
giuseppe pedota, pianeta spento, acrilico su persplex anni Novanta
«Sta forse giungendo a compimento il senso espresso da più di duemila anni della nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche, e poi con Heidegger e Jaspers, comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce proprio oggi quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica.»*
* U. Galimberti Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, 1990 p.93
«Per staccarsi dal pensiero rappresentativo occorre, a parere di Heidegger, un salto. Saltando ci lasciamo cadere. Dove? Là dove già siamo: nell’appartenenza all’essere. Dal salto nasce “già” in cui si era. Il rilassamento (Gelassenheit) che sorge dal “ritrovarsi” nel “già” in cui si era. Il rilassamento vive la serenità (Gelassenheit) del “ritorno” nel luogo in cui “da sempre” si era, e col ritorno il piacere del ricordo e del recupero.
[…]
Se salvezza, come dice Heidegger, è “ricondurre qualcosa alla sua essenza”, in modo che il qualcosa non vada perduto, la tecnica potrà salvare se, invece di appropriarsi dell’ente, si dispone all’essere che, nel suo appropriarsi originario (Er-eignis), ospita l’accadimento di ogni ente.
Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen) e “apertura al mistero (die Offenheit fur das Geheimnis)”.
Il mistero è l’incalcolabilità dell’essere, di ciò che ci fa pensare, del “proprio pensiero”, in cui si custodisce il destino (Geschick) che fa dell’uomo un pensante, un appropriato (zugeeignet) all’essere. Rispetto a questo mistero, la Gelassenheit, come pensiero meditante in cerca del senso (besinnliche Denken), pur superando il pensiero calcolante delle rappresentazioni tecniche (das rechnende Denken) non approda a una trasparenza assoluta.

Giuseppe Pedota, pianeta spento, acrilico su perplex anni novanta
Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso. L’alternativa richiama l’ambiguità della provocazione e lascia le possibilità dell’epoca nella sospensione del “salto (Sprung)”, nell’attesa che aspetta il dischiudersi dell’ambito di ciò che ci viene incontro (das Gegnen). In questo senso, scrive Heidegger:
“Il fatto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa.”
Nell’attesa, l’unico atteggiamento da assumere, proporzionato all’ambiguità della provocazione e consono alla carenza del tempo in quanto tempo d’attesa, è quello, scrive Heidegger, di:
“Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventa incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen)”.
L’abbandono e il rilassamento che ne consegue sono atteggiamenti che nascono quando il pensare tecnico non si costituisce come unico pensare, ma si lascia comprendere in quel più ampio orizzonte dischiuso dal pensare meditante (besinnliche Denken) che non ha nulla di tecnico, perché la sua attenzione non è rivolta all’impiego delle cose, ma alla ricerca del loro senso, ivi compreso il senso sotteso allo stesso impiego tecnico delle cose. L’estinguersi del pensiero meditante “ci sottrae il terreno su cui poter sostare senza pericolo all’interno del mondo della tecnica” e allora, scrive Heidegger:
“La rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ed essere effettivamente esercitato”.
In questa eventualità, secondo Heidegger, si nasconde per l’umanità il pericolo “più grande di una terza guerra mondiale”, perché in gioco è l’essenza dell’uomo, la sua possibilità di essere apertura e dischiusura al mistero dell’essere».4]
«Di fronte all’incondizionatezza dell’accadimento, l’uomo si rilassa, depone l’ansia che accompagna ogni calcolo e ogni progetto e si dispone nella Gelassenheit, che significa a un tempo “abbandono delle cose alle cose (Die Galassenheit zu den Dingen)” e “apertura al mistero delle cose (die Offenheit fur das Geheimnis)”.
[…]
Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza con cui l’Occidente, nelle sue espressioni tecniche, annuncia se stesso…
Scrive Heidegger:
Il tratto fondamentale della Gelassenheit è restare in attesa (Warten). Restare in attesa vuol dire lasciarsi ricondurre all’Aperto di ciò che ci viene incontro. […] L’uomo infatti è affidato (gelassen) a ciò che viene incontro in quanto gli appartiene originariamente. E gli appartiene perché, fin dall’inizio, è ad-propriato (ge-eignet) a ciò che viene incontro. Per questo l’attesa si fonda sulla nostra appartenenza a ciò di cui siamo in attesa (…)
Dire contemporaneamente di sì e di no al mondo della tecnica. Ma in tal modo la nostra relazione a tale mondo non si spacca in due e non diventerà incerta? Al contrario, la nostra relazione al mondo della tecnica diventerà invece semplice e serena. Lasceremo entrare i prodotti della tecnica nella nostra vita quotidiana e nello stesso tempo li lasceremo fuori, li abbandoneremo a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, perché dipendono a loro volta da qualcosa di più alto. Tale atteggiamento del contemporaneo dir di sì e dir di no al mondo della tecnica vorrei chiamarlo, con un’unica parola: abbandono di fronte alle cose, abbandono delle cose alle cose (Die Gelassenheit zu den Dingen)» ».5
3] U. Galimberti Il tramonto dell’Occidente, Feltrinelli, 2005, pp. 407 e segg.
4] Ibidem p. 408
5] Ibidem p. 409

Giuseppe Pedota, paesaggio di pianeta spento, acrilico su perplex, anni novanta
Donatella Giancaspero
Tre colpi dal piano di sopra
Tre colpi dal piano di sopra. Il quarto
fa vacillare uno studio del Gradus ad Parnassum.
Insieme, qualcos’altro, ritratto
nell’intercapedine fra l’intonaco e un’eco di scale.
Chiodo su chiodo, gli sconosciuti
si cercano dentro il sentore delle stanze.
Nell’insistenza delle macchie sul soffitto.
Un intervallo di quinta discendente alla finestra.
Ci domandiamo che ora sarà da qui a trent’anni,
nelle smart home di risorti edifici.
Intanto, i treni cittadini irrompono nel rombo del temporale.
Un refrain senza indicazione di tempo replica in verticale
la sequenza del pianoforte sbalzato sul selciato.
Sotto gli occhi delle facciate, sospinto a mano.
Da una persiana all’altra.
Lorenzo Pompeo
Ars poetica
Il sipario di nebbia sale
e l’indocile evidenza
si spoglia delle sembianze:
davanti ai tuoi occhi sfila
una fila di colonne,
ai loro piedi scarpe rotte
e un vecchio indovino
con gli occhiali a specchio,
pronto a leggerti la mano.
Un vascello fantasma
appare e scompare,
lampeggia tra le costellazioni
il caso e il fato
se ne contendono il timone.
La sfera della penna rotola
sul lato oscuro del foglio,
dove le sillabe si accoppiano,
e ideogrammi luminosi
come fuochi d’artificio
si stampano sulla pelle.
Tiziana Antonilli
Dicono gli amati*
L’eredità mai trascritta
riempie le braccia
di resina in erbe
facendo scorrere l’incaglio ai polmoni
dove l’aria svenava metalli pesanti.
Non rinnegare gli strumenti
che intagliano legno e marmo
apri il mare e raggiungi le isole
spargendone al ritorno
lesinare è decidere di raffreddarsi
solo allora lancia il guanto Inverno
e alla prima svista trafigge.
*(da Le stanze interiori, Progetto Cultura, Roma, 2019 pp. 100 € 12)
Carlo Livia
Autoritratto (senza Mozart)
Un arpeggio si tinge di nero
Fra lei e l’eternità
un arsenale di mal di testa
per le cosce scoperte e il pallore delle ostie
E’ prigioniera delle macerie del sogno
e di quelle anime in finta prateria
che uccidono Dio senza mentire
“ La voce interna è fuori scena “ dice il capo
e si allontana a soppesare
i singhiozzi della soffitta
Lei torna al cancello indicibile
“ Dove finisce la follia – chiedono –
nella santa impercepibile
o nei gigli appena masturbati ? “
Fuori è sempre la stessa scena
il davanzale mistico
senza la Schiffers e coi pinnacoli muti
Passano estasi di farmaci e di bitume
un cielo scorticato che finge i Pink Floyd
una testa d’angelo con un cucchiaio di vetro
mezza redenzione
un velo dell’Apocalisse
una signora morta senza Dio
e tutti fingono di non vedere
Guido Galdini
Tre poesie ipoveritative
(Durante una visita alla mostra di Antonello da Messina, Milano, Palazzo Reale, Aprile 2019)
„Non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro.“ La moda è il ritorno del sempre eguale nel nuovo — Walter Benjamin
In un certo senso, il distico segna il ritorno del sempre eguale nel nuovo distico che segue il precedente. È una spinta che segue ad una controspinta.
San Gerolamo
il manto scende ad ondate
s’increspa sul pavimento
il leone passeggia nell’ombra
fuori c’è un cielo da oltrepassare
qualche uccello in planata
si avvicina all’azzurro
troppi libri e altri oggetti
ingombrano le mensole
il pavone non ha nessuna voglia
di esibire la ruota.
.
L’Annunciata
la mano destra si stacca
dal piano della tavola
è protesa per arrestare
la vicinanza di uno sconosciuto
l’altra mano trattiene il mantello
gli occhi hanno smesso di guardare.
.
Pietà (dal Museo Correr, Venezia)
il tempo ha sgretolato i volti di Cristo
e degli angeli che lo sorreggono
con le ali che pungono il cielo
il minuscolo teschio d’Adamo
è posato accanto all’albero rinsecchito
in piazza non c’è ancora nessuno
il mare è deserto di navi
un angelo si appoggia alla guancia
la mano di Cristo
che pende inerme dal polso
il costato ha una breve ferita.
La cultura occidentalecostituisce le radici della nostra esistenza. Percio’ destinata certamente ad ampliarsi, ma non certo al tramonto (Maria Siciliano Casella)
Il Gio 9 Mag 2019, 08:00 L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona
Poiché qualcuno mi ha chiesto che cos’è la nuova ontologia estetica, devo ammettere che mi sono trovato in imbarazzo a rispondere perché la domanda solleva una miriade di problemi e non saprei da dove cominciare. Cmq, per non sottrarmi alla domanda postami, allego il link dove sono citate alcune problematiche della NOE:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/03/15/alcune-ragioni-per-una-nuova-ontologia-estetica-poesie-di-donatella-costantina-giancaspero-giorgio-linguaglossa-gino-rago-e-lidia-popa-nella-traduzione-in-romeno-di-lidia-popa/
Ecco delle poesie di un autore italiano di oggi. Sarei curioso di conoscere qual è il vostro parere critico:
Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.
E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.
***
Ma poi, e basta qualche ora,
dopo l’orrore della massa accodata,
ecco la tregua benefica che scioglie
la sindrome sinistra e pervasiva
del distacco.
Che paesaggio, piano, indifferente,
serenamente bigio nell’oceano,
nelle sue piccole bianche casine silenziose
e io, la spuma tranquilla alle mie spalle,
in appoggio, slittavo in un sorriso nel vento
di improvvisa adesione. Non totale
adesione, ma quasi.
***
da Il penitente di Pryp’jat’
Nella foto di Kostin lei è di spalle, avanza
con un bastone e un sacchetto nero,
curva, ingobbita nella sua veste scura
e un fazzoletto in testa in una strada
solitaria, di terra e ciuffi e sassi.
Vecchissima arranca verso un dove
di patria, un dove di pace e morte.
*
Su tutto spicca la grande insegna
bianca sul prato, a sovrastare
quasi trionfale, la desolazione:
Припять 1970, l’anno
della sua edificazione. C’erano
la via dell’amicizia dei popoli,
la via degli entusiasti, una città
privilegiata di tecnici e maestranze,
l’idea del futuro nei palazzi, nelle menti
delle famiglie, dei bambini
nei parchi e nelle scuole.
Lo spettacolo fu quello
di una luminescenza strana,
meravigliosa, dissero. I pompieri
accorsero, si tolsero le tute,
tutto. E morirono tutti.
*
Ma solo dopo 36 ore
l’intero popolo della nuova città
fu finalmente evacuato.
Cesio-137. La nube
seccava le mucose nella bocca
e tonnellate di materia radioattiva
furono sparse nel vento, portate
dal vento verso nord. Un rilascio
pari a duecento volte Hiroshima
e Nagasaki messe assieme.
Nel caos dell’esito attivo
si annusava l’odore della carne marcia,
si andavano moltiplicando orrori vari
al sistema osseo, al connettivo, al sistema
nervoso e circolatorio.
Videro galline dalla cresta nera,
il latte si rapprendeva in polvere
bianca, nacquero sette ermafroditi.
Una moria di animali negli orti
diventati bianchi, nella foresta
rossa. C’era chi sollevava
strisce di pelle dal suo corpo con le mani.
Una quiete sinistra e irrevocabile.
*
Ci si abitua, è… normale. Si gode
di una sopravvivenza minuziosa,
in un farcela giorno per giorno, strappando
ogni giorno come un frutto, come
un regalo in più da far fruttare.
Prezioso, inestimabile, ed è solo un giorno
sottratto al proprio nulla.
In una città deserto per filosofi.
*
Spostavo lento il dito sulla mappa,
sul colore verde chiaro del paese
così labile e remoto. Leggevo i nomi
strani delle oblast, delle città. Ecco
Rivne, Žytomyr, Ovruč, che cercavo,
e le venature di azzurro più a nord.
Così, mentre ero al tavolo, la carta
si ingigantiva, si ingigantiva, a un tratto,
a dismisura e diventava terra, diventava
un intrico di terra, boscaglia e di palude
che quasi mi inghiottiva nel suo verde
e ocra. Iniziava lì la corsa in gruppo
nel bosco, preceduto, io, da due figure
femminili, alte, rapide e in nero.
Fino a trovarmi solo, in superficie, tra la sabbia bianca e le sterpaglie, proprio di fronte a quella specie di trapezio bianco, con la scritta in cirillico e la data, in nero, 1970. Lì, di fronte, si è di colpo aperta una via di campagna, miserabile, poche baracche ai lati, e lei, la vecchia che avanza, solo in apparenza sopraffatta.
Io l’ho seguita, fino alla cittadina
storica e infestata, verso la casa
dell’architetto. Qui mi hanno cantato
la leggenda del fantasma
il penitente che si aggira
solitario dietro una chiesa e appare
di notte, le lunghe dita bianche, la faccia
piatta, l’occhio sformato, i lunghi capelli
biondi arruffati, nerovestito dalla voce
roca, traslucido e urlante.
*
L’epilogo quale che sia non conta. Mai.
Così il meccanismo, la banale trama. Conta
l’insistere virtuale sulla scena,
la rapsodia sparsa e sempre minuziosa
delle circostanze. Poi
perdo l’orientamento, senza paura,
certo, ma deluso, e il dito,
d’improvviso impaziente, torna
curioso a muoversi, a grattare,
prima di depositarsi ormai stremato sull’atlante.
***
Giuseppe, per gli amici “El Pinìn”, e un desiderio di ruvida serenità, per qualcuno rudimentale o selvaggia. Non so perché, ma comincio a infastidirmi di tutto ciò che
è lì per niente, che non ha, insomma, una stretta utilità concreta. E che, s’intende, non ha neppure un requisito di bellezza. Perché, dopo tutto, proprio la bellezza… la bellezza disinteressata… Ma asciutta, ardua, priva di leggiadre soste ornate, decorate. Sì, homo aesteticus, se si può dire, e non il solito infelice homo oeconomicus.
Perché non è economico il reale,
mentre cerchiamo in un estremo
patetico conato di ricrescere
verso l’abisso, ottusi, scossi
dalla sacra idiozia della moneta.
Mi basta, minimale e individuo
come sono, la più modesta
resilienza del soggetto.
***
Osservo dalla mia finestra la chiave di volta della casa di fronte e subito penso a un ritmo scandito perfetto, a una musica, insomma, a un movimento, un movimento del corpo. E insieme penso a una provvisoria matematica esattezza, e soprattutto a un campo più vasto, un campo aperto di possibilità molteplici, o forse infinite, un campo intrecciato di corrispondenze sottili e di rimandi, di percezioni sensoriali diverse, leggibili, appunto, come “foreste di simboli” ai più sconosciute, dove “profumi, colori e suoni” portano in sé il progetto compiuto di un pensiero nascosto.
***
Clairoir
Sono pronto, finalmente, a scivolare
in pace indietro, ma è sempre poco,
verso ciò che è stato e che non so,
che è, permane, pur senza visibile traccia
e mi ha generato anonimo, nei passi
anonimi, nell’anonimo circolare
nel mondo innumerevole in appellativi
e umili viscere di terrestre terra
remota e ovunque come in quell’anno,
in quel numero inciso lassù,
sotto i ferri ingegnosi del clairoir,
dov’è la croce, forse alchemica,
aerato e ancora nitido: 1721,
i Brandeburghesi. Quando le storie ricordano:
la famiglia reale britannica s’inoculò il vaiolo.
***
Ma qui,
in questa rugosa e fresca Europa,
delle infinite, sottili differenze,
che la lingua rivela nei fantastici
nomi – Bilbao o Oxford, Tallinn, Roma
o Trondheim, Timişoara o Brno
o Murmansk, è ancora il vasto,
inimitabile, storico territorio,
ideale e reale, autentico
nostro mutante habitat.
***
La materia si erge, si protende,
ed è insieme fitta, ottusa e acuta
e in queste forme di impeccabile
eleganza misteriosa, per noi,
labirintica e leggera.
Il suo corpo tende a ricomporsi,
nelle costruzioni sottili dell’arte,
come una scrittura musicale
antica o d’avvenire e sempre
da scoprire, perlustrare e amare.
Questi pezzi li ho composti semplicemente prendendo appunti davanti ai quadri, con successivi trascurabili ritocchi.
Alla mostra di Antonello erano esposti parecchi schizzi di Cavalcaselle, l’autore ottocentesco che ha fondato la storia dell’arte italiana del rinascimento.
I miei sono schizzi linguistici. Niente di più.
Ci si sente forse sul ciglio
dell’immortalità tradotta ad effigie
o un pallido ciclo compone rinascite.
Donate una zolla di terra
al pauroso fragore del ciclo terrestre
in palpito di foglia morta al suo fiore.
Non soggiace Amore a spento atomo se
il nucleo trasale in ascensione inversa.
Chiamate i bambini a gran voce.
L’istante sconfigge ogni temporalità.
Indimostrabile teorema a diadema posto,
milizia in difesa di Bellezza.
Un albero attraversa lo sguardo.
Cauto, dilegua in rosei fiori e, a richiamo,
celebra del padre la memoria.
Non fui mai. Solo intrattenni dialogo
con l’anima in veste di luce abbagliata
da origami diurni graffiati a fosforo.
Così vedo allontanarsi la notte.
Marina Petrillo
(Sia primo l’ Essere che esce da se stesso per incontrare la parte di sé che non vedeva.)
– Ho pensato di intervenire su Ars poetica di Lorenzo Pompeo eliminando le trappole delle associazioni sostantivo-aggettivo.
Ri-propongo “Ars poetica” in distici.
Lorenzo Pompeo
Ars poetica
Un sipario di nebbia .
L’evidenza si spoglia delle sembianze:
davanti ai tuoi occhi sfila una fila di colonne,
ai loro piedi scarpe rotte.
L’ indovino con occhiali a specchio
pronto a leggerti la mano.
Un vascello fantasma appare e scompare,
lampeggia tra le costellazioni.
Caso e Fato
se ne contendono il timone.
La sfera della penna rotola sul lato oscuro del foglio.
Le sillabe si accoppiano.
Ideogrammi-fuochi-d’artificio sulla pelle.
Lorenzo Pompeo conosce assai bene poeti e poesia del Novecento poetico di Polonia, da Rózewicz a Herbert,da Milosz a Szymborska e a Ewa Lipska e ne ha tradotto con ottimi esiti svariati componimenti.
Ne ha ereditato la facoltà di catturare immagini e Lorenzo Pompeo stesso è ottimo fotografo, arriva al momento giusto e nel luogo giusto per fare scattare l’otturatore della sua macchina fotografica. I distici di Ars poetica (un titolo fortunato di Milosz che però finiva con il punto interrogativo, Ars poetica?, lo dimostrano: il poeta parte dalle immagini che fissa per sempre nel tempo e nello spazio.
Come in certi distici di Giorgio Linguaglossa, anche Lorenzo Pompeo ha come maestri gli occhi e come alleati il tempo e la luce.
Perciò le sillabe che si accoppiano nell’ars poetica si fanno ideogrammi-fuochi-d’artificio sulla pelle del poeta tesa come la pelle di un tamburo battente.
– Di rara bellezza, una perla, la poesia di Marina Petrillo con quegli origami graffiati a fosforo nella luce del giorno, l’unico modo per Marina, l’unico luogo in cui l’Essere che esce da sé può incontrare il lato al buio di se stesso.
(gino rago)
Non so chi sia l’autore o l’autrice di questi versi, a noi proposti dal nostro Giorgio Linguaglossa. Se insieme li leggiamo ad alta voce
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/05/09/il-punto-di-vista-di-umberto-galimberti-sul-concetto-di-gelassenheit-abbandono-delle-cose-alle-cose-poesie-di-donatella-giancaspero-lorenzo-pompeo-carlo-livia-guido-galdini/comment-page-1/#comment-56976
La materia si erge, si protende,
ed è insieme fitta, ottusa e acuta
e in queste forme di impeccabile
eleganza misteriosa, per noi,
labirintica e leggera.
Il suo corpo tende a ricomporsi,
nelle costruzioni sottili dell’arte,
come una scrittura musicale
antica o d’avvenire e sempre
da scoprire, perlustrare e amare.
e poi li analizziamo con distacco notiamo, senza sforzi, che in appena 11 versi l’autore o l’autrice impiega ben 10 aggettivi qualitativi (fitta-ottusa-acuta-impeccabile-misteriosa-labirintica-leggera-sottili-musicale-antica)…
caro Gino,
hai fatto un esercizio intelligente sulla poesia di Lorenzo Pompeo: eliminando gli aggettivi hai estratto la quintessenza dagli oggetti presenti nella poesia. Così gli oggetti possono risplendere di luce propria, e la tessitura del componimento risulta più salda.
Per quanto riguarda il secondo autore proposto (Maurizio Cucchi con una sua poesia tratta dall’ultimo libro edito nel 2019, Mondadori, Lo Specchio), condivido appieno il tuo giudizio: in appena 11 versi ci sono ben 10 aggettivi qualificativi! Siamo al trionfo dell’aggettivo! E al capitombolo del sostantivo! Ed è ovvio che quando il pensiero poetico si affida alla figurazione aggettivale, si indebolisce; e così accade che l’autore (qualsiasi autore), tenti, in modo consapevole o inconsapevole, di riempire e otturare la latenza dei sostantivi con una sovra abbondanza di aggettivi al fine di contro bilanciare lo squilibrio tra i sostantivi e gli aggettivi. Ma qui è tutta l’impalcatura del pensiero poetante che si rivela estremamente fragile proprio per quella latenza dei sostantivi, delle onoma e delle res sostituiti con una impalcatura aggettivale coloristica. Cucchi tenta sì di fare una poesia oggettiva, una poesia delle res, della «materia», infatti l’incipit vuole convincere il lettore che qui si fa sul serio, si tratta nientemeno che della «materia» che «si erge»… e via di questo passo… il verbo altisonante «si erge» al riflessivo è una spia della inadeguatezza grammaticale e lessicale del vestito linguistico alla postura da poesia metafisica che vuole presentare il Verbo della nuova ontologia: la «materia»… etc. etc.
Accade questo: meno l’oggetto è «letteralmente» detto, più deve dirsi figurativamente. Quando invece più l’oggetto del testo è problematico, meno dovrebbe essere detto in forma letterale discorsiva. Cioè, più il testo poetico si de-letteralizza, più il rapporto col reale diventa problematico, e più la problematicità, che è dunque formale, si dà ad una argomentazione dialettica. Quando invece lo si letteralizza, il testo tende ad assumere un vestito discorsivo assertorio. Ad esempio, in un testo iper-letteralizzato, più si scava il fossato tra il letterale e il figurato, più il testo tende ad immedesimarsi con la voce monologante risolutoria. Ovviamente, un testo analitico-risolutorio come questo propostoci dall’autore in incognito tende per propria forza di gravità ad assumere un discorso assertorio discorsivo, a tradurre la intima problematicità del reale al mero piano letteralizzato e alla abbondanza di aggettivi, della colorazione aggettivale. Il testo in questo caso perde in enigmaticità ciò che acquista in letteralizzazione; perdendo di vista la complessità del reale, semplicizza l’oggetto, lo rende nello spazio e nel tempo unilineare e nel viaggio discorsivo imposto dalla ragione argomentante, dimenticando che un oggetto che si trova nel mondo è sempre un oggetto immerso in una infinita molteplicità di relazioni mondane e storiche. E il discorso letterale va sempre a sbattere contro il muro della semplicizzazione prospettica dell’oggetto.
Con la poesia di Marina Petrillo ci troviamo all’interno di un discorso poetico che rinuncia a priori a porre il poiein sul piano del discorso assertorio risolutorio dell’io monologante e della ragione discorsiva; già nel primo verso, l’avverbio «forse» getta un fascio di luce fosco e allusivo su ciò che si sta per dire in un alternarsi di enunciati predittivi e allusivi di indubbia caratura stilistica e tonale dove il tono assertorio viene sostituito da un discorso dubitativo, ellittico e incidentato. Ecco una poesia che non si fregia della discorsività fine a se stessa, come mezzo per il tono assertorio monologante dell’io che sta dietro le quinte in attesa di sporgere il capo, il testo cresce da se stesso, dall’interno della propria infermità e debolezza vocabologica e dall’interno della debolezza ontologica dell’oggetto del contendere. La «materia» qui è davvero materiata, è una materia mutante, mutagena e l’oggetto-poesia viene abbandonato (nel senso di Gelassenheit) nel suo farsi e nel suo destino di mera infermità vocabologica. Giungono a proposito le parole di Umberto Galimberti:
«Gelassenheit significa allora ritrovarsi nell’essere come pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico, e quindi silente per l’inadeguatezza del linguaggio a disposizione, oppure affidantesi alla parola poetica che non enuncia ma evoca. Gelassenheit significa anche lasciar essere (ein-lassen), quindi non volere. Il silenzio, la parola poetica, il non volere si profilano così come possibilità alternative al calcolo, all’enunciato, alla volontà di potenza…».
La poesia della Petrillo narra l’essere che esce da se stesso, che si sporge dal nulla e si trasforma in ente vivente, e diventa nulla. Poesia diametralmente opposta a quella del realismo topologico e normografico dell’autore precedente, qui la stessa struttura sintattica e grammaticale viene piegata alle esigenze di un dire che non può che essere allusivo ed evenemenziale. Rileggiamo la prima terzina:
Ci si sente forse sul ciglio
dell’immortalità tradotta ad effigie
o un pallido ciclo compone rinascite.
Con quel noi al riflessivo del primo verso che si sporge timidamente ad alludere, a indicare la sostanza profonda che caratterizza l’ente nella sua genesi e nella sua gestazione fenomenica nel tempo. È una poesia che si lascia condurre dalla severa articolazione in terzine da un linguaggio enigmatico perché l’enigma è la sostanza profonda dell’ente che sta per prendere forma nell’universo. Questo ci dice la poesia con un linguaggio che si affida alla massima potenza connotativa del piano figurato. Pensosità purificata da ogni residuo soggettivistico.
Non si sottrae all’affanno l’esperire e tutto muove in linea d’ombra. Eterna riduzione in scala dell’incerto detto, parola mai sazia del divino verso. Se, barcollante, approdo in perfetta sponda, la sezione aurea dispiega il suo canto ed intona l’inno volto al sublime Arcano.
Siamo qui esposti al vento avverso abbeverato di sole, trainati su leve della cui geometria disconosciamo le sacre linee. L’infinito non dispiega i suoi tratti se la Sapienza riflette l’inganno.
Il gioco volge alla fine e l’abisso rastremato a virtù, accoglie dell’eremita, il silenzio . In Corona di fuoco arde il tattile cammino tra Bellezza e Rigore. Connubio di alchemica eleganza tra ciò che è o sarà. A breve. A goccia di assoluto.
Ecco riapparire la promessa offerta, come un tubare di colomba sensibile all’udito. Un pensiero netto, reciso in geometria astratta, scavo inciso a morte. Ferita non rimarginata nel mattino ma sovrastante la sera. Equilibrio tra ore dismesse e tacite attese.
Dove essere se in proiezione non ricalco alcuna ombra…in umiltà si piega il ginocchio ma è solo il flettersi prima del volo.
Grazie Giorgio
Marina P
Ecco qui un sonetto in romanesco di Sabino Caronia in stile post-belliano
A Linguagro’, ma va a magna’ er sapone,
nun me scoccia’, nun me sta a rompe er cazzo,
è da ‘na vita che me faccio er mazzo
pe resta’ sempre er solito fregnone.
Passi pe quelli che nun so pippette,
pe Gino Rago, Steven ed Arfredo,
passi pe tutti, puro pe Sagredo,
ma che c’entreno mo ste suffraggette.
Fossi ‘n’omo, vabbè! ma ‘na sciacquetta
ha da venicce a smove li sbadijj
a furia de libbracci e paroloni!
Fili, fili, lavori la carzetta,
lassi perde de dà boni conzijj,
abbozzi, e nun ce scocci li cojjoni.
Avevo risposto altrove a questo divertentissimo, ben fatto sonetto post-belliano dell’amico Sabino. Mi ero fermato però alla prima quartina. Non facilissimo per me scrivere in romanesco, ma mi sono divertito a farlo e, ovviamente, a giocare con Sabino.
Sentime, Sabino, ma de che te laggne?
Sei fra l’apostoli e fai fracasso come Tomasso?
Nun te se po’ lassa’ un minuto che ficchi er dito
Ne la tazzina de la colazzione cor palosso.
Rispondo a Sabino Caronia in romanesco, in distici perfetti con rime alternate:
A Sabbì, ma vattelaàpijà ‘n saccoccia
sempre a prennettela cor Linguagrossa
tu che invece dovrebbj annà a fa’ bisboccia
e sscrive quarche parolaccia rossa
e nò a pijattela sempe co’ le fregnette
che scriveno come Sarvini comanna.
Parlace ‘na bbona vorta de le tette
de la francesina che te lassò in canna!
e nun c’appestà co’ ‘ste quisquiglje
de chi ce rrompe sempe le maniglje!