Samuel Beckett e Morton Feldman: Neither, Nè l’uno né l’altro, 1977, Soprano Sarah Leonard, a cura di Donatella Giancaspero, L’assenza di un soggetto grammaticale

A cura di Donatella Giancaspero

L’assenza di un soggetto grammaticale

Tutti sanno chi è Samuel Beckett (1906 – 1989), il drammaturgo e scrittore irlandese, autore del cosiddetto “teatro dell’assurdo”, noto al vasto pubblico per l’opera teatrale Waiting for Godot (Aspettando Godot, 1952). Però, è assai probabile che non tutti conoscano Morton Feldman (1926 – 1986), il compositore statunitense pioniere, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, di una estetica musicale che, muovendo da John Cage (suo fraterno amico), introduce molte interessanti innovazioni in merito al suono, al ritmo e alla loro rappresentazione grafica, fino all’acquisizione di una scrittura totalmente indeterminata.

Morton Feldman e Samuel Beckett si incontrarono per la prima volta nel settembre del 1976, allo Schiller Theater di Berlino, durante una prova di The Lost Ones. Feldman stesso racconta il loro particolarissimo incontro. Non fu certo una partenza troppo buona; ebbe perfino qualche risvolto buffo.

Il compositore americano, notoriamente molto miope, dotato di lenti piuttosto spesse, passando dalla luce piena del giorno all’oscurità del teatro, ebbe qualche difficoltà a orientarsi. Venne presentato a “un Beckett invisibile”, come lui racconta; nell’oscurità, stringendogli la mano, Feldman colse soltanto il suo pollice, perse l’equilibrio e inciampò nel sipario. Il ragazzo che lo accompagnava ridacchiò. Ci furono dei mormorii… Insomma, una situazione imbarazzante, a dir poco.

All’uscita dal teatro, Feldman invitò Beckett in un ristorante lì vicino; oltre che per fare un gesto di cortesia, voleva parlare del motivo della sua visita: proporgli di scrivere un testo, un libretto, per un lavoro su commissione ricevuto dal Teatro dell’Opera di Roma. Come ci riferisce il biografo di Beckett, James Knowlson, alla richiesta di Feldman, la risposta dello scrittore fu disarmante: «Signor Feldman, l’opera lirica non mi piace! E non mi piace che le mie parole vengano messe in musica». La replica del musicista fu, se possibile, altrettanto disarmante: «Sono perfettamente d’accordo con lei. Infatti, è raro che io utilizzi un testo. Ho scritto molti pezzi per voce, ma sono senza parole». A questo punto, Beckett lo guardò e gli pose una domanda alquanto ovvia: «Allora, cosa vuole?». Feldman non ne aveva idea. O forse l’aveva ben chiara, poiché, in realtà, lui cercava un testo in cui fosse concentrata “la quintessenza, qualcosa che si librasse appena nell’aria”, come ci informano le biografie.

Alla fine di settembre, Feldman ricevette a Buffalo una cartolina da Beckett: “Dear Morton Feldman. Verso the piece I promised. I was good meeting you. Best. Samuel Beckett”. Sul retro un breve testo scritto a mano, intitolato Neither: ottantasette parole, senza uso di maiuscole, la punteggiatura ridotta a due o tre virgole, gli a capo come se fosse una poesia; in realtà, si tratta di una “short prose”, come Beckett  preferiva definirla.

Il testo esprime la problematica dello stare al mondo; dello stare al mondo dell’uomo, in generale: dunque, dell’esserci. E ricordiamo che lo stare al mondo, in Beckett, consiste sempre in una condizione ambigua, oscillante tra l’essere e il non essere, tra l’essere percepito e il suo contrario.

In Neither, il senso di questa condizione è espressa dall’assenza di un soggetto grammaticale preciso, un “io”, un “tu”, e le azioni vengono indicate non mediante verbi di modo finito, ma indirettamente, avvalendosi, ad esempio, del participio e del gerundio. Parla una voce, impersonale, astratta: esprime l’andirivieni tra due ombre, quella interna e quella esterna, “dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé“; in ultimo, si arresta, disinteressata “all’uno e all’altro“, raggiungendo così qualcosa di indicibile: “l’inesprimibile meta“.

Samuel Beckett neither

 

Neither

 

to and fro in shadow from inner to outer shadow

from impenetrable self to impenetrable unself

by way of neither

as between two lit refuges whose doors once

neared gently close, once away turned from

gently part again

 

beckoned back and forth and turned away

 

heedless of the way, intent on the one gleam

or the other

 

unheard footfalls only sound

 

till at last halt for good, absent for good

from self and other

 

then no sound

 

then gently light unfading on that unheeded

neither

 

unspeakable home

*

Nè l’uno né l’altro 

su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna

dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé

di modo che né l’uno né l’altro

come due rifugi illuminati le cui porte
non appena raggiunte impercettibilmente si chiudano,
non appena volte le spalle impercettibilmente
di nuovo si schiudano

si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle

noncuranti della strada, compresi dell’uno o
dell’altro barlume

unico suono passi inascoltati

finché finalmente arrestarsi una volta per tutte,
disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro

allora nessun suono

allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro

l’inesprimibile meta

(traduzione di Gabriele Frasca)

Poiché nessuno dei due autori (e qui è proprio il caso di dire “neither”), né Beckett, né Feldman, come abbiamo visto, nutrivano simpatia per l’opera lirica, Neither resterà un caso unico nella produzione musicale del compositore newyorkese. Sebbene, poi, anche questa non possa definirsi “opera”, ma “anti-opera”, a tutti gli effetti: senza trama, senza cambiamenti di scena, senza altri personaggi oltre una cantante priva di nome.

Composta nel 1977, Neither è un atto unico della durata di 50 minuti, per Soprano e Orchestra da camera. La partitura si avvale di pochi e semplici segni grafici, per indicare ai musicisti i vari registri (acuto, medio o grave), ma non le altezze precise dei suoni, né le loro durate, al fine di configurare uno spazio sonoro capace di dilatarsi nel tempo. L’altezza della parte vocale è talmente acuta, che è quasi impossibile la comprensione delle parole. Come se la parola volesse negarsi al canto, il significato resta sfumato e viene assimilato nel suono puro; oppure, si frammenta in sillabe, in vocalizzi reiterati. Si crea un effetto di sospensione del tempo e dello spazio, che si cristallizza in un eterno presente animato da ombre e luci.

In analogia con il testo, la musica di Feldman non si prefigge alcuno sviluppo finalistico: ogni episodio si aggiunge all’altro scisso dall’altro, come se ogni volta tutto ricominciasse da capo. Non si arriva mai allo scioglimento della tensione sonora, non si punta a un esito finale. In questo senso, lo scopo degli interludi tra un episodio musicale e l’altro, lungi dal collegare, è proprio quello di “rompere la continuità di causa-effetto”, come l’autore stesso ci riferisce.

La prima di Neither andò in scena al Teatro dell’Opera di Roma il 12 giugno del 1977, diretta da Marcello Panni, cantata dal Soprano Martha Hanneman.

La stima e l’amicizia tra Feldman e Beckett, nata nell’oscurità di un teatro, con una maldestra stretta di mano e un inciampo, si era ormai consolidata. Dieci anni dopo, Feldman avrebbe di nuovo reso omaggio all’autore irlandese componendo la lunga suite orchestrale For Samuel Beckett e un partitura originale per Words and Music, che il drammaturgo aveva scritto nel 1961 come commedia per la radio.

donatella-giancaspero

Donatella Giancaspero

Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

20 commenti

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20 risposte a “Samuel Beckett e Morton Feldman: Neither, Nè l’uno né l’altro, 1977, Soprano Sarah Leonard, a cura di Donatella Giancaspero, L’assenza di un soggetto grammaticale

  1. «Quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza»
    (Th. W. Adorno)

    Ho voluto porre questo pensiero di Adorno come stigma e ammonimento della condizione ontologica dell’uomo tecnologico prigioniero della condizione esperienziale ed esistenziale che ha prodotto una frattura tra l’io esperiente e l’io esistenziale. La condizione drammatica della assenza del soggetto grammaticale ed esperienziale è sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di cognizione delle cose.

    Tutta l’arte e la poesia che fa riferimento alla esperienza di un soggetto grammaticale precipita perpendicolarmente nella insignificanza: perché non è più possibile per quel soggetto esperire alcunché che non sia irrisorio e derisorio e pleonastico.

    Il testo di Becket e la musica di Feldman offrono una testimonianza evidente di come la poesia e la musica moderna facciano a meno di un soggetto grammaticale, anzi lo abbiano barrato.

    È a questo punto di arrivo che si riallaccia la nuova ontologia estetica. Il vero spartiacque, il vero discrimine tra la poesia postruista ed epigonica di oggi e la poesia da noi propugnata è tutto qui.
    Non ho altro da aggiungere.

  2. Donatella Giancaspero

    Sorpresa per la pubblicazione di questo mio articolo, già apparso sul n. 5 della rivista Il Mangiaparole, mi auguro che possa interessare, soprattutto riguardo al suo significato e alle connessioni con la nuova poesia.
    In ogni caso, grazie al direttore G. Linguaglossa.

  3. Grazie Donatella per questo aneddoto che non conoscevo ma pur avendo ascoltato più volte la musica di Feldman. Testo di altissima spiritualità eppur così elegantemente sorretto da grande concreta maestria

    • Donatella Giancaspero

      Gentile Antonella, sono lieta che le sia piaciuto l’articolo. Sì, è un aneddoto curioso, dai risvolti anche divertenti, che testimonia, però, la sintonia profonda tra due personalità artistiche solo apparentemente distanti. Un’intesa, la loro, che già dalle prime battute si avvale di poche, essenziali parole.
      Grazie!!

  4. Vasco Rossi, Una vita spericolata, 1983

    Voglio una vita maleducata di quelle vite fatte fatte così
    voglio una vita che se ne frega
    che se ne frega di tutto sì
    voglio una vita che non è mai tardi
    di quelle che non dormo mai
    voglio una vita di quelle che non si sa mai

    e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al roxy bar
    o forse non c’incontreremo mai
    ognuno a rincorrere i suoi guai ognuno col suo viaggio
    ognuno diverso
    e ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi
    voglio una vita spericolata
    voglio una vita come quelle dei film
    voglio una vita esagerata
    voglio una vita come Steve McQueen
    voglio una vita che non è mai tardi di quelle che non dormi mai
    voglio una vita,
    la voglio piena di guai
    e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al roxy bar
    oppure non c’incontreremo mai
    ognuno a rincorrere i suoi guai ognuno col suo viaggio
    ognuno diverso e ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi

    voglio una vita maleducata di quelle vite fatte
    fatte così voglio una vita che se ne frega
    che se ne frega di tutto sì
    voglio una vita che non è mai tardi di quelle che non dormi mai
    voglio una vita vedrai che vita vedrai
    e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al roxy bar
    o forse non c’incontreremo mai
    ognuno a rincorrere i suoi guai…

  5. giorgio stella

    Molliche ai piccioni dai turisti.
    Sugo pronto una parte in frigo.

    […]

    La fila è poca ma un’anziana passa.
    Come nuove le scarpe riparate.

    […]

    Perde acqua dalle vecchie tubature.
    Nespole ammuffite malgrado l’economia domestica.

    […]

    Bandiere a mezz’asta – chiaro che sarebbe morto –
    – dell’opera i versi cosa ultima – […]

  6. Scusatemi l’inserimento della canzone di Vasco Rossi che, dinanzi alla altezza del pezzo di Morton Feldman, ovviamente, si pone su un altro piano e pianeta. Ma così è: la differenza che intercorre tra la musica di ricerca di Feldman e quella “leggera” di Vasco Rossi, proprio lì si cela uno dei misteri dell’uomo di oggi, il suo abitare due livelli di esperienza lontanissimi eppure legati da un filo conduttore: la musica alta e quella bassa.

    Analogo discorso si può fare anche per la poesia di alto livello e la differenza che intercorre con la parlata del quotidiano e la poesia chiacchiera che va di moda nel medio circuito culturale.

    Ecco il punto cruciale della argomentazione di Donatella Giancaspero:

    «Composta nel 1977, Neither è un atto unico della durata di 50 minuti, per Soprano e Orchestra da camera. La partitura si avvale di pochi e semplici segni grafici, per indicare ai musicisti i vari registri (acuto, medio o grave), ma non le altezze precise dei suoni, né le loro durate, al fine di configurare uno spazio sonoro capace di dilatarsi nel tempo. L’altezza della parte vocale è talmente acuta, che è quasi impossibile la comprensione delle parole. Come se la parola volesse negarsi al canto, il significato resta sfumato e viene assimilato nel suono puro; oppure, si frammenta in sillabe, in vocalizzi reiterati. Si crea un effetto di sospensione del tempo e dello spazio, che si cristallizza in un eterno presente animato da ombre e luci».

    Qui c’è un concetto centrale della «Nuova poesia» per chi ha orecchi e occhi per intendere e guardare. La poesia della Giancaspero si nutre di questa sensibilità per la «durata» e il «pondus» delle parole, come ha ben chiarito di recente il brillante commento di Rossana Levati. Ora, è qui il punto: il «peso interno» delle parole e delle frasi all’interno del metro e della singola strofa. La poesia della Giancaspero è costruita sulle «durate», sui «pondus», sulle deformazioni del tessuto spazio temporale introdotte dalla «gravità» delle parole. Per questi motivi io ho scritto che la poesia giancasperiana – da quella di Amelia Rosselli e Maria Rosaria Madonna (Stige, 1992, ripubblicata con Progetto Cultura nel 2018 per soli 12 euro) – è il più alto livello di poesia raggiunto da un poeta donna in Italia.

    Mi sono preso questa responsabilità di dichiararlo espressamente. Un critico o chi fa della critica si deve assumere le proprie responsabilità, altrimenti la sua opinione diventa chiacchiera. Nel suo retroterra culturale la Giancaspero ha un bagaglio di concetti nuovissimi per la poesia, concetti che lei si è portata dietro dai suoi studi di composizione musicale. La poetessa della Piramide impiega le parole come note musicali, punta tutto sulla durata e sulla estensione delle singole parole. È questa la semplicissima e straordinaria novità del suo modo di fare composizione con le parole, cioè di scrivere poesia.

  7. Donatella Giancaspero

    BECKETT E FELDMAN: “WORDS AND MUSIC”

    Il radiodramma “Parole e musica”, scritto da Samuel Beckett in inglese (Words and Music) nel 1961, fu trasmesso per la prima volta dal Terzo Programma della Bbc il 13 novembre 1962, con le musiche di John Beckett, cugino dell’autore. Ma, in seguito, su invito del produttore radiofonico Everett Frost, Morton Feldman elaborò una nuova partitura musicale per questo radiodramma: era il 1987, lo stesso anno della sua lunga suite orchestrale “For Samuel Beckett”.

    Sin dall’inizio l’intenzione di Beckett era stata quella di delegare a un compositore la scrittura della parte di un personaggio che non si esprime con le parole ma con i suoni, ossia Musica. Compito non facile, data la laconicità delle indicazioni del drammaturgo. Ma Feldman riesce mirabilmente nell’impresa. Il sound che egli associa a Musica è tenue, lento, rarefatto, com’è nel suo stile più riconoscibile.

    La trama del radiodramma appare, in sé per sé, molto semplice.
    Croak, un vecchio poeta che giunge da una fantomatica Torre, si reca periodicamente a trovare i suoi due servitori: Parole e Musica, chiamate anche, rispettivamente, Joe e Bob, come a voler distinguere due livelli rappresentativi: uno più intrapsichico e concettuale, l’altro più realistico. Non a caso, nella didascalia i personaggi vengono indicati con i nomi, appunto astratti, di Parole e Musica, mentre Croak si rivolge a loro usando i nomi propri di Joe e Bob. Insieme a costoro egli ha la possibilità di comporre poemi musicali sui temi più diversi, come ad esempio quello dell’amore. Ma Parole preferirebbe il tema dell’accidia (tema ricorrente nell’opera di Beckett) e, in generale, non segue mai i suggerimenti di Musica. Croak cerca di armonizzare il rapporto tra loro due: “siate amici”, li ammonisce. Ma poi arriva a infuriarsi e ad apostrofarli perfino “Cani!”. In ultimo, si ritira deluso nella propria solitudine. L’esito dell’incontro, non senza un caustico umorismo, è dunque fallimentare. Esso rispecchia in pieno l’essenza della poetica Beckett, che insiste sempre sull’impossibilità di ogni tipo di espressione e comunicazione umana, nella consapevolezza che queste debbano comunque essere perseguite.

    Sappiamo che, in generale, i lavori di Beckett non prevedono lo sviluppo di una trama. Propongono, semmai, rapporti che lo spettatore è chiamato a decifrare in piena libertà. E l’angoscia, lo smarrimento che in lui si produce corrisponde allo smarrimento stesso dell’autore. Perché Beckett non “mette in scena il nulla”, come superficialmente si è portati a credere, ma l’impossibilità di raccontare ciò che deve comunque essere raccontato.

    È curioso osservare come tre dei maggiori studiosi dell’opera di Beckett (Bair, Knowlson e Alvarez) diano interpretazioni alquanto diverse tra loro di “Parole e Musica”: la prima sostiene che gli argomenti del radiodramma sono “l’incapacità di padroneggiare il linguaggio e la ridondanza della prosa, anche in questo caso insoddisfacente e quindi abbandonata fino alla prossima occasione“. Il secondo vede nel testo “il marchio della lotta per riunire i due elementi” (Parole e Musica, appunto). Il terzo, infine, vi scorge “una brillante drammatizzazione, spiritosa e assolutamente originale, della fatica e delle frustrazioni della creazione“.
    Ma, al di là di ogni possibile interpretazione, è indiscussa l’assoluta originalità e genialità del lavoro di Beckett.

    *
    PAROLE E MUSICA
    Atto radiofonico
    di Samuel Beckett

    MUSICA Accordi sommessi di piccola orchestra.
    PAROLE Pietà! (Orchestra. Più forte) Pietà! (L’orchestra sì fa più debole, tace). Quanto tempo ancora a muffire qui nel buio? (Con disgusto) Con te! (Pausa). Tema… (Pausa). Tema… l’accidia. (Pausa. Tirata meccanica, a voce bassa) L’accidia è di tutte le passioni la passione più potente e per vero dire non c’è nessuna passione più potente della passione dell’accidia, essa è di tutte le tempeste che devastano l’essere la tempesta che lo devasta di più e per vero dire – (L’orchestra riprende più forte. Voce forte, implorante) Pietà! (L’orchestra si fa più debole, tace. Voce come sopra) La tempesta che lo devasta di più e per vero dire da nessuna tempesta è l’essere devastato tanto quanto da questa, per passione intendendosi un movimento dell’anima volto a perseguire ovvero fuggire piaceri, ovvero dolori reali o immaginar!, vuoi reali vuoi immaginari, di tutti questi movimenti e chi mai saprebbe
    contarli di tutti questi movimenti che sono legione l’accidia è quello che muove di più e per vero dire da nessun movimento è l’anima mossa tanto quanto da questo, da questa, da questo è l’anima mossa tanto in un senso quanto nell’altro da nessun movimento è l’anima mossa tanto quanto da questo è l’anima mossa tanto in un senso quanto – (Pausa). Nell’altro. (Pausa). Ascolta! (Lontano rumore di ciabatte
    trascinate. È Croak che sta arrivando) .Finalmente! (Ciabatte più forte. L’orchestra riprende). Silenzio!

    L’orchestra tace. Ciabatte più forte. Silenzio.

    CROAK Joe.
    PAROLE (umilmente) Milord.
    CROAK Bob.
    MUSICA Umile «Presente» in sordina.
    CROAK I miei conforti! Siate amici. (Pausa) Bob.
    MUSICA Come prima.
    CROAK Joe.
    PAROLE (umilmente) Milord.
    CROAK Siate amici. (Pausa) Sono in ritardo. Scusate. (Pausa) La faccia. (Pausa) Sulla scala. (Pausa) Scusate. (Pausa) Joe.
    PAROLE (umilmente) Milord.
    CROAK Bob.
    MUSICA Come prima.
    CROAK Scusate. (Pausa) Nella torre. (Pausa) La faccia. (Pausa) Candele. (Lunga pausa) Tema questa sera… (Pausa) Tema questa sera… l’amore… (Pausa) L’amore. (Pausa) La mia mazza. (Pausa) Joe.
    PAROLE (umilmente) Milord.
    CROAK L’amore. (Pausa. Colpo di mazza per terra) L’amore!
    PAROLE (con enfasi) L’amore è di tutte le passioni la passione più potente e per vero dire non c’è nessuna passione più potente della passione dell’amore. (Tossicchia) Essa è di tutti gli uragani che devastano l’essere l’uragano che lo devasta di più e per vero dire da nessun uragano è l’essere devastato tanto quanto da questo.

    Pausa

    CROAK Sospiro straziante. Colpo di mazza per terra.
    PAROLE Per passione intendendosi un movimento dell’anima volto a perseguire ovvero fuggire piaceri, ovvero dolori reali ovvero immaginari. (Tossicchia) Di tutti questi –
    CROAK (angosciato) Ah!
    PAROLE Di tutti questi movimenti e chi mai saprebbe contarli essi sono legione l’accidia è l’amore è quello che muove dì più e per vero dire da nessun movimento è l’anima mossa tanto quanto da questo tanto in un senso quanto – Violento colpo di mazza per terra.
    CROAK Bob!
    PAROLE Nell’altro.
    MUSICA Come prima.
    CROAK L’amore!
    MUSICA Colpo di bacchetta su un leggio. Musica «d’amore» esageratamente espressiva, abbastanza bassa per lasciar udire i gemiti e le proteste – «No! », «Pietà!»,ecc. – di Parole.

    Silenzio.

    CROAK (angosciato) Ah! (Colpo di mazza). Più forte.
    MUSICA Violento colpo di bacchetta e stessa musica fortissimo, senza espressione alcuna, che impedisce di udire le proteste di Parole.

    Silenzio.

    CROAK I miei conforti. (Pausa) Joe caro.
    PAROLE (con enfasi) O cuore sfinge enigmi senza parola –
    CROAK Gemiti.
    PAROLE Cioè in altri termini quest’amore che cos’è quest’amore che più forte dei sette e altri grandi motori dell’anima muove così l’anima e l’anima che cos’è quest’anima che più forte che dai suoi altri motori dall’amore è cosi mossa? (Prosaico) L’amore della donna, intende, se è così che l’intende Milord,
    CROAK Ahimè!
    PAROLE Enigmi. (Pausa. Molto retorica) È veramente la parola, amore? (Pausa. Come sopra) Anima, è veramente la parola? (Pausa. Come sopra) Dicendo amore intendiamo noi l’amore? (Pausa. Come sopra) L’anima dicendo anima? (Pausa. Come sopra) Sì?
    CROAK (angosciato) Ah! (Pausa) Bob caro.
    PAROLE O no ?
    CROAK (colpo di mazza) Bob !
    MUSICA Colpo dì bacchetta e «suite» musica «d’amore», con udibili proteste di Parole.
    […]

  8. Donatella Giancaspero

    Dimenticavo: buon lavoro e in bocca al lupo a tutti i Poeti della Noe!!
    Arrivederci…

  9. Lo spettacolo è «il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (Guy Debord, La società dello spettacolo.).

    Nella società dello spettacolo delle economie globali il linguaggio è diventato lo spettacolo di se medesimo, lo spettacolo allo specchio; lo spettatore (e il lettore ad esso ragguagliato) è completamente dominato dal linguaggio delle immagini teleindotte dal sistema mediatico, o, se si vuole, dalle immagini del linguaggio spettacolarizzato, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso perde ogni significato.

    Che cos’è il Vero? Risponde Debord: È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Tutto ciò che non è comunicabile è destituito di significato, e quindi è un nulla.

    Il linguaggio delle società dello spettacolo è costituito da un immenso deposito di immagini. È il linguaggio dello spettacolo che presta al linguaggio della poesia i propri stilemi e le proprie iconologie.

    Come ci insegna questo commento di Donatella Giancaspero al radiodramma di Beckett, un’arte e una poesia del nostro tempo che voglia essere all’altezza del proprio tempo deve assumersi l’onere di dichiarare l’abiura del linguaggio dello spettacolo, idest del linguaggio della comunicazione. Laddove c’è comunicazione c’è falsa coscienza, falso, falsificazione, c’è il vero indotto dalla comunicazione globale, c’è il vero ridotto al falso.

    Tutta quella paccottiglia letteraria che ci parla del vero mostrandocelo come vero, quelle angosce e quelle idiosincrasie mostrate come vere, sono false, sono falsa coscienza. Tutta quella paccottiglia letteraria neorealistica che ci parla del vero assume a proprio modello la telecommedia.

    Oggi financo l’ironia e il sarcasmo sono armi spuntate contro la paccottiglia letteraria che viene spacciata per letteratura dagli uffici stampa degli editori.

  10. giorgio stella

    Solo per appuntamento riceve lo studio.
    Cantiere all’aperto festeggia la pioggia.

    […]

    Cifra esagerata la mensa nella scuola dell’obbligo.
    Abbonamento saldato ma nessuna rivista.

    […]

    Si pubblicizzano gli alcolici come biscotti per latte.
    Salendo le scale l’infermiere ricorda ‘si tratta di un minore’.

    […]

    Negozio di confetti artigianali.
    Gli affluenti dei fiumi sono le carte geografiche del domani.

    […]

    Dal veterinario c’è sempre la bacheca degl’animali scomparsi.
    Nella Roma papalina la sifilide era il ‘mal-francese’.

    • Questi distici di Giorgio Stella mi sembrano particolarmente convincenti perché oscillano, invisibilmente, tra lo stile e la maniera, si situano in un punto mediano equidistante dai due poli costituiti dallo stile e dalla maniera. Così il procedimento della NOE agisce in quella terra di mezzo tra l’appropriazione e l’espropriazione del linguaggio, talché il linguaggio è qualcosa di noto ed ignoto al contempo, qualcosa di familiare e di estraneo, di indiscernibile… qualcosa di già conosciuto e di sconosciuto… in questo territorio di mezzo il linguaggio poetico agisce, diciamo così, da solo, non viene agito dal soggetto, anzi il soggetto viene de-istituito, de-coinciso, e-sautorato.

  11. Antonio Sagredo

    “unico suono passi inascoltati”

    Queste parole, su citate in Neither (Nè l’uno né l’altro ) esprimono di certo, ma non di certo in maniera assoluta, il principio di incomunicabilità di Beckett, tra l’altr0 mediato da J. Joyce che di comunicabilità è stato il campione assoluto del secolo trascorso. Si procede per rovesciamenti, là dove le certezze hanno una parvenza concreta che davvero “esistono” le esistenze e le sostanze: non esistono sembra affermare Beckett perché possono essere la scaturigine di una comunicazione.
    La vera e unica incomunicabilità è là dove la comunicazione è innumerevole e molteplice: questo contraddice tutta l’opera di Beckett.
    Queste parole sono in contraddizione coi significati che trasmettono: se sono “passi inascoltati” (da parte di chi?) possiedono la singolarità che sono passi, si, ma che non possono essere ascoltati da nessuno p’erchè emettono un suono unico vano. Vano?
    Non mi interessano i suoni che non possono essere ascoltati, afferma Beckett, fossero èprodotti da passi o da qualsiasi altra fonte di rumore (o di suono?).
    Non se ne esce allora se non musicalmente, poiché l’irlandese nega alle parole un qualsiasi musica (o musicalità intrinseca alla stesse parole che non può essere ascoltata).
    Il Morton Feldman dunque afferra per il collo le note delle parole di Beckett (che le vuole mute!), musicandole e facendole sopravvivere a se stesse; contrariamente alla parola che non sopporta la musica, la parola stessa è musicale!
    Ciò vuol significare che Feldman va oltre Beckett chiuso come è dalla sua stessa incomunicabilità, di cui ne fa una bandiera da diffondere, ma non diffonde nulla se non il suono stesso della sua incomunicabilità: questo è un fatto teatrale che il superbo Bene comprese già da giovanissimo (essendo Beckett uno dei pochi suoi scrittori che all’inizio della sua carriera artistica teneva in gran conto) e che mise in scena in “contraddizione” con gli spettacoli beckettiani ufficiali: contraddizione che era la frantumazione non solo linguistica, ma del comportamento umano: rivoltato e rovesciato: dai gesti sospesi al testo stesso beckettiano: un suo spettacolo terminò in assoluta mutezza e silenzio degli attori: stratagemma che i registi americani d’avanguardia imitarono; è ovvio che nessun suono fu emesso.
    ————————-
    L’intervento della Donatella Giancaspero è magistralis perché ci rende noto le fasi di questa evoluzione o semplicemente passaggi da un autore all’altro – ben più importante di Nè l’uno né l’altro : il testimone (la sua parola!) che Beckett dà malvolentieri (o a seguito di un rimorso interiore) a Feldman si muta e si trasmuta in suoni musicali che mai il Beckett avrebbe mai potuto immaginare: ed è proprio questa l’operazione della Giancaspero che a noi chiarisce e di cui le siamo grati. La stima per Lei in me resta immutabile.
    Ricordo la sua felicità quando le feci il nome del maggior musicista futurista russo il pietroburghese Arthur Vincent Lourié (1891-1966), che non conosceva.
    antonio sagredo

  12. Antonio Sagredo

    Scusatemi:
    ripeto il mio precedente intervento che conteneva refusi ed altro, e inoltre ho aggiunto qualche cosa altra.
    ———————————————————————————————–
    “unico suono passi inascoltati”

    Queste parole, su citate in Neither (Nè l’uno né l’altro ) esprimono di certo, ma non di certo in maniera assoluta, il principio di incomunicabilità di Beckett, tra l’altro mediato da J. Joyce che di comunicabilità è stato il campione assoluto del secolo trascorso. Si procede per rovesciamenti là dove le certezze hanno una parvenza concreta che davvero “esistono” le esistenze e le sostanze: non esistono, sembra affermare Beckett, perché possono essere la scaturigine di una comunicazione.
    La vera e unica incomunicabilità è là dove la comunicazione è innumerevole e molteplice: questo contraddice tutta l’opera di Beckett.
    Queste parole sono in contraddizione coi significati che trasmettono: se sono “passi inascoltati” (da parte di chi?) possiedono la singolarità che sono passi, si, ma che non possono essere ascoltati da nessuno perché emettono un suono unico vano. Vano?
    Non mi interessano i suoni che non possono essere ascoltati, afferma Beckett, fossero prodotti da passi o da qualsiasi altra fonte di rumore (o di suono?).
    Non se ne esce allora se non musicalmente, poiché l’irlandese nega alle parole una qualsiasi musica (o musicalità intrinseca alla stessa parola che non può essere ascoltata).
    Il Morton Feldman dunque afferra per il collo le note delle parole di Beckett (che le vuole mute!), musicandole e facendole sopravvivere a se stesse; contrariamente alla parola che non sopporta la musica, la parola stessa è musicale!
    Ciò vuol significare che Feldman va oltre Beckett chiuso come è dalla sua stessa incomunicabilità, di cui ne fa una bandiera da diffondere, ma non diffonde nulla se non il suono stesso della sua incomunicabilità: questo è un fatto teatrale che il superbo Bene comprese già da giovanissimo (essendo Beckett uno dei pochi suoi scrittori che all’ inizio della sua carriera artistica teneva in gran conto) e che mise in scena in “contraddizione” con gli spettacoli beckettiani ufficiali: contraddizione che era la frantumazione non solo linguistica, ma del comportamento umano: rivoltato e rovesciato: dai gesti sospesi al testo stesso beckettiano: un suo spettacolo terminò in assoluta mutezza e silenzio degli attori: stratagemma che i registi americani d’avanguardia imitarono; infatti ne fu influenzata addirittura la stessa Judith Malina (moglie di Julian Beck e insieme fondatori del Living Theartre) per sua stessa ammissione; è ovvio che nessun suono fu emesso.
    ————————-
    L’intervento della Donatella Giancaspero è magistralis perché ci rende note le fasi di questa evoluzione o semplicemente passaggi da un autore all’ altro – ben più importante di Nè l’uno né l’altro : il testimone (la sua parola!) che Beckett dà malvolentieri (o a seguito di un rimorso interiore) a Feldman si muta e si trasmuta in suoni musicali che mai il Beckett avrebbe mai potuto immaginare: ed è proprio questa l’operazione della Giancaspero che a noi chiarisce e di cui le siamo grati. La stima per Lei in me resta immutabile.
    Ricordo la sua felicità quando le feci il nome del maggior musicista futurista russo il pietroburghese Arthur Vincent Lourié (1891-1966), che non conosceva.
    antonio sagredo

  13. Poco da aggiungere agli ottimi interventi di Giorgio Linguaglossa, di Antonio Sagredo, di Giorgio Stella che precedono il mio; e che dire dopo la lectio magistralis della stessa Donatella Giancaspero se non che in questo lavoro ben curato e ben confezionato la Giancaspero ci restituisce l’immagine autentica di Samuel Beckett, così come essa emerge dal celebre ritratto che a Beckett, immortalandolo, fece Henri Cartier-Bresson…
    Nel celebre ritratto di Cartier-Bresson il geniale autore di Aspettando Godot è spostato sulla destra della inquadratura, quasi pronto a sgusciare via dalla immagine…
    Pelle segnata come fosse una carta geografica, occhi penetranti e inquieti che non guardano da nessuna parte, capelli ispidi.
    Un rapace pronto a spiccare il volo, pronto a piombare di certo su una preda, ma una preda che all’osservatore non è dato di sapere…
    La cura messa da Donatella Giancaspero nel suo lavoro originale ci restituisce pienamente il Beckett di questo ritratto cartier-bressoniano…
    (gino rago)

  14. Antonio Sagredo

    ,,, termino i miei interventi su Beckett con alcuni versi che gli dedicai nel 1991, e che non banalmente, ma profeticamente attinenti ai versi del
    Feldman sulla “contraddizione” che lega la comunicabilità al suo opposto.
    E che è il filo rosso che legherà tutti versi dedicati alle decine e decine di autori dei miei futuri “AUTORITRATTI”

    grazie, a.s,.
    —————————————————————————————
    a Beckett
    non l’avvoltoio

    nitrendo la sua sete per la terra
    del mio tallone sguscio di terra e cielo

    salendo verso gli altèri non dovranno
    che tardi raccogliere la loro morte e arrestarsi

    acclamati da un tessuto che può servire
    finché sete e cielo e terra non saranno che primizie

    antonio sagredo
    Roma, 6 maggio 1991

  15. Invito a leggere e a rileggere il lavoro di Donatella Giancaspero e i 3 distici di Antonio Sagredo dopo questo pensiero di

    Samuel Beckett, (dalla Trilogia),

    “Ascolto e mi sento dettare un mondo congelato in perdita d’equilibrio, sotto una luce debole e calma e niente di più, sufficiente per vedere, capite, e congelata anch’essa.
    E sento mormorare che tutto si flette e cede, come sotto dei pesi, ma qui non ci sono pesi, e anche il suolo, inadatto a reggere, e anche la luce, verso una fine che sembra non debba mai esserci.
    Perché che fine può esserci a queste solitudini in cui non ci fu mai vero chiarore, né verticalità, né solida base, ma sempre queste cose pencolanti, slittanti in un franare senza fine, sotto un cielo senza memoria di mattino né speranza di sera.
    Queste cose, quali cose, venute da dove, fatte di che? E sembra che qui nulla si muova, né mai si sia mosso, né mai si muoverà, salvo io, che non mi muovo neanch’io quando sono qui, bensì osservo e mi mostro.
    Sì, è un mondo finito, malgrado le apparenze, è la sua fine che lo ha suscitato, è finendo che è cominciato, è abbastanza chiaro?
    E anch’io sono finito, quando ci sono, gli occhi mi si chiudono, le mie sofferenze cessano e io finisco, piegato come non possono esserlo i viventi….”

    Mi pare che i due, Giancaspero e Sagredo, abbiano colto l’essenza dell’opera beckettiana.
    (gino rago)

  16. Nato, come è noto agli studiosi dell’opera beckettiana sdipanatasi compiutamente in 60 anni di ricerca ossessiva per la lingua e per l’uomo nel tempo, fino all’aut aut “crepare o crepare”, nel 1906 in un sobborgo di Dublino da famiglia agiata e protestante, geniale negli studi come hanno sempre sostenuto i suoi insegnanti ma di indole schiva e timidissima, Samuel Beckett come si evince dalla sua bio-bibliografia è marcatamente intellettuale in un contesto fortemente anti-intellettuale e borghese. Da questa Dublino della “buona società” e dal rapporto conflittuale, tormentato con la madre, Beckett è in fuga e farà di Parigi la sua “patria-matria” e del francese la sua “lingua”, sotto questo preciso e non trascurabile aspetto, Beckett viene annoverato fra gli autori del translinguismo. Ma si allontana subito dal concittadino Joyce cui fa da segretario…
    Perché, a differenza di Joyce, Beckett scrive per sottrazione e approda a ciò che possiamo dire desertificazione se non afasia: Beckett lavora senza rete sul vuoto, sui silenzi, sul negativo, possiamo dire sulla disintegrazione della parola ridotta a urlo, a suono-rumore, a balbettio.
    Salto l’episodio traumatico che segnò per sempre Samuel Beckett dell’accoltellamento da parte di un balordo la notte della Epifania del 1938…
    Dunque, poco da aggiungere agli ottimi interventi di Giorgio Linguaglossa, di Antonio Sagredo, di Giorgio Stella, di Antonella Zagaroli che precedono il mio.
    E che dire dopo la lectio magistralis della stessa Donatella Giancaspero se non che in questo lavoro ben curato e ben confezionato la Giancaspero ci restituisce l’immagine autentica di Samuel Beckett, così come essa emerge dal celebre ritratto che a Beckett, immortalandolo, fece Henri Cartier-Bresson…
    Nel celebre ritratto di Cartier-Bresson il geniale autore di Aspettando Godot è spostato sulla destra della inquadratura, quasi pronto a sgusciare via dalla immagine…
    Pelle segnata come fosse una carta geografica, occhi penetranti e inquieti che non guardano da nessuna parte, capelli ispidi.
    Un rapace pronto a spiccare il volo, pronto a piombare di certo su una preda, ma una preda che all’osservatore non è dato di sapere…
    La cura messa da Donatella Giancaspero nel suo lavoro originale ci restituisce pienamente il Beckett di questo ritratto cartier-bressoniano…

    Invito a leggere e a rileggere il lavoro di Donatella Giancaspero e i 3 distici di Antonio Sagredo dopo questo pensiero di

    Samuel Beckett, (dalla Trilogia),

    “Ascolto e mi sento dettare un mondo congelato in perdita d’equilibrio, sotto una luce debole e calma e niente di più, sufficiente per vedere, capite, e congelata anch’essa.
    E sento mormorare che tutto si flette e cede, come sotto dei pesi, ma qui non ci sono pesi, e anche il suolo, inadatto a reggere, e anche la luce, verso una fine che sembra non debba mai esserci.
    Perché che fine può esserci a queste solitudini in cui non ci fu mai vero chiarore, né verticalità, né solida base, ma sempre queste cose pencolanti, slittanti in un franare senza fine, sotto un cielo senza memoria di mattino né speranza di sera.
    Queste cose, quali cose, venute da dove, fatte di che? E sembra che qui nulla si muova, né mai si sia mosso, né mai si muoverà, salvo io, che non mi muovo neanch’io quando sono qui, bensì osservo e mi mostro.
    Sì, è un mondo finito, malgrado le apparenze, è la sua fine che lo ha suscitato, è finendo che è cominciato, è abbastanza chiaro?
    E anch’io sono finito, quando ci sono, gli occhi mi si chiudono, le mie sofferenze cessano e io finisco, piegato come non possono esserlo i viventi….”
    Mi pare che i due, Donatella Giancaspero, nel suo minisaggio e Antonio Sagredo, in pochi distici, abbiano colto l’essenza dell’opera beckettiana.

    Non mi inoltro invece nel sentiero dell’arte della musica che qui in virtù del minisaggio della Giancaspero conduce a Feldman

    (gino rago)

  17. Donatella Giancaspero

    Desidero vivamente che il mio nome non venga associato a quello di Antonio Sagredo e che costui non si rivolga mai più a me, né con parole buone, né con parole cattive, ma mi ignori del tutto.

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