Mario Lunetta, Poesie, da L’allenamento è finito (poesie 2006-2016), Robin, Roma, 2016 pp. 190 € 15.00, Nota critica di Antonino Contiliano, Il punto critico di Giorgio Linguaglossa

Mario Lunetta Dino Ignani

Mario Lunetta: «La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore»

Il punto critico di Giorgio Linguaglossa

A proposito della poesia italiana degli anni ottanta, scrive Mario Lunetta:

«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia».

Come non condividere questa affermazione? Mario Lunetta è stato un importante ed insopprimibile esponente della Opposizione poetica che si è avuta in Italia dagli anni settanta al 2017, l’anno della sua scomparsa. Vorrei dire che un regime poetico senza Opposizione o che liquida l’Opposizione come insignificante e non rilevante, con il silenzio e con uno specioso sofisma, si rivela essere un regime non parlamentare ma un Regime Autoriale. Mario Lunetta è stato un poeta importante che avrebbe dovuto essere pubblicato nella collana bianca dell’Einaudi, e invece è stato confinato in edizioni di confine, è stato emarginato per via della sua pervicace e costante opera di opposizione al Regime Autoriale.

Mario Lunetta 2006

Mario Lunetta, 2006

Nota critica di Antonino Contiliano

« Un poligrafo alchimista e proliferante. Una vita e una parola oppositiva, l’opera di Mario Lunetta. Una scrittura anti-sistema-mondo variamente proposta ma sempre nell’ottica di una espressione polisemica e plurilinguistica aggressiva. Una lotta materialista e una sottrazione engagé – giocate tra denuncia e demistificazioni, autoironia, ironia e sarcasmo (troskianamente permanente, direi) – che, nonostante il degrado invadente e pervasivo del sistema-mondo e della stessa “Forma Italia” (sventrata e sminuzzata dal capitalismo globalizzato dell’impresa finanziarizzata) mai sono dimentiche della possibilità antagonista-alternativa: hasta la vista, “il giovanissimo nome di comunismo”. Una scelta e un “fine vita” che Mario Lunetta (caro il caravaggesco moto “Senza Speranza. Senza Paura”) affida ai versi dell’opera L’allenamento è finito (Robin, Torino, 2016) e che Francesco Muzzioli richiama a chiusura della prima parte – “Il percorso poetico” – dello studio monografico (p. 65) che gli dedica.»

But For All That

C’è da ridere solo a pensare al trattamento
da animale da circo di cui ebbe a godere
il poeta dei Cantos che già sentiva premersi addosso
il gelo della vecchiaia mescolato ad altre varietà
di gelo – da parte di politici, giudici senza giudizio,
funzionari, sbirri, intellettuali strabici, patrioti
e giannizzeri magari anche capaci di peggio, solo
a forni gliene il destro.

C’è da ridere sol che si pensi a come
generosamente
lui, il miglior fabbro, si sia sprecato per tanti
dei suoi colleghi e confrères, a come con splendida
ingenuità abbia dilapidato la sua vita incappando
in un Equivoco grosso come cento Moby Dick
incollati testa-coda, anche se uno spirito sterile
come F.R. Leavis afferma senza batter ciglio che “egli è,
nel senso più serio della parola, un esteta”.

Tutti sanno che una bella porzione del gran poema
di Eliot fu cassato da lui con intransigenza fraterna,
ma forse sono assai meno al corrente del fatto che quando
negli anni di Zurigo Jimmy Joyce dovette subire
un intervento chirurgico agli occhi per trattenere l’ultima favilla
di vita che vi brillava dentro, quella canaglia di Pound,
non ancora reo di alto tradimento nei confronti
del suo paese, per pagare le spese ospedaliere
vendette i suoi cimeli più amati: gli autografi
di re Ferdinando e della regina Isabella datati 1492.

Non so, davvero non so se sia possibile
immaginare
per chi è stato il maggior navigatore dei linguaggi
della modernità un’allegoria più fulminante. Ma certo
l’involontario risarcimento, coincidenza, caso, sfasatura
di quando lui nel 1958 tornò in Europa a bordo
della Cristoforo Colombo, ha l’aria di una tragedia
che si volta in farsa e viceversa, con una continuità
da brividi.

(12 gennaio 2010)

L’inesistenza del meglio

Chissà se è meglio o solo peggio sentirsi
un marmocchio in carrozzina trascurato dalla madre
o un vecchio in agonia carico di rimorsi.
Chissà se ancora il vento è più libero del condor
che si lascia cullare dalle sue folate prima di cadere a picco
sulla preda sentendosi stingere il cuore, chissà mai.
Chissà se il mondo è disposto a farsi chiudere
in un dizionario o le parole di tutte le lingua
sono ormai affette da devastanti attacchi di schizofrenia,
irreparabilmente.

Da questo bar sotto i portici si vede la farmacia
in fondo alla piazzetta e i intuisce l’insegna
di un’erboristeria coperta da fogliame in disordine.
In entrambe si vendono illusioni al canto
delle cicale che simulano quello di mitologiche sirene.
Laggiù il treno che corre sul sottopasso
ha tutta l’aria di un giocattolo che abbia finalmente
conquistato la sua libertà.

La calvizie è una colpa: è sulla capacità
di convincimento dei poveri di spirito che oggi
la menzogna pubblicitaria esercita i suoi poteri satanici
e riduce i cosiddetti consumatori
a orde di replicanti di androidi in preda all’infelicità
e ai sensi di colpa assetati ingozzati di popcorn
nel tubo intestinale dell’animale mondo incapaci di capire
che tutto ciò che si vede è bene prima sentirlo
per poterne interrogare le intenzioni criminali
per poi darsi un meritato riposo.

So che non accadrà: perché il verbo accadere
non ha il tempo futuro. Ciò vuol dire, dunque, che
sono ogni giorno più rare (anche tra le persone
a me più care) quelle capaci di corrispondermi
dal momento che da parte mia non so neppure più
corrispondere a me stesso. Prosit.

(14 giugno 2015)

mario-lunetta 3

Tiresia

Perché nascondersi se siamo invisibili?
Domanda insieme ingenua, forse persecutoria
e in tutti i casi tautologica – rivolta a tutti
tranne che al sottoscritto che l’ha pensata ed emessa
come per distrazione o forse sotto un attacco
di farnético tranquillo nonché precedentemente
visualizzata
in un disegno a fasce ondulate energicamente policrome
dietro cui appare (per la precisione: appariva
prima della cancellazione, della scomparsa) un’ombra
in qualche modo antropomorfa in una luce di
crepuscolo…

Eppure a ben pensarci si potrebbe anche concludere
che tra nascondimento e invisibilità
c’è oltre a un quid consequenziale e (come prima
azzardato)
tautologico, un germe di contraddizione – dove si annida
una solida forma di positività dicasi pure dialettica – e
un suo analogo impegnato ad alimentare un desiderio
forse di salvezza rispetto a un pericolo incombente
forse di volontà di sparizione rispetto a tutto ciò
che esiste
o ha la pretesa di esistere, quindi di giudicare, di indicare
una strada, un arbitrio di destino
: (ma senza fare i conti col tebano Tiresia
accecato da Minerva nell’adolescenza
sempre deciso a nascondere la propria invisibilità
di uomo-donna e di donna-uomo dopo la doppia
uccisione
dei serpenti in amore e la sentenza sulla maggiore
sensibilità erotica della femmina
dietro un eccesso abbagliante di chiarezza
: innocenza suprema, suprema presunzione
che irride la morte)

(24 maggio 2016)
Anima persa

Qualche tempo fa, probabilmente il 23 novembre, il Sottoscritto Immemore ha compiuto ottantun’anni dimostrandone senza un filo d’imbarazzo dieci di più, a dir poco: e magari credendo in tutta buonafede che gli anni
abbiano facoltà di esercitare liberamente il diritto di accrescere i loro addendi sia in senso anagrafico che in senso crono visivo – con allegria o umor nero, leggerezza o spirito plumbeo, nei luoghi più gradevolmente
aperti e ospitali o nel chiuso di una cella, in compagnia di chi si ama come nella più assoluta solitudine.

In tutti i casi il Sottoscritto Immemore conserva nel Mar dei Sargassi della sua trascurabile esistenza uno straccio di pietà per se stesso pur non
usandone mai
a fini di pubblica sollecitazione di conforto et similia.
(Lèggasi): anche parlando di sé il Sottoscritto
Immemore
parla invariabilmente di qualche altro
attraversandone
l’immagine con lampi sulfurei di ironia o secche bòtte
di sarcasmo, quando il caso lo richieda.

Che dire di più? Cosa aggiungere a certe futilità
se le polveri sottili vanno ad annidarsi perfino
nel piatto di spaghetti che ha mangiato un’ora fa,
il mese scorso o la prima settimana di un’altra vita
(con lei, id est la sua anima persa che lui,
l’Immemore, non ha
– lo giuro e lo spergiuro – la minima intenzione
di ritrovare?)

(27 aprile 2016)

Ghigliottina del benessere

Pare piuttosto buffo (e perché no spregevole) –
suppongo
non soltanto all’ipersofisticato sottoscritto-
assistere senza fiatare
al pressoché irrefrenabile proliferare di Centri Benessere
in tanta disperazione che si taglia col coltello più
che vederla
con gli occhi appannati del corpo e della mente,
tanto scialo
di urla soffocate, fiumi di sangue nel giorno che annega
dentro le fauci della notte ammutolita e fa salire
mescolati
canti di ugole strozzate con versi di animali in
tregua d’armi
mentre il mondo che si mostra e non si mostra
continua a sorridere
della propria agonia senza fine, nella giusta
divisione dei compiti
fra vittime e assassini: si taccia una buona volta almeno
per decenza, mica per carità – vorrei dirlo e non lo dico.

Meglio: vorrebbe dirlo e non lo dicembre l’ipersofisticato sottoscritto
intento a tagliarsi meticolosamente le unghie per
evitare di finire
nel gorgo dei suoi pensieri a spirale che
sopravvivono ai bordi
del vulcano e gli ghignano addosso come iene,
mostrando i denti
in una scommessa da ghigliottina dolceamara, nel maquillage
di questa fin de partie di cui è stato cancellato
l’inizio non l’epilogo.

Forse non c’è risposta: e se una ce n’è non
credo possa
di troppo discostarsi dal teorema di Spinoza ove si afferma
che Il pentimento non è una virtù, in quanto –
aggiunge umilmente
l’ipersofisticato sottoscritto – battersi il petto dopo
il crimine
(o magari la colpa più leggera) finisce per essere
uno sport in cui è troppo facile vincere senza eccessivo
spreco di energie.
Heidegger non s’è mai pentito
del suo comportamento: non a caso era un profeta intriso
di retorica frattale, troppo intento – fino alla morte
– a fissare
la profondità del proprio grandioso ombelico,
das ist alles

(2 maggio 2016)

Mario_Lunetta 1
Birignao Frecciarossa

dal finestrino del Frecciarossa Napoli-Roma h 16.40
gli occhi annegano in una distesa sconfinata di serre
– pomodori è da supporre, o altre specialità
di mangime vegeto-minerale tirate su a concimi chimici
e rinforzi ormonali se non gonfiate a estrogeni
come polli americani impunemente riciclati
nella Campania felix – ciò che provoca scandalo
mica morale ma solo estetico è quell’inconscia
instillazione di Beuys sotto forma di franante
aggressiva collina nera di copertoni d’auto
lì a chiudere l’orizzonte come un tappo
stupidamente inesorabile

ma forse il peggio è concentrato qui,
scompartimento
semivuoto, in quella cicalata ad alta voce di una girl
a prima botta carina, benvestita, di postura elegante
poi di colpo, indossata l’uniforme manageriale, assunto
il tratto tosto del dirigente eccola lì buttar fuori al
cellulare
il suo gergo tecno-autoritario a freddo
a una qualche dipendente (ma meglio si direbbe
sottoposta)
sottolineato da discariche okay sparate a raffica
col gusto evidentissimo di sottomettere calpestare
ridurre
all’obbedienza chi l’ascolta da lontano: scena
spettacolosa
di surrealismo sadico, mitopoiesi allucinante
ora che lo speaker al microfono raccomanda ai
signori viaggiatori
di parlare a bassa voce per non disturbare please: sospiri
reiterati e birignao all inclusive nell’orrore, nella
pietrificazione filmica che non prevede
happy end

(1 giugno 2016)
4

Hodie giornata infausta di mezz’agosto
hai ripetuto al cellulare su mia ansiosa richiesta
il catalogo maligno delle tue indisposizioni
& dei tuoi malesseri sempre in agguato
l’amarissima filiera ormai sangue del mio sangue marcio
(mal di schiena, ernia del disco, cistite,
infiammazione
della rotula ecc.) che tortura le tue gambe
di walkiria fanciulla per cui l’elenco assassino
raspa la mia pelle di vecchio gatto soriano
al modo di una grattugia rovente manovrata
da un topo impazzito

Hodie et semper annaspo tra la fiaba sinistra
delle tue sofferenze mescolate alla rinfusa
con le clessidre rovesciate dei tuoi instabili umori
le tue malinconie nostalgiche il tuo volerti male
per incapacità di amarti pur sapendo che sei stata
amata da tanti (&la serie anima mia non è ancora
esaurita)
attratta come sei da un buio opaco nel pozzo
delle mille incertezze della tua psiche fatta di sogno
& crudeltà foschia & luce accecante
come l’oro della tua voce o le sue tenerezze
appena sussurrate

Colui che ti si rivolge pieno di patèmi
con questi versi maldestri
registra che anche hodie giornata infausta di
mezz’agosto
tu hai insistito a parlargli della fragilità
della tua mente avventurosa & altruista
dilaniata dai capricci di una psicastenia traditrice
a petto del bel carattere di lui che sarebbe a tuo dire
la risorsa inesauribile del suo resistere tra i marosi
& gli assalti di quella cosa astratta & concretissima
che chiamano vita

Lui caro ex carne mea si permette di rettificare
in tutta umiltà che non è il caso di parlare
di bel carattere ma di carattere semplicemente
& ti ripete senza stancarsi di ripeterlo
che questo carattere ti appartiene
deposto com’è ai tuoi piedi
ora & per tutto il tempo che vorrai

(5 agosto 2015)

su Oblio VIII, numero 32

Mario Lunetta 2Elisa Caporiccio, Francesco Muzzioli, Mario Lunetta. La scrittura all’opposizione, Roma, Odradek Edizioni, 2018  ISBN: 978-88-96487-67-9

«Mario Lunetta ci ha lasciati, ma è come se fosse ancora con noi». La recente monografia che Francesco Muzzioli ha dedicato allo scrittore e amico da poco scomparso si apre nel segno del ricordo, con la consapevolezza della necessità, ora, di riprendere in mano i suoi testi e promuoverne un’attenta riscoperta, chiarendo «il significato e il senso di un percorso letterario che ha segnato la seconda metà del Novecento e l’inizio del XXI secolo». Preso atto delle non poche difficoltà che s’incontrano nell’accostarsi con la dovuta attenzione critica a questa «figura fondamentale scarsamente riconosciuta dalle parti della cultura ufficiale» – dall’inventario di tutte le pubblicazioni, al recupero degli scritti inediti o dispersi nelle varie riviste, alla possibile costituzione di un’antologia dei suoi scritti –, Muzzioli decide di aprire la strada agli studi e alle iniziative future, offrendo come «punto di partenza» (così si intitola, non a caso, l’introduzione al volume) «una monografia che si provi a percorrere l’itinerario dell’autore», proponendone «una prima rilettura, ancora incompleta per forza di cose, ma costellata di campionature essenziali, per dare l’idea della direzione dei testi» (p. 7).

Il profilo tratteggiato nel volume prende le mosse dalla ricostruzione dell’esperienza poetica di Lunetta, campo d’azione dichiaratamente privilegiato da Muzzioli in questa sede. La prima parte dello studio monografico, snodandosi secondo un ordine cronologico, segue dunque passo passo le tappe del corpus poetico lunettiano, mostrando costanti ed evoluzioni di un’opera che si estende dagli anni settanta del Novecento (con le primissime raccolte Tredici Falchi, Torino, Geiger, 1970, e Lo stuzzicadenti di Jarry, Torino, Geiger, 1972) sino al primo quindicennio del Duemila (e si conclude con le «poesie postreme» di L’allenamento è finito, Torino, Robin, 2016).

L’analisi condotta da Muzzioli in questa prima sezione consente di rilevare alcune linee tematiche d’importanza fondamentale nell’intero percorso letterario di Lunetta: la denuncia e demistificazione del crescente degrado della cultura italiota, mirabilmente stigmatizzata nelle raccolte che compongono la trilogia La forma dell’Italia («la forma dell’Italia / vive soltanto ormai delle sue / deformazioni progressive», Magnificat, Pescara, Tracce, 2013, p. 93); il rapporto «di corpo a corpo» nei confronti della città di Roma, «amata & insopportabile», degradata ad «una campana stonata una brocca fessa» (Saldi di fine stagione, Roma, Fermenti, 1992, p. 57), ed assunta nelle poesie più tarde ad emblema della città globale («Sempre più stridula voce / della città che è Roma & Nairobi, Brazzaville, Gibuti, Tripoli […]», Mappamondo, Paisan di Prato, Campanotto, 2006, p. 34); il processo di autocritica e «autoscoronamento» cui è sistematicamente sottoposto l’io poetico, travolto in «un gioco crudele di apoteosi e rovina» che alternativamente lo trascina «dalla rivendicazione iperbolica al crollo e all’abbattimento» (p. 13), oscillando tra l’apice dell’«immortale sottoscritto» (L’allenamento è finito, cit.) a quello, capovolto di segno, dell’«umile scriba» o dell’«io sherpa» (Sherpa, in Cadavre exquis, Roma, Rossi & Spera, 1985, p. 12).

Sul piano formale, la visione allucinata di un mondo in caduta libera si esprime solitamente nella misura di «un verso tendente al molto lungo, un verso fluviale informe» (p. 14), animato dall’oltranza dei procedimenti sperimentali messi in atto da Lunetta – dal ricorso alle maiuscole per evidenziare determinati vocaboli, all’inizio del periodo con i due punti, all’uso di parentesi su parentesi o di parentesi non chiuse, alle barre utilizzate come interruzione – in un gioco sfrenato del significante e nel gusto di una «scrittura anomala» (p. 57) che si differenzia dalla lingua del consumo. La parola lunettiana si torce sovente nelle forme dell’invettiva sarcastica e del rifiuto dell’ideologia imperante, si sfaccetta in una pluralità stilistica e linguistica sorprendente, «fune espressionista / tesa sul vuoto» che «si nutre / d’ira & di dolcezza», «disperato / pallottoliere delle

idee fuori corso» (Mappamondo, cit., p. 36). D’altronde, Lunetta era fermamente convinto, come avrà a dichiarare nel primo numero dell’Almanacco Odradek di scritture antagoniste, che «solo nella sperimentazione in controtendenza, nell’azzardo espressivo o spregiudicato, nella tensione linguistica senza pavori» fosse ancora possibile «costruire oggetti mentali non conformizzati» (Le forme del conflitto, «Almanacco Odradek», Roma, Odradek, 2003, p. 8).

Proprio allo «spirito conflittuale» di questo scrittore e alle molteplici modalità di intervento da lui adottate si rivolge la seconda parte della monografia di Muzzioli (Il Conflitto si dice in molti modi), mantenendo fede all’obiettivo di restituire «il ritratto di uno scrittore a tutto tondo, un poligrafo davvero insaziabile» (p. 8), che non ha trascurato nessuna forma d’espressione letteraria. Questa seconda sezione del volume, se pur più breve della precedente, offre una rapida panoramica della restante produzione dell’autore, presentando gli aspetti fondamentali della narrativa (breve e lunga) e del teatro lunettiani, e riservando uno spazio a sé stante alle Prove di scrittura ecfrastica e a quei libri, definiti giustamente «eccentrici» (Di libri eccentrici eccellenti), che esulano dalle convenzionali definizioni di genere, obbedendo alla prepotente vocazione del nostro ad invadere e contaminare i più diversi ambiti, a «travalicare gli steccati disciplinari prestabiliti» (p. 82).

La terza sezione, infine, conclude il quadro fin qui delineato con una Piccola antologia della critica attraverso le prefazioni, concorrendo anche alla finalità di ricostruire la fitta rete di relazioni e scambi intellettuali intrattenuta da Lunetta. Nel corso del suo studio, Muzzioli non dimentica di ricordare le numerose iniziative intraprese da Lunetta, instancabile organizzatore e promotore della vita culturale romana, avendo cura di collegare di volta in volta il suo personale percorso a quello che era «il clima dell’epoca, la situazione storico-culturale» (pp. 7-8). Vanno intese in questa prospettiva le raccolte saggistiche dell’autore, così come le antologie da lui curate (AA. VV., Poesia italiana oggi, Roma, Newton Compton, 1981; AA. VV., Letteratura degli anni Ottanta, Foggia, Bastogi, 1985; AA. VV., Poesia italiana della contraddizione, Roma, Newton, 1989), nonché gli interventi teorici volti a sostenere con decisione, nell’ambito del dibattito critico che scaturirà nella stesura delle Tesi di Lecce, l’ipotesi di una «scrittura materialistica» e «il tentativo di ripresa di discorsi letterari alternativi» (p. 23) capaci di opporsi all’imperante situazione di «riflusso» e regressione verso poetiche di stampo intimistico.

Al termine della lettura di questo primo studio complessivo dell’opera di Mario Lunetta, ciò che risulta è il «profilo tagliente» (p. 8) di uno scrittore sempre «all’opposizione», il racconto di una «fermezza» e di un rigore etico e civile mai venuti meno, pur nell’ampiezza cronologica della sua produzione. Quella elaborata e portata avanti da Lunetta lungo tutto l’arco della sua attività è stata una scrittura motivata da una forte «coscienza antagonistica» e dalla convinzione dell’intrinseca politicità e tendenziosità delle arti; una «scrittura dell’orrore», mai dimentica della «fondamentale dimensione del Negativo» che domina la società «che abbiamo costruito e in cui faticosamente viviamo», secondo la fondamentale dichiarazione di poetica pronunciata nel 1996 (Scrittura dell’orrore, in Invasione di campo, Roma, Lithos, 2002, p. 116). Una pratica letteraria che trova il «suo compito» e «il suo senso residuo» nell’obiettivo di «creare contraddizioni all’interno del senso comune egemone, di produrre enzimi fantastici indigeribili, di creare sconcerto nei confronti dell’universale obbedienza», come dichiarerà il nostro in una delle sue più brillanti interviste.

(consultabile sul sito http://www.adolgiso.it/enterprise/mario_lunetta.asp).

*

Mario Lunetta, critico letterario e d’arte ha collaborato a: “l’Unità”, “Il Corriere della Sera”, “Il Messaggero”, “Rinascita”, “La Rinascita della Sinistra”, “Il manifesto”, “Liberazione”, e a numerose riviste italiane e straniere. È stato Presidente del Sindacato Nazionale Scrittori. Suoi libri e singoli testi sono tradotti in diversi paesi del mondo. Ha vinto numerosi premi ed è stato due volte finalista al Premio Strega (1977, 1989). Nel 2006 gli è stato conferito il Premio Alessandro Tassoni alla carriera.

Ha pubblicato in Poesia

Tredici falchi (1970); Lo stuzzicadenti di Jarry (1972); Chez Giacometti (1979); La presa di Palermo (1979); Flea market (1983- Premio Pisa); Cadavre exquis(1985 – Premio Adelfia); Autoritratto con acrostici (1987); In abisso (1989); Panopticon (1990), con disegno e lito di C. Cattaneo; Pianosequenza (1990), con acqueforti e acquetinte di S. Paladino; Sorella acqua (1991), con serigrafie di C. Budetta; Antartide (1993);  Catastrofette (1997), con un acquerello di E. Masci; Cunnichiglie (1997), con un acquerello di E. Masci; Roulette occidentale (2000), con un disegno di B. Caruso; Doppio fantasma – 91 poesie per 91 artisti (2003); Magazzino dei monatti (2005); Bacheca delle apparizioni, con quattro litografie di L. Boille (2005); Mappamondo & altri luoghi infrequentabili (2006); Nitroglicerina per ermellini, con cinque acqueforti-acquetinte e un rilievo di B. Aller (2007); Videoclip, con tre acquerelli e un rilievo di C. Budetta (2007), La forma dell’Italia (2008), Cartastraccia(2008).

Narrativa

Comikaze (1972); Dell’elmo di Scipio Marsilio 1974 – Premio Pisa); I ratti d’Europa (Editori Riuniti, 1977 – finalista al Premio Strega); Mano di fragola(Editori Riuniti,  (1979); Guerriero Cheyenne (Manni, 1987); Puzzle d’autunno(Camunia, 1989 – finalista al Premio Strega); L’ubicazione di Lhasa (Camunia, 1993); Mercato delle anime Manni, 1998) – Premio Bergamo); Penalty (Le Impronte degli Uccelli, Roma 1998); Montefolle(Manni-Quasar, 1999); Soltanto insonnia (Odradek, 2000); Cani abbandonati(Odradek, 2003); Figure lunari (Robin, 2004); I nomi della polvere (Manni, 2005); La notte gioca a dadi (Newton Compton, 2008).

Saggistica

La scrittura precaria (1972); Invito alla lettura di Italo Svevo (1972); Il Surrealismo (1976); Sintassi dell’altrove (1978); L’aringa nel salotto (1984); Da Lemberg a Cracovia (1984); Et dona ferentes: sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (1996); Le dimore di Narciso (1997); Invasione di campo: progetti, rifiuti, utopie (2002); Liber Veritatis (2007).

Teatro

La visitatrice della sera (Radiodramma – Radio Frankfurt); Galateo (Teatro delle Voci); Città proibita (Teatro del Palazzo delle Esposizioni di Roma); Antartide (Teatro Belli di Roma); Gigantografia (Festival Internazionale di Ferentino), Coca-Cola di Rienzo Story (Teatro dell’Orologio); Altorilievo, Poema drammatico (Museo Archeologico di Formia); Arkadia nonsense e Smash(Giugno al Casaletto – Villa Zingone); La forma dell’Italia (Atelier Metateatro); Lunapark (Chiostro di San Pietro in Vincoli).  In volume: Coca-Cola di Rienzo Story Book Editore); La mela avvelenata (Cinque dialoghetti blasfemi); Prigioniero politico! (“Le Impronte degli Uccelli” Editrice).

 

20 commenti

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20 risposte a “Mario Lunetta, Poesie, da L’allenamento è finito (poesie 2006-2016), Robin, Roma, 2016 pp. 190 € 15.00, Nota critica di Antonino Contiliano, Il punto critico di Giorgio Linguaglossa

  1. giorgio stella

    sulla poesia su Pound aggiungerei ‘sto verso: c’è da ridere che la spiegazione del “Non expedire” al Nobel fu che c’era troppo cinese nei Cantos…

  2. giorgio stella

    mi rispondo da solo: Pound incrinò il verso né a sua immagine tantomeno somiglianza… lo fece per una fede derivante dalla stessa missione… nn sono bagigalupo come cristo si chiama però, l’ulisse (ibitem) ha per sussidio gioco-forza il ‘ritratto’, l’altro no e di poesia in entrambi i casi parlo. Pound ha potuto scindere una scissione autonaoma da quella occasionale cioè con le note… se pasolini lo prende per il culo nella famosa intervista pace all’anima sua nn gli chiese la più ingenua delle domande che si possa fare a un poeta di tale spessore…. ‘perchè hai tradito il tuo paese?’ risposta-pound ” (mia) ‘nn ho tradito nessuno paese, gli alleati erano coloro che divennero colonnelli, la colonia pagata prima di essere condannata anzi senza il tempo della clandestinità neanche della latitanza’. Pasolini nn scrisse le borgate Pound praticò le trincee delle stesse brigate rosse. Penso a Prospero Gallinari… nn a curcio spero chi leggga questo sia maggiorenne e nn vado oltre.
    giorgio stella. (la poesia di Lunetta che nn conoscevo di base è l’alter ego della colonia francese, nell’ambasciata che per fortuna nn dà divieto)

  3. Una poesia nella forma del polittico di Giorgio Linguaglossa

    Bisticci di frasari incongrui del Signor K.

    K. è qui.

    Sotoportego del Ponte di Rialto.
    Locanda Gialla. Tavolino. Campari rosso

    in bicchiere di cristallo, noccioline, olive verdi,
    patatine croccanti…

    K. sgranocchia qualcosa di commestibile.
    Ne sortisce un eloquio bizzarro:

    «Kaffee mir über der Mund gegossen wird.
    Hai ein Raubfisch, der heißt Schmerz.»*

    Sofismi, tropismi trapezoidali, bizantinismi
    elicoidali,

    dissimmetrismi, notti atrali, disfunzioni
    atrabiliari,

    bisticci di frasari incongrui.

    «Und ich wieg, ohne Verstand, meinen Kopf darüber.»*

    […]

    Il sipario del teatro. Appare Wanda Osiris con pennacchi
    e piume sgargianti.

    Qualcosa rumoreggia, sferraglia
    come una locomotiva a vapore che stia entrando in stazione.

    La clacca entra in azione.
    Incastro di motori, di ruote dentate, rotori,

    rospi di tropi, ellittici tropismi
    trapezoidali…

    * [Caffè bollente mi viene versato sulla bocca.
    Un pesce predatore che si chiama dolore.

    E io dondolo la testa senza capirlo.]

    Questa poesia è un omaggio a Mario Lunetta e alla sua battaglia contro la poesia elegiaca e intimistica che ha imperversato in Italia dagli anni settanta ad oggi.

    Questa poesia è un esempio di polittico che utilizza frasi di un misterioso personaggio, K., nel contesto di un discorso tenuto in terza persona frutto di flash di memorie varie. Ma lo stesso contesto del discorso viene ad essere de-contestualizzato. È come aprire una parentesi tonda dentro una parentesi quadra, e ancora una quadra all’interno di una tonda. In questo modo il discorso in terza persona viene continuamente de-contestualizzato.
    Al lettore il compito di dare un nome e un volto a K., non è compito dell’autore esternarlo.

    Inserisco qui questa mia recentissima poesia, ottenuta riutilizzando delle frasi di altre mie poesie che un hacker mi aveva cancellato. E quindi, veramente una poesia fatta con i resti, gli stracci di altre poesie cancellate da un intervento ex machina, un deus absconditus, o Messer Satanasso che cincischia con le cose degli umani e si diverte a trasfigurarle.

    Un altro elemento che vorrei sottolineare di questa poesia è la tecnica della «trasfigurazione», secondo la quale ogni determinato è altro da ciò che appare. Ogni parola e ogni significato viene trasfigurato in altro significato.

    • La «forma polittico» della prassi kitchen tipica della ontologia meta stabile

      Il frammento è l’Estraneo che si presenta e si congeda.

      Se il «frammento» è il luogo privilegiato in cui si mostra la modernità del Dopo il Moderno, la pratica poietica kitchen fornisce al «frammento» la sede più idonea per rappresentare l’irrappresentabile, ciò che si sottrae alla rappresentazione della forma-poesia che definiamo tradizionalmente novecentesca e/o post-novecentesca: la «forma polittico» è la più avanzata espressione della nuova ontologia meta stabile con cui si dà oggi il mondo.
      Il frammento è l’Estraneo che si presenta e ci saluta. Il dio che è morto ha prodotto una gigantesca esplosione di frammenti dall’Uno originario dove l’identità coincideva con il senso. Il capitalismo con il suo sviluppo tumultuoso ha decretato la morte di dio. Il mercato, il nuovo Moloch, ha sostituito dio ed è diventato la nuova fede post-moderna. Il nuovo Moloch con le sue leggi autoregolantesi ha fatto sloggiare dio dal mondo e lo ha ridotto allo statuto di «frammento».
      Walter Benjamin intuisce acutamente che il filosofo e l’artista devono diventare dei «pescatori di perle», devono soffermarsi su oggetti apparentemente non degni di attenzione, sugli «stracci», su aspetti generalmente ritenuti trascurabili e negletti dallo sguardo ufficiale. Questi oggetti, questi luoghi privilegiati sono i frammenti che la metropoli moderna mette in mostra nelle sue vetrine e nei suoi passages capaci di investire i passanti con continui choc percettivi. Il mondo moderno è un mondo di frammenti impazziti che sostituiscono la contemplazione statica da un punto di vista esterno con la «fruizione distratta» di un punto di vista in movimento.
      Per Walter Benjamin «l’immagine è dialettica nell’immobilità». Le immagini si danno soltanto in “costellazioni”. Scrive Benjamin:

      «Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».1]

      Il concetto di «costellazione» è importantissimo anche per la nuova fenomenologia del poetico, le immagini si danno soltanto in “costellazioni”, in mosaici. Alessandro Alfieri in un saggio afferma acutamente che l’immagine dialettica si oppone alla epoché fenomenologica, è una diversa modalità di percepire gli oggetti attraverso la «fruizione distratta». La «contemplazione» del soggetto eterodiretto, e la «percezione distratta» sono fenomeni tipici della modernità che la poesia di Baudelaire tenne ben presente all’alba della poesia del Moderno.
      Dal punto di vista della NOE, il ripristino e la valorizzazione delle benjaminiane «percezione distratta» e della immagine come «dialettica della immobilità», sono elementi concettuali importantissimi per comprendere un certo tipo di operazione estetica della poesia e del romanzo moderni: Salman Rushdie, Orhan Pamuk, Michal Ajvaz, Tomas Tranströmer, Kjell Espmark e, oggi, la poesia della NOE, non sarebbero comprensibili senza tener conto della rivoluzione molecolare della percezione in atto dall’alba del Moderno ad oggi.
      Tanto più oggi che viviamo in mezzo ad una rivoluzione molecolare permanente (quella della proliferazione delle emittenti linguistiche: le immagini sono percepite dall’occhio come icone segniche, immagini linguistiche, lampegggiamenti segnici e semaforici…), oggi la percezione distratta è diventata il nostro modo normale di interagire con il mondo, anzi, il mondo si dà a noi sub specie di immagine in movimento, frammento, processualità di dettagli… con buona pace di chi pensa ancora la poesia con schemi concettuali pre-baudeleriani.

      Così commenta Alessandro Alfieri:

      «I frammenti sono da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.
      La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto ovvero il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la scrittura saggistica su determinati argomenti o autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico qui assume un ruolo essenziale il concetto di “immagine dialettica! dominante proprio nei Passages; l’immagine dialettica, che si oppone all’epochè fenomenologica, vive del suo perpetuo relazionarsi all’altro da sé. Non v’è possibile ontologia dell’immagine nell’assenza di relazione, anzi, è la stessa immagine che, affinché possa sopravvivere, pretende di essere messa in rapporto ad altro. È nell’immagine dialettica che temporalità ed eternità si fondono insieme, passato e presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra è il linguaggio”.
      Cogliere nel turbinio incessante e frenetico della modernità dei momenti di stasi improvvisi, delle “epifanie di senso”, capaci di illuminare di una luce differente ciò che invece ci sfugge repentinamente nella vita quotidiana dominata dalle regole del consumo: questo è il compito del filosofo dialettico e del critico della cultura; fissare lo sguardo sui frammenti per farne delle immagini dialettiche che rivelino i processi che li hanno determinati, le loro intenzionalità profonde, i loro valori allegorici e le opportunità che da esse si sprigionano».2]

      Non è chi non veda la stretta attinenza di questa problematica con il metodo compositivo della poesia kitchen, la cui strategia compositiva è più simile al mosaicista che sistema con tenacia e pazienza le singole tessere di un mosaico-puzzle piuttosto che ad un amanuense che scrive i suoi endecasillabi sonori e i suoi ipersonetti. Gli «stracci» e i «tagli», le citazioni, le faglie, le schisi e i titoli da cartellone pubblicitario adottati dalla poesia kitchen sono tessere iconiche e semantiche di un mondo frammentato, pulviscolato, abitato non già da una nicciana «verità precaria» ma dalla stessa precarietà e infungibilità della nozione di verità e della sua umbratile condizione ontologica nel moderno avanzato.
      «Il frammento è l’intervento della morte nell’opera d’arte» (Adorno). Il lavoro kitchen è quello di far emergere, rendere manifesto un contenuto di storialità all’interno della immagine, che può essere colta adeguatamente soltanto dall’accostamento di una immagine o icona ad altre immagini straniate. Ogni immagine giustifica se stessa, è auto fagocitatoria, segna una sorta di auto giustificazione e si dà come frammento, come rapporto di identità e differenza rispetto ad altre immagini. Ancora una volta ci soccorre Adorno quando scrive: «I segni dello sfacelo sono la cifra di autenticità dell’arte contemporanea». Le «poesie polittico» della prassi kitchen sono l’equivalente di un elenco telefonico dello sfacelo dei nostri indirizzi, delle dimore dello spirito, delle nostre identità pusillanimi, dello statuto ibernato delle parole che utilizziamo tutti i giorni durante le nostre conversazioni, sono la riprova che non è più possibile alcuna ricomposizione delle immagini in quanto una immagine rinvia continuamente ad altro da sé, rimanda il suo senso (sempre che ne abbia uno) alla immagine che segue o che precede. In assenza di un punto di vista centrale, il senso di una frase o di una immagine rimanda sempre alla frase successiva, o alla immagine successiva. Il futuro è una sequenza successione di immagini l’una slegata dall’altra, l’una estraniata dall’altra. Ed il pensiero del lettore è costretto a perdersi tra le immagini che si accatastano e si giustappongono senza alcun ordine di priorità o di legittimità. La poesia polittico di Gabriele segna l’eclissi del senso e del significato e della legittimità ideologica che li hanno fondati, aprono la porta della «poesia multi verso», dove ogni singola tessera fugge dall’epicentro in preda alla entropia universale di tutte le tessere del mosaico polittico.
      La poesia polittico della prassi kitchen si dà come decesso della tradizionale forma- poesia, senza alcuna remora e senza alcun rimpiango, senza alcuna nostalgia per il passato né alcuna albagia per il futuro, entrambi non essenti in quanto entrambi non-fondati, in quanto s-fondati, in quanto costituenti il senza-fondo della nostra ontologia meta stabile nella quale storicamente ci troviamo.

      1] W. Benjamin I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2007, p. 516
      2] Alessandro Alfieri In Aperture, n. 28, 2012

      • Lucio Mayoor Tosi
        28 aprile 2017 alle 16:59

        Questo articolo era necessario, contestualizza il frammento e, di conseguenza, mette in chiaro che la Nuova Ontologia Estetica non sta inventando nulla che non sia già nella realtà. Si potrebbe aggiungere che gli autori NOE sono forse i primi ad aver focalizzato la loro attenzione sulla percezione del frammento come forma-pensiero.
        Ne deriva un nuovo e diverso modo di concepire la poesia. Bisogna però riconoscere alla critica – a Giorgio Linguaglossa – il merito di aver messo la chiarezza necessaria in autori che già andavano in questa direzione, individualmente e, diciamolo, senza tante speranze di poter essere capiti nel giusto modo.

        A Enrico Castelli Gattinara, che ringrazio per l’esauriente excursus sul frammento, vorrei dire che le esperienze artistiche del novecento, in particolare quelle prese in esame (Mimmo Rotella) si muovevano con altri intendimenti, perlopiù dovuti al sentimento di modernità che ha segnato il secolo scorso. Fino alle macerie. Ora non si tratta di lavorare creativamente sui reperti ma di crearne appositamente di nuovi. E’ questa la luce che sta animando le poesie di Gino Rago, per dire forse del più classico tra i nuovi autori NOE, di Mario M. Gabriele che i reperti li usa come gomma da masticare… il pensiero arioso di Steven Grieco mentre che si libera dai secoli, e lo stesso Giorgio Linguaglossa, di pensiero-in pensiero. Sembra di assistere a un’evasione in massa, se non dalla galera, dal retrobottega di tanta tradizione resa asfittica dalla ripetitività nonché dal mondo che sta guardando altrove, in evidente trasformazione del proprio DNA. L’impresa è disperata e lo si sente quasi in ognuna di queste nuove poesie.

        In pittura io lavoro con quei “mattoni, destinati a diventare muro, “precariamente accatastati” per dirlo con le parole di Castelli Gattinara. Ma sono mattoni nuovi, creati apposta per costruire qualcosa che non so nemmeno io quando inizio; li creo singolarmente, uno ad uno e poi li accosto; vedo quel che potrebbe accadere, quale narrazione ne può derivare; lascio aperti i significati; dormo, aspetto e poi aggiusto. E’ un’invenzione continua. Alcune opere finiscono, e allora ci metto un titolo – Freezer, Pablo… delle sciocchezze, dei nomi, mai dei concetti, tutt’al più un verso breve – altre opere sono destinate a restare aperte a infinite altre possibilità di accostamento.

        Ringrazio Giorgio per averne esposta qualcuna su questa pagina. Ne approfitto per invitare i lettori a venirmi a trovare alla prossima mostra che farò a Milano, in via Savona 99. Dal 2 al 10 maggio prossimi.

  4. Poesie di Ingeborg Bachmann

    La tortura

    Chi mangia col mio cucchiaio
    chi dorme nel mio letto
    chi spende il mio denaro
    Ama, chi si gode
    il mio sole? E dov’è questo sole?
    È lontano.
    Infatti io
    sono dove
    non posso essere.
    Ah, lo permette chi
    per un breve attimo di anni
    non mi ha
    amata, lo permette,
    non vedete amici
    non lo vedete
    che dappertutto
    incomincio a scavare la mia
    mia tomba,
    anche in questa carta in-
    cido il mio nome e
    penso che non vorrei riposare
    ancora, che non risposerò
    mai, che
    persiste, questo ferro
    nel corpo, questo pugno sul
    cranio, questa frusta
    sulla schiena, che fa
    scoppiare il Kurfurstendamm
    in una risata stridula,
    da mille réclame
    grida, che il caffè bollente
    mi viene versato sulla
    mano, che mi tolgono
    la pelle, che mi
    tagliano la carne,
    mi spezzano le ossa,
    e mi murano viva,
    allora un piccolo squalo sega
    allora salto in acqua,
    mi divora, mi
    divora uno squalo più grande
    un pesce predatore che
    si chiama dolore.
    E io dondolo la testa
    senza capirlo. Laggiù
    una nave, passa,
    la vedo, voi la vedete amici?

    *

    Ich trete aus mir
    hervor, aus meinen Augen
    Handen, Mund, ich
    trete hervor aus
    mir, Gute und Göttlichem
    die diese Teufeleien
    gut machen Muss,
    die geschehen sind

    *

    Esco fuori da me,
    dai miei occhi
    mani, bocca,
    esco fuori da
    me, una schiera
    di bontà e divino
    che deve rimediare
    alle malvagità
    accadute

    Gloriastrasse

    Per sorella Ammeli

    In un letto
    in cui sono morti molti
    senza odori, in camicia bianca
    curati, come una
    conversazione infinita,
    in una casa in cui
    si mangia puntualmente, in cui
    la padrona di casa
    si chiama morte e molti di più
    soffrono ancora. E in molte migliaia
    hanno versato il deposito

    Nell’estasi della morfina
    tra i dolori che
    non richiedono nessuna ferita,
    nessun inchino, nessun
    autografo, nessuna umanità
    nessun trionfo, un folle spettacolo che grida vendetta [ – – ]
    Tra visite
    visite, ma
    visitatemi
    voi che gridate vendetta

    Nel vuoto, quando il
    telefono non squilla mai, quando
    la conversazione sterilizzata
    somministra dosi, supposte, fasciature,
    gocce, dosi, dolore che
    però non ha dose,
    Quando c’è un’unica parola
    che a volte un poco
    una fessura dell’inferno
    ha aperto, sorella, e sorella,
    E un viso
    ha che ti da
    da bere,
    e tu ti chini
    sulla sua
    mano e non
    osi dire
    quale opera buona
    tra le infime
    è la più grande,

    Gloriastrasse

    La grazia morfina, ma non l’opera buona di una lettera.
    Domande, massime a fin di bene di amici e sconosciuti.
    Arrivano fiori via Fleurop. Un interminabile
    telegramma richiede presenza, lontano, chissà perché

    Visitatori siedono, condannati, sulla sedia dei visitatori, raccontano
    guardando intensamente l’orologio davanti alla sputacchiera e alla vernice chiara,
    sputano fuori la buona volontà e una vecchia battuta.

    È uscito un nuovo studio sui cacciatori di teste.
    Averlo sottomano e già le mani prudono.
    La visita importante, introdotta dal camice bianco. dalla notte
    è in piedi nella stanza, sola e solleva il bisturi, sempre la notte.

    Nel tale e tale anno di questo letto ortopedico, nell’anno della fama
    delle vie piramidali e delle eredità dei due sistemi nervosi.
    del liquor uno e trino, con cui vengono nutrite le colombe dell’odio,
    nel midollo, che resterà,
    nel liquor uno e trino e nel midollo, che resterà,
    e cosa fonderà la mia fama, e cosa la fama, cosa la fonderà,
    qui dove mi alzo in piedi e dico alle mie province, mie
    province, voi aspettate, e aspettate dove?
    Nel midollo che mi resterà, nel tremore
    di questa mano, io lo eseguo, io uccido, io
    estraggo il mio cuore da me, lo spedisco
    più lontano, è un muscolo selvaggio, dicono,
    batte e sbatte le porte e
    batte
    dove non sono, mi trovano
    nella pozzanghera in cui nuotano riso e sapienza.

    e cercano un cuore, nelle piccole sfere,
    nei tubi di vetro, in una melma di
    sangue e una vomitata a fatica una
    rigurgitata tra aghi e
    bottiglie e bende,
    cercano
    cercano, il camice bianco cerca,
    visita, e io gli regalo
    vuoi? voglio
    regalarti il tuo cuore.

    Tessiner Greuel

    Ich hatte da ein schönes Haus.
    Dann wurde der Zugang gesperrt.
    Die Kleider habe ich aus dem Staub
    habe ich aufgehoben, einem armeren geschenkt,
    die Bloss Kleider brauchen.
    (Steht mir nicht, kein Zynismus.)

    Enteignet, Zugug gesperrt.
    Baustellen, keine Einfahrt.
    Kleider nachgeworfen, ein
    Teller dazu, danke gesagt,
    obwohl wegen harter Erdberuhng
    alles zerbrochen.

    Bluhender Bezirk, auf
    der Durchreise ein totes Kind,
    rash beerdigt, wegen Sommergasten.
    In den prachtigen Obstgarten
    haben die Freunde sich rechtzeitig
    zu Ruhe gesetz.

    Orrore ticinese

    Avevo una bella casa.
    Poi è stato vietato l’accesso.
    Dalla polvere ho raccolto i vestiti
    raccolti, regalati a uno più povero,
    di quelli che hanno bisogno solo di vestiti
    (Non mi dona, niente cinismo.)

    Espropriata, accesso bloccato.
    Lavovri in corso, vietato l’ingresso.
    Lanciati dietro i vestiti, un
    piatto in aggiunta, detto grazie,
    benché per il duro impatto sia andato
    tutto in frantumi.

    Quartiere fiorito, durante il
    passaggio un bambino morto,
    sepolto in fretta, causa ospiti estivi.
    Nei frutteti magnifici
    gli amici sono andati in pensione
    per tempo.

    *

    Ich bin ganz wild von
    Tod, von dem Taft –
    rauschen, von
    den Wasserruschen,
    ich trag ihn schon
    angezogen, das kleine
    Kraglein, damit das
    Beil weiss, wo mein
    Kopf vom Körper
    zu trennen ist. Hab ich
    das noch, Kopf und
    Körper, oh nein,
    so tausch ich del Tod,
    ich habe meinen Kopf
    verschenkt, hingegeben
    an die Meute, aber
    meinen Körper hat
    niemand gehabt, der
    wurde am Eingang zuruck-
    gewiesen. Ein Herr sagte
    mir, sagte nicht einmal, das

    *

    Vado davvero pazza per la
    morte, il fruscio
    del taffetà, le
    ruches dell’acqua,
    l’ho già indosso,
    il piccolo colletto,
    perché
    la scure sappia
    dove va staccata
    la mia testa dal corpo. Li ho
    ancora, testa e
    corpo? oh no,
    così inganno la morte,
    ho regalato
    la mia testa, l’ho gettata
    al branco, ma il mio corpo
    non l’ha avuto nessuno,
    all’ingresso l’hanno
    respinto. Un signore mi ha detto,
    non ha detto neppure, questo

    I testi della Bachmann raccolti in questo volume sono prevalentemente abbozzi e frammenti in origine non destinati alla pubblicazione e che non sono passati al vaglio di una cura critica. La loro natura di appunti sparsi, spesso vergati frettolosamente a mano, a volte oscuri, crea non poche difficoltà di lettura, ma ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni, trasportando un’immagine o una parola da un testo all’altro, alla ricerca di una destinazione che spesso sarà altrove, in un’altra opera più compiuta e significativa, ma che ha inizio qui, nell’abbozzo e nel tentativo: Questi testi, spesso interrotti, spesso raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto, sono tuttavia di grande interesse perché ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.

    Traducendoli ho scelto di seguire il testo senza chiuderne il senso lì dove un’interpretazione troppo esplicita lo avrebbe forzato in modo arbitrario, cercando di offrire una traduzione compiuta ovunque fosse compiuto o largamente plausibile, e accettandone invece la precarietà e la frammentarietà dov’era precario e frammentario, accompagnandolo nella sua incompiutezza anche quando poteva risultare stridente.
    Non ho voluto caricare la traduzione di note che per essere esaustive avrebbero dovuto essere moltissime; chiunque conosca un poco la lingua tedesca potrà verificare sul testo originale difficoltà, incongruenze e il modo in cui ho cercato di risolverle.

    Tradurre un testo la cui trascrizione è in molti punti ancora incerta e provvisoria non può che essere una proposta, un primo tentativo. In questo primo tentativo mi è stata di grandissimo aiuto Rita Svandrlik, che mi ha confortata nei miei infiniti dubbi con la sua profonda conoscenza della poesia della Bachmann: a lei va tutta la mia profonda gratitudine. Se nonostante il suo aiuto puntuale e generoso vi sono degli errori, la responsabilità è solo mia.

    (Silvia Bortoli)

    da Ich Weiss keine bessere Welt, Non conosco mondo migliore, Guanda, 2004 trad. di Silvia Bortoli

  5. giorgio stella

    gentile e sempre provvido Linguaglossa il signor kogito, l’abitante di Herbert di una Polonia extra papalina in Roma i fatti sono la cronaca etc…
    è lo schema naturale di un disegno per me estraneo pure a lui però, se il manifesto nn indica una bandiera sarà il vento a farla leggera
    come l’intessuta trama, statica, che il suo testo nn modifica nonostante la collocazzione taroccata, anzi, a una corrente riflessa, riflessa bene nello specchio suo anti-narciso. Scusi il francesismo lei rischia il culo ‘un pesce predatore che si chiama dolore’ … nonè ‘il paese della morte ha l’ampiezza del cuore’ per fortuna nel ricordo, scommesso la ricerca tentata nn lo assimilerà mai, avanti lo stesso. Lei sta davvero rischiando il culo io nn avrei il coraggio e la ringrazio. Ok, a quel ‘paese’ pure thomas ma ‘albergo-italia’ se lo assume lei confermo ‘sto coraggio nn l’ho. Ceronetti ‘andante…
    ma d’altronde la NOE, non avendo massoniche onlus si prevede nell’eutanasia che salverà una vita etc… m’intende? è il caso mdi dire che l’uso-frutto nn è Capione… qui nn stiamo parlando in due ma tra due mi permetto la conclusione. ‘notte a tutti specialmente se l’altro dice pregate per me a chi legge l’ombra.
    giorgio stella

  6. caro Giorgio Stella,
    la prima cosa è liberarsi da Narciso, altrimenti non si può fare poesia veramente di livello, quindi liberiamoci dall’io che non serve che a prendere il caffè al bar. E poi io non ho da perdere nulla, come credo neanche tu. Non credo di rischiare nulla, rischiano i piccoli poetini pretini che fanno una poesia dell’io, quello sì che è un rischio. Pensa tu a quante miliardi di pagine sono scritte con le ebollizioni del cuore dell’io. Solo la Bachmann poteva permettersi una poesia dell’io. Ma lei è una grande poetessa. Solo i grandi se lo possono permettere, e poi queste postate della Bachmann sono abbozzi di poesia scritte tra il 1962 e il 1964, sono abbozzi non ancora destinati alla pubblicazione…

    Penso che farebbe bene a quei pochi poeti che vogliano rinnovarsi e rinnovare la propria scrittura poetica, immergersi nelle acque gelide dell’Ombra, possono uscirne in due modi: o con una gravissima ipotermia con conseguente decesso immediato o con un rigurgito intestinale…

  7. giorgio stella

    la Bachamnn come si scrive nn ebbe riguardo per Celan anzi nn se ne attribbuì la sorte alla coltellata alla moglie l’epistolario parla chiaro parla? lo scrive lei, la corrispondenza inoltrata senza lui sapeva alla Nelly Sachs sempre come si scrive. Lei nn ricshia nulla? alla heiddegger lei è rischiante… se c’è uno solo della NOE e nn è uno il rischio è all’ennesima potenza addirittura consapevole del rischio che io sono semmai poeta a 44 anni e ho iniziato a scrivere a 23 tutto il resto è rotocalco, censura, protocollo dizione almanacco frazione, tra l’anno zero e l’ontologia la morfologia la sintassi evasa in una ulteriore scommessa per me da lei vinta a priori. nn parlo di cuore ma dal cuore. Lei sa alla Benn tu sai è uguale.
    Se tutti questi nomi scompariranno detti sopra scompariranno la poesia sarà salva sennò morirà con loro eccetto Celan.

  8. giorgio stella

    l’io lasciamolo a Lacan a carmelo bene, in poesia il verso nn essendo ‘parietale’ e sempre alla heidderrer ‘abbisognante’ nn della nn ricordo quale branca chi indaga sul passato è passato con esso, il ricovero nn concede tregua essendo tale. in materia nn mi pare poco. confermo la poesia è l’aids dell’anima. Egregio Linguaglossa e lo leggano tutti lei con il suo ‘paradiso’ (libro di versi atonomi schiera di nomi alla libro di versi) mi salvò la vita 7 anni fa. fu un caso una bancarella dopo l’ospedale… che tutti lo sappiano quelli della NOE e no poichè all’epoca neanche sapevo cosa fosse.
    a ‘sto punto davvero ‘notte domani alle 3&30 di notte suona la campana.
    un abbraccio giorgio stella

    • Talìa

      La poesia è l’ADIDAS dell’anima, delocalizzata, va bene anche demoralizzata, come il correttore automatico mi suggerisce, a edizione limitata, molto limitata.

  9. da Franco Campegiani un succulento intervento su e per Mario Lunetta

    “Ho conosciuto e apprezzato Mario Lunetta e, nonostante la diversa visione del mondo, lui ha ricambiato la mia stima. Si è occupato di un mio testo poetico (“Cielo amico”) ed io ho presentato il suo “Lettera morta” presso la Grafica Campioli di Monterotondo nel 2002. Esponente di rilievo dell’avanguardia, autore stimolante e prismatico, la sua poesia è una mordace critica del costume, una satira feroce ed anticonformista, con un buon armamentario di invettive e di scherni e con una versificazione antipoetica, dall’andamento volutamente sgraziato e dodecafonico. Nell’onirismo straripante, paradossalmente fuso con un acuto senso della realtà, l’esistenza appare come un treno che corre a velocità folle verso il vuoto. Il domani è un buco nero. E’ la percezione della catastrofe, che Lunetta esprime attraverso un fuoco d’artificio verbale, quasi un big-bang dovuto all’incontenibilità di concrezioni eccessive, di spinte centrifughe incontrollabili, di gorghi di visionarietà: un dire oltremisura, un multiloquio vaniloquente, un dedalo nebuloso di immagini, espresso con stile nitido, lucido, rigoroso. Ghignante e profetico. “Lettera morta” è una corrente nera e calda, un fiume amaro e beffardo, un vento torbido, una nostalgia di paradisi impossibili, una danza macabra che sa farsi anche ballata popolare, un grido rabbioso, un ululato per il destino di privazioni, tradimenti e raggiri che ci accomuna, del quale siamo vittime e artefici nello stesso tempo. “Credo che ogni scrittore, semplicemente, non possa che / dedicarsi alla continuazione ossessiva / della storia universale dell’infamia”, scrive Lunetta. Eppure questi versi catastrofici, nebbiosi ed epicedici, hanno a mio parere il fascino di affermare negando, la capacità di evocare il contrario, come accade da sempre nella vera poesia. Ci sono valenze purificatrici e rinnovatrici in ogni distruzione, in ogni blackout, in ogni salutare crollo di civiltà.”

    Franco Campegiani

  10. Caro Giorgio Stella,

    certo, ammetto che il mio Paradiso (2000) è un’opera attraversata da linee di forze divergenti e contraddittorie, stilisticamente sussultoria, sulla quale Raboni mi aveva scritto poco prima di morire parole di ammirazione pur con alcune «riserve».
    Il problema è che in questi ultimi decenni la poesia italiana (ed europea) è diventata un microlinguaggio dichiarativo, si è ritirata in una nicchia, al riparo dei fortissimi e impetuosi venti che spirano in pianura e sulle montagne del mondo globalizzato.

    Nel frattempo, si è avverato il monito di Adorno: «Tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura», dinanzi al quale anche la critica alla poesia e alla cultura italiane di Mario Lunetta è andata a sbattere contro un muro di gomma.
    Quella critica della cultura era, ed è tanto più oggi, già allora fuori contesto, era la critica di un intellettuale isolato. E quindi la risposta della cultura ufficiale è stata quella che il padrone mette al suo cane: la museruola del silenzio assordante, così da impedirgli di abbaiare, o comunque, di impedire una audience più alta alle sue accuse culturali.

    Pubblico qui, in anteprima, una mia lettera spedita a Witold Gombrowicz (1904-1969). Sì, lo ammetto, con un po’ di ritardo…

    Lettera di Giorgio Linguaglossa a Witold Gombrowicz

    caro Witold,

    io proporrei di affidare la poesia e, soprattutto, la critica letteraria ad un algoritmo, avremmo dei risultati eccellenti sulla struttura retorica delle opere, una descrizione dei tropi impiegati e delle figure retoriche accurata, completa.

    Ma noi sappiamo che la poesia e la critica letteraria sono collassate sotto il loro stesso peso definitorio. Quel linguaggio è diventato un non-linguaggio, uno pseudo-linguaggio, un linguaggio da risultato, un linguaggio giustificato. Anche i linguaggi poetici e critici si usurano, e dopo un po’ di tempo non significano più niente.

    Anche il pensiero di Gombrowicz, secondo cui l’autore e il critico si trovano sullo stesso piano, sono «due personalità con diritti esattamente uguali», è nient’altro che un eufuismo. In realtà, entrambi hanno tutti i diritti di esprimere le loro opinioni in quanto irrilevanti ai fini della critica della cultura. La critica della cultura decaduta ad opinione e a spazzatura è il corrispondente speculare della poesia scaduta a comunicazione.

    E poi: «non giudicare» equivale a giudicare, sono esattamente sullo stesso piano. Nessuno che abbia un briciolo di buon senso può affermare di aver «diritto di parola» su un’opera, perché il suo «diritto» è equipollente al «non-diritto». Poiché nelle società democratiche di oggi tutti hanno diritto, e quindi il diritto non appartiene a nessuno. Parlare di «diritto» per esprimere una opinione è una ingenuità, mostra inconsapevolmente la barbarie da cui legittimamente proviene.

    Come aveva già stabilito Adorno, la critica della cultura è spazzatura non meno della cultura di cui si tratta. Non c’è soluzione, non c’è una via di fuga dalla spazzatura e dall’immondezzaio che non sia spazzatura e immondezzaio.

    La critica che si fa oggi alle opere d’arte è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio. Nient’altro.

  11. Talìa

    Ricordo. La sestina dedicata a Lunetta mi mise a dura prova. Ne provai tante, sotto l’egida di Giorgio Linguaglossa, e alla fine eccola qui.

    Mario Lunetta

    “Muoiono anche i grandi poeti.”
    C’è una lunetta perfetta stanotte.
    Una lunetta comunista, anti-arrivista
    Che non baratta la contraddizione
    Col ghigno marxiano degli accalappiacani
    Con la lingua funginosa di villi&villani.

    Da La Musa Last Minute, 2018

  12. Complimenti a Pino Talia: in appena 6 versi un’anima intera, un intero mondo poetico, Mario Lunetta e il suo modo di percepire e leggere il mondo, stando nel mondo.

  13. Mario Lunetta sapeva benissimo che

    «La critica che si fa oggi alle opere d’arte è accompagnamento musicale sulla via dell’immondezzaio» (mi autocito).

    Oggi la poesia la decidono gli uffici stampa degli editori maggiori. La critica di poesia è sostanzialmente scomparsa, io stesso, non faccio certo critica, come si dice, testuale, invento di continuo un mio linguaggio eclettico, variegato e impomatato (che oscilla dalla filosofia, alla moda, al lessico del politico, a quello della cronaca, a quello psicanalitico e ai linguaggi distrettuali) che altro non è che una propaggine della mia poesia e della poesia dei miei compagni di strada. Poesia ultronea e altranea. Tutto si può dire che è quel linguaggio tranne che sia un linguaggio da «critico letterario» e, ci tengo a precisarlo, il termine oggi è talmente screditato da rasentare un disvalore semantico di offesa o, al minimo, di sufficienza e di irrisione.

    Mario Lunetta ha fatto per decenni Opposizione, una opposizione dura, senza perifrasi, chiamando ripetutamente «delinquenti letterari» la cerchia dei letterati al potere. Non poteva essere più onomastico, al limite del codice penale. E gliela hanno fatta pagare.
    Ma facendo opposizione permanente Mario Lunetta ha fatto anche poesia «impermanente» e impertinente, la sua è stata una poesia dell’opposizione permanente e impertinente alla mediocrità, alla corruzione e alla ipocrisia della poesia a vocazione totalitaria dominante in Italia.

    Quello che noi tentiamo di fare non è una «poesia della Opposizione», il mio (nostro) intendimento è di fare una poesia dell’anti-governo, una vera e propria rivoluzione del modello-poesia, una rivoluzione che vada ben al di là degli steccati asfittici della poesia posiziocentrica e postruista che si fa oggi a Milano e a Roma e nelle provincie. Non ho mai creduto alla ipotesi di una poesia dell’Opposizione, propendo invece per una forma-poesia che vada da subito al gabinetto della poesia italiana e lo faccia saltare dal basso verso l’alto con una carica di dinamite. Se stai all’opposizione per decenni è facile farti catalogare come oppositore permanente, come hanno fatto con Mario Lunetta, e così liquidarti. La strategia dell’Ombra è un’altra, è semplice, e lo dichiariamo con innocenza: far deflagrare la forma-poesia post-novecentista, sostituire alla asfittica poesia a vocazione totalitaria in vigore in Italia una poesia di «questità di cose» irriconoscibile, infungibile e irriducibile ai canoni della poesia post-novecentista, postruista e fideista.

  14. Scrivevo in due commenti del 7 e 9 luglio 2016 a proposito della poesia di Valentino Zeichen:

    A proposito del poeta romano che si professa,, a suo dire, «CORTIGIANO»

    Quando Adorno nel capitolo finale di “Dialettica negativa” (tra. it. 1970 p. 330), dedicato alla “Metafisica”, scrive che «Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile», dice qualcosa che risuona nelle nostre orecchie come un monito. Quando il filosofo scrive che «il processo, attraverso il quale la metafisica si è ritirata incessantemente a ciò, contro cui essa un tempo fu concepita, ha raggiunto il suo punto di fuga. La filosofia del giovane Hegel non ha potuto reprimere quanto essa fosse scivolata dentro i problemi dell’esistenza materiale…». Ed ecco che siamo arrivati al problema che qui ci riguarda: il nesso che lega il poeta «cortigiano» alla funzione oggettivamente decorativa di quel ruolo, e il non potervisi sottrarre in alcun modo nemmeno con il denunciare la pacchianeria di ogni poesia struggevolmente eufonica; voglio dire che non basta una poesia smaccatamente cortigiana a denunciare il fatto della condizione servile del cortigiano. La poesia di Zeichen resta cortigianesca al di là dell’apparenza e al di qua della propria oggettiva funzione decorativa. La stessa «tascabilizzazione della metafisica» che rammento nell’articolo ha il suo risvolto negativo nella prassi poetica, si rivela nella farcitura dei versi rendendo la poesia affine al gioco di spunti ironici e di motti di spirito delle filastrocche da cabaret. E così accade che ogni volta che si espunge la «metafisica» dalla poesia e la si rimuove dalla vita quotidiana degli uomini, si va a finire nella poesia da intrattenimento e da gioco, magari superiore, ma sempre gioco. Il gioco della poesia cosiddetta giocosa ha questo di vero, che ci ricorda il gioco di società delle signore borghesi che chiedono al poeta «cortigiano» di giocare con rime euforbiche e transmentali. Insomma, voglio dire, per chi non l’avesse ancora capito, che il gioco delle rime è parente stretto del gioco con le non rime. Quello duro, che si fa con le divise monetarie e con i kalashinikov.

    Emanuele Severino discettando su «La struttura originaria» dell’essere, parla della «immediatezza e non-contraddittorietà dell’essere» nella sua opera monumentale del 1958. Non entro qui nel merito della discussione filosofica perché sarebbe pleonastico e non ho le chiavi filosofiche per entrare nei dettagli. Ma è chiaro che qui Severino mette in opera un pensiero «metafisico». Il che non vuol dire campato per aria, pensa su «qualcosa» che sta a monte di tutto ciò che appare alla coscienza come «essere». Del resto, questa è anche la posizione di un Heidegger. A mio avviso, la parte centrale di «Essere e tempo», l’analitica dell’esserci, altro non è che una psicologia applicata all’essere. E quindi può essere liquidata come una indebita intromissione della psicologia nella metafisica dell’essere. Resta il fatto che se il pensiero vuole tentare di afferrare l’essere, ecco che questo gli sfugge di mano, si dilegua, si ritira, quella immediatezza che a noi sembrava così vera, si dilegua, si rivela fugace come aria fritta.
    Perché faccio questo discorso?, tra l’altro male in arnese e appena abbozzato? Lo faccio per dire chiaro e tondo che tutta quella “poesia” che si accontenta di fare una «analitica dell’esserci», in realtà fa della psicologia, psicologia applicata alla poesia. Il che altro non è che psicologia. Abbiamo a che fare con la poesia psicologica, così come c’è il romanzo psicologico, la pittura psicologica, la fotografia psicologica etc. e via cantando.
    Ma, lasciatemelo dire: per questa via si fa una poesia (un romanzo, una pittura, una fotografia, un cinema etc) di superficie, si va con la slitta sulla superficie ghiacciata, si scivola, si va veloci, si fanno le piroette… ma, a mio avviso, non si va da nessuna parte.
    Ecco, il problema io lo porrei così: ogni qual volta che la metafisica viene fatta uscire dalla vita degli uomini, o si crede di averla espunta dalla vita degli uomini, ecco che essa, nella veste di falsa metafisica o della metafisica religiosa, si attacca come un francobollo agli uomini e alla loro produzione artistica.
    Semplicemente, io penso che non è possibile espungere la metafisica (il mistero delle parole quotidiane che usiamo tutti i giorni, quella è la nostra metafisica) da ogni atto della vita degli uomini. La filosofia che lo dice e l’arte che lo dice, fanno cilecca, dimostrano la loro corta gittata, fanno un buco nell’acqua.

    Ecco, io direi che la poesia di Valentino Zeichen pecca proprio da questo punto di vista, che lui ha creduto ingenuamente (in modo filosoficamente ingenuo) che fosse possibile espungere la metafisica dalla vita quotidiana degli uomini e dalla sua poesia. errore madornale perché ha condannato la sua poesia (e quella dei suoi epigoni) a fare le veci del cabaret, a fare una poesia di motti di spirito, da deraciné, da bohemien, e invece ha fatto una poesia da superficie, che ben si adatta all’uditorio mediatico delle superfici riflettenti.
    E con lui tutta una certa impostazione culturale tutta italiana (e romana in particolare), ha fatto fiasco, ha fatto poesia da superficie.

    E sia chiara una cosa, io preferisco andare a cena da persone che apprezzo, e possibilmente non letterate.

  15. Giuseppe Gallo

    Scriveva Mario Lunetta
    “… anche parlando di sé il Sottoscritto
    Immemore
    parla inevitabilmente d’altro…”,
    oggi, tutto questo “altro” sembra sfuggirci sempre più velocemente, si è fatto spettro, suono e immagine, senza consistenza alcuna e non si lascia più portare alla luce della storia; si è immerso nelle aridità quotidiane del presente e non si lascia irretire da nessun vaglio filosofico e “pratico”. È la condizione dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo “nostrano”! Ormai, senza identità e senza comunità, siamo costretti a sopravvivere, o ci costringiamo da soli, all’interno di questo capitalismo che ci rende alienati e ostili l’uno all’altro; privati dei valori collettivi e socializzanti, ogni individuo coincide solo con il proprio privato. La libertà che si reclama, in politica o in poesia, è la libertà di vendersi al primo mercante di passaggio; i desideri che ci agitano provengono dalle “sovrastrutture” e i bisogni, di marxiana memoria, si sfaldano continuamente nel flusso dei godimenti passeggeri…
    Per fortuna nostra,e dei lettori che amano ancora una poesia ancorata alla materialità del vivere, Mario Lunetta ci ha lasciato qualche rigo di chiarezza…

    “assistere senza fiatare
    al pressoché irrefrenabile proliferare di Centri Benessere
    in tanta disperazione che si taglia col coltello più
    che vederla
    con gli occhi appannati del corpo e della mente,
    tanto scialo
    di urla soffocate, fiumi di sangue nel giorno che annega
    dentro le fauci della notte ammutolita e fa salire
    mescolati
    canti di ugole strozzate con versi di animali in
    tregua d’armi
    mentre il mondo che si mostra e non si mostra
    continua a sorridere
    della propria agonia senza fine, nella giusta
    divisione dei compiti
    fra vittime e assassini: si taccia una buona volta almeno
    per decenza, mica per carità – vorrei dirlo e non lo dico.”

  16. Ho finalmente letto il post su Lunetta.
    Dichiarazione di avvenuta lettura.

    Grazie OMBRA.

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