Mauro Pierno, poesia in distici,  La polvere esatta, con Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Mauro Pierno, nato a Bari nel 1962, vive a Ruvo di Puglia. Autore di testi teatrali, scrive poesia da diversi anni. È presente nell’antologia –Il sole nella città-2006 La Vallisa, Besa editrice, sue poesie sono presenti in rete su Poetarum Silva LITblog, Critica Impura, π Aperiodico di conversazioni poetiche. Promuove in rete il blog “ridondanze”. Nel 2017 pubblica con Terra d’Ulivi, Ramon.

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Penso da tempo che ogni nuova poesia porti con sé una propria Grundstimmung (per Heidegger, una «tonalità emotiva fondamentale») che dà alla poesia non soltanto una tonalità dominante ma anche una individualità tono-fono-simbolica individuale e inimitabile. Però è paradossale che i singoli modi di fare poesia siano incomunicabili proprio in quanto trattasi di individualità assolute, vasi in comunicanti, asimmetrici; di qui la estrema problematicità nell’individuare le singole Grundstimmung. Di solito accade che quando sei nella nuvola tonale di una Grundstimmung non riesci ad uscirne se non a prezzo di ostacoli molto grandi e con grandissima fatica; più grande di tutti è la difficoltà di superare il proprio gusto pregresso, abbandonare le confidenze musicali acquisite, l’accordo musaico della tradizione. La «tradizione», da questo punto di vista, è il repertorio delle «voci» che hanno parlato musaicamente, ovvero, musicalmente, ma che oggi non ci parla più se non come un repertorio di voci morte. Di qui la necessità di rivivificare la tradizione come Ueberlieferung, come trasmissione della tradizione.

In tutte le epoche, ma nella nostra in particolare, si assiste al fenomeno dell’epigonismo di massa per cui un certo linguaggio poetico che, a detta dei più, contiene una «tonalità emotiva fondamentale», tenda ad essere replicato all’infinito dalle tecniche di riproduzione di massa ma al punto più basso, quello raggiungibile appunto dalle masse e quello consentibile dalle istituzioni pubbliche e private che veicolano quel linguaggio musaico e musicale. Penso che le moderne democrazie dell’Occidente non si distinguano in nulla, da questo punto di vista, dalle demokrature di stampo putiniane, orbaniane, salviniane e trumpiane. Lo scarsissimo livello «musaico» delle democrazie occidentali trova il suo equivalente nello scarsissimo livello «musaico» della poesia che esse producono. Il fenomeno è fisiologicamente diverso da quello che filosofi come Horkheimer e Adorno tratteggiavano negli anni cinquanta quando parlavano di «industria culturale» e di «società di massa», oggi le nostre demokrature si avvalgono in larghissima scala della pessima musica che si veicola nel loro ambito, in tal modo trovano più agevole imporre una pessima politica demagogica e una demagogia millantatoria. Il decadimento del linguaggio «musaico» in auge nelle nostre democrazie occidentali è e sarà, presumibilmente, un fenomeno stabile indispensabile per la stabilizzazione e la standardizzazione delle democrazie al loro livello più basso, al livello appunto delle demokrature.

 

Questo per dire che la cacofonia che serpeggia come un virus in questi dieci pezzi di Mauro Pierno è l’espressione di quella a-musicalità che caratterizza la fase attuale della civiltà occidentale. Già Adorno negli appunti della Teoria estetica metteva in guardia contro la «pacchianeria» e il Kitsch di coloro che vogliano produrre eufuismo; le opere «finite» finiscono inderogabilmente nel contenitore della spazzatura, sono spazzatura, sosteneva. Le opere autentiche invece cercano la loro fine senza finalità ma con ferrea intenzionalità, tra ironia e disinganno, auto ironia e auto straniamento. Ma già parlare di autenticità dell’arte nella fase attuale della civiltà occidentale è una contradictio in adiecto, l’unica autenticità che un poeta può mettere nelle proprie opere è la vernice dell’imbianchino, può verniciare la pagina bianca con delle parole non tranquillizzate, traumatizzate da ciò che c’è là fuori, parole interrotte, inquiete, che si ritirano nel loro guscio come le lumache nel loro carapace. Le parole si sono intimidite, fuggono via a chi le voglia apprendere. Le Muse si sono intimidite, si sottraggono al valore d’uso come anche al valore di scambio. Le parole non sono fatte per lo scambio, sono simboli, con loro si può fare soltanto uno scambio simbolico, ma un simbolismo senza metafisica è un falso simbolismo. Ed è questo quello che ci racconta Mauro Pierno con queste sue quisquilie, con questi suoi bisbidis.

In una certa misura la problematica del Fattore T. (tempo) è anch’essa centrale nella «nuova poesia». Qui Mauro Pierno si arrischia a scrivere una poesia fatta tutta nel «presente», una poesia irriflessiva, estemporanea, casuale… si badi, non affatto parole in libertà quanto parole del presente, che galleggiano solo nel presente. Cosa affatto semplice. Incredibile. Anche questa è una modalità per catturare il Fattore T.

Io, invece, adotto un’altra strategia. Lascio le mie poesie per molti anni sempre vive, nella memoria del computer (Fattore T.) e nella mia mente (due modi di esistenza del fattore T.); in questo modo la poesia resta aperta come sul tavolo dell’obitorio, dissezionata. All’improvviso, accade durante gli anni che varie esperienze di letture e di vita mi portano nuovi stimoli, nuove idee, nuove frasi che mi chiedono di entrare in quella o in quell’altra poesia. Così le mie poesie crescono e concrescono, come foreste tropicali, grazie all’ausilio attivo del Fattore T.

In questo lavoro di attivo coinvolgimento del Fattore T., il Tempo interviene attivamente, si introduce nella casa linguistica come un padrone; io, il mio Ego, si è nel frattempo fatto da parte, anzi, è stato fatto sloggiare. Adesso la casa linguistica è abitata solo dal Fattore T., è esso che guida la composizione verso il suo sviluppo. Proprio ieri, ascoltando delle canzoni jazz della cantante svedese Gunhild Carling con la sua band straordinaria, ho avuto in regalo la visita del Fattore T.: molti spezzoni di frasi hanno bussato alla porta delle mie case linguistiche e sono entrate, alcune sono entrate di prepotenza senza neanche bussare o chiedere permesso, sono loro, mi sono detto, i veri padroni delle mie case linguistiche!.

Invece, Mauro Pierno procede in modo opposto, vuole abitare esclusivamente il «presente». Ma, caro Pierno, il «presente» assoluto non esiste! Questo lo sappiamo da Agostino di Ippona e da Derrida i quali hanno fatto una disamina precisissima della inesistenza del «presente»; anche Husserl ha precisato che il «presente» in sé non esiste, che il «presente» è fatto di un «non-presente»… E allora cosa dovremmo dedurne? Che la poesia di Mauro Pierno non esiste? In effetti è così, la poesia di Mauro Pierno nei suoi momenti più riusciti, è fatta di presente e di non-presente, di presenza e di assenza.

È proprio questa l’aporia della «cosa» di cui dicevo in un precedente commento, la «cosa» che esiste soltanto nel «presente», o che addirittura è scomparsa dal «presente» perché si è persa, è andata distrutta, è stata rubata etc… Ecco, dicevo, quella «cosa» misteriosa costituisce una insopprimibile aporia del mio pensiero, sta qui e non sta qui, è nella mia memoria e non più nella mia memoria… c’è e non c’è, è qualcosa di incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà…

 

Mauro Pierno

La polvere esatta (inediti)

Batteria esausta, primavera in esaurimento, solo l’8 %
da pretesa residua commutazione.

 

Ancora pochi baci. Il solletico che soffri sotto le radici dei piedi, improponibile. Primavera! Stento la mia, lo strofinio di labbra accorte.

 

Fa lo stesso. Scorri pure lievemente dal finestrino
accanto, verde, inafferrata.


Spingeva il limite sparso. Il luogo fisso, quel tramonto
bloccato alla parete, ovunque nelle strade quei divieti.

 

Gli sbarramenti. L’abitudine di sedere sull’uscio inconsapevoli.
Pendeva la folla. Ridevamo pure. Nelle piazze,

 

alle pareti scorrevano le nostre vite.
Poco sangue, soltanto a tratti esploso.


Semplice. Sulle spalle gli zaini colorati, in fuga
i cervellini negli smartphone.

 

Saranno rimasti in dieci sul terrazzo,
nel bel mezzo di una scuola.

 

Semplice a quell’affaccio desiderato.
Liberi di studiare. Una versione che scagiona tutti.


La terza fornitura li trovò piazzati, attesi al punto d’incontro,
all’ora prestabilita, al buio inesploso.

 

Nella tenebra allegra, si apprestarono in tanti
soltanto con Peluche e Mascotte. Ed i cani sorrisero. Si leccarono anche.

 

Ridevano i musi, mostravano i denti, cosa offrivano in cambio?
E loro incalzarono, “Peluche e Mascotte!”

 

E allora sbraitarono.
Fuggirono, fornitori e mercanti.


Della scomparsa.
Della stessa distesa che una metamorfosi incontra.

 

Quella è una risalita, questo intendi? Un acquietarsi,
un riscontro di eternità. Sulle foglie intendo non ragionare

 

ma limitarne e distinguerne la forma,
il ripudio di una intera esistenza.


Un tempo, quale tempo, se la figurazione sfugge
se oltre la siepe un confine spinge, se nella mano

 

un vortice appare di consolanti nubi
che non dovrai schiarire che non dovrai riscrivere mai.

 

Un cielo sereno, sgombro di nuvole, profondamente sereno.
Un antefatto. Inquietante.


Presumo un apriscatole
usato fino all’alba, che gira nelle mani

 

e non affonda. Le macchie hanno un calibro distinto.
Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.


Intravede l’ozio delle parole la propaganda dei nostri sguardi.
Tra nuvole filiformi di batteri incompresi che attraversano le mani.

 

Questi mostri di discorsi. Nei gesti le estenuanti nude dichiarazioni.
Questi fumi di vento hanno un volto perso.


Ecco l’occhio indiscreto che coglie il fallo, l’ascesso furibondo
l’oriundo cigolio dell’ ombra.

 

Ecco accingersi tra le sinapsi del vento quella soave intermittenza delle idee
quello che dolore onora

 

e fa da stimolo agli inventari della memoria.
Ecco, la seconda martellata fu letale.


L’incudine molle
non assorbe le grida lontane e spesso nel vuoto dei colpi si avverte un dolore.

 

Nel ricordo si ammala la polvere esatta. Le spighe volentieri risponderebbero assorte e la sorte ingannare vorrebbero i papaveri rossi.

23 commenti

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23 risposte a “Mauro Pierno, poesia in distici,  La polvere esatta, con Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

  1. Leggevo in questi giorni un libro di poesie di un americano, certo Frank Bidart, Desiderio, pubblicato nel 2018 Ed, Tlon nella traduzione di Damiamo Abeni e Moira Egan. Ecco una poesia:

    Qualsiasi cosa giaccia ancora non recuperata nell’abisso dentro
    di me mentre muoio muore con me.

    Come dire, questa è una tipica «poesia» di una persona che si vuole atteggiare a persona dotata di notevole profondità di pensiero, ma, purtroppo il diavolo fa le pentole ma dimentica i coperchi, infatti, il distico vuole dire più di quello che riesce a dire, vuole alludere a chissà quale profondità di pensiero che si cela nell’enunciato. Vi si trova un po’ di cultura psicoanalitica (quel “non recuperata” allude appunto alla dimensione sconfinata dell’inconscio), ma là dove ci sarebbe voluta una metafora o una idea, vi si trova un intellettualismo di derivazione psicoanalitica. E Il distico cade rovinosamente…
    Questo per dire che i modesti poeti sconoscono i loro limiti e spesso si avventurano in un territorio sconosciuto e, per apparire più profondi o più bravi di quello che sono, invece cadono rovinosamente. Inoltre, il distico è una struttura crudelissima, spietata, se cadi si vede immediatamente.

  2. perché bisogna spiegare? E’ solo una semplice parola che indica il gradimento sia della pagina che delle poesie. Niente di trascendentale, signor Pella.

  3. È scomparsa la domanda fondamentale dalle pratiche artistiche. Oggi abbiamo una poesia di surrogati di quella domanda che è scomparsa, che è stata silenziata, abbiamo un’arte da risultato, un’arte di eccipienti, un’arte ricca di effetti speciali, un’arte imbonitoria. Un’arte democratica, cioè innocua.

    Ecco alcune poesie che vanno al dunque, al cuore della domanda fondamentale,
    sono di Zbigniew Herbert.

    non ho potuto scegliere
    niente nella vita
    secondo la mia volontà
    il mio sapere
    le buone intenzioni

    né una professione
    un rifugio nella storia
    un sistema che spiegasse tutto
    né tante altre cose
    perciò ho scelto i luoghi
    tanti luoghi di sosta
    – tende
    – locande sulla strada
    – asili per senzatetto
    – foresterie
    – notti sub Iove
    – celle di conviventi
    – pensioni in riva al mare

    i veicoli
    come tappeti volanti
    di una fiaba orientale
    mi trasportavano
    da un luogo all’altro
    assonnato
    estasiato
    tormentato dalla bellezza del mondo

    Poeti della malinconia (Donzelli, 2001)

    Inverno

    adesso penso
    vergognosamente di rado
    alla mia Prima Grande Abbandonata

    evito con cura
    tutto quel che può destare
    panico nei ricordi
    – i luoghi dei nostri incontri
    – gli angoli delle strade
    – i paesaggi
    – le panchine
    – la finestra dove ardeva
    la nostra luce

    dimentico lentamente
    ma inesorabilmente
    il colore dei tuoi occhi

    quello
    che è rimasto
    adesso riposa
    in una scatola di cartone
    i negativi delle fotografie
    le nostre foto senza volto
    se qualcuno passasse
    il dito indice
    sulla pellicola dal bordo tagliente
    scorrerebbe sangue
    cordiale

    un conoscente mi ha riferito
    che la Mia Prima Grande
    adesso vive sola
    se non si conta la compagnia del mare

    è cieca
    e si dedica alla tessitura

    ma cosa tesse
    sui telai carbonizzati

    per me è come
    un binario vuoto

    come l’irreversibilità
    assoluta

    come un annegato pensoso
    con un cappello
    ben calcato sulle orecchie

    che scivola via
    voltando il viso
    al mondo

    come la notte
    davanti allo specchio

  4. I papaveri rossi.

    1.
    Batteria esausta, primavera in esaurimento, solo l’8 %
    da pretesa residua commutazione.

    Ancora pochi baci. Il solletico che soffri sotto le radici dei piedi, improponibile. Primavera! Stento la mia, lo strofinio di labbra accorte.

    Fa lo stesso. Scorri pure lievemente dal finestrino
    accanto, verde, inafferrata.

    2.
    Spingeva il limite sparso. Il luogo fisso, quel tramonto
    bloccato alla parete, ovunque nelle strade quei divieti.

    Gli sbarramenti. L’abitudine di sedere sull’uscio inconsapevoli.
    Pendeva la folla. Ridevamo pure. Nelle piazze,

    alle pareti scorrevano le nostre vite.
    Poco sangue, soltanto a tratti esploso.

    3.
    Semplice. Sulle spalle gli zaini colorati, in fuga
    i cervellini negli smartphone.

    Saranno rimasti in dieci sul terrazzo,
    nel bel mezzo di una scuola.

    Semplice a quell’affaccio desiderato.
    Liberi di studiare. Una versione che scagiona tutti.

    4.
    La terza fornitura li trovò piazzati, attesi al punto d’incontro,
    all’ora prestabilita, al buio inesploso.

    Nella tenebra allegra, si apprestarono in tanti
    soltanto con Peluche e Mascotte. Ed i cani sorrisero. Si leccarono anche.

    Ridevano i musi, mostravano i denti, cosa offrivano in cambio?
    E loro incalzarono, “Peluche e Mascotte!”

    E allora sbraitarono.
    Fuggirono, fornitori e mercanti.

    5.
    Della scomparsa.
    Della stessa distesa che una metamorfosi incontra.

    Quella è una risalita, questo intendi? Un acquietarsi,
    un riscontro di eternità. Sulle foglie intendo non ragionare

    ma limitarne e distinguerne la forma,
    il ripudio di una intera esistenza.

    6.
    Un tempo, quale tempo, se la figurazione sfugge
    se oltre la siepe un confine spinge, se nella mano

    un vortice appare di consolanti nubi
    che non dovrai schiarire che non dovrai riscrivere mai.

    Un cielo sereno, sgombro di nuvole, profondamente sereno.
    Un antefatto. Inquietante.

    7.
    Presumo un apriscatole
    usato fino all’alba, che gira nelle mani

    e non affonda. Le macchie hanno un calibro distinto.
    Ricoprono una maglia di giostra e di dolore.

    8.
    Intravede l’ozio delle parole la propaganda dei nostri sguardi.
    Tra nuvole filiformi di batteri incompresi che attraversano le mani.

    Questi mostri di discorsi. Nei gesti le estenuanti nude dichiarazioni.
    Questi fumi di vento hanno un volto perso.

    9.
    Ecco l’occhio indiscreto che coglie il fallo, l’ascesso furibondo
    l’oriundo cigolio dell’ ombra.

    Ecco accingersi tra le sinapsi del vento quella soave intermittenza delle idee
    quello che dolore onora

    e fa da stimolo agli inventari della memoria.
    Ecco, la seconda martellata fu letale.

    10.
    L’incudine molle
    non assorbe le grida lontane e spesso nel vuoto dei colpi si avverte un dolore.

    Nel ricordo si ammala la polvere esatta. Le spighe volentieri risponderebbero assorte e la sorte ingannare vorrebbero i papaveri rossi.

    (In distici, questa la versione)
    Grazie OMBRA.

  5. “Se vuoi sapere
    qualcosa dei pini –
    vai dai pini.”

    Era solito dire Matsuo Bashō; così è mi pare per i versi di Mauro Pierno.
    Se vuoi sapere qualcosa della poesia di Mauro Pierno devi andare nei suoi intimi interstizi fra silenzio primordiale e parola di poesia, silenzio e parola che nelle spighe e nei papaveri rossi dell’ultimo distico trovano i loro simboli o meglio i loro eliotian-montaliani correlativi oggettivi. Il tutto, ha pienamente ragione l’amico Linguaglossa quando lo sottolinea nella sua ermeneutica,
    confrontato, misurato con un tempo proposto sempre come ‘presente’.
    Se Mauro Pierno decidesse infine di eliminare i numeri, da 1 a 10, questo suo lavoro che riproposto in distici ha una resa estetica travolgente potrebbe essere letto come un poema per omogeneità di lingua, di ritmi, di sillabazione stessa dei versi. Un poema, per omogeneità fono-prosodica dei distici. Se vuoi sapere qualcosa dei pini vai dai pini…
    (gino rago)

  6. Giuseppe Gallo

    Il problema, carissimo Gino Rago, è che io non voglio più “sapere qualcosa dei pini…”, e ritengo che nemmeno a Pierno interessino, in prima istanza, né la “Primavera!”, né le “spighe… accorte” e tanto meno i “papaveri rossi”… ma solo il loro lato oscuro: il loro “esaurimento”. Segnalo una serie di sintagmi tratti dai versi di Mauro: “Improponibile”, “Stento la
    mia”, “Sbarramenti”, “Poco sangue”, “Saranno rimasti in dieci…”, “Liberi di frenare”, “un vortice di consolanti nubi”, “un antefatto”, “Un apriscatole che gira nelle mani e non affonda…” e così via di seguito. In ogni concetto e in ogni immagine c’è qualcosa di non concluso… il vuoto si restringe sempre di più, ma il cerchio non si chiude mai! Né nell’Essere, né nel nichilismo. C’è sempre una percentuale di “residua commutazione”. Direi di più… Mauro Pierno afferma che di questa “batteria esausta”, che è l’uomo, e questa metafora sì, che mi interessa, sopravvive “solo l’8 %”. Soltanto un elemento fuoriesce dall’ambiguità, la pulvis, di cristiana memoria, la polvere… soltanto questa è “esattamente” quello che è, sia nello scorrere che nel diventare: il presente dell’uomo!
    Grazie, Pierno!

  7. Lorenzo Pompeo, da una crepa nel cemento armato di Santa Pazienza, in una e-mail inviata a Giorgio Linguaglossa e a me, dal lago termale di Heviz e da Budapest, annuncia la morte di Amleto.
    Un inedito nel quale, per stessa ammissione dell’autore, riecheggia di qua e di là Herbert.
    (gino rago)

    Ecco l’inedito
    Lorenzo Pompeo:
    Amleto è morto

    “Amleto è morto,
    coperto da un lenzuolo
    disteso sulle sembianze
    di un giovane di belle speranze.
    Il riflesso del suo bagliore
    è un bozzolo imprigionato
    nel fondo dell’oceano
    di una piccola malinconia.

    Amleto è morto
    nelle fibre di un fazzoletto bianco
    buttato su un marciapiede
    e con lui l’onore di un principe
    selvaggio e mite.
    È morto contando
    i granelli di sabbia del deserto,
    osservando le coreografie
    delle nuvole.

    Amleto è morto
    sotto un crocefisso annoiato
    mentre tentava di decifrare
    il geroglifico della propria esistenza
    in un letto d’ospedale
    di un paese sconosciuto.”

    • Grazie Gino! Non so perché e da dove mi è venuta questa lirica. So solo che, tornando in Italia mi sono sentito in dovere di fare questo annuncio. Quello che volevo dire, meglio di così non saprei dirlo…

  8. Viva gli sposi…
    “[…]
    «Tutta la mia vita in due date,
    Il 4 maggio. Il 25 aprile.

    Da tempo non festeggio
    il primo giorno di maggio.

    Oggi sono senza voce. I granata con l’Alessandria
    hanno vinto 10 a 0.

    Sento la carica, mi vuoi sposare?
    Potremmo andare in chiesa

    Solo con gli amici. Sull’altare
    Il nostro cappellano militare.

    Ci metto il vino, le fedi, i bucconotti, i panini.
    Tu la torta, le zagare, il riso,

    Importante è che ci sia il sole.
    Partigiano. Tifoso di quel Torino,

    Ti offro nozze a fichi secchi.
    Antonietta, mi vuoi sposare?

    Antonietta-mia-madre disse di sì…
    Nessuno gridò viva gli sposi.
    […]
    Di una pagina senza dolore
    Rimane una stampa color seppia sbiadita.”
    (gino rago)

  9. Una mia poesia postata da Donatella Giancaspero su facebook (vecchia versione)

    Nox Aeterna

    Un aquilone danzava in cielo con i corvi
    i benigni amici dei cadaveri.

    Dalla finestra aperta entra il vento del nord.
    Rimbalza sugli stipiti delle porte spalancate

    e si posa sulle mani di madreperla di mia madre
    che suona il pianoforte.

    Mio padre le ha spedito una lettera dal fronte
    che non arriverà.
    […].
    Un sarcofago. Amorini svolazzanti in rilievo.
    Un putto immerge la mano nel sarcofago.

    Il bambino mette la mano nel primo cassetto a destra del tiretto.
    Ruba qualcosa, dei cioccolatini….

    Il grammofono suona un quartetto di Mozart…
    […]
    Il profilo di Enceladon dal cavalletto davanti alla finestra
    osserva gli astanti.

    Raffaello ha interrotto la pittura, la «Dama con l’ermellino».
    Il cammeo sul collo di mia madre sembra oscillare.

    Scrivo una lettera a mia madre:
    «Le legioni di Roma si preparano ad una nuova campagna.

    Marco Flaminio Rufo è morto».
    […]
    Il pittore fiammingo dipinge il volto di Enceladon.
    Ritrae il mio volto di profilo, in basso, nella bandella di destra,

    sulla figura di un committente.
    Scrivo una seconda lettera a mia madre:

    «Dobbiamo partire. Per il Sud. Presto sarà inverno.
    Passeremo i mesi invernali nei quartieri d’inverno».

    Scrivo una lettera ad Enceladon:
    «Mia cara, Sarmizegetusa è presa»,

    ma dimentico di imbucarla
    o un postino sbadato ha dimenticato di recapitarla.
    […]
    Nina Berberova scrive un racconto:
    «Il lacché e la puttana».

    Io esco dalla vita ed entro nel racconto.
    Sono il lacché. Le chiedo: «Maestà, perché sono qui?»,

    ma la romanziera ha fretta, deve fare le valigie,
    deve traslocare negli Stati Uniti,

    non può rispondermi, il suo compagno Chodasevič
    è stanco e malato.

    Kafka va a spasso con Madame Hanska
    per le vie di Praga.

    Il Signor Cogito sbatte la porta ed esce di scena.
    Sale sul treno blindato zeppo di soldati.

    In corridoio, il filosofo tiene un discorso sulla Bellezza.
    Il romanzo diventa una coppa di champagne.

    Vivaldi è tornato a Venezia, abita con la sua sgualdrina
    in un appartamento ammobiliato al fondaco del Ponte di Rialto.
    […]
    Scrivo una lettera a mia madre:
    «Presto lasceremo i quartieri d’inverno».

    Quando ritornerò, penso, ritroverò il quadro
    di Enceladon con l’ermellino, sul cavalletto, che mi aspetta,

    sarà finito da tempo.
    E i corvi saranno ancora là in alto

    insieme agli aquiloni.

    Ecco la nuova versione. Chiedo ai lettori quale preferiscono delle due versioni?
    Grazie.

    Nox Aeterna

    Un aquilone danza in cielo con i corvi
    i benigni amici dei cadaveri.

    Sette corvi beccheggiano nel letamaio.
    Il Signor K. piega il portafoglio,

    dal taschino della giacca splende una gardenia,
    una farfalla gialla sullo bianco sparato.

    Dalla finestra aperta entra il vento del nord
    rimbalza sugli stipiti delle porte spalancate

    e si posa sulle mani di madreperla di mia madre
    che suona il pianoforte.

    Mio padre le ha spedito una lettera dal fronte
    che non arriverà.

    […]

    Un sarcofago. Amorini svolazzanti in rilievo.
    Un putto immerge la mano nel sarcofago.

    La mano del bambino nel primo cassetto a destra del tiretto.
    Ruba qualcosa, dei cioccolatini….

    Il grammofono suona un quartetto di Mozart…

    […]

    Il profilo di Enceladon dal cavalletto davanti alla finestra
    osserva gli astanti. Un orecchino con una perla ondeggia.

    Raffaello ha interrotto la pittura, la «Dama con l’ermellino».
    è esausto, scorge delle nubi all’orizzonte.

    Il cammeo sul collo di Enceladon sembra oscillare.
    Scrivo una lettera a mia madre:

    «Le legioni di Roma si preparano ad una nuova campagna.
    Marco Flaminio Rufo è morto».

    […]

    Il pittore fiammingo dipinge il volto di Enceladon.
    Ritrae il mio volto di profilo, in basso, nella bandella di destra,

    sulla figura di un committente.
    Scrivo una seconda lettera a mia madre:

    «Partiamo per il nord, presto ci sarà la neve.
    Passeremo i mesi invernali nei quartieri d’inverno».

    Scrivo una lettera ad Enceladon:
    «Mia cara, Sarmizegetusa è presa. Tornerò presto»,

    ma dimentico di imbucarla
    o un postino sbadato ha dimenticato di recapitarla.

    Enceladon è seduta in giardino, la veranda dà sul mare,
    scrive una lettera al soldato che non arriverà.

    Gaio Cornelio Gallo scrive un poema, gli Amores
    per la sua bellissima amante, tale Licoris

    che poi lo tradirà e lo abbandonerà per seguire un ufficiale romano
    tra le nevi del Reno e del Danubio al seguito delle legioni;

    di lei la storia non ci dice nient’altro, perdiamo le sue tracce
    mentre il poeta viene bandito in esilio

    da Augusto e i suoi Amores dati alle fiamme…

    […]

    Nina Berberova scrive un racconto:
    «Il lacché e la puttana».

    Io esco dalla vita ed entro nel racconto.
    Sono il lacché. Le chiedo: «Maestà, perché sono qui?»,

    ma la romanziera ha fretta, deve fare le valigie,
    deve traslocare per gli Stati Uniti,

    non può rispondermi, il suo compagno Chodasevič
    è stanco e malato.

    Kafka va a spasso con Madame Hanska
    per le vie di Praga.

    Il Signor Cogito sbatte la porta ed esce di scena.
    Sale sul treno blindato zeppo di soldati.

    In corridoio, il filosofo tiene un discorso sulla Bellezza.
    Il romanzo diventa una coppa di champagne.

    Vivaldi è tornato a Venezia, abita con la sua sgualdrina
    in un appartamento ammobiliato al fondaco del Ponte di Rialto

    ha abbandonato la musica, adesso si dedica alla sua amante.

    […]

    Scrivo una lettera a mia madre:
    «Presto lasceremo i quartieri d’inverno».

    Quando ritornerò, penso, ritroverò il quadro
    di Enceladon con l’ermellino, sul cavalletto, che mi aspetta,

    sarà finito da tempo.
    E i corvi saranno ancora là in alto

    insieme agli aquiloni.

  10. La seconda versione, quella che Giorgio Linguaglossa presenta come “ecco la nuova versione”, di Nox Aeterna, meglio, più compiutamente esprime, proprio sul piano della forma-poesia, ciò che viene inteso con il termine
    “entanglement”,
    ovvero, come intreccio, come groviglio di tempi, spazi, personaggi diversi…
    contemporaneamente agenti in uno stesso testo poetico.

    Entanglement come cifra centrale di un vero polittico.
    (gino rago)

    • Marina Petrillo

      Entanglement come cifra centrale di un vero polittico.
      Arduo trovare espressione più icastica. Visione del tutto frazionata in distici accecati dal coniugarsi dei tempi. Scrive, il poeta. Scrive un poema Gaio Cornelio Gallo. Nella smemoria del presente nulla avviene se non per slittante capogiro. Si inverte l’ouroboros di sua veste ridesto, creatura generata in smarrita afasia.
      “Partiamo per il nord. Presto ci sarà la neve”. Quale clima attende l’azione volta al perdurare di una condizione assente. Elogio all’orientamento eccedente ogni spasmo meditativo ; non vi è linea se non d’ombra, rivale al calco di ciò che fu orma sulla neve. “Amores dati alle fiamme”. Arde il polittico in brace dormiente.
      V’è un grado di eternità che svapora e torna a redimersi. Prima, seconda stesura in battito unico giacente al limite del solco supremo. Già abisso.
      Marina P.

  11. cari amici,

    non importa se la mia poesia possa sembrare ai lettori di oggi, infatuati di poesia ad economia curtense, bella o brutta, lascio la questione agli egittologi, il problema è che io, come Gino Rago e Mario Gabriele siamo arrivati a questa nuova concezione della forma-poesia dopo più di trenta anni di tentativi e di ricerche. Una fatica di Sisifo. Colpi a vuoto, pennellate fuori posto, poesie sbagliate: un lunghissimo tragitto di erranze e di errori stilistici… ma la direzione della ricerca era quella giusta… occorreva una enorme dose di tenacia e di cocciutaggine… Fare, costruire, plasmare un «polittico», non è cosa di poco conto, occorre un lavoro stratigrafico enorme… è una poesia dannatamente difficile. Qualcuno obietterà che facciamo poesia incomprensibile, e io obietto: in poesia non si dà democrazia, non tutte le poesie sono eguali, l’eguaglianza è bella nel sociale: siamo tutti uomini e donne, tutti cittadini e quindi tutti eguali dinanzi alla legge. Ma in poesia non è così.

    Ho scritto altrove:

    «l’ordine assertorio della composizione a «polittico» è una risposta in sede stilistica della nuova forma-poesia alla rimozione cancellazione della domanda fondamentale che sta a monte del discorso. Il discorso poetico è sempre una risposta in sede estetica di altre domande extraestetiche. Osservare con la lente di ingrandimento che tipo di risposte dà il discorso poetico può gettare un fascio di luce su alcune problematiche rimosse della nostra cultura. L’interrogatività dello spirito è la componente fondamentale della nuova poesia che chiamiamo nuova ontologia estetica.»

    Ovviamente, anche questi distici di Mauro Pierno sono una composizione a polittico, piccole tessere che abitano un mosaico molto più vasto… E Mauro Pierno procede alla sua maniera, con i suoi utensili: il cacciavite, la lesina del calzolaio, lo sturabottiglie, il cavatappi, la trivella, il tric trac…

    • Contava i protoni

      Il piacere fondamentale deve qualcosa alla simmetria
      chi non capisce un asse rotante omette il mondo.

      L’aria si fa meschina talvolta si gonfia per piangere e non tollera
      Il ritorno sui passi, così lascia all’autunno gli occhi

      Che diventi allume la spiga
      Il ritmo letterario ritorni nella domus aurea.

      Solo perché una regola prevede l’indice
      Sia detto il significato dopo il significante.

      Senza mai nominarlo ma contando a protoni
      Hegel inventa il Tempo.

      Contare è creare.

      Nessun prussiano in giro, nè guerre
      tolleranza zero. Aspergersi invece di cenere.

      Due protoni non sono uno, così pensa il Sole
      L’ immaginavi alla conta sulle dita?

      Alle fronde dei salici lasciammo Quasimodo
      Noi cercatori d’oro, invisi al canto del gallo.

      Marmitte lavorano per noi,
      Migliorano l’aspetto dei cadaveri

      e scendono con dignità da scale lombarde
      Monatto non t’avvicinare a Cecilia.

      Il verso di sei protoni creò la chimica organica.
      Meglio sarebbe stato lasciare uno iato o drogarlo di Litio.

      Tra galassie fu accolto come idea balzana
      Dentro s’impastava carne e vuoto. Gli Dei risero.

      Ancora una volta il Sole raccontava barzellette
      Era l’idiota che non si accorgeva delle circostanze.

      Tieni stretti i tuoi protoni
      Piuttosto che creare possibili uomini.

      Inventa schiuma da barba per Giove
      Che storia è se il creato si mette a creare?

      Le leggi della statica sono buone per la volta a botte
      Costruisci grattacieli e sosterrai l’equilibrio tra quasar.

      Ti sia dato anche l’anello del Cern,
      L’epoca delle postfazioni.

      Ma inventa qualcosa che scorra dentro
      e non sia l’immagine che è.

      La possibilità di carne umana è spavento
      assenza d’assi, specchi e centri.

      Come gira l’universo? ci darà piacere il verso
      o sarà un inutile oziare di dei?

      La coscienza ha un balzo di novantadue piani
      La tavola di Hegel era incompleta. Semplice!

      Non mangiavano Transuranici allo stesso tavolo
      si era presi da una frenesia di apostoli allo sbando.

      Che s’è fatto dunque a nutrire l’essenza?
      L’istante è il sollecito della Legge.

      C’è un obbligo alla fine un altro all’inizio
      corda che vibra e cambia di tono.

      Pagare per questo teatro del piacere?
      come a Yalta

      in Tempo e cianuro per le cecilie
      nel bunker di Berlino?

      Scopri lo specchio se ne hai memoria
      o ferma l’asse che gira. Il Tempo se c’è.

  12. Qualche giorno fa, un po’ per gioco, ho pubblicato un mio testo recente su un gruppo Usenet che era molto attivo alla fine degli anni 90. Un utente commenta: “…e io salto da un’astronave a un’altra”. Il commento, che voleva essere ironico, sarcastico, inconsapevolmente coglie nel segno: al lettore arriva esattamente quello che volevo far arrivare. Tra i versi di Mauro Pierno, accade proprio questo: si salta continuamente da un’astronave a un’altra, da un sistema di riferimento a un altro. Lo scopo non è “cercare” la materia oscura, piuttosto viverla.

  13. Ecco un pensiero di Derrida estrapolato dal contesto filosofico e psicanalitico in cui è nato ma che noi possiamo applicare tranquillamente al nostro progetto di una «poesia-polittico» nella quale non solo il «pensato» trovi posto ma anche e soprattutto il «non-pensato», il «de-negato», l’«impensato», il «non-tematizzato», il «punto di vista scentrato», l’«incorporazione».
    Il semplicismo di una forma-poesia incentrata sul discorso assolutorio dell’io quale epicentro del reale è, dal nostro punto di vista, del tutto secondario, l’io è un «limite del mondo», come afferma Wittgenstein, non il suo centro e nemmeno il suo epicentro. Nella «nuova poesia polittico», l’io è un punto di vista periferico tra innumerevoli, infiniti altri punti di vista periferici e scentrati. E nient’altro.

    «Il semplicismo del “questo è stato pensato” o “questo non è stato pensato”, il segno ne è presente o assente. S è P.. Si sarà allora tenui nel rielaborare completamente tutti i valori. essi stessi distinti (fino a un certo punto) e spesso confusi dell’impensato, del non-tematizzato, dell’implicito, dell’escluso sull’esempio della forclusione o della denegazione, dell’introiezione o dell’incorporazione, etc., silenzi che lavorano come tante tracce un corpus da cui sembrano “assenti”».1

    1 J. Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, 1980 Flammarion, Paris – trad it. La carte postale Da Socrate a Freud e al di là, Milano Mimesis, 2015 pp. 508 € 28, a cura di Luana Astore, Federico Massari Luceri e Federico Viri. p. 359

  14. Pingback: Mauro Pierno. Progettare sculture mobili – di parole – Trotter in Versi

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