Prefazione a materia redenta di Marina Petrillo, Progetto Cultura, Roma, 2019, pp. 100 € 12 di Giorgio Linguaglossa
Nel saggio giovanile Tradizione e talento individuale del 1917 Eliot mette a fuoco il problema con pragmatica chiarezza: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige, anzitutto, che si abbia un buon senso storico». Nella sua opera successiva il poeta inglese annuncia l’esaurimento della modernità.
Una delle caratteristiche principali della post-modernità è la critica alla modernità e il suo oltrepassamento all’indietro: all’idea del «nuovo» e di innovazione ininterrotta della letteratura, subentra l’idea del ri-ciclo e del ri-uso, della citazione, della de-costruzione. Questo è chiaro in molti autori post-moderni oggi inquadrati come neoclassici. Il mondo salvato dai ragazzini (1968) di Elsa Morante è un’opera tipicamente post-moderna, con il libero impiego di vari generi narrativi che si sovrappongono e si elidono nell’ambito di un discorso poetico ormai vulnerato; Trasumanar e organizzar (1971) di Pasolini segna l’ingresso di un discorso poetico sostanzialmente non dissimile dal discorso giornalistico e narrativo; La Beltà (1968) di Zanzotto è un superlavoro di microcitazioni e di variazioni… siamo arrivati alla summa del Moderno che si autocita e si fagocita. Altre foto per Album (1996) di Giorgia Stecher è una riscrittura del passato attraverso la lente di ingrandimento di alcune fotografie dimenticate nei cassetti di vari comò; il passato viene ripescato e rivissuto mediante vecchie fotografie dimenticate. Incredibile!, la vera rivoluzione della poesia la si fa mediante delle fotografie dimenticate in un cassetto, ripescate messe in forma poetica; la vera rivoluzione la fa Maria Rosaria Madonna con Stige del 1992 adesso ripubblicata insieme agli inediti da Progetto Cultura, Stige, Tutte le poesie (1985-2002) con la sua poesia in neolatino, fitta di scalfitture semantiche, ibridazioni lessicali dal tardo latino ieratico medievale ad un italiano arcaicizzato.
Ormai è chiaro che le rivoluzioni artistiche non si fanno più in avanti ma all’indietro, di lato, ripescando i brandelli e i sintagmi di un mondo trascorso. Auden e Brodskij sono autori tipicamente post-moderni, tornano al ri-uso della metrica tradizionale, la ribasano su un materiale sostanzialmente estraneo e refrattario alla gabbia metrica della tradizione qual è il parlato. Il Moderno, con tutte le sue avanguardie e post-avanguardie, tende a diventare un fenomeno del passato, un circo equestre, un patrimonio amministrato, un museo, mercato, rigatteria, vintage. Entriamo nel Postmoderno. All’idea del progresso estetico subentra l’idea di un regresso estetico, di una diffusione dell’estetico in tutte le direzioni, fuori dagli ambiti privilegiati e protetti della tradizione stilistica del Moderno. Il nichilismo antitradizionale delle avanguardie è progressivo, tende al futuro, vuole andare sempre oltre e al di là, distrugge il passato per costruire un mondo nuovo, distrugge in quanto c’è ancora un patrimonio da dilapidare e distruggere e c’è anche un mondo nuovo da abitare e conquistare.
Oggi, nelle nuove condizioni del Dopo il Moderno, non c’è più un passato da distruggere, anzi, non c’è più un passato, non c’è più nemmeno alcuno spazio per il Futuro.
La poesia di Marina Petrillo la si può inquadrare in questo ambito storico: un tentativo di scavalcamento all’indietro della modernità ripristinando le tematiche «alte» e quelle «basse», il lessico «alto» e quello «basso», il registro del «quotidiano» e quello del periechon.
Ne risulta un libro costituito da un conglomerato di due stili e due approcci metodologici completamente diversi: tendenzialmente ieratico il primo e tendenzialmente cronachistico e pragmatico il secondo. Ne risulta una divaricazione lessicale, prima ancora che stilistica; concettuale. Lo stile tendenzialmente gnomico-aforistico è agglutinato allo stile tendenzialmente cronachistico, ed è in questa ambivalenza, in questa oscillazione tra due stili contraddittori che si rivela la non pacificazione di ciò che non è stilisticamente conciliabile. Il problema della coesistenza di linguaggi disparati e divergenti, caratteristica delle scritture del Dopo il Moderno, non può essere avviato a soluzione con un atto individuale o con una opzione privata dello stile. Ma è qui che si gioca e si giocherà la partita della scrittura poetica del futuro: il bisogno di attraversare i linguaggi detritici e di riporto della tradizione del Moderno (hic facit saltus!) evitando di compromettersi con i detriti della cronaca e del quotidiano come ingenuamente fa il minimalismo.
[La sposa fetale, installazione di Marina Petrillo]
Molto dispari nella resa metrica, la scrittura della Petrillo è attraversata da una inquietudine stilistica e materica per tutto ciò che sfugge al calco mimetico. È l’ibridazione materica di cui si fa carico il discorso poetico di Marina Petrillo che rende questa scrittura sabbiosa, petrosa, scagliosa, acuminata, irrisolta.
Marina Petrillo, seguace di Mallarmé e adepta prediletta di Mnemosyne, considera la pratica poetica al pari di una liturgia nel senso letterale del termine che comprende una dimensione soteriologica, in cui è in argomento la salvezza spirituale, e una dimensione performativa, in cui l’attività creativa è un semplice comportamento pragmatico. La poesia si dà come celebrazione di un significato che sta al di là dei significati intramondani, di un significato trascendibile e trascendente. Detto questo, si capirà la predilezione della Petrillo per la catacresi e l’ellisse, che sono gli strumenti retorici che tendono a spostare il linguaggio verso la soglia dell’indicibile.
La poesia della Petrillo predilige l’espressione figurata, nella quale il letterale e il figurato funzionano come categorie proposizionali della differenza problematologica. Ad esempio nel sintagma «Io diffuso ad Uno», siamo indotti a ricercare altro da ciò che è detto in ciò che è detto attraverso ciò che è detto. Decifrarne il senso implica l’atto di aderire ad un universo concettuale e metaforico dominato dalla contradictio in adiecto e dalla tautologia dove l’enunciato è risposta ad un altro enunciato secretato, risposta alla questione del senso, impossibile a dirsi e a dire se non mediante un atto linguistico figurato. Nella poesia petrilliana la tautologia e l’ossimoro abitano la medesima casa del linguaggio, e il linguaggio ne paga le conseguenze con una situazione di infermità dove il locutore parte da una domanda secretata per andare verso la risposta; e la poesia è nel viaggio, nel percorso che intercorre tra il parlante locutore e il rispondente risponditore. È la ricerca del senso che qui ha luogo, che non può essere soltanto nel disvelarsi del linguaggio senza che vi sia al contempo il presenziarsi del risponditore. È un dialogo muto e intermesso che ha luogo in mezzo alla confusione dei rumori di fondo. È il solo modo in cui può darsi la poesia nella notte dei tempi dello spirituale della nostra epoca digitale.
Per Ezra Pound «una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura», e la Petrillo lavora con il bulino del cesellatore per anni intorno ad una catacresi o ad una metafora ardita. È il suo modo di partecipare ad un rito olistico nell’epoca della medietà mediatica. La severità del poeta nei riguardi di se stesso è il miglior lasciapassare per la propria poesia, il lavoro poetico richiede tenacia e auto riflessione e un senso spiccatissimo di autocritica.
Ha scritto Marina Petrillo:
«il Tempo. Spoglio di ogni linearità, abita i fotoni di infinite galassie».
Quando la poetessa romana ha messo su carta questo pensiero non aveva ancora incontrato la pratica poetica della nuova ontologia estetica; tuttavia questo pensiero l’aveva messa sulla strada giusta: che il Tempo non ha alcuna linearità, e che trasporlo nella linearità sintattica e semantica del discorso unidirezionale che procede dal soggetto e passa attraverso il predicato per giungere al complemento oggetto, è un atto di traduzione che falsa sia la realtà delle cose che si presentano nel Tempo sia il racconto che noi diamo delle nostre percezioni e sensazioni. Si tratta di un atto di falsificazione.
Questo è l’assunto base da cui prende le mosse la poesia modernista europea che ha avuto inizio nel 1954, anno di pubblicazione di 17 poesie di Tranströmer. Chi non ha metabolizzato questo fatto, continua e continuerà a fare poesia tolemaica fondata sul presupposto della linearità semantica del tempo. Il concetto, credo, è molto semplice. È questo il pilastro fondamentale della nuova ontologia estetica.
Marina Petrillo stava andando per la sua strada già da molti anni, ancora prima che nascesse la nuova ontologia estetica, pensava in termini di «tempo interiore» e di «spazio interiore», scriveva una poesia della stanza interiore, di un cosmo in miniatura fitto di infinito, dove finito e infinito sono complementari e si legittimano a vicenda.
Per fare poesia nuova, o almeno, diversa, bisogna avere la forza di mettere in discussione quei precetti su cui si fonda il convincimento che confezionare una poesia significa aderirea un discorso che preveda un concetto unilineare del tempo e dello spazio, e la Petrillo ha provato a coniugare la rarefazione sintattica e metrica della poesia di Cristina Campo e di Antonia Pozzi con l’esigenza di una poesia che facesse di quei punti di debolezza, leggi la dismetria e la distassia, un punto di forza e di ripartenza.
Cupo e colmo d’angoscia risuona il lamento di Hölderlin:
«Wozu Dicther in dürftiger Zeit?».
A che scopo? A che pro? Perché i poeti nel tempo della miseria? Che cosa hanno da dirci i poeti nel tempo della povertà?
«L’espressione tedesca [in dürftiger Zeit] – scrive Blanchot – esprime la durezza con cui l’ultimo Hölderlin si difende contro l’aspirazione degli dei che si sono ritirati, mantiene la distinzione tra le due sfere, la sfera superna e quella di quaggiù, mantiene pura, con questa distinzione, la regione del sacro che la doppia infedeltà degli uomini e degli dei lascia vuota, poiché il sacro è questo stesso vuoto che bisogna mantenere puro».
Poco prima dei versi citati, l’elegia recita:
Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch.
Traum von ihnen ist drauf das Leben. Aber das Irrsal
Hilft, wie Schlummer und stark machet die Not und die Nacht.
“Solo per breve tempo l’uomo sopporta la pienezza divina. / Dopo, la vita non è che sogno di loro. Ma l’errore / aiuta, come sonno, la necessità rende forti come la notte”.1
L’errore, l’erranza, la penuria, l’indigenza… aiutano, rafforzano. Perché? Perché in questo tempo di durezza, la parola del poeta non dice più della dipartita degli dei, dell’abbandono, dell’assenza – la pienezza non è più udibile, essa ci dice che la dipartita degli dèi apre uno scenario di povertà nel tempo della durezza dell’essere; che la poesia significa il lutto, parola che oscilla tra memoria ed oblio, tra durezza e povertà dell’essere.
«Entrambi – uomo e dio – sono infedeli», scrive Hölderlin.
Di che cosa parla, infatti, il poeta? Qual è la sua materia? Se ad ogni tentativo di dire qualcosa intorno al proprio oggetto, consegna questo stesso oggetto all’oblio, lo affida alla dimenticanza? Vocazione del poeta è l’esercizio di una perpetua conservazione in perdita. Che ne è allora della parola del poeta, di quella parola che testimonia il sacro, e lo mantiene puro e vuoto?
La poesia della Petrillo alza gli scudi quando la tendenza ad ammutolire diventa insormontabile e soverchiante.
Nel tempo della estrema povertà (in dürftiger Zeit?), ha risposto Marina Petrillo con delle poesie che sembrano provenire dal tempo della mezza luce, della Lichtung, con delle parole sospese nel viale del tramonto, nella «radura» presso la quale l’ospite della terra giunge dopo un lungo silenzioso tragitto. Allora, ecco il segreto di quella frase hölderliniana: «Ciò che resta lo fondano i poeti», non tanto la parola in forza di «ciò che dura», ma anzitutto, la parola per la debolezza di «ciò che resta», perché in esso i poeti fondano il loro regno illusorio fatto di stuzzicadenti e di zolfanelli bagnati di pioggia come l’infrangersi della parola poetica che non è nulla di monumentale, di statuario, di memorabile, quanto un cumulo di detriti linguistici inutilizzati e abbandonati. La parola poetica non è una struttura metafisica stabile ma evento fragile e precario che si iscrive nell’epoca della debolezza e dell’infrangersi della parola poetica sugli scogli dell’essere un tempo stabile ed ora non più.
La parola poetica diventa esperienza della fragilità e della terrestrità, esperienza di un indebolimento di ciò che un tempo lontano era la pienezza del tempio greco o della basilica cristiana ed adesso è un luogo infirmato dal sole e dalla pioggia, dal vento e dagli uomini che abitano la terra e che ad essa ritornano, come erranti, come morti. Il linguaggio della Petrillo si dà come ciò che zerbricht, che si infrange sugli scogli dell’evidenza della terrestrità.
C’è un filo conduttore dall’epoca di Antonia Pozzi, di Cristina Campo, di Maria Rosaria Madonna, di Anna Ventura, di Donatella Giancaspero ad oggi che lega le voci femminili fino a Marina Petrillo, che ci racconta la scomparsa del «sacro». Una così nitida monumentalità non appariva all’orizzonte della poesia italiana da tempo immemore, dove si percepiscono distintamente le scalfitture, e le incisioni del tempo e della terra, le ferite e le abrasioni del tempo, tra il nulla e il presente, dove il tempo è presenza figurale del nostro essere nel mondo, dove la parola è scontro tra mondo e terra nella forma della terrestrità.
È là dove la Petrillo foscoleggia che ottiene l’apice della monumentalità per quell’empito della voce da basso continuo, classicista nutrita di anticlassicismo per quella fedeltà alle regole formali della poesia a partire dal ritmo franto ai raffinati tecnicismi dell’a capo, attraverso cui la poesia modernista del novecento riaffiora in una veste anacronistica e inattuale in un mondo che non sa più che farsene di quella metafisica dell’apparire e del disvelarsi, del venire alla presenza di ciò che non è più presente.
Le parole della Petrillo si presentano omologhe alle parole del corredo funebre con cui si adorna il cadavere di una giovinetta passata anzitempo tra i più…
«Nella tarda modernità l’essere sempre in viaggio, non avere una casa o un porto d’arrivo e non sentire, di conseguenza, la nostalgia per un preciso luogo cui ritornare, può persino trasformarsi in un privilegio. A cosa aspira l’anima moderna, definita da Baudelaire un veliero in cerca della sua terra utopica, un trois-mats cherchant son Icarie? E dove si dirige? Verso l’allontanamento dal noto, Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau (Le Voyage, VIII, 8), per uscire comunque dal mondo, non importa dove (Anywhere out of the world!, in Spleen de Paris, XLVIII).
Se ormai il mondo non ha né centro né periferia, non si possono più desiderare rientri nelle calme acque di un porto, ma soltanto senza meta».2
(Cosa rivela Poesia al Sacerdote del Sublime Tempio…)
Dell’insidiosa tela che il sovrano Tempo
ha posto a sigillo del Mondo
più non altro che cenere si solleva.
Scuote a fatica il capo
l’ultimo amante insoddisfatto
se i fianchi si invaghiscono dello Spirito.
Solo implora la pietà di un bacio.
Involve alfine lo Spazio in azzurrità
e di sua soave Bellezza l’oro
rivela in pudico segreto.
Se accettiamo l’affermazione heideggeriana dell’opera d’arte come «messa in opera della verità», non possiamo non chiederci quale sia il messaggio di «verità» che traluce da questi versi di Marina Petrillo posti in epigrafe.
È certo che la «verità» di cui ci parla la poesia moderna non ha nulla a che fare con la «verità» della metafisica, quella, per intenderci, della piena luminosità nella quale si staglia il marmo della Nike di Samotracia; la nostra «verità» non può che essere una scalfittura che non splende più nella «luminosità» del cielo e della terra ma che abita le intemperie, la mezza luce, lo sguardo distratto benjaminiano, il cono d’ombra, gli angoli intermessi e riposti… che si dà mediante un mezzo parlare, un parlare sibillino, un parlottio smozzicato, un balbutire; non più il tempo oracolare che oggidì risulta sbreccato e corroso; siamo giunti vicini al post-tempo un tempo postruistico e turistico dal quale non ci si affaccia più dal balcone del nulla a quello dell’essere. È il tempo della nostra temporalità infirmata. È il parlare di una modesta sibilla quello della Petrillo che ci parla della perdita perpetua, un parlare dimezzato, smozzicato e infirmato di una regalità infranta e decapitata; il parlare della bocca della testa decapitata, uno smozzicare di sillabe farneticanti senza più senso alcuno, un plesso di fonemi disarticolati e incomprensibili che si presenta nelle vesti disadorne di un «enigma» sordidamente esposto alla dimenticanza dell’essere e della memoria. Ecco perché l’enigma non deve essere interpretato quanto evocato e ricordato come un monito per ciò che è stato e per ciò che sarà nel futuro. Le parole della Petrillo sembrano aleggiare attorno ad un nucleo che si è dissolto, come un fumo che il vento ha disperso.
«Non è sempre necessario che il vero prenda corpo; è sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito, e provochi una sorta di accordo come quando il suono delle campane fluttua amico nell’atmosfera, apportatore di pace».2
Le parole della poesia petrilliana aleggiano incerte attorno ad un nucleo assente perché hanno perso la forza di gravità della sintassi e del sensorio che un tempo le teneva legate, perché quella forza si è indebolita…
(Giorgio Linguaglossa)
1 G. Agamben Creazione e anarchia, 2017 pp. 124, 125
2 M. Heidegger, Die Kunst und der Raum, St. Gallen, Erker Verlag, 1969; trad. it. L’arte e lo spazio, di C. Angelino, Genova, Il melangolo, 1984 p. 23
Poesie di Marina Petrillo, da materia redenta (2019)
All’ombra di un filo d’erba sei cresciuta
come fiocco di neve caduto.
Il cuore è il tuo cielo e nel sempre ad esso ritorni.
Hai trascorso in parole il tempo
ed ora, umile, ad esso rivolgi il canto.
Non parli che di Lui, Signore nell’aurora.
Vivi nell’attesa del Verbo
su te calato a sciame di stelle.
Nel Giardino dell’Eden non regnava solo il silenzio.
Nulla accadeva all’ignaro Spirito dell’uomo
se, come creatura, muoveva il passo.
Un giaciglio lo accoglieva in grembo di madre.
La compassione nutre l’essenza di ogni cosa.
Un piccolo bruco muove i suoi passi.
Una tenera chiocciola in umida scia si allontana.
Dell’eterno giuoco complici
con l’esistere nasciamo a conoscenza divina.
Ma in questo istante
non siamo che una striatura velata di amore
persa tra nubi rosee,
preludio al cielo della sera.
*
(Cosa rivela Poesia al Sacerdote del Sublime Tempio…)
Dell’insidiosa tela che il sovrano Tempo
ha posto a sigillo del Mondo
più non altro che cenere si solleva.
Scuote a fatica il capo
l’ultimo amante insoddisfatto
se i fianchi si invaghiscono dello Spirito.
Solo implora la pietà di un bacio.
Involve alfine lo Spazio in azzurrità
e di sua soave Bellezza l’oro
rivela in pudico segreto.
Siamo qui a scrutare cieli
di infinito capovolti
conchiglie a sciame di nube.
Nulla rivela il mondo
Antigone pietosa la terra
del sospiroso gravido Ribelle
Madre, a sponda di tenerezza.
Ancora le Parche cuciono destini
ma del Canto antico è spenta la memoria
e ognuno afono tace l’Amore perduto.
*
Oltre l’azzurra linea
il vuoto al vertice di un pensoso cielo.
Fragile scende ad acquietare santi
del cui prossimo martirio miracolosa via è il cielo.
Non solito commiato li insegue
ma un destino benevolo da aureola avvolto.
È solo una visione.
Indocile ora fuggita all’arcolaio di una Parca
assorta in sonno opaco.
Onda avversa di un emiciclo lunare
cui Ipazia offrì il suo astrolabio di rigorosa stella.
Lamento di cosmo solitario
cui l’indocile figlia al terrestre genio
in malia fu vinta.
*
Attinge ad antico pudore il muto volto
mentre le mani si incontrano inquiete
nella stretta emozione di uno sguardo assorto.
Il velo non cela altra vita che
non del semplice incanto, sospiro.
Soave nasce così il sorriso
tra tumide labbra di femminea grazia
acerbe
mentre ancora non traccia di suo mistero
canto, l’essere Madre in epifania di luce.
*
Si muovono accorti
dell’irreale transito complici
mai paghi se sia condanna il loro indugio.
Una tana li ha partoriti o abisso,
nero spazio ove tace ferita l’umana larva.
Posti a corolla, in sbiadente animo
del territorio spiano il muto orizzonte.
Sono giunti, mai nati, prossimi alla fine
eppure non volgono lo sguardo oltre la linea
orfani del confine avverso.
Compagni in forzoso gioco
pronti al guado, persi nel dubbioso
diradare di uno spazio
acquietato in rossastra scia.
*
A breve passo muove mistero in suo inciampo.
Equilibrio di leve a ridosso
di incerti sensi mai desti del tutto.
Riduzione in scala dell’Essere
in negletto spazio se l’immanente abita
l’etere e le auree sezioni in segreti frattali.
Eresia di luce sbiancante
nella rivelazione delle Idee
poiché dell’incerto detto non vi sia traslato.
Solo creature degne
poste a sigillo della propria maestria
*
A traccia di vento espira il soffio
un’ultima stazione come transito
di nubi in meridiano estivo.
Scuote il tremolio di un bacio mai dato
del tutto il volgere dell’istante
in ridesto mattino.
Fummo a lungo in noi stessi
a percepire dei passi lieto
l’inciampo, sospesi ad ali tremule
smarrenti alfine la via.
Se fu sogno o altra meraviglia
non ebbe parole tracimate oltre
il confine di un sentire così umano
da poterlo toccare.
Stato di presenza imperfetto al visibile.
Straniamento di ogni piano orfano,
imploso chiarore albescente
in flebile fiamma a neon riflessa.
Una lieve carezza solleva a manto
il respiro e in lui, eterea molecola di elio,
svanisce in cereo tocco l’istante.

Marina Petrillo
Anima gentile del cui segreto
affanno sconosco il battito.
Sei qui a liberare dalla morte
il vanto
ad irrorare il notturno lamento
di stella tradita e poi sconfitta.
Poiché Amore risiede tra i primitivi
bambù e ne esplora in bellezza
lo smeraldo ondeggiare.
Ignora spazi e permane nell’eco
di ogni elemento.
La mano indica la via
ove del labirinto non scorge traccia.
Solo in fuggevole tocco
arride all’inverso canto dell’inverno.
*
Era attesa la notte.
Eppur svelata al segreto non colse
della rivelazione il sigillo.
Dimentica dell’universo pervase pianeti
stelle, sino ad estinzione,
astenia di un sogno riportato ad alba.
Lì mi trafisse inquieto il dubbio
dell’oblio prima del Creato.
Se Lui Fu ed È
tornerà ad unire le dita in gesto benedicente.
Varcherà in sacro movimento
il sentiero degli Esseri senzienti.
*
Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi, da ombra di luce attraversata.
Limen rivelato in distillio di tempo
a calco di ignoto cammino.
Abitai dell’Ade l’obliqua ferita,
imene dei molti inganni.
Ad ombra di me indossai il sudario
abitando la solitudine degli Esseri Primi.
*
Traspare e presto dilegua.
Non permane lascito se non raggio
filtrante chiare nubi.
Rarefatta molecola antesignana
del giorno, diva nascente remota ad indugio .
Chiarore fugato al sommesso mattino
in acquiescente pensiero.
Armonia della soglia custode
a conforto di spazi accecanti in vibrato assenso
il designato monito alla Vita.
*
In sguardo complice tace l’azzurrità
l’Essere nuovo, di evoluta specie,
preludio simbolico impresso a pietra lavica.
Livido si staglia il ricordo
anteposto alla coscienza degli infinitamente mai nati.
Le mani gemellari combaciano
in sorriso armonico.
Oltre l’inconoscibile svetta il poetare
dell’irriso Angelo ché del Verbo abita
la parola in antesignana lingua,
del sovrumano, specchio.
Magari gentile Marina, marina nella pioggia, sapessi cantare come lei il suffragio dell’essere nati prima di essere venuti al mondo, quella marca di reame che oltrepassa l’acqua stessa che l’ammira. ‘MUOVE LA REGINA’ direbbe Franco Tralli.
Giorgio Stella
Si muovono in un umanesimo moderno, un umanesimo critico, per dirla con Todorov, i distici di Marina Petrillo, magnificamente interpretati da Giorgio Linguaglossa. Se da un lato in ‘ Materia redenta ‘ l’autrice si manifesta consapevole delle derive del nostro tempo, dall’altro Marina Petrillo tenta un varco nella lingua.
La questione cruciale per la Petrillo è proprio mi pare la proprietà della lingua come necessità di inventare un proprio idioma per affermare la propria singolarità, la propria unicità irriproducibile nella lingua, nella propria lingua,
abitando le parole e vivendole anche negli atti più semplici e quotidiani dell’arte dell’esistere, che è molto di più e ben più denso del pavesiano mestiere di vivere.
(gino rago)
L’umanesimo critico o moderno nei distici di Marina Petrillo
Si muovono in un umanesimo moderno, un umanesimo critico *, per dirla con Todorov, i distici di Marina Petrillo, magnificamente interpretati da Giorgio Linguaglossa. Se da un lato in ‘ Materia redenta ‘ l’autrice si manifesta consapevole delle derive ** del nostro tempo, dall’altro Marina Petrillo tenta un varco nella lingua.
La questione cruciale per la Petrillo è proprio mi pare la proprietà della lingua come necessità di inventare un proprio idioma per affermare la propria singolarità, la propria unicità irriproducibile nella lingua, nella propria lingua,
abitando le parole e vivendole anche negli atti più semplici e quotidiani dell’arte dell’esistere, che è molto di più e ben più denso del pavesiano mestiere di vivere.
(gino rago)
* In che senso ho parlato nel caso dei distici di marina Petrillo di “umanesimo moderno”?
Nel senso, per dirla in sintesi, che l’umanesimo critico moderno colloca al suo centro l’atto del riconoscimento degli orrori dei quali possono essere capaci gli esseri umani, accanto alla dichiarazione della possibilità del bene,
del bene possibile, di quel bene che considera l’uomo, preso nella sua identità concreta, come fine unico e ultimo della propria azione.
** Per le derive riconoscibili del nostro tempo l’antropologia, la sociologia, la psicologia e altre scienze umane individuano come terribili
– le derive identitarie;
– derive moralizzatrici;
– le derive strumentali.
(gino rago)
Viene detto qui, e con coraggio, della deità dell’essere, senza cerimonie e desiderio di trascendenza. E a me sembra la presenza di Saffo, anche se in meno fuoco di emozione. Però è costante meditazione, e l’essere che in ogni parola si manifesta, diviene luce (non più fuoco di deperimento, scorie di psicologismo o altro); che è luce fredda – non si è detto qui tante volte, che le parole si sono raffreddate?– Ed è un bene che si faccia un passo oltre la trascendenza, perché quel passo è all’indietro. Ma questo lo sanno i pochi che tornano dalla santità, i Bodhisattva, come direbbero i miei amici del New Age. Ma questo non avrebbe importanza.
Si avverte quanto il distico abbia aperto tra le parole il potersi fare del vuoto. E quanto il distico sia adatto al sacro. Sono termini da usare con prudenza, che altrimenti tornerebbero all’uso dogmatico delle religioni, o nelle scansie del misticismo, per non dire del pregiudizio. Basti dire che è sacra l’attenzione, il fatto che Marina Petrillo riesca ad imporre un tempo suo di lettura, dove è quasi nulla la nevrastenia – di quel voler scrivere sempre in jazz.
Con ammirazione e fraterna alleanza.
GIORGIO AGAMBEN
L’UOMO SENZA CONTENUTO, Quodlibet, 2013, pagine 175, 12,50 euro
Dal retro di copertina
Arte e terrore; l’origine del buon gusto e il suo rapporto con la perversione; l’ingresso dell’arte nel Museo e nelle collezioni; la separazione fra artisti e spettatori, genio e gusto; l’apparizione del giudizio critico; in altre parole : la nascita dell’estetica moderna, in un’analisi che parte da un’inedita rilettura dei passi di Hegel sulla morte, o meglio, sull’autoannientamento dell’arte per sfociare in un’originalissima interpretazione della Malinconia di Durer: ecco il sentiero che ci invita a percorrere questo saggio di insolita ricchezza in cui l’autore è riuscito ad aprire sul problema dell’opera d’arte una prospettiva nuova, che è al tempo stesso un avvincente programma poetico.
Un pensiero di Sgalambro su filosofia e filosofi di questo tempo
“Un eccesso mentale che si è trasformato in spazzatura. Il filosofo è diventato un intellettuale acchiappatutto. Avrebbe dovuto restare il più lontano possibile dalla tentazione della polis. E invece c’è dentro fino al collo. Avrebbe dovuto osservare l’accadere da un luogo remoto per comprendere ma non per perdonare”.
Dalla lettura del I° capitolo
“La cosa più inquietante”
di L’UOMO SENZA CONTENUTO di Giorgio Agamben
un breve schema di conclusioni e di domande in me suscitate
– Il punto focale della riflessione sull’arte si sposta dallo spettatore “disinteressato” all’artista “interessato” attraverso un
Excursus sulla idea di “Bellezza” e di opera d’arte:
Kant: Bellezza disinteressata + figura dello spettatore;
Stendhal: Arte = promessa di felicità;
Platone: artisti e poeti esclusi dalla città
(polis = organizzazione politica), esclusi dalla polis perché considerati una minaccia di distrazione, poiché l’arte ha potere sull’animo umano.
Contrappone fascino e coscienza verso il divino terrore.
Sofocle: Platone caratterizza l’uomo come possessore della techné = la capacità di produrre/creare, e soprattutto “di portare una cosa dal non-essere a essere”.
Questo potere può condurre tanto alla felicità che alla rovina.
Edgard Wind: l’arte è uscita dalla “sfera dell’interesse” per diventare semplicemente “interessante”.
– Modificazione della coscienza artistica nella storia.
– Creazione di un’opera d’arte = questione di vita o di morte, di salute o di pazzia.
Nell’atto creativo l’artista dona tutto di sé, la sua arma affilata può essere la sua forza, ma può essere anche la sua condanna a morte
( Van Gogh);
– Arte = pericolo per l’artista stesso e per la società.
– Punto focale del I° Capitolo:
“Nulla è più urgente della distruzione dell’estetica per capire fino in fondo l’estetica stessa”. Estetica intesa come scienza dell’opera d’arte.
– Non più una visione estetica dal punto di vista dello spettatore, ma verso la visione di un’estetica dell’artista, vale a dire
ARTE PER GLI ARTISTI +RAPPORTO CON L’INQUIETUDINE
– Nietzche: arte per l’arte
– arte per l’artista.
Domande (o Interrogativi)
A – Prendendo in esame o considerando le pratiche artistiche partecipatorio-sociali del ‘900 volte alla ricarca di una relazione diretta con la “vita politica”, è possibile che gli artisti possano accettare di volere star fuori dalla società?
B- Qual è in realtà l’impegno (possibile) dell’artista nella società?
(gino rago)
L’Io nel mondo. Che destino avrà? L’Io è filosofia
E lava il mondo nottetempo, dice Celan.
In un tempo che divora il tempo, risponde Orazio.
E Kant, di risulta, l’Io puro o puro Io nega lo specchio.
Leibniz non concorda: usurpatore, o tu che canti
L’appercezione e la corrobori con il trascendentale.
Spesa settimanale: un po’ populista un po’ liberista.
Sulla bilancia l’io penso e l’io penso che penso.
Grammi di differenza. La psicologia giustifica:
Nuova esperienza, porta pazienza contano i residui
Del vissuto: la buccia, la polpa e il seme, la tridimensionalità
Del frutto. Quel che è fratto è fratto dice A. L. Lohman. Attrice.
Non mancano sguardi rivolti a questa parte dell’orizzonte:
Compagni in forzoso gioco
pronti al guado, persi nel dubbioso
diradare di uno spazio
acquietato in rossastra scia.
Nella poesia successiva, bellissimi versi vanno nella medesima direzione:
Eresia di luce sbiancante
nella rivelazione delle Idee
poiché dell’incerto detto non vi sia traslato.
Solo creature degne
poste a sigillo della propria maestria.
Dovunque si avvertono e sono dette, le parti di un percorso conoscitivo dal senso univoco, seppure interrogante. E già questo, a mio parere, costituisce oggi un fatto raro. Ma è nel suo farsi che il discorso cambia alle radici e trova nuova linfa.
Ecco la risposta di Antonio Sacco ad un mio invito a partecipare al dibattito sulla nuova poesia e sulla nuova ontologia estetica.
caro Giorgio,
mi fa molto piacere questa tua richiesta e posso dirti che senz’altro parteciperò al dibattito. Sono curioso di approfondire la NOE, ho appena iniziato a intuire su quali basi poggia questo nuovo modo di far poesia. La lettura del tuo articolo, che mi hai consigliato nella risposta, mi ha chiarito alcuni aspetti di base della nuova ontologia estetica ma è ancora troppo poco per me. Il pilastro fondamentale della nuova ontologia estetica costituito sul fatto che il Tempo non ha alcuna linearità, e che trasporlo nella linearità sintattica e semantica del discorso unidirezionale è un atto di falsificazione e conduce ad una poesia convenzionale, “vecchia” e poco originale mi è chiaro e lo avallo ma, se da un punto di vista concettuale e teorico lo capisco, non riesco ancora a realizzare il modo su cui si basa questo nuovo tipo di far poesia. Parlo proprio a livello pratico, delle caratteristiche che deve possedere una poesia basata sulla NOE (per ora, a tal proposito, so che la linearità che procede dal soggetto al predicato e giunge al complemento oggetto è fallace). Qualcuno, inoltre, nelle risposte ha parlato di quadridimensionalità della poesia, vorrei capire…
Comunque spero che questi dubbi mi verranno chiariti leggendo i prossimi articoli dell’Ombra. Ho deciso di dare precedenza allo studio degli articoli più recenti che partono dal Gennaio 2019 poi agli altri più vecchi.
Ti tengo aggiornato.
Un caro saluto
Ecco un mia poesia polittico in distici. Questa è la strada che seguo da alcuni anni per giungere ad una nuova poesia. Mi rendo conto che dal punto di vista della poesia che si fa oggi in Italia può sembrare quantomeno astrusa, e incomprensibile, ma penso che si tratti di un errore prospettico: il nuovo non può essere riconosciuto dai contemporanei, specie dopo 50 anni di dormitorio pubblico della poesia.
Poesia ipoveritativa in distici
Il Re di Denari dichiara alla Dama in maschera la sua passione
sul Ponte dei Sospiri. Le nere gondole sciabordano
mentre Zeppelin vola in basso, sempre più in basso
e De Sideribus osserva il cielo stellato.
[…]
L’ultimo Lied di Lili Marlen, il coro di soldati l’accompagna.
Entrano gli ufficiali nel salotto color fucsia.
Fanno ingresso la bella Anais con la volpedo blu, Madame Hanska
con la pelliccia di ermellino.
Fanno ingresso i Commissari in impermeabile lucido,
il cappello sulle ventitre.
Fa ingresso Anaconda con la pelliccia di tigre
e gli autoreggenti velati.
Sesto Empirico fuma un puzzolente sigaro italiano.
Esce dalla sua tana sempre dopo il tramonto.
Scrive che Cogito è un gran maleducato, che alza la voce,
che sbatte le finestre e le porte con strepito quando discute
del «dentifricio poetico» della sua epoca e
della «Morte del sole per ipotermia».
Definisce la poesia del suo tempo, «timbrificio tipografico»
e il pensiero, «ologramma filosofico del nulla».
[…]
Il Re di Coppe scrive una lettera a mia madre, la sua amata.
Dice che l’amerà per sempre, per tutta la vita,
ma viene imprigionato per abbandono dell’arma e spedito in Russia
dalla quale non tornerà.
Io guardo in cinemascope il film della mia vita, lo srotolo
all’incontrario, ne ammiro le incongruenze, le aberrazioni.
Qui c’è Mario Gabriele con la penna Dupont, c’è Gino Rago
a Trieste al caffè degli artisti che legge il giornale.
Tutto avviene contemporaneamente, mentre il bambino
monta sulla giostra, sale sul cavallo a dondolo, saluta la madre,
scavalca il davanzale della finestra e scompare
oltre la cornice del quadro.
Marina Petrillo, Marie Laure Colasson, Giorgio Linguaglossa e un marxista-leninista in
10 Distici
Gino Rago
QUALE VENTO SOFFIA NEGLI ORTI DI ROMA
Quale vento soffia negli orti di Roma,
Su quali abissi volano le aquile se aquile ancora si alzano in volo?
Quali miserie o doni nel giorno che non onora il vero
Per l’uomo d’occidente senza contenuto?
Il Castello di Kafka pesa sul villaggio con i troppi uffici
E con l’oscurità dei suoi decreti.
Piante. Carriaggi. Alberi senza rami. Frammenti di città.
Fumi dai fiumi. Persone. Immagini di piogge nella pioggia.
Materia redenta. Marina Petrillo. Lo choc di Baudelaire.
Nell’onda d’urto del tempo fra il vecchio e il nuovo
« Involve lo Spazio in azzurrità». Autoannientamento
Dell’ Arte. Il nulla che annienta sé stesso.
[…]
Museum Theautrum. Dimensione atemporale della estetica.
Eusebio:«L’elegia mai si farà inno…»
Nebbie sulla laguna. In Venedig in un sotoportego.
Milaure Colasson pensa di essere al Bolshoi.
Sulle punte danza Il-lago-dei-cigni sull’alluminio di un tavolino.
Giorgio Linguaglossa e un marxista-leninista bevono un’ombra.
[…]
Una voce o un fiato: «Fui sposa, in abito fetale.
Nel doppio vissi..». Tchaikovsky su una gondola.
(gino rago)
La questione del Logos è la questione fondamentale del pensiero. Marina Petrillo ha incentrato la sua poesia sulla costruzione di un Logos personale individuale. In questa impresa ci ha lavorato da più di trenta anni e i risultati sono finalmente arrivati, ha pensato intensamente durante tutti questi anni come, in quale linguaggio interrogare il Logos.
Scrive Michel Meyer:
»Pensare il linguaggio significa prima di tutto aprire il pensiero al proprio linguaggio. Il pensiero del linguaggio mette in atto un linguaggio specifico che è quello del pensiero. È in ciò che risiede il carattere fondamentale della meditazione sul logos. Senza questa meditazione, come possiamo sperare di trovare uno spazio proprio del pensiero, che non lo releghi a forme abusate del linguaggio, e nelle quali esso si perderebbe inevitabilmente? Forme abusate, dunque uso delle forme»1
1 >M. Meyer, Problematologia, Pratiche editrice, 1991
L’iconografia onirica, incongrua, frantumata e metamorfica della Petrillo s’inerpica su scoscesi territori spazzati da tempeste d’un misticismo ardente, eterodosso, segreto, inafferrabile dagli artigli del linguaggio tradizionale. A quale verità potrebbe afferire, così svincolato da norme e codici del logos convenzionale? Bisogna riflettere sulla centralità del linguaggio, del suo fondamento noetico, sulla sua presunta aderenza alle strutture dell’essere.
Perchè “il linguaggio è la casa dell’essere”? (Heidegger). Sarebbe più sensato definirlo la casa del pensiero. Questa ipertrofia assiologica e ontologica ha determinato la clausura in confini troppo angusti, (“il pensiero calcolante ” della scienza empirica) lontani dalla sacralità e metafisica, che la ribellione di poeti come Hölderlin o Rimbaud, Celan o Char hanno tentato di riscoprire. La Petrillo è loro degna erede.
ASPETTANDO IL TUONO
Entro nello sguardo della bambina. La sua tristezza mi dissolve. L‘anima resta sola. Mi prende per mano e mi porta nel bosco. E’ Il corpo dell’antica Signora. Cresce e s’inazzurra. Dalla sua testa si staccano tre grandi uccelli. Sono orfani. Pregano il quadro vacillante.
Ho ucciso una favola di fonti. Lascia che risorga in me – dice il fiume. Fuggo nel cielo malato, con l’amante in pena. La notte sacramentale mi avvolge, travestita da eclissi contagiosa. La danza dei pianeti piange rugiada di fanciulla.
Il cielo dimagrito per le nozze. Dai più lontani luoghi di sepoltura, al ripostiglio dell’Enigma. L’algebra defunta nell’estasi d’alabastro. Il profumo della Dea langue sugli spalti. L’angelo implacabile è la sposa. Perduta nell’immenso tabernacolo.
Porta un sogno verde sulle spalle. Non sa quanto pesa. Mettilo giù – le dice il cielo. E’ un’arpa folle d’amore. Mi abbraccia nella pioggia nuda. Triste di non essere qui. Con l’addio che cambia forma ad ogni vento.
La donna che amo nasconde in sé il segreto. Cammina davanti a me nella pioggia triste, circondata dagli angeli sterminatori. Non mi consentono di raggiungerla, minacciandomi con le lingue infuocate.
Seguo la processione dell’aborto infelice. Il branco mi attraversa per copulare con la reliquia. Perdendo la vita entro nel cerchio di luce. E’ la radura boschiva da cui nasce l’apparenza. La statua senza testa decreta il mio destino: uno stuolo di manichini che parlano ma non capiscono. In fondo la foresta di sogni senza sguardi.
Dal cielo malato cadono estasi di corallo. Il ragno che inghiotte la notte fa infuriare le ombre. L’addio è troppo timido per abbracciare la sua particola. La curva paranoica cresce inglobando terribili sagrestani.
Un suicidio disadorno oscilla nella cella. Un tentacolo dell’enigma esce dal confessionale. L’eclissi contaminata si confonde col roveto ardente. L’angelo sigillato rovescia la clessidra. Nella città appena risorta preparano il giudizio.
Sono profondamente onorata dai commenti apparsi , suono vibrante, indelebile , nel mio cuore.
Grazie infinite a tutti. Marina Petrillo
Una poesia Polittico di Giorgio Stella
Il Conte Beppe Salvia è a cena con la
Marchesa Amelia Rosselli…
Entrambi hanno deciso di tenere
le finestre aperte per volarci per primo
ma tra Salò e Bètlemme il miele rosso
del piccione da caccia ha il tappo in
bocca… Guarda bene di non poter volare
male la lingua che ha dovuto rinnegare
tra le rovine del panforte e altre
lucurnie del proprio paese –
– all’altro capo dello stesso –
è rotta la macchinetta delle foto
per il censimento del primo dell’anno
mille quando la Florida fu invasa da Cuba
ed Hernry Miller si chiedeva se Tropico del
cancro fosse superiore a Tropico del capricorno:
Una veggenza in piena regola come
Il Tallone di ferro di London o Sotto il Vulcano
cantava: ‘strano il destino, arde la terra mentre un
fiume è in piena’
ma al nono piano del civico 27. di Centocelle
alle 17 del pomeriggio, morte nel pomeriggio,
la vecchia ballerina impartiva lezioni di danza
a giovani ragazze che aspettavano i genitori…
dal vetro pare che l’anziana donna parli da
sola e che all’orologio non sia stata
cambiata apposta la batteria in maniera
tale che la retta stabilita sia saldata
per la festa d’OGNI SANTI.
(Roma,1 luglio, circa le 11.00 di oggi)
Notevole!!!! I miei complimenti al poeta Giorgio Stella. Solo mi sfugge il significato di “lucurnie” al 2° verso del V distico. Grazie. 🙂
Sentire, nel profondo, quelle parole già conosciute e, ancor più, gli intervalli, le virgole e i rimandi per me mai diventati abitudine, è avvertire una percezione, nitida come fosse visione attraverso una lente di Spirito, di un passaggio a bordo di un carro invisibile, nel mezzo di un campo di battaglia, dove l’acre odore della polvere da sparo, si mescola con il filo delle lame intrise di anime all’assalto. Gli scudi si alzano, è vero, non per rinforzare la difesa, ma per mostrare petto e fianchi. Intere legioni di arcieri scoccano sciami di frecce, adombrando la luce del sole. Farfalle di acciaio mutate, da te, in aghi di guarigione, cosparsi di unguenti di umanità e vita eterea.
Essere con te, in quel campo di battaglia, è inaudita sintesi di Vita. Che trasforma il Vero in Desiderio.
Grazie.
gentile Donatella Giancaspero, è leccornie io sono un uomo molto ignorante ho a mala pena un diploma dico davvero se dovessi rifare gli esami di terza media verrei bocciato tipo i verbi irregolari che sono? nn scherzo…… la ringrazio la Noe è come un porta d’incantesimo… una volta che ci entri, nn ne esci più, per fortuna. la Noe mi ha insegnato nn imparato a nn vergognarmene.
Anche io ho trovato notevole il suo polittico, Giorgio Stella; solo ogni tanto il distico si smarrisce l’autonomia. Ma ho anche pensato alle mie di questi ultimi tempi, quindi l’invidio. Benvenuto nel tormentone.
Gentile Giorgio Stella, no, non credo che Lei sia “un uomo molto ignorante”. Le sarà semplicemente sfuggito un refuso. Sono lieta che abbia trovato nella Noe un luogo poetico accogliente. Le auguro un prolungato e proficuo cammino lungo la strada della Nuova Poesia, insieme a tanti validi compagni.
Grazie caro amico confermo , … mi ricordo una volta il suo ‘io vivo solo col mio gatto’ pure io. un abbraccio e sogni d’oro.
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C’è una lingua che non può fare a meno del tempo, quello delle successioni fotografiche in cui il rollino si riempie di immagini successive. La linearità parte da lontano senza spezzarsi mai, diventando visibile solo per quel poco che ci mettiamo del nostro Io ma è la casa dove tutto è già stabilito che avvenga per disordinare e trasformare energia da una forma all’altra. Al suo interno ci sono le generazioni che ci hanno preceduto e quelle che verranno. Poi c’è la dimensione dove la lingua riflette (o cerca di farlo) le leggi che governano gli accadimenti ed in cui non abita il tempo e nemmeno il nostro io. Il fascino del poetare consiste invece nella possibilità di “andare oltre l’inconoscibile”, nell’intuirlo al di là di ogni linguaggio conosciuto nella radice\luce da cui tutti i linguaggi originano e nella volontà di adeguarsi ad esso. Non per tutti però, per molti si tratta di cercare un varco percorrendo l’inferno sotto i propri piedi come si trattasse di un girone a parte dove le cose accadute ritornano nel loro eterno presente.
PERCHE’ NON TACCIA
Tanti Io annusati dal plutonio
E loro cercano il premio dell’abbondanza
Il respiro corre dietro la femmina dell’odio
Ma per le strade circola lo stridore delle pulegge
Nel Tempio l’abbattimento del Muro
l’odore del cemento fresco sotto l’altare
Torneranno a ricostruirlo ma forse è il 1961
Fa parte di una pistola il proiettile fermo.
***
La macchina sposta l’universo nel sesso vuoto.
il Minotauro decide a dadi la sorte dei figli.
La memoria si fa vendetta
reclama fuoco il centro del Labirinto
a sua misura i tabernacoli, le fosse operaie
chiude Das Kapital gli occhi dello Spirito veggente.
***
Un livore di neon rimanda il pane nei magazzini
saranno forzieri per l’inverno dei quaranta
A che serve trascinare popoli nei nervi?
Latte nero il fondo Senna.
Gela il tramonto su un cranio trafitto
Rumore di cremagliere l’ansimare d’ulivo.
Una follia prende i gigli senza canto
nascono bulbi nel fumo dei camini.
(francesco Paolo Intini)
Grazie Donatella Giancaspero per la rinnovata accoglienza
Avverto un pericolo nella scrittura della poesia in distici: che rischia di diventare una scrittura, diciamo, un po’ automatica, un po’ di parole in libertà. Invece la poesia in distici richiede, anzi, reclama, la presenza del vuoto, lo spazio tra gli emistichi, tra i singoli versi e tra le parole.
Non dobbiamo farci ingannare dall’eccesso di facilità, altrimenti diventa una maniera… un po’ come la scuola milanese…
https://ridondanze.wordpress.com/2019/08/13/ridondanze-14-00-confezionato-alla-maniera-della-nuova-ontologia-estetica-linguaglossa-è-in-ferie/
GRAZIE OMBRA