi diedi alle stampe nel 2013, esattamente 28 anni più tardi. Ma quel tentativo non mi soddisfaceva affatto. E così scrissi altre cose, finché nel 1992, diedi alle stampe, Uccelli, un libretto di poesie che segnavano un passo in avanti nella mia ricerca, traguardo però, a mio avviso dell’epoca, ancora del tutto insoddisfacente, perché non avevo dietro di me, alle mie spalle, un linguaggio della tradizione novecentesca che mi potesse sorreggere in questa impresa, mi mancava il linguaggio e, quindi, mi mancavano le parole, la sintassi, la fonometria, la fonologia.
    Si può dire che dal 1985 al 2000, anno in cui diedi alle stampe Paradiso, tutti quegli anni li passai nella «inoperosità», nel senso che tutto quello che scrivevo non mi soddisfaceva affatto, o mi soddisfaceva parzialmente, avevo scritto quelle poesie come in preda ad una forzatura, ad un impegno, ad un compito. Insomma, non avevo ancora «disattivato» il mio linguaggio, non lo avevo «depotenziato», il mio «io» mi condizionava dettando «lui» il linguaggio. La questione era proprio quella: che il «mio» linguaggio non doveva essere il «mio linguaggio», avrei dovuto depotenziarlo, disattivarlo per farlo entrare in funzione. Il contrario di quello che avevo fatto fino allora. Era come se percepissi tutti quegli anni come una rincorsa, un allenamento «inoperoso» che sembrava girare a vuoto e non dovesse aver mai fine e che avrebbe dato, forse, un giorno, i suoi frutti.

    Questa condizione di «inoperosità» durò fino al 2015 circa, quando, all’improvviso, ebbi chiaro e netto il compito che mi aspettava: il Cambio di Paradigma e la fondazione di un Nuovo Logos. Detto così è qualcosa da far tremare i polsi o da far ridere, ma ero giunto alla convinzione che occorresse, anzi, fosse indispensabile una fortissima accelerazione, erano passati trenta anni durante i quali la mia ricerca aveva proceduto a rilento, passo dopo passo. Adesso occorreva un cambio di marcia. Occorreva una fortissima accelerazione. Così, nel 2018 pubblico con Progetto Cultura, Il tedio di Dio, opera scritta in pieno coinvolgimento nel Cambio di Paradigma e nella nuova ontologia estetica, ovvero, il Nuovo Logos.
    E siamo giunti ai giorni nostri.

    1 G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014, pp. 350,51

  6. giorgio stella

    Grazie gentile Gino Rago, lei sempre così attento alla fine dell’impegno e alla riscoperta del privato mia senza l’ordine crepuscolare dove il dettato, per fortuna, non è più canto. Ho letto ieri IL TEDIO DI DIO del nostro GIORGIO LINGUAGLOSSA: due parole: patrimonio x l’umanità ed io sono cattolico osservante.
    un abbraccio e ancora grazie per il trittico africano che mi ha regalato.
    giorgio stella.

  7. Caro Gino Rago, grazie per aver colto quella distinzione fondamentale e grazie a Giorgio, ottimo come sempre.

    TRENO DI MEZZA ESTATE

    I cercatori d’ombra conoscono l’ordito del giorno
    Buttarsi a capofitto, imitazione del ranocchio.

    Vennero arruolati i pini
    I tronchi in un seme.

    La civetta smobilitò le sue prede.
    Non pensò ai figli.

    La costruzione di un treno affidato ai binari
    E in fondo il collasso di un istante.

    L’attimo è rivoluzionario. Si riacquista il dolore
    Sul tavolo dell’ anestesia. I muri respingono pallottole.

    Colui che cade in un cortile
    Ritorna dagli aguzzini.

    Ciliegie invece di scoop.

    L’odore acuto del cloroformio pervade una Russia al giorno.
    La frequenza cardiaca prende il posto dell’invenzione della pistola.

    Zenone, padrone d’ alberghi, introdusse il subaffitto
    inventò lo sfruttamento senza limiti.

    Guantanamo in un’isola dell’Egeo
    sulla punta di una matita.

    (….)

    Rod Steiger non è più Benito
    Ora è il bandito Miranda, Juan

    Dinamite su un treno improbabile
    Con traditori molto probabili sull’unico binario

    Sonnecchiare mentre arrivano gli opliti.
    Dov’è il fronte?

    Truppe scelte, pezzenti campesinos
    Abituè di jene e pulci nel ventre del pitone.

    Il tempo è la pozzanghera di Brown
    Sbattono qui e là Leonida irreversibili.

    (…)

    Il platino ha cuore puro e mani generose.
    Perlasca-uno dei suoi atomi- .

    La pioggia acida passava inerte.
    Ebbe a dire gocce nere sulle labbra.

    Alcune riempirono persino le ossa.
    Tutti si era soggetto senza ascoltare pronuncia.

    Pupi sulla fossa comune.
    Anche l’autunno 69 tornò gennaio.

    Un unico ritratto folgorò il vuoto tra le nuvole
    E arrivò fino a noi.

    La numerazione riavvolse la cima.
    Mentre la divisione si interessava dello zero.

    Alcune gru ricostruirono le strade ferrate.
    Parole pure da un metallo nobile.

    Dalla spuma di un concorso di bellezza
    nacquero Levi e materiali inossidabili.

    Affidargli un catasto
    o lasciarli all’esterno dei sussidiari?

    Il passo successivo fu di occupare il silenzio.
    I pappagalli non potettero fare a meno del verde

    Mentre la Luna si assentava per vizio
    Non era mai presente alle rivoluzioni degli altri

    E quando si trattava di farci caso
    Faceva i nomi da fucilare.

    (Francesco Paolo Intini)

    • caro Francesco Paolo Intini,

      mi chiedo: ma tu da dove vieni?, davvero. Mi chiedo: ma tu prima del 2019 che poesia scrivevi? Davvero, la tua scrittura sembra quella di un marziano, a metà prodotto di improvvisazione e per l’altra metà prodotto di un ritrarsi dal linguaggio. È come se tu ti fossi lasciato alle spalle a un miliardo di chilometri di distanza la poesia dell’io, quella della toponomastica e quella della onomastica che è stata fritta e rifritta in questi ultimi decenni di poesia italiana a Milano e a Roma e poi un po’ a macchia d’olio un po’ dappertutto in provincia. Tu hai compiuto il più grande passo indietro dal linguaggio poetico italiano ed europeo che abbia mai letto, sì, hai inferto un colpo durissimo a Lega e 5Stelle e anche al PD della democrazia parlamentare della poesia italiana, e hai rottamato il linguaggio poetico benestante e bene e male educato dei nipotini della società della stagnazione e della recessione di questi ultimi due decenni.

      Noi sappiamo, noi della nuova ontologia estetica, che parlare di senso e di non-senso è un parlare antiquato, un parlare di anticaglie dello spirito. La tua poesia ne ha preso atto e ha messo nel ripostiglio del dimenticatoio tutto quello che doveva essere dimenticato, ossia, la poesia italiana bene educata degli ultimi cinque decenni di democrazia parlamentare della oligarchia dello sciocchezzaio di massa.

      Penso che la tua poesia sia rivoluzionaria perché è al di qua del bene e del male, non al di là, perché parla di cose serissime che sono andate a finire al mattatoio e al rottamatoio, che sono ruzzolate nel fumo delle discariche abusive. Il tuo modo di dis-connettere i polinomi frastici è il miglior modo per indicare ai PM che non c’è più niente da fare, che la dis-connessione è avvenuta ed è tuttora in corso d’opera, che sono saltate le particelle congiuntive del discorso e anche quelle avversative, che sono saltati i verbi e anche i pronomi personali… che è saltato un po’ tutto quanto come su una montagna di dinamite, come il ponte Morandi di Genova…

      E tu hai capito una cosa importantissima, che non c’è più un orizzonte di attesa per la poesia. La poesia è rimasta senza orizzonte oltre che senza un pubblico. Ancora ai miei tempi, durante gli anni sessanta e primissimi settanta c’era ancora un pubblico della poesia, anche se in via di assottigliamento. Voglio dire un pubblico che si aspettava qualcosa dalla poesia, che cosa non lo sapeva, doveva essere la poesia a dirglielo. Oggi non c’è più un orizzonte di attesa, e quindi l’autore di poesia osserva il linguaggio come uno spettatore che osserva un paesaggio senza orizzonte. Voglio dire che quel guardare non è più un guardare, è un vedere, è un vedere le cose piatte. Così, la poesia è rimasta oltre che priva di un orizzonte anche del linguaggio, non ha più un linguaggio, e questo fa sì che la tua poesia abbia in sé qualcosa della improvvisazione e qualcosa di notevolmente superiore: la consapevolezza della futilità di tutte le questioni estetiche dell’estetica classica delle avanguardie e post-avanguardie del novecento, perché quelle lì volevano rottamare ancora qualcosa, quel qualcosa che oggi non c’è più da un bel pezzo.

      Come abbiamo appreso da Marx, l’occultamento e il travestimento sono modalità che si presentano nella modernità delle società moderne. Direi che queste sono anche delle categorie che si offrono alla poetica e all’estetica. Nel tuo procedere poetico, occultamento e travestimento costituiscono un elemento fondante, nel senso che fondano delle maschere che fuoriescono dal nulla del fondale e che ritornano nel nulla del fondo, che si inabissano nello sfondo.

      «La poésie doit etre faite par tous. Non par un. Questa frase del poeta franco-uruguaiano Isidore Lucien Ducasse, più conosciuto con lo pseudonimo di conte di Lautréamont, sintetizza molto bene la scomparsa dell’azione letteraria dell’età della comunicazione in cui tutti scrivono, ma nessuno legge, tutti parlano, ma nessuno ascolta».1

      1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009 p. 59

      • Caro Giorgio, leggo queste tue parole restandone davvero sbalordito. Raramente qualcuno si è pronunciato sui miei versi, figuriamoci positivamente. Spesso, frequentando siti di poesia, ho incontrato avversione, talvolta cattiveria proprio per quell’assenza di centralità del significante di cui tu parli in un recente post e che tuttora domina la scena nazionale. Non è qui dunque che ho iniziato a farlo. Interessarmi di poesia per me ha sempre avuto un significato di ricerca di strumenti linguistici e filosofici, adeguati al livello di scontro sociale che abbiamo sotto gli occhi. Che altro può avere senso che non stia nel narcisismo di massa e nell’asservimento ai mercati? Se nel frattempo mi sono perso la corsa ai titoli di Stato dei concorsi nazionali è avvenuto perché parole come “ successo, gloria, notorietà, etc.” non hanno mai attecchito nemmeno tra i “desiderata” dell’alter con la tavola periodica alle spalle che mi consente di nutrire me e i miei figli e che mi addestra all’arte delle trasformazioni come alla disciplina scientifica nel raggiungimento degli scopi. Abbiamo un mostro sotto i piedi, ci camminiamo sopra, possiamo ritrovarci a tu per tu con esso in ogni istante. Si tratta di scoprire le fattezze del Proteo moderno per non esserne travolti. Se a questo scopo occorre una rivoluzione copernicana che tolga l’Io dal centro dell’universo è giusto che ciò avvenga anche se con un ritardo di cinquecento anni. La mia poesia, da questo punto di vista, rappresenta un’evoluzione necessaria di quella precedente il 2019 che comunque è storia e preistoria per comprendere l’attuale come Hubble lo è nei confronti del cannocchiale. Qui riporto un solo esempio .
        Un caro saluto e grazie infinite.

        I FUNZIONANTI

        È stato facile avere la meglio sui cartoni vuoti
        poi, senza le ossa si sono afflosciati
        e una pioggia li ha sciolti
        punizione di Dio per i troppi peccati di paglia

        Tutto ciò che si poteva desumere dalle scale mobili
        era lì, luminosa certezza:
        compassi
        righe
        emanatori d’ingegneri
        cremagliere scarne di sospiri acciaiosi

        Tutto ciò che ammassato creava tempo

        Cadevano dalle coop gli scaleni
        le accelerazioni casuali

        Tutti fermi a guardare il caso
        schiantarsi dal centesimo piano
        sul marciapiede
        mentre le grammatiche concepivano
        libri contabili

        Ah sì,
        c’erano gli uomini che funzionano
        i cerchi che non possono digerire senza pigreco
        tutti a disegnare la stessa sfera
        la luna ingrigita da funzioni d’onda
        immaginare giostre che girano l’universo
        e riversare qui le delizie

        Hanno trovato come resistere alla meraviglia
        dicendo che la lussuria del trapezio
        non paga

        È così lapalissiano che le passioni non pagano!

        Non è che lo scafandro si sia aperto
        ed il buio non atterrisca
        è che non dondolano al maestrale
        e in sostanza funzionano a meraviglia

        (Francesco Paolo Intini)

  8. Pubblico qui le quattro poesie, riscritte in distici, dell’ultima sezione del libro Uccelli, dove viene svolta la metafora della caduta e della risalita dell’«io», di un aviatore con il suo monoplano. Dopo queste composizioni la mia poesia sterzerà in modo deciso verso l’abbandono dell’io per la ricerca di una poesia astratta, nella quale l’io si è de-funzionalizzato, de-localizzato.

    Da Uccelli (1992), Sezione “La caduta dell’angelo ribelle”

    I
    Nel cielo nitido, al posto ci comando, in cabina,
    guardo la fusoliera in fiamme, l’incendio divampa

    non c’è dubbio, il ronzio del monoplano cessa,
    ora tossisce, scalpita, e nel fumo che già

    avvolge la cabina percepisco con chiarezza
    la drammaticità della situazione – mi turba

    la mia indifferenza, come se tra poco
    le fiamme non dovessero avvolgere me, ma un

    altro sconosciuto signore che mi somiglia,
    con cui, in rapporto telepatico, vedo

    lo stesso cielo nitido, le fiamme, la fusoliera.

    II

    Nell’attimo del tuffo chiusi gli occhi,
    il vortice d’aria mi risucchiò nell’imbuto.

    Guardavo il cielo azzurro, opprimente,
    seguendo il filo a piombo della gravitazione

    universale quando il paracadute variopinto
    si dispiegò e, sotto le braccia, lo strappo

    mi tenne alto, leggero come un pennuto uccello.
    L’orecchio di tigre del paracadute

    Librato nell’atmosfera, cenotafio del cielo.
    Sotto, il mare smeraldino in minuscole scaglie

    iridate, risplendeva.

    III

    Il tonfo plumbeo si schiuse ed entrai
    nella vetrosa cornea del mare cristallino

    Come se le palpebre si fossero scosse e serrate.
    Vidi le lastre dell’oceano scindersi e sprigionare

    Innumerevoli bollicine, il gas della mia vita,
    non fiamme o scintille; la vetrina del mare

    i pesci guizzanti spaventati dalla mia caduta
    di angelo ribelle, Giunto al punto finale

    l’imbuto si aprì e risalii, con mia sorpresa,
    gorgogliante, seguendo la traccia perpendicolare

    della discesa agli inferi, con pochi colpi,
    alla luce, all’aria che risplendeva al sole

    che sfolgorava. Il paracadute tigrato sulla
    superficie del mare sembrava una testuggine

    esotica, le corse ancora attorcigliate alla
    mia vita, la tuta da aviatore. Il plumbeo,

    vetroso, turbolento mare cristallino.

    IV

    In solerte inerzia indosso lo scafandro,
    la tuta gommosa, le pinne, controllo

    le bombole di ossigeno, il manometro,
    le apparecchiature per la discesa, la valvola

    di sicurezza, l’orologio. Una missione
    tra le tante. La materia equorea si apre,

    mi deglutisce in miliardi di bollicine.
    Da bambino ero ghiotto di gazosa

    Per via della gassosità del liquido,
    ora mi seduce tutto ciò che è compatto,

    inalterabile, insolubile. Il mare,
    cilindro ad ipocausto, lo raffiguro come

    una miriade di scaglie cristalline.
    L’immersione è una vertigine equorea, abluzione,

    oblio. Lo scafandro è una carrozza
    trainata dai cavalli del sonno. In ipnotica

    ipocinesi rimuovo bulloni dalla chiglia
    d’un grande cetaceo inabissato, mi apro

    la via nel ventre del mostro. Risalgo.
    Abbandono la dimensione equorea. Tra poco

    Sarò nella gassosità, nell’aria, nel fuoco.

  9. Abiti bucati.

    Dalle annotazioni di Giorgio Stella: frame di parole si posano sul retro del negozio; mentre si sta pagando; e chissà perché.

    Oggi non leggeremo email. Meglio discorrere, ciascuno nel proprio abito bucato. Quello lungo di Intini – a volte le terzine; mancanza di eucarestia;

    voler dire ma la libertà è negata. Tutto il fuori viene rigettato. Ma dentro, dove resta vuoto il tempo /vano di una chiesa. Tutta da pitturare. E un brillante

    fa l’occhiolino. Dentro rimbomba.

    Il nuovo discorso andrebbe apprezzato nella sua interezza. Nervose linee
    in Talia: come trapassare il tempo con RAGGIO X. Uomini e moltitudini

    in centri commerciali. Posso vederlo, Talia, mentre scrive, con davanti
    l’autostrada. Anche Nietzsche.

    Gli strappi al discorso non si possono contare. Vien fuori il ginocchio.
    Ma solo uno se ne parte in aereo; e da pilota. Non solo precipita,

    annega, risorge, si fa palombaro, ma sott’acqua incontra un bambino ghiotto di gazzosa. Giorgio Linguaglossa, nome di interno ed esterno.

    Di forma narrante, con sulle spalle dei volani.

    – May, lug 2019

  10. giorgio stella

    Kenneth sei agli arresti domiciliari leale o sleale troveranno il modo di farti varcare la soglia della porta e sei di nuovo dentro –

    – dal balcone ti diranno che se oggi salti la lezione di violino vanifichi vent’anni d’esercizi…

    …no è vero Kenneth la musica è come andare in bicicletta e poi hai lo strumento in casa per allenarti…

    sempre dal balcone, Kenneth, udirai il canto delle sirene degl’uccellini… non buttartici… gli allori donali alla gloria di pace, semmai…
    […]
    hai bisogno di birra fredda Kenneth… tanto ci metterai un attimo dall’indiano ma è lì che ti fregheranno… regala una mancia all’indiano e lui te la porterà [su casa con tanto di salatini alla paprika…

    i soldi non sono un problema Kenneth… chi ti insegue non ha patria e viceversa non si ruba a casa dei ladri… pensa allo sgobbo, al travaglio! che
    [Dio sia mai!….

    suonando all’ora del the uno dei gendarmi di Monopoly avvertirà un forte dolore all’addome e ti chiederà di soccorrerlo…
    […]

    varcata la soglia e sei fatto… ragiona: sono in due i gendarmi vengono sempre a coppia, perché chiederlo a te?

    ‘qui mi si fa giorno e qui mi si fa notte’ borbotti Kenneth… lo stesso dicevi da bambino nella colonia di Cesenatico, contavi le ore dagli aerei in volo e tutti [col cappellino dopo la conta e la colazione col the o col late e caffè scelta [impegativa perchè a casa non c’era né l’uno né l’altro verso la zona [balneare coloniale spiando dalle siepi i bambini liberi… vedi, il tuo destino [era segnato Kenneth non da quella prima colazione ma peggio ancora dal [sacchetto per il pranzo…
    […]
    ovvio il prete ti inviterà a sentire la messa alla t.v. Kenneth… non prendere in parola lui ma la parola di Dio… se digiunerai sarà quel sacchetto a [Cesenatico più di mille preghiere…
    […]

    kenneth, di quella rapina armata lì nessuno ricorda più niente… la gente attaccata al video la commentò con rabbia uguale come la politica o la

    finanza dicendo/bestemmiando… ma ‘sta pasta è sciapa passame er parmigiano’ a Roma, dialetto d’italia…. albergo-italia-Ceronetti…

    Kenneth nel conflitto a fuoco la guardia giurata morì… lasciava una giovane moglie in cinta… ugualmente tua madre non abortì, Kenneth… e perdonò gli [assassini….

    _____________________________________________________

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.