
Luciano Bianciardi, Milano, anni Sessanta
Riportiamo qui alcuni stralci della monografia di Sandro Montalto su Luciano Bianciardi, uno degli intellettuali e scrittori italiani più originali degli anni Cinquanta e Sessanta, in quanto utilissima per ricostruire e comprendere non soltanto il valore in sé dalle opere bianciardiane ma il rapporto intellettuali-società dell’Italia provinciale e bigotta di quegli anni, retrospezione indispensabile per poter comprendere il cattivismo normografico della nuova destra conformista e razzista dell’Italia di oggi.
Ecco l’incipit di un capitolo significativo della monografia:
Nel 1952 Luciano Bianciardi era alle soglie dei trent’anni, e agli inizi di una ampia e onnivora collaborazione ai giornali che lo avrebbe occupato fino agli estremi giorni della sua troppo breve vita. Si sarebbe detto un pacifico letterato di provincia: l’anno precedente, dopo la partecipazione alla guerra e la laurea in filosofia, e dopo essere stato per breve tempo insegnante di inglese alle medie e di storia e filosofia al Liceo classico, era stato nominato direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto, semidistrutta dalle piene del fiume Ombrone e dai bombardamenti. In precedenza, come volontario e poi come dipendente, aveva già lavorato sodo per salvare dal fango e dai detriti migliaia di volumi 1:
No, hanno ragione quelli che dicono che io sono rozzo, che non mi so muovere. È vero, io non so nemmeno camminare, e una volta mi arrestarono per strada, soltanto perché non so camminare. E poi mi licenziarono, per lo stesso motivo. Così come licenziarono Carlo, mio nobile amico e vero signore, soltanto perché, dicevano gli altri, gli attivisti, non sapeva parlare, era lento di pronuncia e rallentava il ritmo di tutta la produzione. Io non cammino, non marcio: strascico i piedi, io, mi fermo per strada, addirittura torno indietro, guardo di qua e guardo di là, anche quando non c’è da traversare. Sorpreso in atteggiamento sospetto, diceva appunto al telefono quel maresciallo del buon costume, dopo che mi ebbe fermato, caricato sul furgone nero e portato in questura. “Come atteggiamento sospetto?” chiesi io un po’ risentito. “Allora lei vuoi fare il furbo, nè?” disse. “Lei camminava lentamente, e si è fermato due volte. Dove andava?”. “A passeggio”. “Ah sì, a passeggio? Lei va a passeggio senza cravatta? Da solo? E non tira dritto per la sua strada? Va così lentamente? E si ferma?” Mi tennero chiuso a chiave una nottata intera, e intanto presero informazioni, ma non risultò nulla e mi rimandarono a casa con tante scuse. “Ma anche lei, benedetto ragazzo” concluse il maresciallo del buon costume, paterno adesso. “Anche lei, girare così”1.
Commenta Sandro Montalto:
Bianciardi subito (avendo la sensazione di parlare nel deserto) si rende conto che lo sviluppo dell’industria culturale nell’Italia degli anni Sessanta avrebbe presto preso una deriva drammatica: la simbiosi (confusione, spesso) tra lavoro e comunicazione. Il modello lavorativo di Bianciardi era la fabbrica, i badilanti, o i minatori. Un modello che nasconde una qualche forma di nostalgia e che può essere forse il limite che impedì a Bianciardi di «giocare fino in fondo la carta del cambiamento»24. Per fare un esempio, cercava probabilmente segni a suo avviso palesi di cambiamento nella società senza talvolta rendersi conto che il cambiamento della società portava ad una evoluzione dei segni stessi, così mentre si preparava la stagione delle lotte operaie lui scriveva in una lettera che aveva notato «l’assenza, palese, degli operai. Gli operai non ci sono almeno in quella Milano che è compresa nel raggio del movimento mio e dei miei colleghi, non entrano mai nel nostro rapporto di lavoro»; e gli intellettuali ci sono solo «come singoli, ma mai come gruppo», mentre «l’intellettuale diventa un pezzo dell’apparato burocratico commerciale, diventa un ragioniere» in quella Milano che «non produce nulla, ma vende e baratta».

Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio
Scrive Gian Carlo Ferretti:
Si può dire fin d’ora che in articoli, lettere e racconti-saggio Bianciardi non vede o non vuol vedere la vivacità e creatività della vita intellettuale, letteraria, teatrale, cinematografica degli anni Cinquanta (e poi Sessanta) a Milano e in Italia, perché continua più o meno consapevolmente a vivere in una dimensione provinciale arroccata, perché restando fedele alla sua natura irregolare disprezza le corporazioni e le figure intellettuali istituzionali, perché si sente più a suo agio nel mondo eterogeneo dei giornalisti, fotoreporter, pittori, cabarettisti, fuori da schieramenti e clan. E si può dire altresì per contro che Bianciardi, attraverso le sue personali vicende esistenziali e professionali, arriva a vedere, e con grande acutezza, i segnali dei guasti, prevaricazioni, mistificazioni, stravolgimenti, appena emergenti dal nascente boom economico, e li vede in anticipo sulla stessa Vita agra, che del boom nel suo pieno sviluppo condurrà un disvelamento ancor più esaustivo […]. Bianciardi a livello pubblico resta sempre al di qua di una vera opposizione, ribellione e protesta. Non è casuale che il tono polemico-divertito degli articoli 1955-56 sull’“Unità”, sia fondamentalmente analogo a quello degli articoli 1952-53 sulla “Gazzetta”: che cioè i bersagli metropolitani siano trattati come i bersagli provinciali. Mentre la stessa collaborazione all’“Avanti!” del 1959-60, resta nell’ambito dell’analisi ironico-critica. […] la vera rabbia, denuncia, accusa, erompe dalle lettere e conversazioni private, o dalle opere in volume che sono in certo senso al riparo dal più diretto impatto dell’attualità, della contingenza, e perciò anche dalla compromissione, con tutte le relative conseguenze.
Ed ecco le vicende legate alla traduzione e pubblicazione di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno di Henry Miller. In una importante testimonianza sollecitata da Irene Gambacorti, Valerio Riva, allora direttore della collana in cui apparve l’opera milleriana, scrive:
Era una traduzione difficile, anche per problemi di censura, perché bisognava evitare infatti di essere accusati di aver calcato la mano su frasi od espressioni che potessero essere considerate offensive della morale corrente, o, come si diceva allora, del comune senso del pudore. Ma noi non volevamo fare una edizione corretta, volevamo invece che fosse il più possibile scrupolosamente integra ed assolutamente, assolutamente aderente al testo originario. […] Nella traduzione invece Bianciardi era stato molto libero, così la traduzione fu mandata, d’accordo con lo stesso Bianciardi, a Mario Praz, il maggior anglista dell’epoca, per la revisione. Ad ogni blocco di pagine, Praz mandava le sue osservazioni in fogli dattiloscritti fittissimi e disseminati di grande cultura: purtroppo molti di quei fogli sono andati perduti, e pochi rimangono nell’archivio Feltrinelli. Io e Veraldi trasportavamo sul manoscritto di Bianciardi le correzioni di Praz e qualche volta risolvevamo i dubbi, perché Praz a volte indicava due possibili traduzioni, e a noi toccava decidere, il lavoro ci prese, se non ricordo male, quasi tre mesi. Ogni tanto Bianciardi passava in redazione e guardava il nostro lavoro un po’ infastidito, ma consenziente: del resto questo era stato l’accordo fin dall’inizio. Al momento di pubblicare il libro io preparai tre grossi folder per circa mille pagine di documenti, articoli, giudizi critici ecc. per gli avvocati Tesone e Broc che consigliavano Feltrinelli in merito ai pericoli della pubblicazione del libro: materiale che ho poi pubblicato a parte in un volume dei Narratori Feltrinelli intitolato Prefazione ai Tropici, che uscì nel ‘61. […] Nonostante le prove a favore del libro, gli avvocati sconsigliarono Feltrinelli di pubblicare il libro in Italia, e Feltrinelli, che era un uomo coraggioso, decise per la pubblicazione, ma con l’accorgimento di fingere una pubblicazione all’estero. Era lo stesso trucco usato durante il Risorgimento dai patrioti italiani e durante il fascismo dagli antifascisti.
I Tropici in realtà furono stampati a Varese, con un marchio prestatoci da un gentile editore svizzero, mezzo clandestino pure lui. Le copie erano immagazzinate in Italia, in un capannone, non ricordo più bene se a Monza o a Sesto. La distribuzione avveniva attraverso una serie di accortezze e con qualche prudenza, ma non più di tanto: i librai lo vendevano sotto banco e l’edizione fu esaurita quasi subito. Insomma, la nostra non era proprio una vera edizione clandestina, era un po’ uno show: proprio per dare l’impressione di una edizione alla macchia, la copertina fu disegnala da Steiner in modo diverso dalle solite copertine dei Narratori. Poi il tribunale ci dette ragione e per l’occasione facemmo venire anche Miller dall’America, e fu finalmente possibile ripubblicare i Tropici nei Narratori di Feltrinelli nel 1967.
Nel 1962 esce con buon successo La vita agra, che racconta di un traduttore che lascia la provincia per andare a vivere a Milano, e cova l’intenzione di far saltare in aria il “torracchione”, ossia il palazzo della Montecatini (e non, come diversi scritti riportano, il Pirellone), in una sorta di contrappasso delle esplosioni di grisù che causarono la morte di 43 minatori della Montecatini a Ribolla, una tragedia che lo scrittore si troverà a documentare, seguendone anche i tristi sviluppi, e che lo segnerà per sempre. A Ribolla, Bianciardi era arrivato con il bibliobus. L’azienda stava smobilitando la miniera, tre pozzi su cinque non erano più in funzione; nell’aprile 1953 durante uno degli scioperi contro i licenziamenti quarantacinque operai che si erano barricati per protesta furono portati via, ammanettati, dai carabinieri. Bianciardi correva qua e là, intervistava, annotava. Pochi mesi dopo, l’esplosione55. Nel 1956 presso Laterza uscirà, a firma di Bianciardi e Cassola, il libro-inchiesta I minatori della Maremma, un vigoroso quanto documentato atto d’accusa. Sei persone, direttori e capiservizio della Montecatini, furono arrestate e indagate, ma nel novembre 1959 la Cassazione li prosciolse: tutto era in regola, si trattò di pura fatalità. È da segnalare come nel 1960 Bianciardi avesse tradotto Ragazzo del Borstal dell’irlandese Brendan Behan (1923-1960) la cui trama ricorda molto da vicino quella di La vita agra (ma come è ovvio la cosa più importante del romanzo bianciardiano non è la trama, volutamente esile, bensì il linguaggio usato e la critica sociale). Montanelli dedica al romanzo una pagina entusiasta sul «Corriere della Sera» che fa impennare le vendite; poco dopo il noto giornalista propone a Bianciardi di collaborare a quello che era pur sempre il più diffuso quotidiano d’Italia, ma lui rifiuta: aveva capito che, inevitabilmente, la grande macchina cerca ciò che funziona e tenta di inglobarlo, metabolizzarlo. Ma c’è anche un’altra motivazione: aveva capito che scrivere sul «Corriere» sarebbe significato non essere mai veramente libero, mentre accettare, come fece, di collaborare a una testata più giovane come «Il Giorno» gli avrebbe garantito un contesto più aperto e libero, senza contare che su quelle pagine scrivevano anche nomi come Giorgio Bocca, Gianni Brera, Ottiero Ottieri, Umberto Eco, Alberto Arbasino e il suo amico Cassola. Rifiutare, quindi, era necessario. La motivazione si può capire anche ripensando a certe riflessioni fatte ai tempi in cui girava l’Italia per promuovere La vita agra: quel libro è «la storia di una incazzatura in prima persona singolare» e anche i lettori avrebbero dovuto incazzarsi, invece è un «tripudio di applausi»56. Forse il suo lavoro non è servito a nulla. Scrive in una lettera:
Ormai poi sto girando come un rappresentante di commercio, ho battuto i marciapiedi dell’Emilia e adesso mi preparo a fare la medesima cosa nel Veneto. Viene con me Domenico Porzio e a volte sembriamo due comici da avanspettacolo: sempre le stesse battute, e sempre la faccia di chi le dice per la prima volta. […] L’aggettivo agro sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Il mondo va così. Cioè male. Ma io non ci posso fare nulla. Quel che potevo l’ho fatto, e non è servito a niente. Anziché mandarmi via da Milano a calci in culo, come meritavo, mi invitano a casa loro e magari vorrebbero… Ma io non mi concedo.
Il romanzo sembrò portargli sfortuna anche sul fronte famigliare. Maria Jatosti ricorda che la lettura del romanzo la fece stare malissimo: «Lessi il dattiloscritto subito prima che andasse in stampa e stetti malissimo. […] So che è un modo sbagliato di leggere un libro, che è romanzo, invenzione… Ma quelle pagine raccontavano la nostra vita, la nostra battaglia, in un modo che mi offendeva profondamente. Leggendo, provai una stretta al cuore e tanta rabbia. Il libro era fatto di tante storie vere, ma tutte filtrate dalla sua visione malata. Era una storia di angoscia senza scampo, senza vie d’uscita. Non c’era solidarietà per nessuno, era una tremenda farneticazione sulla solitudine. La donna del protagonista non fa che dormire, leggere, passeggiare, mentre lui è solo contro tutti. Lei si svaga e lui soffre. Lei non capisce e lui combatte. Lei si addormenta e lui veglia sui mali della vita. Ma soprattutto lei si riposa, gioca, si annoia e lui lavora, lavora, lavora. Da solo. Ma come? E io dov’ero? Le mie angosce, la mia fatica, dov’erano? […] Quando finii di leggere il libro mi misi a piangere, mi sentivo crollare tutto il passato, cominciai a pensare che lo avrei lasciato […] Luciano non capì. Reagì al solito modo, cominciando a sfottermi e a dire a tutti quanti: “Maria s’è incazzata perché non le è piaciuta La vita agra. […] Litigammo, decisi davvero di lasciarlo, presi Marcellino e partii per Roma». Seguì un travagliato ritorno, ma «anche se non ci siamo lasciati, qualcosa tra me e Luciano, dopo La vita agra, era finito per sempre».

milano, il naviglio pavese in secca e palazzi residenziali del quartiere barona alla periferia sud — milan, dry naviglio pavese channel and residence buildings of barona district at south periphery
Bianciardi si dedica, a partire dagli anni Sessanta, alla critica televisiva diventando uno dei pionieri di questo genere così particolare1 (basti pensare alle critiche televisive di Achille Campanile il quale ha in comune con Bianciardi una certa insistenza sullo “specifico televisivo”, soprattutto sul valore della diretta). A partire dal 1962, per nove anni, scriverà molte critiche per sei diverse testate (è da ricordare Mike: elogio della mediocrità, del 1959, che anticipa in molti punti il celebre articolo di Umberto Eco Fenomenologia di Mike Bongiorno), e non perderà l’occasione per alimentare l’ossessione per certi personaggi come Bistoni, il compagno “anarchico” che cedette alle lusinghe di “Lascia o raddoppia” dove vinse rispondendo a domande sulla storia dei Longobardi. Elogia la televisione pedagogica, in primis le trasmissioni del maestro Manzi, critica i tentativi fallimentari3 e rilancia certi imprevisti fenomeni come l’esordio di un dirompente e cattivissimo Paolo Villaggio, o Dario Fo che difende dopo la sua cacciata da “Canzonissima” per aver parlato di “mafia” e di “padroni”.
Sandro Montalto nella sua ricostruzione biografica passa in rassegna i processi per oscenità e diffamazione subiti da Bianciardi nella Italia degli anni Cinquanta e Sessanta sessuofobica e conformista:
Bianciardi non era del tutto nuovo alle grane giudiziarie e alle aule di tribunale. Un processo fu intentato da un artigiano che si sentì offeso dalla parodia che nella Vita agra si compie della sua parlata settentrionale (processo perso: l’editore è costretto a ritirare le copie in commercio e stampare un’altra edizione priva del breve episodio).
Un altro [processo] gli fu intentato dall’amico Tacconi, citato col suo vero nome nel romanzo La vita agra; Bianciardi scrive in una lettera: «Oggi sono giù di morale. Tacconi Otello […] mi ha querelato per diffamazione: cioè per avere scritto che la Montecatini lo licenziò in seguito a un suo comizio di accusa contro i metodi della società. Io mi chiedo che mondo è questo. Ora ti lascio perché sono dagli avvocati. Sarebbe meglio piantarla di scrivere»2. È una lettera del 5 maggio 1963 all’amico Terrosi. Il processo sarà più tragico del previsto perché Otello Tacconi, avviata la causa, muore di crepacuore, ma la vedova non molla l’osso e la causa va avanti. Ma perché Tacconi se l’è presa tanto? Perché nel romanzo l’amico Bianciardi gli ha messo in bocca qualche parolina esplosiva: Tacconi chiede al protagonista, trasferito a Milano dalla Maremma, notizie del famoso “torracchione da far saltare” per vendicare i quarantatré morti della miniera di Ribolla di proprietà della Montecatini. Era il chiodo fisso di Bianciardi, come detto rimasto scosso dall’incidente minerario. Qualcuno sostiene che lui è la quarantaquattresima vittima dell’esplosione, e cioè che il malessere che l’ha portato a bere fino a distruggersi e morire di cirrosi era dovuto al trauma di quell’esperienza vissuta quasi in prima persona. In questo processo Bianciardi viene assolto, ma non dimenticherà facilmente l’umiliazione provata quando il giudice gli chiese se veramente voleva far saltare in aria la sede della Montecatini.
Bianciardi appare sempre combattivo, ma in realtà è sempre più deluso. Si sente anche irrimediabilmente lontano dalla sinistra così come viene praticata: «Essere “di sinistra” non significa ormai nulla. Tutti sono di sinistra, dai cattolici ai socialdemocratici, ai socialisti, ai comunisti e a quelli che si dicono con infelice neologismo “extra parlamentari” (come a significare che si son prenotati un posto in parlamento per l’indomani). Io sono anarchico, nel senso che auspico una società basata sul consenso e non sull’autorità»1. Si trova ormai alla fine di quel percorso che è iniziato con Il lavoro culturale, salutato al suo apparire come una nuova ed efficace espressione letteraria di quella “ribellione alla condotta burocratica” del partito comunista (sono parole usate in una recensione da Vittorio Gorresio) espressa anche in testi come La grande bonaccia delle Antille di Calvino (1957)2. Ha ormai capito fino in fondo che gli si chiede di esercitare “la professione dell’incazzato”, e che non è più un momentaneo gioco di società al quale subito dopo l’arrivo del successo ci si poteva anche adattare un poco: ha ormai anche timore di manifestare le sue incazzature autentiche perché potrebbero sembrare ad alcuni una posa, o l’obbedienza a una legge di mercato. Senza contare che da tempo ha smesso di credere che l’intellettuale libero (anarchico nel senso della citazione poco fa riportata) possa avere spazio e voce nella società a lui contemporanea, e scrive su questo argomento (oltre a vari contributi sparsi) la serie Come si diventa un intellettuale, pubblicata sul settimanale «ABC»4 che portò avanti numerose campagne anche coraggiose: contro il canone RAI e gli abusi della società telefonica, a favore del divorzio e della pillola anticoncezionale, eccetera), nella quale consiglia ai giovani una certa vaghezza in fatto di politica, certi modi di parlare e gesticolare, un certo compiacimento nell’enunciazione di banalità e pseudo-verità condivise. Si tratta ancora una volta di uno scritto divertente e tragico per quanto è aderente alla realtà, a tutt’oggi da leggere con profitto. E anche in questi anni non perde l’occasione, come ha fatto in quasi tutta la sua produzione, di rivolgere il coltello contro di sé, quindi consiglia di non perdere mai i contatti anche con la provincia, e ricorda: «Di che cos’altro si parla mai in provincia? Di sesso e di sport, naturalmente!». Vale a dire i due temi che più lo hanno appassionato durante la gran parte della sua ampia, spesso forsennata attività giornalistica. Continua a leggere