Donatella Giancaspero
Alla fine di aprile
L’intenzione di dire. Il fenomeno nuovo. L’evento.
Ma, di colpo, cade dalle mani la tazzina di porcellana.
Attraversando un flash, tocca il fondo.
Una lesione sul bordo per gli anni a venire.
A pranzo, in cucina, la sedia occupa il posto estraneo.
Sfilano i bar di passaggio. Le arance spremute nei vetri opachi.
Da un isolato all’altro, le parole sbirciano vetrine
– “per caso, senza l’idea di comprare qualcosa.
Cercando, magari una volta soltanto
e fuori stagione, un gelato al limone…”
Alla fine di aprile, i gabbiani qua intorno. Tanti.
Sui tetti. In cima ai comignoli. Appollaiati.
Chi punta il dito, in un ritaglio tondo di cielo
Commento di Giorgio Linguaglossa
Anche Donatella Giancaspero costruisce per polittici le sue poesie. È un «soggetto-polittico» che qui ha luogo. Si va per audaci scorci e scorciatoie, per abbreviazioni, per fulminanti asimmetrie ed ellissi come nella poesia italiana degli ultimi cinquanta anni non si era mai visto. La poetessa romana preferisce al distico, i gruppi, strofe ben nutrite, complesse e compresse; in questo modo ottiene effetti di profondità e densità spazio temporali. Frequentissimo è il punto, impiegato per spezzare, frantumare lo strofeggiare pallido e assorto dei frequentatori della poesia narrativa di oggidì. Direi che la «nuova poesia» la si può riconoscere dall’impiego, dalla frequenza e dalla dislocazione del punto; più frequente è il punto, più la poesia assume la connotazione sintattica della interruzione, della marcatura, della dissimmetria. Ogni emistichio e ogni singola tessera del verso ha un proprio peso specifico differente da quello di ogni altro emistichio e di ogni singola tessera frastica.
Anche la sineddoche, la metonimia e la procedura straniante vengono impiegate frequentemente però in momenti strategici, in particolari luoghi delle singole strofe a sottolineare la forte morfologia della costruzione sintattica (la sedia occupa il posto estraneo./ …. Le arance spremute nei vetri opachi).
La poesia tratta della descrizione di uno scorcio di Roma invasa dai gabbiani che ormai passeggiano tranquillamente in mezzo ai pedoni e al traffico della capitale alla ricerca del cibo delle pattumiere. Ma è anche la descrizione di una Stimmung, di una tonalità emotiva. La poesia non è una descrizione di un paesaggio, ma è la rappresentazione con mezzi poetici e tecnica da NOE della Stimmung della persona che sta là fuori e osserva tutto questo degrado. Eppure, c’è della bellezza in questo degrado, anzi, il degrado del nitido quadretto alla Pisis, ha qualcosa di accattivante, di emolliente e di repellente. Gli interni sono tutti disadorni (elemento questo tipico della poesia giancasperiana), per non dire squallidi, ma di uno squallore ricco di vita trattenuta, deflorata, consumata, violata, inautentica, sordida, felice…
La Giancaspero non indulge mai ai buoni sentimenti, non alletta il lettore, non lo illude… è sempre oggettiva e disadorna nelle sue rappresentazioni. Nelle sue poesie non c’è mai un Inizio, come non c’è mai un Finale. Il Finale di partita è che non c’è, non si dà mai nessun Finale di partita, perché non c’è partita. Ovvio.

fotogramma del film Nostalghia di Tarkovskij
Donatella Giancaspero
Cari amici,
per prima cosa, voglio ringraziare Giorgio Linguaglossa per aver pubblicato la mia poesia “Alla fine di aprile” e per averla commentata così bene. Inoltre, condivido moltissimo il pensiero del filosofo Andrea Emo citato qui nel post. E tengo a evidenziarlo:
«Non è vero che la poesia sia pura fantasia, pura immagine, che la filosofia sia puro pensiero. L’immagine senza pensiero è vuota, il pensiero senza immagine è muto. Ciò che non si saprà mai è questo: quale dei due sia l’origine o la speranza dell’altro. Ma questo è forse necessario. Poiché se il pensiero, guardandosi non vedesse in sé, come suo fine, l’immagine, e l’immagine, guardandosi, non vedesse in sé, come suo fine, il pensiero, forse all’uno e all’altra potrebbe sembrare di essere fondamento, costruzione o conclusione del tutto. Ma questo loro reciproco esser fondati sull’altro fa a noi intendere come pensiero e immagine siano la forma umana della contemplazione, che muta volto e delude se stessa».
Credo che questo discorso possa applicarsi alla mia poesia.
Proprio in questi giorni, dopo un lungo (e direi estenuante) lavoro di ricerca e di riflessione, ho composto un testo. La mia ricerca si è incentrata sulla storia urbanistica e sociale di un luogo della periferia romana, sulla filmografia che lo descrive (principalmente quella di Pier Paolo Pasolini), nonché su alcune tecniche cinematografiche essenziali. Ma non solo. Nella scrittura mi sono trovata ad affrontare proprio quella stretta e misteriosa connessione tra pensiero e immagine di cui parla Andrea Emo. È stato in funzione di questa che ho stabilito la mia ricerca lessicale e sintattica. I dati oggettivi derivati dal lavoro teorico preparatorio si sono mescolati con i frammenti di una mia vaga memoria personale: più che di veri, coscienti ricordi, si tratta di flash, di echi, in certi casi soltanto di sensazioni: tutto ciò che la mente è stata in grado di recuperare, sollecitata anche dalla visione delle immagini reperite nel web.
*
Lungo piano sequenza
Nel colore digitale, la sfocatura dello spazio:
gente, alberi, automobili. Le scritte e i murales dei writers.
Un software smonta i semafori, i parcheggi lungo il marciapiede…
Sulla sponda destra dell’asfalto, una landa sbiancata.
E un accenno nero di arco, tra gli sterpi, oltre il senso della Storia.
Di contro, la campata vuota del Boomerang. I monoliti stellati.
Su Google Maps, via Lucio Sestio evoca il mercato rionale.
Lungo piano sequenza di luce, col cinquanta* che sfonda.
Il bianco e nero sui volti. La fissità del moto.
Antonietta, dietro le verdure. Il coltello nella tasca ruvida
e l’offerta consueta per la bambina di passaggio:
non si spiega il filo teso dei palloncini oscillanti al vento.
Tra i banchi, se ne veste un vecchio ragazzo con la faccia da ladro,
la maglietta bucata. Ne stacca uno per due lire…
Un punto bianco, nel bianco: sopra la torre di largo Spartaco.
*Pier Paolo Pasolini, Poesie mondane, in Tutte le Poesie, vol. I (Mondadori, 2003)
Scrive Pier Aldo Rovatti:
«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?
Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.
Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 2]
2] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7
Scrive Jacques Lacan:
«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.
Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]
Giorgio Linguaglossa
Qualche considerazione sul «soggetto-polittico»
Ciò che mi costituisce come soggetto, ecco la questione centrale. Non è dal soggetto che dobbiamo partire, ma dall’esterno, da ciò che ci rende soggetto, che sono gli Altri e l’Altro. È da qui che dobbiamo ripartire per una perlustrazione del cosa è il soggetto.
Questo esercizio di porre da parte il soggetto è una vera e propria «iniziazione» come dice Rovatti. Il soggetto è veramente soggetto soltanto quando si sdoppia, si triplica, si quadruplica; quando il soggetto abbandona se stesso, prende le distanze dal se stesso, quando è impegnato a costruire una nuova soggettività, quando lateralizza se stesso, si decentra, quando subentra un altro soggetto che prende il posto del primo e lo mette tra parentesi, lo spiazza, lo decentralizza.
Quando tutto ciò accade, allora il soggetto diventa pienamente se stesso in quanto è Altro e di Altri.
Allora, da questa molteplicità di soggetti, da questo indebolimento del soggetto, proprio da qui può nascere un soggetto fortificato, un soggetto invincibile. Un soggetto nuovo. Un «soggetto-polittico».
Il soggetto che si riappropria del soggetto non finisce mai di essere soggetto ma lo diventa sempre di nuovo. E qui il problema della «identità» sa di calcolo combinatorio, calcolo stocastico. Gli enunciati analitici non li si può ridurre alla formula A è B. Ogni volta il soggetto ricomincia daccapo, riapre lo scarto con il proprio mondo pulsionale e rappresentativo.
Con le parole di Giorgio Agamben, diremo che il soggetto della attuale fase della civiltà occidentale è a-musaicamente costituito, cioè dal punto di vista musicale è eminentemente cacofonico, la cacofonia è la legge segreta che muove il «soggetto-polittico».
Scrive Jacques Derrida:
«L’eterologia entra in gioco, ecco perché c’è forza, lascito e scena di scrittura, allontanamento di sé e denegazione, invio. Il proprio non è il proprio e se esso si riappropria è perché esso si disappropria – propriamente, impropriamente.
[…]
Pensare sulla traccia,» dovrebbe essere, da un po’ di tempo a questa parte, riconsiderare le evidenze tranquille del “c’è” e “non c’è” “in” un “corpus” di eccedente, alla traccia, l’opposizione del presente e dell’assente, la semplicità indivisibile del limes o del tratto marginale».2
1] J. Lacan Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293
2] J. Derrida, op. cit. p. 359
Gino Rago
Superga, 4 maggio 1949
Rosso-bianco-verde. Due fazzoletti.
Uno sul collo di Calamandrei
L’altro su quello di mio padre prigioniero.
Hanno spaccato le lapidi dei loculi.
Sono alla testa di tutti i cortei.
Mio padre disse NO al cibo, agli scarponi,
Alla divisa cucita su misura.
Rimase negli stracci, nella fame,
Nei pidocchi. Partì con altri a venticinque anni.
Tornò. La giovinezza mai vissuta
Per sempre alle sue spalle.
[…]
Con Calamandrei
Stasera mio padre senza farsi vedere
Sarà forse a Marzabotto con i fratelli Cervi.
O forse a Porta San Paolo,
Forse a Via Tasso o alle Ardeatine.
Da anni esce dalla tomba.
Si fa fiore tra i fiori mai secchi
Sotto le croci di legno sui prati,
Alle rive dei fiumi, sulle montagne:
«La libertà… Il meglio fiore…
Ma vuole sempre acqua».
[…]
Calamandrei e mio padre lo dicono ancora:
«La libertà… E’ di tutti.
Anche di quelli
che la negarono a tutti.»
[…]
Né al fronte né in prigionia.
Né in guerra né in pace
Nessuno mai lo aveva visto piangere.
Fino al pomeriggio
Del 4 maggio del 1949.
Cielo di piombo. Superga.
Tutti i suoi amici sapevano
Della filastrocca di mio padre
Ripetuta da solo per giorni
Nei singhiozzi e nel muco:
Bacigalupo,
Ballarin, Maroso,
Grezar, Rigamonti, Castigliano,
Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola
[…]
Le scarpe battute sui legni del Filadelfia.
Lo sguardo di Valentino.
Il segno d’intesa con il capo stazione.
La tromba di Oreste Bolmida.
Le maniche della maglietta
Tirate su da Mazzola. La carica.
Il quarto d’ora dei granata.
Non ce n’era più per nessuno.
Ma il 4 maggio del 1949 a Superga
Il grande Torino andò in trasferta altrove.
Per sempre.
Mio padre fino alla morte ha ripetuto
Senza mai farsi sentire
La sua filastrocca: «Bacigalupo-Ballarin-Maroso
Grezar-Rigamonti-Castigliano-Menti-Loik
Gabetto-Mazzola-Ossola…»
Ringrazio Giorgio Linguaglossa per avere riservato al mio polittico gli onori della pagina odierna de L’Ombra e, per giunta, con Donatella Costantina Giancaspero e con lo stesso Linguaglossa, in ottima compagnia poetica ed ermeneutica.
Il “Grande Torino” voluto e costruito da Ferruccio Noto, spero di non cadere nel melenso o nella scontata retorica, non fu soltanto uno squadrone fatto di, così li chiamavano, INVINCIBILI. Fu molto di più per tutti gli sconfitti e gli umiliati della generazione di mio padre che però, pure da sconfitti su ogni fronte, ebbero perfino la fortuna di tornare “vivi” e pronti a ricominciare:
i granata invincibili furono il sogno di riscatto di quella Italia postbellica che desiderava tenacemente di rinascere dalle macerie morali e materiali d’un terrificante conflitto mondiale.
I nostri padri, quelli delle classi 1913-1922, che tornarono vivi sapevano fare, e bene, tutto, dai lavori agricoli ai capolavori artigianali, sapevano cantare e organizzare matrimoni, sapevano fare le feste del Patrono, sapevano vestire i morti, sapevano accompagnarli alla ultima dimora, sapevano piangerli e conoscevano alla perfezione l’arte del commiato, senza mai darsi arie…
I granata invincibili in tutto questo hanno saputo accompagnarli e sostenerli, fino alla tragedia… Almeno questa è l’idea che di tutto ciò io mi sono fatto.
(gino rago)
«5 giugno 1977.
Vorrei scriverti, così semplicemente, così semplicemente. Senza che mai niente interrompa l’attenzione, a parte unicamente la tua, e ancora, cancellando tutti i tratti, anche i più inapparenti, quelli che marcano il tono, o l’appartenenza ad un genere (la lettera per esempio, o la cartolina), affinché la lingua rimanga segreta all’evidenza, come se essa si inventasse ad ogni passo, come se bruciasse all’istante, non appena un terzo vi mettesse gli occhi (a proposito, quand’è che accetterai di bruciare realmente tutto ciò, noi stessi?). È un po’ per banalizzare la cifra dell’unica tragedia che preferisco le cartoline, cent cartoline o riproduzioni nella stessa busta, piuttosto che una sola “vera” lettera.»1]
1] J. Derrida, trad. it. La carte postale, Mimesis, 2015 p. 37
Un esempio di una mia «poesia-polittico»:
La lettera scarlatta
Madame Hanska scrive una lettera al suo amante,
Albert Montgomery tra le file degli inglesi. E passa ai tedeschi le notizie.
C’è scritto che ha disonorato la sua esistenza,
che lo detesta, lo odia…
Sigulla ha trovato il cofanetto dei bottoni
di madreperla della sua infanzia
nascosto in un pertugio della libreria di quercia
proprio dietro l’abbecedario. Ed è felice.
«Se ne può parlare – dice – là, dietro il sipario
c’è il Dieci di spade in attesa».
[…]
Albert scrive una cartolina alla sua amante
sul retro c’è un angelo femmina con ali nere e giarrettiere
che si volta verso il passato… Le scrive: «mia cara,
ho tanto da dirti, ma tutto è niente, più di tutto,
meno di niente – dirti tutto quello che ho, quello che non ho,
quello che forse avrò, e non avrò… tu sola, nuda…
con le ali nere dietro le spalle… ho tanto da dirti,
ma tutto dovrà stare qui nello spazio di questa
cartolina…»
[…]
Sigmund ha messo su una bottega delle bambole,
ripara occhi di madreperla, sottovesti ricamate, paltò.
Andrea recita il ruolo dell’androgino,
è diventato l’Otto di spade, indossa i pantaloni da cavallerizza
mentre il cavaliere di coppe smonta da cavallo,
assume le vesti di un umile fante…
[…]
Nietzsche si innamora di Andrea, diventa pazzo,
si trasferisce a Torino con una sua controfigura muliebre…
È che nel frattempo Hanska sbaglia destinatario,
la lettera la riceve un bellimbusto che la getta nel cestino
delle immondizie di via Gaspare Gozzi in Roma
dove abita lo scrivente che redige questa nota
il quale la recupera, la salva dalla pattumiera e la spedisce
al mittente, ma trent’anni dopo quando si è perduta
finanche la memoria di quell’amore infelice.
[…]
Adesso è il suo amante, il principe di Homburg,
che scrive una lettera ma ha perso l’indirizzo di Madame Hanska
la quale ha stabile dimora presso la casa di cura Villa Margherita,
ha dimenticato il suo amore e le ragioni del suo odio,
e finanche il proprio nome, non sa più chi sia
o non sia, o se mai sia stata…
Col nulla.
Con tre prese ben assestate,
la terza al collo.
Al limitare della stagione. Tra osso e osso.
Una recensione secca.
Una cravatta in tinta
fuoriuscita dal comò. Quella lingua mostrata
su i gradini di un altare, tra l’incedere
di una fessura cupa. La tortora dal verso fragile,
due gocce che di soprassalto
riconciamo a rigare,
il portellone di un auto
con un portabagaglio
ancora più grande.
GRAZIE OMBRA.
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Franco Intini-Gino Rago
Un dialogo in distici a distanza
Franco Intini
“Caro Rago
Nello studio di un tizio che conosco
apparve improvvisa una scritta:
“il dottore dalla mano tremante scrisse una ricetta che nessuno
sa decifrare ma la calligrafia si riconosce…”
Un verso di Tranströmer
incise la Tavola periodica
-Ogni chimico ne ha una appesa alle spalle
Il suo crocifisso-
Irruzione credo o entanglement nella sua vita
che si svolgeva altrove.
Era l’agave che cresceva sulla Murgia
o quella sincrona sul lungomare di Bari?
Il mio amico si chiedeva cosa c’entrasse
Mendeleev con Hegel.
Né l’uno né l’altro avevano mai sentito parlare di protoni
In quanto a proprietà invece
La pistola della legge dice il primo
Ma si potrebbe giurare sul secondo.”
[…]
Note: in cantina gira e rigira l’elettrone. Nel piccolo anello rimugina il protone. Sul letto di gelo assoluto si ascolta il suo gemito. La Boxe è vietata, non è ammesso lo scontro tra cani, galli, gladiatori, luci. Si scommette però. La probabilità è di casa. Si giura sul successo di vedere uno spettro. Quelli che giravano per l’Europa nessuno più li accelera e giacciono pesanti ai margini delle strade, segnati d’ oblio, di piombo le ossa. Questi invece sono snelli, di mente lucida, parlano in codice che il mio amico intende.
Grazie Gino Rago, grazie Ombra
Franco (Intini)
Gino Rago
(Le parole… Uno sciame di protoni)
Franco Intini mette in cantina
Il bosone di Higgs.
Con l’entanglement quantistico verso lo Zero assoluto
Un nuovo stato della materia è possibile?
Einstein rimprovera Rutherford e Bohr
per l’azione fantasmatica a distanza.
Non vuole che Dio continui a giocare
Ai dadi con l’universo.
«Ma lasciamolo giocare, in fondo che male c’è»
Insiste Bohr.
Einstein gli lancia un posacenere di latta
O di un metallo pesante in lamine sottili.
[…]
Nell’entanglement quantistico
L’azione su un atomo entangled si riverbera sugli altri…
In un polittico poetico in distici entanglati
L’atto su un verso si propaga su altri versi.
Le parole… Uno sciame di protoni di rubidio.
[…]
“Amleto è morto.”
Ne dà l’annuncio Lorenzo Pompeo dall’Ungheria.
Ma da Cracovia Lorenzo invia a Giorgio Linguaglossa
versi di Ewa Lipska tradotti in italiano.
Virna Lisi e Marlene Dietrich entrano con Kafka
nello studio di Sabino Caronia,
Tre ombre nella consolazione della sera.
Faber Nostrum canta Il Bombarolo…
[…]
Pino Gallo arringa da Roma la Fata Morgana,
Sotto gli affacci di Scilla il mare si fa di olive acerbe.
Pino Talìa porta un Mattia Preti
Da Taverna a Firenze. Botticelli si inchina.
Francesca Dono da Biffi regala bergamotti,
Davanti alla Scala tutti si mettono in fila…
Una poesia di Mauro Pierno sul Corriere della Sera.
[…]
(gino rago)
Il polittico in distici “Le parole… Uno sciame di protoni” completo
Gino Rago
(Le parole… Uno sciame di protoni)
“Franco Intini mette in cantina
Il bosone di Higgs.
Con l’entanglement quantistico verso lo Zero assoluto
Un nuovo stato della materia è possibile?
Einstein rimprovera Rutherford e Bohr
per l’azione fantasmatica a distanza.
Non vuole che Dio continui a giocare
Ai dadi con l’universo.
«Ma lasciamolo giocare, in fondo che male c’è»
Insiste Bohr.
Einstein gli lancia un posacenere di latta
O di un metallo pesante in lamine sottili.
[…]
Nell’entanglement quantistico
L’azione su un atomo entangled si riverbera sugli altri…
In un polittico poetico in distici entanglati
L’atto su un verso si propaga su altri versi.
Le parole… Uno sciame di protoni di rubidio.
[…]
“Amleto è morto.”
Ne dà l’annuncio Lorenzo Pompeo dall’Ungheria.
Ma da Cracovia Lorenzo invia a Giorgio Linguaglossa
versi di Ewa Lipska tradotti in italiano.
Virna Lisi e Marlene Dietrich entrano con Kafka
nello studio di Sabino Caronia,
Tre ombre nella consolazione della sera.
Faber Nostrum canta Il Bombarolo…
[…]
Pino Gallo arringa da Roma la Fata Morgana,
Sotto gli affacci di Scilla il mare si fa di olive acerbe.
Pino Talìa porta un Mattia Preti
Da Taverna a Firenze. Botticelli si inchina.
Francesca Dono da Biffi regala bergamotti,
Davanti alla Scala tutti si mettono in fila…
Una poesia di Mauro Pierno sul Corriere della Sera.
[…]
Visioni mistiche a san Francesco a Ripa.
Marina Petrillo davanti a Ludovica Albertoni.
Marmo. Drappeggio. Diaspro. La beata in estasi.
Verso l’altare della cappella
Marina abita parole d’amore.
Un raggio di sole sul marmo.
Le visioni. La tela di Gaulli. La finestra.
Bansky-street-artist: « How the Troian War Ended
I don’t Remember…
Edited by Giorgio Linguaglossa»
Letizia Leone a Mario Gabriele:
«Chelsae Edition. Miracolo.
Bellissima la cover della copertina»
[…]
Nello stencil sul muro a Spaccanapoli
Bansky dice a Benedetto Croce:
«So perché Ludovica è in estasi.
So anche perché ha le visioni … Junk food »
Il Mattino di Napoli in terza pagina:
«Al San Carlo torna Toscanini».
Dal palco al centro del teatro
Wagner evita lo sguardo di Verdi.
Sigfrido o Falstaff? Le Valchirie o Nabucco?
La Tebaldi litiga con la Callas.
Onassis va a letto con Jacqueline Kennedy.
L’isola greca è il centro del mondo.
[…]
Toscanini posa la bacchetta:
«A questo punto muore Liù.
Turandot finisce qui. Pechino è a lutto.
Il cancro alla gola ha ucciso il Maestro».
Creatura che crea nella luce sul mare
Marina Petrillo va incontro a Puccini.
(gino rago)
Propongo questo componimento in distici a me rivolto. Di tanta delicatezza
ringrazio l’autrice
Marina Petrillo
Gino Rago va incontro al mare
[…]
Si spoglia a tratti il mare
del suo profilo assente.
Non un alito di vento spira
tra le frastornate rocce .
Tacciono i bagliori del meriggio perduto
al fascino tardivo di uno sguardo.
Una foglia ondeggia precoce all’estivo viaggio
in sinfonia d’autunno.
A tratti torna a sbiadire una piccola onda
in lieve spumeggiare,
di cui la sparuta tellina, tornata al suo giaciglio,
coglie carezza.
(Marina Petrillo)
———————————-
Grazie ancora, Marina cara,
(gino rago)
Strano, strano è il polittico. Pare che i versi, piuttosto che darsi con stile, preferiscano incasellarsi. E tutto ciò a me arriva freddo; anche se vi è la bizzarria, questo sì, di legare nello spazio bianco dei pixel (carta, addio) passato – immagini e lettere – come in vago ricordo, come (quasi) non-ricordo, e per non dire… Come se invece dello stile si preferisca l’applicazione di un metodo (soggetto-verbo: Onassis va… Toscanini posa… Turandot finisce, ecc.), con poche, ma sentite necessarie, interruzioni, o variazioni – oasi del lettore: ecco siamo alla resa dei conti; che però non arriva.. e chissà quale effetto sortisce nella sua mente, alla lunga. Davvero, non so. Epperò “Marina Petrillo va incontro a Puccini”, che è tutto dire da poeta, diviene un traguardo. Difficile, molto difficile. Bisogna essere buoni e attenti lettori, perché la prima non basta mai: questi a me sembrano casi in cui la lettura, abituata al tradizionale, fallisce. Anche Pierno, in prima lettura si rende enigmistico. Poi no, la stessa poesia… se non vedi non capisci. E questa potrebbe essere la regola.
E io che ieri sera, per distrarmi dagli orrori del vivere, mi davo ai boschi di Hölderlin…
Fisica quantistica+Musica+Arti Figurative+Cronaca+Storia+Misticismo Barocco+Arti plastiche+Scontro di dive (Lisi-Dietrich) come urto fra Cinecittà e Hollywood+Compressioni ed Espansioni dell’universo+Letteratura+Personaggi-poeti vivi e personaggi-poeti non più vivi+tempi dilatati e tempi compressi+spazi-geografie nell’indefinito e nel familiare+fono-prosodie con al centro immagini+protoni entanglati come parole nell’entenglement+Altro=Polittico (o meglio, tentativo di polittico).
Per ora mi pare il max che si possa chiedere alla Parola di poesia se si vuole, per me, andare più in là e un pò più in alto di dove… osano le quaglie.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/05/03/il-soggetto-polittico-della-nuova-poesia-il-soggetto-della-attuale-fase-della-civilta-occidentale-e-a-musaicamente-costituito-poesie-di-donatella-giancaspero-gino-rago-comment/comment-page-1/#comment-56860
…moltissima poesia romano milanese, di Pordenone e Mantova e altre località della villeggiatura poetica disseminate in italia fa una poesia che un tempo si definiva “onesta”, una poesia turistica, si parla del corpo (proprio) delle relazioni amorose, delle relazioni topografiche, di quelle toponomastiche, degli alberi, delle targhe delle automobili, delle gambe della Minetti nel migliore dei casi. Si tratta di una poesia «onesta», nel senso che ciascuno fa quello che può e che crede, ma l’onestà non basta a fare una poesia, così come l’onestà non basta a fare dei politici capaci, come vediamo nei 5Stelle, però è già qualcosa.
Ho scritto a un mio amico che mi aveva inviato una sua raccolta per un parere, che ero imbarazzato, molto, perché si notava che aveva cessato di fare ricerca, e che quello era il suo peggior libro di poesia, e lo sconsigliavo di darlo alle stampe, anzi, lo consigliavo di riprendere seriamente la ricerca espressiva e linguistica. Si trattava di una poesia low cost.
Esemplificando un po’ potremmo dire che c’è una poesia low cost che si può acquistare in ogni buon supermercato dello stile narrativo, in specie in epoche di saldi e compri tre paghi due: abbassando il registro stilistico, lo schema prosodico, espungendo le metafore, le metonimie, le anadiplosi, le catacresi, le anafore etc., desertificando la tradizione, succede che alla poesia non rimanga altro da fare che registrare, come succede in alcuni autori contemporanei, le ubbìe della vita quotidiana: una sorta di cronachismo borderline del tipo: “al mattino quando si alza a mio marito gli puzza l’alito”, oppure una sorta di iperrealismo ingenuo del tipo: “fontana, finestra, albero, mare”.
Si tratta di un vero e proprio deposito di «tecniche» stilistiche a buon mercato ampiamente provate e assimilate dal corpo sociale della piccola comunità letteraria, e in tal senso queste tecniche sono ampiamente leggibili e digeribili. Per il vero, il problema della costruzione di una “nuova” poesia richiede un investimento di pensiero molto più elevato e una gestazione molto più complessa che gli autori del minimalismo e dell’iperrealismo non si sognano neanche nella anticamera del cervello di tentare.
Penso che sia vero quello che scrive Lucio Mayoor Tosi, in questi nostri tentativi poetici sembra che le parole si siano raffreddate e così anche lo stile, non c’è nessuno sbalzo emotivo, non si rinviene alcuno stato emozionale, tutti i testi sono integralmente assorbiti nella linguisticità di uno stile che non concede spazio alcuno ad alcuna emozione. Possiamo dire che la nuova linguisticità ha decapitato la facile emozionalità. Mi sembra un ottimo risultato.
Ecco qui una testimonianza resa da Franco Di Carlo sull’ultimo Progetto poetico di Pasolini, qualche mese prima del suo assassinio. Da quell’anno la poesia italiana è stata incapace di operare un vero e profondo rinnovamento :
L’11 Gennaio 1975, in un incontro nella Biblioteca Comunale di Genzano di Roma, Pasolini ci confidò e informò che il suo Progetto filosofico-poetico sarebbe stato quello di dedicarsi totalmente alla poesia (come aveva già fatto tra il ’41 e il ’60), dopo aver completato e realizzato altri due tre films. In realtà, con Trasumanar e organizzar (1971) fino a La nuova gioventù (1975), era già evidente che il Progetto, già ideato e programmato, fin dall’inizio degli anni Sessanta, era giunto ad un punto di non-ritorno: la transumanazione, eternizzazione e “santificazione” (il Mistero) di se stesso in quanto Poeta attraversò la sua Pragmatica Azione e Organizzazione del “Fare Poetico”: per scrivere nuova poesia sarebbe stato necessario il Rinnovamento del Linguaggio Poetico e della Lingua della Poesia, attraverso la mescolanza (alchemica) Plurilinguistica e Pluristilistica di Atti Espressivi e di Stile, secondo l’Esempio il Modello e il Paradigma Dantesco (Divina Mimesis), di provenienza alto-colta, medio-parlata, giornalistica e mass-mediatica: un messaggio e un linguaggio non-chiaro, criptico, ancipite, Ambiguo (“finché è vivo”), che solo con e dopo la morte sarebbe dovuto divenire Espresso, essere esplicito. Con questa strategia “comunicativa” e con questo Codice Espressivo-Formale, tutto da decifrare, Pasolini consegnò i Segni-Segnali-Archetipi dell’unicità e irripetibilità del suo Progetto filosofico-poetico-esistenziale (e con questo noi intendiamo una sua possibile “solitaria avanguardia personale“), ben consapevole ormai della definitiva inesistenza del pubblico della poesia e dell’avvento e sviluppo di un universo orrendo e di una società e politica degradate e in rovina, dove sta già avvenendo la borghesizzazione del proletariato ed anche la proletarizzazione della borghesia, con conseguente omologazione e massificazione antropologica, esistenziale, linguistico-espressiva e culturale.
Bellissima questa espressione,”andar più in là,e un po’ più in alto di dove osano le quaglie”.Ci si potrebbe scrivere un racconto, forse anche un romanzo,una autobiografia,un trattatello sulla difficile arte di esistere e di comunicare.Io mi sento come una quaglia a cui le ali sono state tagliate continuamente,ma continuamente sono rinate.
Carissimo Giorgio, ciò che Pasolini profetizzava agli inizi degli anni ’60, “avvento e sviluppo di un universo orrendo e di una società e politica degradata e in rovina,… con conseguente omologazione e massificazione antropologica, esistenziale, linguistico-espressiva e culturale” ormai è uno stato di fatto… è in piena fioritura. E ciò non è dovuto tanto alla eliminazione del conflitto di classe quanto, piuttosto, all’apparizione sulla scena sociale di un nuovo soggetto antropologico: l’uomo medio! Che non significa uomo di mezzo, o uomo portato alla mediazione e alla tolleranza di qualsiasi genere… tutt’altro! Ecco quanto scriveva Pasolini: “Ma lei non sa cos’è un uomo medio? È un mostro. Un pericoloso delinquente. Conformista! Colonialista! Razzista!” (P.P.Pasolini, “La ricotta”, in Alì dagli occhi azzurri, 1962) 57anni addietro!
ALCUNE RIFLESSIONI SU UNA TAZZINA DI PORCELLANA CHE SI ROMPE IN CASA DI UNA POETESSA
Duchamp non era tipo che si arrabbiava.
Se il tempo aveva deciso di firmare la sua opera non poteva che fargli piacere. Ebbe solo un sussulto davanti al Grande Vetro ma poi tornò tranquillo al gioco degli scacchi. La frattura definitiva era stata lanciata nell’ universo, il parallelo di vetro poteva reggere il confronto con Plank?
Capì che Dio in persona talvolta ci mette l’ arguzia.
Dopo non fu più lo stesso.
Una tazzina di porcellana ripete il fatto dopo un secolo, cadendo dalle mani di una poetessa presa da pensieri nuovi, fenomeni tutti da enunciare.
Espressione di una legge universale che necessita di una successione di eventi o semplice variazione brusca dell’entropia?
La sedia occupa il posto estraneo.
I fatti strani accadono semplicemente perché da un universo si passa in un altro di cui non possediamo il linguaggio.
Cos’ è l’estraneo?
In cucina tutto è nostro, appartiene al sistema familiare. Il frigo, le sedie, la lavastoviglie ruotano intorno ad un centro di gravità. Talvolta qualcosa si discosta, prende la via del disimpegno, appare l’altro come se ci fosse sempre stato alle costole qualcosa per togliere il cuore dal petto.
Funziona così: il nulla onnipresente si sostituisce alla prestazione. Il frigo perde acqua, ne risente la conoscenza, girano discorsi sull’utile\non utile. Scoprire l’ambiguità dell’affezione è imbarazzante. L’estraneo è il nulla? Di fronte a esso si arrende il calcolo.
Dei due solo l’uno è misurabile, l’altro è un’assurdità. Cadiamo in contraddizione quando affidiamo ad una copula il nulla?
Il fenomeno però è delimitato e descritto perfettamente: variazione di ordine come per la tazzina. Un lapsus che sa l’atroce della faglia di Sant’Andrea.
Il figliol prodigo tornò mai alla sua casa?
La simmetria si perde se a camminare sono le vetrine? Accade però di vedere le parole sbirciare le vetrine, immergersi nel caso e cercare un gelato a limone, come se qualcosa le avesse liberate dalla dipendenza umana.
La tazzina, la sedia sono dunque i costituenti del vaso che contiene il Soggetto?
I gabbiani già sanno queste cose. Il tempo ha segnato anche la loro porcellana. Il profumo dell’acqua marina è nel passato ora ri\siedono in posti estranei, periferie prive di significato eroico, dove non è possibile gonfiare le ali controvento e schizzare nell’oltremare. La specie compete con colombi, topi e gazze su residui umani. Una frattura incolmabile, uno iato interrompe la continuità.
Ma ancora più terribile è il dito di chi non ha più nome. Sia esso Dio\ Io o qualunque Non-Io che punta michelangiolesca\mente il centro di un cielo, anch’esso irreversibilmente diviso\lesionato sebbene in tondo perfetto. Ciò che resta fuori è non detto, crema nera, un massimo dell’ intenzione di dire. Null’altro.
Chissà chi è creato e chi creatore.
(Francesco Paolo Intini)
Una poesia di Sabino Caronia in stile belliano rivolta ai componenti della nuova ontologia estetica
A Linguagro’, ma va a magnà er sapone!
Lassece perde, nun ce rompe er cazzo!
E’ da ‘na vita che ce famo er mazzo
appresso a ‘sto grannissimo fregnone!
Passi pe Steven Grieco e Major Tosi,
pe Mario Gabbriele e Gino Rago,
passi pe tutti, puro pe Sagredo,
ma lassamele stà ste suffraggette.
Fossi n’omo, va bbè, ma ‘na sciacquetta
ha da venicce a smove li sbadijj
a furia de libbracci e paroloni!
Fili, fili: lavori la carzetta:
abbadi a casa sua, facci la brava,
s’azzitti, e nun ce scocci li cojjoni!
Sentime, Sabino, ma de che te laggne?
Sei fra l’apostoli e fai fracasso come Tomasso?
Nun te se po’ lassa’ un minuto che ficchi er dito
Ne la tazzina de la colazzione cor palosso.
Oggi è diversa solitudine. Il fatto breve, appena accennato si dilegua. L’immagine, per poterci stare nel verso, posta per intero, va ripiegata, accartocciata; ciò potrebbe essere dovuto al tempo attenzionale, che il poeta percepisce – non penso all’improbabile lettore ma segnatamente al tempo storico – per intuito, breve, da dedicare alle vie di fatto; quindi un po’ dovunque, nelle parole, segnato da inconsistenza.
L’immagine, più riconoscibile delle parole, sta nell’insieme come vissuto. E le parole al vento.
C’è spazzatura e spazzatura. Personalmente, dovendo scegliere preferisco il nonsense portato all’eccesso, che si trova oltre il paradossale: fai la spesa, l’amico dei posteri, serenata celeste… E’ come avere in testa un magazzino, nel tempo stipato di cose, rese ormai inadatte a qualsiasi utilizzo. E’ come che la Musa non ci faccia caso; d’altronde, quello era lo spazio riservato alla decorazione… alla ripetizione, al tema caro che caratterizzava il poeta – naturalista, esistenzialista, socialista, mistico, e chi più ne ha.
L’intento è falsamente descrittivo, se figurativo non è neppure esistenziale. Scrive infatti Donatella Giancaspero:
“L’intenzione di dire. Il fenomeno nuovo. L’evento.
Ma, di colpo, cade dalle mani la tazzina di porcellana”.
Ciar, me piàs töt chèl gris
me piàs la bala e la boca che l’è mai stràcä.
Le suffraggette,inferocite, meditano qualche vendetta.E se tacessimo per sempre? Dovreste andare a ritrovarci sulla luna.
Carlo Michelstaedter, ovvero una grande solitudine poetica (con Sbarbaro, Rebora e Campana) del Novecento italiano, quando si rompe il «patto comunicativo»tra autore e pubblico, tra poeta e lettore,
e quando ” Una frattura incolmabile, uno iato interrompe la continuità…” (indica Franco Paolo Intini nel passaggio topico della ‘tazzina di porcellana che si rompe…’) e sulla scena appare ‘l’uomo-medio’, ricordato da Peppino Gallo.
Carlo Michelstaedter
di Gino Rago
Quali fenomeni linguistici possono proporsi o più semplicemente possono affacciarsi nel far poesia allorché una più o meno lunga tradizione letteraria e un intero sistema stilistico cadono d’un tratto in frantumi determinando un vuoto?
Tale vuoto nasce da un qualcosa dentro la letteratura o al di fuori di essa?
Questo vuoto può dar luogo all’avvento di nuovi linguaggi?
Dalla critica più agguerrita e competente abbiamo appreso che al mutamento della società cambia
anche la vita stessa delle persone.
La conseguenza più diretta ed inevitabile è la rottura di quello che viene indicato come “patto comunicativo” fra poeta e pubblico: cioè, allo sgretolarsi di questo patto si assiste alla rottura di quella sorta di intesa, di accordo tacito ma radicato nella lingua fra pubblico e autore.
Ciò è quanto si è verificato anche nel Novecento letterario- poetico italiano dopo la scomparsa di coloro che vengono definiti Autori-Evento, Autori che con la loro opera (per esempio Baudelaire, Whitman, Dostoevskij, Rimbaud, Nietzsche, Freud) spezzano l’accordo comunicativo preesistente letteratura-pubblico e niente più – romanzo, estetica, filosofia, poesia – rimane come prima.
In Italia, Dino Campana (morto in manicomio) è il poeta che segna l’interruzione della continuità del “patto comunicativo” cui si è fatto cenno.
Con Carlo Michelstaedter (morto suicida ad appena 23 anni) questa interruzione si rafforza e diviene definitiva.
La poesia più nota di Michelstaedter –quella per la quale è comunemente conosciuto –è certamente
Il canto delle crisalidi
Vita, morte,
la vita nella morte;
morte, vita,
la morte nella vita.
Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.
E più forte
è il sogno della vita –
se la morte
a vivere ci aita
ma la vita
la vita non è vita
se la morte
la morte è nella vita
e la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita.
Ma se vita
sarà la nostra morte
nella vita
viviam solo la morte
morte, vita,
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte.
Per spiegare in parte questo ossessivo richiamo alla dicotomia Vita/Morte bisogna partire dal fatto che molti poeti nati alla fine del XIX secolo, nati quindi fra il 1880 e 1890, non avvertirono l’arrivo del ’900 come un fenomeno liberatorio (lo fu soltanto, qualcuno ha scritto, per i futuristi).
Al contrario, lo vissero come qualcosa di luttuoso al punto da essere dominati da un continuo senso di malinconia e destabilizzazione,di angoscia, smarrimento, disobbedienza e senso di solitudine.
Una intera generazione di poeti è stretta nello stato di necessità di un nuovo modo di esprimersi, e dunque di sentire la poesia e di scriverla: né possono bastare i due estremi poetici coincidenti da un lato con le vecchie scenografie ottocentesche di Gozzano e dall’altro con le innovazioni radicali di Ungaretti.
Cambia l’esistenza degli autori e cambiano metodo e impiego del linguaggio.
In Michelstaedter, però, l’esigenza della modernità poetica assume la forma del rifiuto della modernità sociale. Tutto ciò è evidente nella poesia
Risveglio
Giaccio fra l’erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m’accarezza,
e sfiorano il mio capo i fiori e l’erbe
ch’agita il vento
e lo sciame rombante degl’insetti.
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro,
e trae nell’alto vasti cerchi il largo
volo de’ falchi…
Vita?! Vita?! Qui l’erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gli uccelli, qui gl’insetti,
e pur fra questi sente vede gode,
sta sotto il vento a farsi vellicare,
sta sotto il sole a suggere il calore,
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch’io chiamo io, ma ch’io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l’erbe sulla terra,
più ch’io non sia gl’insetti o l’erbe o i fiori,
o i falchi su nell’aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso.
Altro sole, altro vento, e più superbo
volo per altri cieli, è la mia vita ….
Ma ora qui che aspetto?
E la mia vita
perché non vive,
perché non avviene?
Michelstaedter sembra che mediti e scriva, come rilevato dalla critica più competente, restando sempre “alle soglie della vita”, intende la vita così carica di pienezza che sceglie di non viverla restandone ai margini, ma nella fedeltà irriducibile anche allo spirito che aleggia nella sua tesi di laurea La persuasione e la rettorica, il cui nucleo ideale e morale va indagato nell’antitesi tra esistenza individuale e storicità sociale che è in grado di travolgerla o di negarla o di deviarla dal suo corso e da se stessa.
Poi, in un giorno d’autunno lo sparo partì.
Michelstaedter venne seppellito nel cimitero israelita di Valdirose, oggi situato in territorio sloveno, poco al di là del confine con l’Italia. Carlo riposa accanto al fratello Gino, all’ombra di due grandi cipressi.
Proprio quell’apparato menzognero (da lui odiato e magnificamente descritto nella sua opera) che lo aveva spinto al suicidio continuò a imperversare fino a determinare le più efferate atrocità del XX secolo, atrocità di una storia che coinvolsero anche i suoi affetti più cari: sua madre, la sorella maggiore Elda e la fidanzata Argia Cassini morirono, infatti, in una camera a gas nazista.
Tutta l’opera di Carlo Michelstaedter è stata pubblicata postuma.
Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 giugno 1887, ultimo di quattro figli di una famiglia ebrea benestante. Frequenta il prestigioso Staatsgymnasium senza eccellere particolarmente negli studi. Si iscrive alla facoltà di matematica dell’Università di Vienna che, però, lascia per frequentare l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Il rapporto intellettuale e con ogni probabilità anche sentimentale con una signora russa residente a Firenze, Nadia Baraden, si conclude bruscamente con il suicidio di questa.
Anche il fratello Gino muore a New York in circostanze misteriose, che fanno parlare di suicidio. Nel giugno 1909 torna definitivamente a Gorizia legandosi sentimentalmente a una pianista di talento, Argia Cassini, a cui dedica le poesie A Senia e I figli del mare. Lavora accanitamente alla tesi di laurea La persuasione e la rettorica che termina il 17 ottobre 1910.
Proprio in quel giorno la madre Emma compie cinquantasei anni. Dalla collina, dov’era in vacanza, scende in città per salutare il figlio, che vedeva migliore degli altri giovani, ma solo e scontento: lo rimprovera di sentirsi trascurata ma Carlo questa volta reagisce con uno scatto di collera e le chiede di tornare più tardi perché ha appuntamento con Argia. Invece, rimasto solo, prende la rivoltella, tolta a un amico per evitare che potesse compiere un gesto inconsulto, e si spara. Sono le due del pomeriggio.
(gino rago)
E’ che stasera mi ha preso così. Potrei scrivere in aramaico. Desisto.