La Nuova Poesia di Marina Petrillo, Giorgio Stella, Carlo Livia, Francesco Paolo Intini, La rappresentazione dell’irrealtà, Ogni figura è un precipitato di mondo, Ogni figura è l’evento del mondo nei segni di un corpo, Riflessioni di Iosif Brodskij, stralcio di Carlo Sini, Giorgio Linguaglossa

Gif Antonioni film

Antonioni, fotogramma di film La notte, 1961

Marina Petrillo

Esiste un’attitudine al Vuoto… Inebriato istante cancellato in spazio a-dimensionale, geometria sacra. Parrebbe avanzare ciò che indistintamente non lascia traccia. Ma, l’addensarsi plastica di un tempo consapevole, abita forse quel Vuoto. Ne è dinamica costante, come fosse non variabile l’umano approcciarsi al cammino evolutivo se non per quella esperienza unica, imprescindibile che è il vivere. Sottratti ad essa, vaghiamo in una interlinea assente, posta in ombra da incombente abisso. In un ‘nulla’ divagato a metamorfosi continua, incessante. Battito del cuore, metronomo in universo dilatato pur se indicibile. Per quale profilo avanzi il Tutto in assenza di sé, non è dato comprendere se non per brevi intuizioni. Sprazzi celesti in accordo all’ottava superiore. Scesi agli inferi, procediamo a tentoni, ciechi vati, Tiresia nell’ambiguità del sesso.

Appartiene al passaggio, l’Essere, in quel vuoto relativo poiché l’Assoluto richiede altra forma e il limite posto è contagio di infinito.

 *

Indefinita verso altra sponda radiosa
la caligine sovrana della fiera estate.

Attratta dal ferroso magnete a polo inverso
detiene prigionieri gli stantii ospiti

del cui vero monito non conosce tregua
l’ondulare vago delle ignote sere.

Stridio invoca il cicalare nel moto lento
di un richiamo colto a convesso lato.

In epifanico strascico, orienti stelle
tacciono a paradigma il buco nero imploso.

Esodo di lamine argentee in turbine improvviso
come fosse vacuo pianto la fatuità graffiata a sorte.

Giorgio Stella

privato del vaso non si perde nessun fiore.
le federe del letto sono state cambiate da poco e ricambiate.

[…]

oggi fa caldo domani farà freddo, il calendario vanta il marchio della
[farmacia.
è inoltrato un sollecito di pagamento già saldato.

chissà se il nuovo supermercato rispetterà i turni del precedente se nei
[nuovi reparti si riconosceranno i vecchi ambienti […], se lo sconto sul tonno
verrà praticato.
[…]

sotto casa un signore si chiede a quale indirizzo è rimandato … si risponde quasi scusandosi, che è tutta la vita che abita in quella zona,

ma davvero non sa come aiutarsi… forse dovrebbe chiedere al macellaio
ma si morde la lingua, non si ricorda neppure dove si trovi il macellaio.

Carlo Livia

From Nowhere to Nothing

Attraverso la notte sacramentale, nuda, trascinando l’anima del bambino morto. Un vecchio mi vede da lontano e grida. Vuole uccidermi, ma diventa di marmo.

Cado nel groviglio francese. E’ piacevole. Divento Auschwitz. Con le cosce dell’uragano Gloria, e un sesso vermiglio con precipizi in fiore. Ritorno nel parco giochi. Un cipresso cieco, furioso, mi sbarra la strada. Ha tutti i morti in mano.

La rugiada delle fanciulle è spesso viola. Segue le croci verso il buco nero, senza domande.

La veste vergine si affaccia dall’incesto, spargendo protoni mortali. Sul davanzale intermedio decompongono la vertigine in minuscoli istanti ciechi.

Dall’Amplesso centrale cade un si minore. Biondissimo. Inestricabile dai lunghi serpenti del profondo. Si staglia nel cielo lastricato di Dei. Sul viale ormonale appena risorto.

Nell’aria un uccello infelice. Cadendo diventa un peccato. O un flauto celeste, troppo sottile. Mi trafigge il cuore. Per fortuna mi addormento. In sogno attraverso le cascate.

Entro nel bacio indicibile. Umido di morte scampata.

Francesco Paolo Intini

“Boîte-en-valise” con neutroni

Cubi solcati dagli ascensori. Accessoriati
Non consoni a una sosta di riflessione.

Uno squarcio è sempre possibile, un addotto planetario,
toro all’equatore.

Ci passa la Forza, si arrotonda gli occhi.
“Boîte-en-Valise” con Neutroni.

Il viaggio verso Marte fu delirante
Doveva dormire per un altro secolo ma le Baccanti fermarono Roma.

L’aeroporto volò nel vasto panorama con i suoi programmi
un secolo negava l’ altro perchè suonava la cetra con la bocca.

Transitano orologi, il ritardo è punibile con la morte.
Nel cambio merci si gioisce per il netto di acquasantiere.

Se si è capito troppo vuol dire
Che bisogna accelerare la rotazione terrestre.

Il radiologo non scova Marx tra le sinapsi.
Asciutta anche la zona santa dell’ipotalamo.

Il dopo ammette solo cenere.
Pura estasi refrattaria alle domande.

Californio, Organesson alcune ragioni per trattare con Galassie.
Strategia a martello contro

un valzer intorno al buco nero.

Giorgio Linguaglossa

Il linguaggio di Livia si muove lungo una dorsale di tracce visuali, gestuali, grafiche e sonore di antiche metafore che sono state dimenticate e rimosse dalla coscienza dell’uomo civilizzato, conserva ancora qualcosa del linguaggio animistico e auratico che collegava le cose più disparate tra di loro in un fluido, in un mana. Più che un erede del surrealismo, Livia vuole fondare un nuovo linguaggio, e lo fonda davvero, un linguaggio che vuole essere una presenza vivente, attuale di ciò che è trascendentale; un linguaggio-aura, un linguaggio auratico del quale sarebbe ozioso ricercarne dei significati, la poesia liviana non insegue dei significati ma li crea attraverso simbiosi e collegamenti quasi telepatici, erede del trasferimento di voci che sono andate perdute lungo il processo di incivilimento dell’umanità; conserva qualcosa di ingenuo e di infantile, qualcosa di quella commistione e confusione di quell’alba della coscienza tipica dell’età della prima infanzia quando ancora il linguaggio degli adulti non ha attecchito alla coscienza linguistica, qualcosa di quei frammenti che sono andati dispersi lungo il processo di incivilimento dell’umanità occidentale. Carlo Livia ha trovato una propria singolarissima vocabologia che non assomiglia a nessun’altra della poesia europea del novecento. Trovo anzi che in queste ultime prove il suo tessuto metaforico e metamorfico si sia arricchito, prova evidente della bontà della ricerca portata avanti dal poeta romano in questi ultimi anni.

Scrive Carlo Sini

«Ogni figura è un precipitato di mondo. Ogni figura è l’evento del mondo nei segni di un corpo. Ogni figura è un corpo “segnato”.

Ogni figura reca traccia degli eventi che l’hanno preparata, segnata e disegnata. Transito di innumerevoli vicende e di molteplici supporti, il suo evocarli ne configura l’aura.

Figura è dunque ogni punto o tratto inciso su un supporto, che è qualsivoglia materia “segnata”. In questo senso figura è ogni cosa. Non solo, come si suole ritenere, un’immagine o un disegno, ma anche un semplice gesto, un grido, una parola, una frase pronunciata o scritta, un giudizio, una macchia di colore, un segno d’alfabeto, un pittogramma, un inciso musicale, un passo di danza, una fotografia, una moneta, un documento, un numero, un simbolo algebrico, insomma: qualsiasi resto o testimonianza del passaggio del mondo, che vi ha impresso nei segni la sua aura.

L’aura contorna e sorregge la figura, è il suo s-fondo e il suo s-profondo. L’aura è una soglia che ha in sé la provenienza e il destino della figura, i supporti che l’hanno accompagnata e che ancora la sorreggono. Il nulla incarnato della soglia ne nasconde i segreti».1

*

Dunque, la «figura» viene prima del linguaggio, e accompagna il linguaggio che la esprime. La «figura» regge l’aura, al massimo l’aura può evocare la «figura», come fondo tinta, o sfondo. La «figura» non può che inabissarsi nello sfondo, e scomparire, per ricomparire in altre «figure» che transitano nell’orizzonte del linguaggio. Il linguaggio è il quadro che contiene le «figure», con la cornice che delimita il transitare di queste ultime. La nuova poesia della nuova ontologia estetica, la si deve leggere come un concerto di «figure» che transitano e che sono state catturate dal linguaggio, dove il linguaggio è al servizio delle «figure», e non viceversa. Per questa ragione vengono prima le «figure», in un secondo momento, prima o poi, arriverà anche il linguaggio. La vera ricerca della poesia verte dunque prima sulla individuazione delle «figure», subito dopo verrà il linguaggio.

(Glossa di Giorgio Linguaglossa)

1 C. Sini, Il sapere dei segni, Jaca Book, 2012, p. 12

Giorgio Linguaglossa

La «rappresentazione dell’irrealtà» resta pur sempre l’opzione imprescindibile per l’arte di oggi.

La «nuova poesia» pone la questione della «rappresentazione dell’irrealtà» (dizione di Giorgio Agamben) su un piano altamente problematico. La problematizzazione dell’arte significa che essa si pone in modo non convenzionale, implica un intus-ire (un andare dentro) le cose ma non per possederle e penetrarle quanto per respirarne l’essenza.

Il concetto di «rappresentazione» cambia con il mutare del pubblico dell’arte. Il concetto di «pubblico» sorge soltanto con l’affermarsi e la stabilizzazione della società borghese strettamente connessa con l’industria e l’affermazione della stampa e del giornale. L’industria dell’informazione, del divertimento e dell’intrattenimento di massa sorge all’inizio del novecento con la riduzione del tempo libero dal lavoro a tempo per le attività insulse e cinetiche.

Nelle società a capitalismo globale dei giorni nostri il concetto di arte ripudia il pubblico ammaestrato dal tempo libero e dalla ricreazione, pena l’ammutolimento e la sterilità, pena la sua riduzione ad attività culturale dedicata all’intrattenimento e alla ricreazione.

Socrate: Dicono che [Theuth] per primo […] abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria […] e, infine, anche la scrittura. In quel tempo, re di tutto l’Egitto era Thamus […]. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò queste arti e gli disse che bisognava insegnarle a tutti gli Egizi. […] Quando si giunse alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è trovato il farmaco della memoria e della sapienza». E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, […] essendo padre della scrittura, per affetto tu hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. La scoperta della scrittura, infatti, avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi. [1]

1 Platone, Fedro

 Marina Petrillo

(Allo splendore creato da Carlo Livia: “Entro nel bacio indicibile. Umido di morte scampata”)

Non giace ad atomo e, a scroscio di luce, anima ogni spazio. Dilaga a fessura di in-finito e lì risiede l’Essere. Quieto e impassibile, Menhir orante la silente giaculatoria all’universo delle Creature senzienti. Sceso l’orizzonte sulla linea confinante il nulla radiante. Un vento inverso spira in orizzontale e piccole gocce transitano in mari di cielo cobalto. Ecco il Re del Mondo giunto all’apice del Vuoto.

Iosif brodskij 5

Iosif brodskij a Venezia anni settanta, Canal Grande

INTERVISTA a Iosif Brodskij

Brodskij: …Quante sciocchezze ho scritto! Se in Russia avessi avuto la possibilità di pubblicare tutto quello che mi passava per la testa sarebbe stato un completo disastro. Quindi, in qualche modo, devo essere grato per tutti gli ostacoli frapposti dalla censura in patria. Meno male che esisteva la censura!

Brodskij: Ho iniziato a scrivere poesie per una semplice ragione: ti dà un’accelerazione straordinaria. Quando si scrive una poesia, vengono in mente cose che in fondo non sarebbero dovute emergere. Ecco perché ci si deve impegnare nella letteratura. L’ideale sarebbe che lo facessero tutti. È una necessità della specie, biologica, il dovere di un individuo verso se stesso, verso il suo DNA… in ogni caso, bisognerebbe parlare non tanto del dovere del poeta verso la società, quanto del dovere della società verso il poeta o lo scrittore. Ovvero, la società dovrebbe semplicemente ascoltare il poeta e cercare di imitarlo; non proprio seguirlo, ma imitarlo. Ad esempio, non ripetere ciò che è stato già detto una volta… Nei bei tempi andati era proprio così: la letteratura forniva alla società delle norme, dei modelli linguistici, e la società di adottava. Ma oggi, non si sa come, scopriamo che la letteratura si deve sottomettere alle norme imposte dalla società

Brodskij: Posso paragonare l’influenza di Auden a quella di Achmatova; lei, infatti, e soprattutto i suoi principi etici mi avevano influenzato più o meno allo stesso modo; e non poteva essere altrimenti, dato che a quei tempi ero un ragazzetto completamente ignorante. Con Achmatova, anche se non avevi mai sentito parlare di cristianesimo potevi fartene un’idea. Era questa la sua influenza, prima di tutto umana. Capivi che non avevi a che fare con un homo sapiens, o perlomeno non solo con un sapiens, ma con un homo dei, no? le dovrei fare tre nomi: Anna Andreevna, Auden e Robert Lowell.

Di Auden nel 1937 ho letto tutto quello che si poteva trovare in giro. Ci si poteva procurare, ad esempio, l’antologia della nuova poesia inglese, pubblicata nel 1937… Per quello che ne so, tutti i traduttori di questa antologia sono stati fucilati o imprigionati. Ne sono sopravvissuti pochissimi… È stata appunto questa antologia la fonte principale dei miei giudizi su Auden. la qualità delle traduzioni era orrenda, naturalmente, ma allora l’inglese io non lo sapevo, e così mi limitavo appena a ricostruire e analizzare qualche frase. Pertanto, le mie impressioni su Auden non potevano che essere approssimative, come le traduzioni del resto; un po’ mi ci raccapezzavo, ma non del tutto. ma più andavo avanti e più imparavo. A partire dal 1964 circa, mi sono messo a leggere Auden con regolarità, quando riuscivo a trovarlo, decifrandolo riga per riga, e verso la fine degli anni Sessanta ho cominciato a capirci qualcosa. e finalmente ho capito – e come potevo non capire- non tanto la sua poetica quanto la sua metrica.

Cioè, la sua poetica è nella metrica, è in quello che in russo si chiama dol’nik, nel verso tonico, un verso disciplinato, molto ben organizzato, con all’interno la sua magnifica cesura da esametro. E quel tocco ironico. Non so neanche da dove venisse. Questo elemento ironico non è nemmeno un merito particolare di Auden, ma piuttosto della lingua inglese. E poi quella tecnica della reticenza tipicamente inglese. Insomma, Auden mi piaceva sempre di più. Alcune delle mie poesie le ho scritte sotto la sua influenza (nessuno potrà mai capirlo, grazie a Dio); Fine della Belle Époque, Canzone dell’innocenza e anche dell’esperienza, poi Lettera al generale (perlomeno fino a un certo punto), ed altre poesie. Tutte con lo stesso ritmo un po’ rilassato.

A quei tempi mi piacevano soprattutto due poeti: Auden e Louis MacNeice, e anche adesso mi sono estremamente cari; semplicemente, leggerli è una cosa interessantissima… Soprattutto amavo una poesia di Auden, la sua Lettera a Lord Byron, avevo lavorato duro per tradurla, ed era diventata il mio antidoto contro qualsiasi forma di demagogia. Quando ero al limite e stavo per crollare, leggevo questa poesia. Il lettore russo potrebbe apprezzare Auden perché, in apparenza, è tradizionale. Cioè, Auden utilizza la struttura formale della stanza con tutti i suoi annessi e connessi, ma è come se della strofa non se ne accorgesse nemmeno. Dopo di lui, credo che nessuno abbia scritto delle sestine così belle. Cyril Connoly, suo contemporaneo, critico e scrittore meraviglioso, una volta ha detto che Auden è stato l’ultimo poeta della generazione degli anni trenta le cui poesie si potevano ricordare a memoria. Auden è unico, e per me rappresenta uno dei fenomeni più significativi della poesia mondiale. Mi concedo una dichiarazione sconvolgente: ad eccezione di Cvetaeva, Auden mi è più caro di tutti gli altri poeti.

25 commenti

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25 risposte a “La Nuova Poesia di Marina Petrillo, Giorgio Stella, Carlo Livia, Francesco Paolo Intini, La rappresentazione dell’irrealtà, Ogni figura è un precipitato di mondo, Ogni figura è l’evento del mondo nei segni di un corpo, Riflessioni di Iosif Brodskij, stralcio di Carlo Sini, Giorgio Linguaglossa

  1. Giulia Rivelli

    oggi fa caldo domani farà freddo
    le federe del letto sono state cambiate da poco e ricambiate.
    chissà se il nuovo supermercato rispetterà i turni del precedente ,
    ecc
    sono davvero stupefatta: sono i migliori versi che mai speravo di poter leggere – grazie
    ——————————————–

  2. È necessario. La contumacia persiste.
    Soltanto un gusto caldo.

    La cucaracha in ghiaccio il brivido confonde.
    Le linee sottili infrante. Un boom infinito

    quello lo dice il verbo. Le parole rapprese, le carcasse delle auto sventrare ed i corpi

    ricomposti lo dicono la storia. A quest’ora,
    in questura ogni 19 di luglio la deriva riemerge.

    Le tre gobbe di un cammello, forse di un dromedario e non importa se un cavallo

    pazzo fuma e fuma e impazza. Al cilindro
    un solo squarcio si vede dentro.

    GRAZIE OMBRA.

  3. Il poeta è quell’ente che sta a metà tra il linguaggio e mondo. Linguaggio e mondo stanno uno di fronte all’altro ma sarebbero muti se non ci fosse l’esserci che assicura la dicibilità. L’esserci pronunzia il dicibile, e così fonda la lingua.
    La poesia oggi non può essere che fondazionale, magari fonda il nulla, come avviene nella nuova ontologia estetica, ma è inevitabile che fondi il nulla, perché appena parteggia per una parte diventa discorso positivo e così si scava la fossa. Per sopravvivere la nuova poesia deve sfidare il nulla a farsi dappresso, a farsi avanti. E questo penso sia chiaro leggendo le poesie sopra postate, tutte hanno cessato di cercare un terreno stabile come poteva essere la poesia neoverista di Pagliarani con La ragazza Carla (1960) o sperimentale con Laborintus(1956) di Sanguineti o impegnata come Le ceneri di Gramsci di Pasolini (1957) o Composita solvantur (1995) di Franco Fortini. Quella è stata una gloriosa tradizione fondata su un discorso positivo assertorio, adesso, mutate le condizioni del mondo, l’unica positività che spetta di mettere in atto in una poesia è la «positività» del nulla.
    La poesia italiana che è seguita all’ultima opera di Fortini non mi sembra che abbia mutato la direzione del percorso di un discorso positivo e positivizzante che oggi non ha più senso proseguire…
    Da questo punto di vista la nuova ontologia estetica prende le distanze da tutta la poesia della tradizione del novecento.

    Scrive Giorgio Agamben:

    «L’essere è una pura esigenza fra il linguaggio e il mondo. La cosa esige la propria dicibilità, e questa dicibilità è l’inteso della parola».1

    1 G. Agamben L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014, p. 220

  4. A proposito di questa problematica e attraente affermazione che Giorgio Linguaglossa pone all’esordio del suo commento precedente:

    “Il poeta è quell’ente che sta a metà tra il linguaggio e mondo. Linguaggio e mondo stanno uno di fronte all’altro ma sarebbero muti se non ci fosse l’esserci che assicura la dicibilità. L’esserci pronunzia il dicibile, e così fonda la lingua.”

    propongo un

    Botta e risposta fra Theodor W. Adorno e Yehuda Amichai

    «La critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie».

    [Questa celebre frase del filosofo Theodor W. Adorno, notoriamente di origini ebraiche, del 1949 scritta poco dopo il suo ritorno in Germania dal lungo esilio americano, è stata discussa, quasi sempre per confutarla, lungo l’intero corso della seconda metà del ‘900. ..

    L’affermazione adorniana,così radicale, evidentemente andava a toccare uno dei punti-chiave del dibattito sul rapporto intellettuali-società, rapporto nel quale gli intellettuali evidentemente hanno percepito il senso di una sconfitta epocale di fronte al nazismo, prima, e di fronte alla cultura di massa dopo….

    Ma è noto che nel corso degli anni successivi Theodor W. Adorno avrebbe chiarito meglio la sua posizione e i fraintendimenti a cui, secondo lo stesso Adorno, era stata sottoposta.

    Alla fine, ammettendo che si trattava di un errore, nel 1966 scriveva infatti:

    «Il dolore incessante ha altrettanto diritto di esprimersi quanto il torturato di urlare; perciò forse è sbagliato aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere poesie».]

    Una delle risposte fu questa di Yehuda Amichai:

    YEHUDA AMICHAI
    Dopo Auschwitz…

    “Dopo Auschwitz non c’è teologia:
    dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
    segno che i cardinali hanno eletto il papa.

    Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
    segno che gli dèi non hanno ancora deciso di eleggere
    il popolo eletto.

    Dopo Auschwitz non c’è teologia:
    le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
    sono i numeri telefonici di Dio
    da cui non c’è risposta
    e ora, a uno a uno, non sono più collegati.

    Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
    gli ebrei morti nella Shoah
    somigliano adesso al loro Dio
    che non ha immagine corporea né corpo.

    Essi non hanno immagine corporea né corpo.”

    Nota.
    Invito ad appuntare l’attenzione sul contrasto-scontro-urto non soltanto cromatico fra il “fumo bianco” dal camino del Vaticano e il “fumo nero” dai camini delle ‘fornaci’ di Auschwitz …

    (gino rago)

  5. imperia.tognacci@virgilio.it

    7

  6. Nota.
    Nei diciassette anni, 1949-1966, che intercorrono fra le due affermazioni di T.W. Adorno, separandole, è noto a tutti gli studiosi di storia della poesia del dopoguerra (a partire dunque dal 1945/1946) si inscrive il febbrile rapporto tra il filosofo e il poeta Paul Celan. Ma questo capitolo intenso è un’altra storia…
    (gino rago)

  7. giorgio stella

    Gentile, sempre, Gino Rago questo capitolo intenso l’ho in mano lo rileggo adesso… dell’Archinto, lettere 1960-1968 ‘Solo, con me stesso e le mie poesie’ Adorno, Celan… quante lacrime c’ho messo dentro è ancora appiccicato… nn scuso assolutamente adorno come heiddegger… i primi due nn si incontrarono mai per volere del primo il secondo mai sapremo che cosa si dissero nella sua baita… mi piace pensare che heiddegger abbassasse lo sguardo. un abbraccio .

  8. giorgio stella

    heiddegger con 2 d ammetto la mia ignoranza quasi ne sono fiero almeno nella stessa l’ho letto prima che m’ammazzano ‘le due d di heidegger’

  9. PASSO SU SGABELLO

    Servono ventose e becco di polpo. Capacità predatoria.
    Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde.

    La Luna schiaccia una clinica a notte.
    Kubrick in una civetta.

    C’è un retaggio platonico. La Scolastica intera.
    Una serpe aspetta il topo.

    Colline e lagune del mimetismo.
    Si odono lumache. Il petto lacrima dolcemente.

    Il venditore elenca i vantaggi della discesa.
    Si berrà Mc Carthy al Colosseo.

    Dopotutto il centro della galassia divora Dei.
    Aggancio di vipera su topo.

    Se non pensa, che pensa la Scienza?
    Il Tempo muore, l’Energia è zero Kelvin

    Stravrogin fa un passo da gigante.
    Matrëša su uno sgabello.

    La V tace e non c’è mai stata.

    (Francesco Paolo Intini)

  10. «Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde.» (Francesco Paolo Intini)

    Chiedersi che cosa significhi una verso siffatto è come quella bambina che nel museo di Picasso a Barcellona, di fronte a un quadro di una signora con un occhio sopra e uno sotto il mento e il naso al posto delle orecchie etc. di Picasso, si chiedeva: «mamma ma l’autore del quadro è diventato pazzo?».

    È esattamente così. Porsi davanti ad una poesia della nuova ontologia estetica ricercandone un senso e un significato già noto e consolidato, equivale a porsi davanti ad un quadro di Picasso ricercando in esso la sintassi pittorica di Tiziano o di Rembrandt o di Vermeer. Nei versi di Francesco Paolo Intini, o in quelli di Marina Petrillo e degli altri poeti nuovi non c’è nulla che possa rimandare alla poesia di un Pasolini, di un Fortini e neanche di un Sanguineti, è cambiato il «modo», oltre che il mondo, cioè il linguaggio, e questo nuovo linguaggio richiede nuove categorie di pensiero, richiede un nuovo «modus».

    Recentemente, un autore mi ha scritto in una email che io elogio ed esalto poeti mediocri mentre denigro e devaluto poeti veri. Dal suo punto di vista è comprensibile, capisco la sua obiezione. Ma il mio sforzo di ricerca ermeneutica è proprio quello di cercare nuove categorie di interpretazione di un fenomeno nuovo qual è la nuova poesia italiana, la poesia della nobile tradizione che arriva fino a Composita solvantur (1995) di Fortini non mi interessa più di tanto, il mio interesse si concentra sulla nuova poesia. Penso che ciò sia legittimo. Quella è ormai la tradizione del novecento e il miglior modo per rivitalizzarla e farla rivivere è fare della archeologia, recuperare e riposizionare all’interno della nuova poesia quella tradizione, non avrebbe senso continuare a versificare come hanno versificato i poeti della tradizione recente e meno recente.

    Quanto alla questione della «ontologia» qualcuno mi ha rivolto la critica secondo cui noi continuiamo a pensare l’ontologia come discorso sulla «sostanza». Ebbene, mi permetto di ribaltare questa critica nel suo contrario: sono proprio i conservatori a pensare e a scrivere secondo il concetto di una ontologia come «sostanza», io infatti ho parlato a più riprese di «ontologia meta stabile», proprio per segnalare che l’ontologia di cui trattiamo non è quella «sostanza» stabile che costituisce il mondo, quanto una «esigenza», un modus

    Scrive Giorgio Agamben:

    «Nella formula che esprime il tema dell’ontologia: on he on, ens qua ens “l’essere come essere” il pensiero si è soffermato sul primo ens (l’esistenza, che qualcosa sia) e sul secondo (l’essenza, che cos’è qualcosa) e ha lasciato impensato il termine medio, il qua, il “come”. Il luogo proprio del modo è in questo “come”. L’essere, che è qui in questione, non è né il quod est né il quid est, né un “che è” né un “che cosa”, ma un come. Questo come originario è la fonte delle modificazioni (“come” deriva etimologicamente da quo-modo) Restituire l’essere al suo come significa restituirlo alla sua com-moditas, cioè alla sua giusta misura, al suo ritmo e al suo agio (commodus, che in latino è tanto un aggettivo che un nome proprio, ha precisamente questi significati, e commoditas membrorum designa l’armonica proporzione delle membra). Uno dei significati fondamentali di “modo”, è infatti, quello, musicale, di ritmo, giusta modulazione (modificare significa, in latino, modulare armonicamente: è in questo senso che abbiamo detto che il “come” dell’essere è la fonte delle modificazioni).

    Benveniste ha mostrato che “ritmo” (rytmos) è un termine tecnico della filosofia presocratica che designa la forma non nella sua fissità (per questa, il greco usa di preferenza il termine schema), ma nell’attimo in cui è assunta da ciò che si muove, è mobile e fluido.»1

    1 G, Agamben L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014 pp. 223,4

    • Marina Petrillo

      Esiste un paradigma della mente che apre il suo vanto ai “mediocri”. Così straluna il tempo, assottigliato nel suo vestito migliore.
      Non affonda l’ egoico sarcasmo nell’inchiostro, l’anchilosare dei perduti giorni. Chi scrisse il non scritto in nuovo Logos… a quale ultima Poesia appartenere se il giudizio “priva del vaso senza perdere alcun fiore” .

      “Nell’aria un uccello infelice. Cadendo diventa un piccolo peccato. O un flauto celeste, troppo sottile”. Non ascoltabile da tutti.
      Scrive Paul Celan:
      “La poesia, in virtù della sua essenza, e non della sua tematica, è una scuola di umanità vera.
      Insegna a comprendere l’altro in quanto tale e cioè la sua diversità;
      invita alla fratellanza e contemporaneamente al profondo rispetto dell’altro,
      anche là dove questi si manifesta come deforme e con il naso adunco…”

      Ringrazio Giorgio , il sensibile Gino Rago per la sua citazione, la complessità e meraviglia resa da ogni poeta.

      Marina Petrillo


    • Scrive Giorgio Agamben:

      «È curioso come in Guy Debord una lucida coscienza dell’insufficienza della vita privata si accompagnasse alla più o meno consapevole convinzione che vi fosse, nella propria esistenza o in quella dei suoi amici, qualcosa di unico e di esemplare, che esigeva di essere ricordato e comjunicato. Già in Critique de la sèparation, egli evoca così a un certo punto come intrasmissibile “cette clandestinité della vie privée sur laquelle on ne possède jamais que des documents dèrisoires” (p. 49); e, tuttavia, nei suoi primi film e ancora in Panégyrique, non cessano di sfilare uno dopo l’altro i volti degli amici, di Asger Jorn, di Maurice Wyckaert, di Ivan Chtcheglov e il suo stesso volto, accanto a quello delle donne che ha amato. E non solo, ma in Panégyrique compaiono anche le case in cui ha abitato, il 28 della via delle Caldaie a Firenze, la casa di campagna a Champot, lo square des Missions étrangères a Parigi… Vi è qui come una contraddizione centrale, di cui i situazionisti non sono riusciti a venire a capo e, insieme, qualcosa di prezioso che esige di essere ripreso e sviluppato – forse l’oscura, incoffessata coscienza che l’elemento genuinamente politico consista proprio in questa incomunicabile, quasi ridicola clandestinità della vita privata. Poiché certo essa – la clandestina, la nostra forma-di-vita – è così intima e vicina, che, se proviamo ad afferrarla, ci lascia fra le mani soltanto l’impenetrabile, tediosa quotidianità. E, tuttavia, forse proprio quest’omonimia, promiscua, ombrosa presenza custodisce il segreto della politica, l’altra faccia dell’arcanum imperii, su cui naufragano ogni biografia e ogni rivoluzione. E Guy, che era così abile e accorto quando doveva analizzare e descrivere le forme alienate dell’esistenza nella società spettacolare, è così candido e inerme quando prova a comunicare la forma della sua vita, a fissare in viso e a sfiatare il clandestino con cui ha condiviso fino all’ultimo il viaggio».1

      È noto che la poesia italiana ed europea in quegli stessi anni, subiva l’invasione della vita privata e del quotidiano nella forma-poesia. In Italia questa moda prende inizio con il libro di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1975) e, successivamente, con il libro di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae (1980).

      In questi ultimi anni è diventato sempre più palese che quelle tematiche private e privatistiche si sono esaurite. È un dato storico sotto i nostri occhi. Rimane presso i continuatori di quella impostazione privatistica della poesia un intendimento situazionista e privatistico, sono rimaste per un po’ in vigore le tematiche moraleggianti sub specie di riformismo orfico, e un descrittivismo psicologico di matrice neo-verista… ma, insomma, tutto sommato, una linea minoritaria di un tipo di poesia già minoritaria ai suoi albori.

      In questi ultimi anni, dicevo, è diventata sempre più palese una forte reazione a quella visione privatistica del privato e a quel minimalismo ingenuo. La nuova ontologia estetica è la più drastica e convinta reazione a un indirizzo e a un versante della recente poesia italiana che ha ormai esaurito (semmai ce l’ha avuto) l’iniziale effetto propulsivo. Quell’indirizzo di poesia privatistica è andata a sbattere sul muro dell’«impenetrabile tediosità del quotidiano» (per usare la dizione di Agamben), oltre di esso non era possibile andare. Quel tipo di autobiografismo introspettivo e auto ironico è finito nella rigatteria delle istituzioni stilistiche, questo mi sembra lampante per chi abbia occhi e orecchie per intendere e per osservare. Quell’autobiografismo è finito nella «nuda vita», nella vita vegetative delle nuove post-masse che si nutrono di ipoverità. Quell’autobiografismo (nella poesia come nel romanzo nel cinema e nelle arti figurative) è finito nella ipoverità e nella insignificanza, nell’apologetica del tempo che fu e nell’apologia del corpo. Di tutta quella paccottiglia culturale oggi è rimasto un grande mercato di narrazioni agiografiche e ipoveritative.

      1 G. Agamben, op. cit. pp. 11,12

  11. giorgio stella

    – lassù, all’aperto, tira un vento che accartoccia le ossa,
    fino a stenderle in un tappeto d’ebano sotto questa galassia negra –

    […]

    – e più lontano, dalle spiagge inumidite da schiuma vegetale,
    l’eco fa ritornare il suono al principio attivo del suo stato:

    […]

    l’urlo […] di chi è messo in questa misera misericordia – di tanta morta [natura
    non arriva nessuno perchè chi viene non è niente […] –
    __________________________________________________________
    [AUTOPOESIA]

  12. Alfonso Cataldi

    La diagnosi corretta

    Un fiocco di neve nel giorno di coraggio obbligato.
    La sentenza attraversò la sciarpa sul collo.

    «In famiglia nessuno resta indietro»
    Una madre scrive i nomi su tre flaconi di Lisomucil.

    È sempre umano avvicinarsi al brivido del gioco
    tirare a indovinare su due piedi

    – basterebbe smascherare quello valgo
    definire modi e scarpe necessarie –

    La diagnosi corretta è un lusso estatico
    che non riguarda i piani bassi.

    Nel traffico di gambe, e opinioni, sulle rampe strette
    Lucy prova a corteggiare un barelliere

    cerca il link a una variante meno rigorosa
    meno traumatica per l’immaginazione.

    «Prego, prima lo scontrino in cassa.»
    un gatto s’affretta innervosito dalla pioggia

    l’aroma del caffè tostato
    si congeda come un buon soldato.

    Un can can di sguardi
    si avviano entrambi sullo stesso dizionario.

  13. Per un poeta porsi la questione del Logos (quale lessico, quale stile, quale retorica) è, penso, la questione cruciale e fondamentale, altrimenti si rischia seriamente di scrivere baggianate.
    E allora, in quale modo pensare il Logos?
    Risponde il filosofo Michel Meyer:

    «La questione del logos è posta come domanda fondamentale del pensiero. Fondamentale, perché non poggia su nessuna risposta preliminare e, per questo, su nessuna domanda più prima ancora. E fondamentale altresì, perché essa si vuole fonte della risposta prima. Fondamentale, dunque filosofica, cioè esente da presupposti e da asserzioni esterne che non discendano dall’interrogazione sul logos…

    […]

    Come interrogare il logos senza dover presupporre proprio ciò che occorre mettere nella risposta? Quale domanda è necessario precisamente rivolgere al linguaggio? Come formulare questa domanda senza già orientare la ricerca su di una strada particolare e arbitraria, che ci condannerebbe a errare. Il linguaggio ci sfuggirebbe a causa della particolarizzazione alla quale saremmo abbandonati. Come sapere esattamente la domanda particolare da porre, senza cadere nel tranello dell’anticipazione di una risposta? […] Così, perché la questione del logos sia considerata come tale, occorre non soltanto non presupporre niente oltre ad essa, ma, in più, non è legittimo formularla come se chiedesse questo o quello, questo piuttosto che quello.

    […]

    Affermando tutto ciò che abbiamo appena detto sulla questione del logos, sul fatto che essa sola deve e può concludere la ricerca iniziale, noi non siamo più a livello della domanda iniziale. Facciamo agire una discorsività che non è la domanda ma parla di essa. Parlare così della questione del linguaggio è qualcosa che si aggiunge alla semplice posizione della domanda. Così facendo, abbiamo preso atto, nell’atto linguistico che consisteva nel porre e nell’elaborare la questione, del fatto che c’è un’esigenza da rispettare, nella fattispecie quella delle domande e delle risposte. Dalla questione del logos scaturisce una risposta: il logos è fatto di domande e di risposte, e questo è essenziale al logos, ed è anche un’esigenza dal momento che le domande sono considerate in quanto tali. f»1

    1 M. Meyer, Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 1991 pp. 267 e segg.

  14. giorgio stella

    E’ un H/24 quindi sempre aperto, i dipendenti percepiscono una
    [maggiorazione notturna.
    Il balcone pulito a fondo, la terra nei vasi travasata, la tanica dell’aria [condizionata svuotata.

    […]

    Cercare un liutaio nel caso uno strumento a corde sia da aggiustare. .
    Lasciare la mancia a chi porta la pizza a casa non concessione ma dovere [morale.

    […]

    L’appuntamento col dentista era ieri.
    Troppa varechina sulle scale ma l’amministratore la evade nel trimestre.

    […]

    C’è una bottega che vende solo fiori finti;
    col sorriso il commesso indica il primo fioraio.

  15. Come ci parli addosso.
    Le ci mette quelle alte. Fatte di nuvole.

    Sovrano il cielo ha il suo occhio sgombro.
    Un punto piccolissimo mi riporta a Dalí.

    Le finestre. Le mensole. Le gambe all’aria.
    In questa riga esistono. Cartoline dal nulla.

    E ascolto all’ombra le loro voci. Questi uragani
    ciechi. Mi manca il gallo, un dono.

    Il circo poi. Un bersaglio acuto. Il mare aperto.
    E questa pagina poi che detta bene.

    GRAZIE OMBRA.

  16. Grazie a Giorgio Stella per il suo consenso sul botta-risposta Adorno-Amichai-Celan da me ricordato nel mio precedente commento.

    Per il rapporto febbrile e fecondo Adorno-Celan (fra il 1949 e il 1970) è sufficiente per ora ricordare un pensiero di Celan rivolto a T. W. Adorno.

    Scrive Paul Celan:

    “La poesia, in virtù della sua essenza, e non della sua tematica, è una scuola di umanità vera.
    Insegna a comprendere l’altro in quanto tale e cioè la sua diversità;

    invita alla fratellanza e contemporaneamente al profondo rispetto dell’altro,

    anche là dove questi si manifesta come deforme e con il naso adunco…”

    (gino rago)

  17. giorgio stella

    Grazie a lei gentile rago per l’amicizia che mi riserva… vorrei aggiungere sull’argomento quanto si legge in quarta di copertina di un vecchio libro che ho scritto da Paola Gnani per i tipi della Giuntina intitolato SCRIVERE POESIE DOPO AUSCHWITZ [Paul Celan e Theodor. Adorno… un abbraccio giorgio stella … […] … Per tutta la vita, Paul Celan si confrontò con la “sentenza” di Theodor W. Adorno sull’impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz, lottando fino allo stremo delle forze per affermare il riconoscimento della propria opera, con cui intendeva restituire voce a chi voce non aveva più. Sulla scorta di un approfondito lavoro di documentazione, l’autrice ricostruisce le varie fasi del rapporto Celan e Adorno a partire dall’immediato dopogurra fino alla fine quasi incrociata dei loro destini. In una prospettiva d’indagine che intreccia la vicenda umana con quella intellettuale, vengono analizzati i momenti d’avvicinamento e i distacchi, le illusioni e delusioni inscritte nel complesso rapporto. Il testo presenta, da un lato, le risposte di Celan sul versante poetico e poetologico alla tesi del filosofo e, dall’altra, il processo di trasformazione della tesi stessa. Il rapporto con Celan costituì, infatti, un fattore determinante per l’evoluzione del pensiero di Adorno sull’arte dopo il genocidio.

    Piero Stefani

  18. Una e-mail di A. C. (lungo le onde hertziane della eternità)

    Gentile Signor G.
    Ricordo la Sua domanda

    fatta a nome di Zbigniew Herbert:
    «Dove passerà l’eternità?»

    Avevo in me la risposta nel magma,
    ma ero ancora di terra sulla terra.

    Ora possiedo la risposta:
    passo già l’eternità con Tiresia,

    cieco lui, non vedente io.
    Mi creda Signor G.

    Tiresia e io qui non siamo mai soli.
    Seneca, Omero e Sofocle

    Appena dopo il mio arrivo erano con noi.
    Subito dopo Dante, Virginia Woolf e Borges.

    Da poco sono andati vita
    T.S. Eliot, Apollinaire, Primo Levi e Pound.

    Per domani hanno annunciato la presenza
    Woody Allen, i Genesis e Pasolini.

    Ma senza vista, compiutamente donna
    E compiutamente uomo

    Tiresia non è interessato ai loro films…
    […]

  19. giorgio stella

    IL LIUTAIO DI Auschwitz

    Dopo Auschwitz nessuno abita più
    e non è casa
    quella che fu la casa del liutaio
    ma la gola cariata della mente
    e la memoria agisce gelida di notte,
    illumina a giorno il sonno del liutaio,
    la cenere del liuto ancora calda,
    e nella veglia il cuore del liutaio,
    e nella veglia illuminata a giorno
    la cenere di un cuore,
    nessuno dopo Auschwitz abita più
    e non è casa la casa di nessuno.

    Indugia nella cenere del liuto,
    ingugia tra grano e grano
    carezzando la morte
    che ha una mano su di te,
    indossa lo scialle che coprì tua madre
    nell’ucraina neve,
    tu puoi nel canto
    scaraventare la contesa
    che ferisce il mondo,
    tu che conosci
    la vuota forma delle cose.

    Lo sa l’uomo che cade di notte
    in un orrido improvviso
    e gli appare calma la nuca livida
    di un angelo
    mentre sua madre lo descrive ai morti
    chi va se avanza
    scaraventando l’occhio nel letame
    va con la gioia del fiore
    promesso all’autunno
    lo sa ricurvo
    nell’indizio che percuote l’aria,
    che attraversa in volo la sua stanza
    l’uomo che un delitto ha disegnato
    sul palmo della mano,
    che si prepara per l’estrema cena.
    __________________________________________
    [Roberto Carifi da LA NUDA VOCE, Scritti su Auschwitz, EdizionidellaMeridiana 2002]

  20. Alla «bella» (nell’accezione tradizionale del giudizio di gusto) poesia di Carifi, presento qui una poesia sul medesimo tema alla maniera della nuova ontologia estetica. Come si vede, le differenze di struttura della forma-poesia tra le due composizioni, sono abissali.

    La felicità è scritta su un’elica doppia e sulle foglie degli alberi

    Dürer ha finito l’incisione: “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”.
    Il cavaliere galoppa verso il limite del quadro.

    Il diavolo gli sussurra qualcosa di sconveniente all’orecchio.
    La morte, invece, sub specie di un caprone cornuto,

    in un angolo, aspetta il suo turno. Il cavaliere galoppa verso il futuro,
    manifesta disprezzo e alterigia. Ha il volto corrucciato.

    Il cavaliere non sa che tutto comunica con il tutto.
    Che c’è un prisma, un Aleph da qualche parte.

    Che la felicità è scritta su un’elica doppia e sulle foglie degli alberi
    e viaggia sulle ali di una farfalla.

    […]

    Intanto, si alzano in volo gli aeroplani carichi di bombe.
    Enceladon tira fuori dalla borsetta lo specchietto,

    si ripassa il rossetto sulle labbra, il fard sul bellissimo volto ovale.
    Il Signor Cogito si affaccia al finestrino del treno blindato.

    Tiene un discorso sulla bellezza di Enceladon.
    Distesa di abeti su un cielo lurido.

    Il Re delle blatte esce da una botola del pavimento del treno.
    «Le parole, le sue parole, sono immondizia, Cogito».

    «Le parole non servono per comunicare.
    Mi limito a rispondere alle Sue domande», ammette Cogito.

    «Ogni Sua parola può essere rivolta contro di lei»,
    replica il Signor K.

    […]

    Gli eserciti sono in marcia. L’armata bianca,
    l’armata verde e l’armata nera.

    Il cavaliere galoppa verso il futuro.
    Ha il volto corrucciato.

    Città raggiale. Una folla irreale, o forse troppo reale.
    Mister Bom e Mister Bim si scambiano il testimone.

    Una bambina salta nel cerchio dell’hula hoop.
    Una bomba esplode.

    La folla si precipita fuori dalle stazioni della Metro.
    L’allarme delle sirene.

    […]

    Il Signore in frac rientra nella botola.

    Ha ormai smesso di cercare il musicista
    che è morto disperato nella sua tana a Montmartre.

    Salieri odia Mozart, lo ha avvelenato. Prende l’aereo per Vienna.
    Si è innamorato di una hostess dell’Alitalia, ogni mese

    le versa un bonifico mentre Vivaldi
    ha abbandonato a Venezia la sua sgualdrina.

    Non scrive più musica per i soprani maschi.
    Non scrive musica affatto per la Primavera o l’Inverno.

    Adesso fa il maggiordomo a Milano
    presso i duchi Aldobrandi, tiene i conti in ordine,

    le entrate e le uscite, la partita doppia, i fondi neri
    e i fondi bianchi, la flat tax e la tax no-area. Ed è felice così.

    Il violinista dorme. Sogna che apre gli occhi, si sveglia
    e suona ancora il violino. Marlene nel décolleté di raso

    accoglie nel salotto color fucsia gli ufficiali della Wehrmacht.
    «Le temps s’en va, le temps s’en va Madame».

    «Oui, mon cher, la fraude, le luxe et la vanité
    doivent exister pour être heureux».

    Il pittore, di spalle, contro la luce che proviene dalla finestra aperta,
    dipinge ancora il profilo di Simonetta Vespucci.

  21. giorgio stella

    Ha ragione Linguaglossa poi in questo caso specifico sarebbe addirittura retrospettivo. Mi scuso con Lui e con gli amici della NOE per una mia ‘paternità’ non richiesta dall’autore in questa sede. ecco il mio contributo un abbraccio giorgio stella
    _________________________________________________

    Fiori peccato mortale.
    Razzi in chiesa,

    […]

    una costumista.
    Vetrate cascano rimontate,

    […]

    nel mattatoio
    solo sangue al mercato nero.

    […]

    Dalla parte di Swann aria!
    Dalla parte di Swann

    […]

    tarocchi chicchi per piccioni,
    dalla parte di Swann esorcismi.
    ________________________________

    [Roma 22 luglio 2019]

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