Michel Meyer, La questione del logos è la questione fondamentale, con i Commenti del 24 aprile 2019, Poesie e Commenti di Giuseppe Gallo, Gino Rago, Donatella Giancaspero, Mario M. Gabriele, Nunzia Binetti, Giorgio Linguaglossa, Edoardo Nannipieri, Edgar Degas

 

La questione del logos è la questione fondamentale

 Scrive Michel Meyer:

«Si tratta di pensare cosa bisogna intendere per logos. Una tale esigenza può sembrare superflua in un’epoca che ha visto fiorire tanti lavori sul linguaggio: Il logos è un’altra cosa: è il linguaggio della ragione, e della ragione che si apprende in tutta la sua ampiezza, e non secondo questo o quell’aspetto particolare. L’inflazione delle ricerche consacrate al linguaggio ne rivela piuttosto l’assenza di unità. Quanto è ricchezza per la scienza, che moltiplica analiticamente i ritagli di oggetti, si rivela povertà per la filosofia, che cerca il principio e la totalizzazione: Ma non è possibile che, dopo tutto, la questione sia falsamente una questione filosofica e che si debba lasciare questa riflessione nello stato di dispersione che le conosciamo? Tuttavia, neppure la scienza ha molto da guadagnarci. L’infinita diversità dei fenomeni linguistici ha dato luogo a numerosi studi parziali che mascherano il logos, proprio mentre vogliono mettere in evidenza la realtà che gli è propria.

La molteplicità degli approcci e dei punti di vista – li si chiami sintassi o grammatica (generativa o no), ci si rivolga piuttosto alla semantica, alla pragmatica o ancora alla logica – non ha alla fin fine risposto alla questione di sapere cosa significa parlare. Rivolgersi a questo o a quell’altro fatto linguistico, scelto a caso in base agli interessi del ricercatore, non ha nulla di condannabile: è soltanto arbitrario. Per giustificare la sua scelta, egli deve ricorrere a una teoria del linguaggio, ma è proprio questa che egli pretende di scoprire o di validare, rivolgendo la propria attenzione ai fenomeni particolari che egli prospetta. Una teoria scientifica può certo privilegiare i fatti che vuole, senza che questo escluda altre scelte. Così facendo, essa non potrà pretendere di aver catturato la realtà del linguaggio in quanto tale. I suoi risultati saranno proporzionali alle sue scelte: limitati…

Questa sommatoria operata a partire dalla scienza mira a raggruppare il parziale per farne qualcosa di generale, ad addizionare i fatti particolari per ricondurre il logos ad un’immensa empiria di linguaggio. Proprio questo presuppone una concezione del logos, della ragione… Egli rifiuta la filosofia per i fatti, come se proprio ciò non tradisse già una certa filosofia, non fondata, sul comportamento da adottare nei confronti del linguaggio, su ciò che bisogna apprendere e su ciò che bisogna evitare, in breve su ciò che determina e definisce la ragione parlante. Il linguaggio sarebbe con piena evidenza a immagine della scienza, anzi che dico, la scienza sarebbe il linguaggio, al di là della sua inevitabile razionalità analitica?…

Le proposizioni che affermano che il linguaggio è dell’ordine del risultato, e forse anche, a razionalità giustificativa come la scienza, sfuggono anch’esse a questa definizione o, piuttosto, a questo a priori. Quest’ultimo si distrugge se si dice. Il che prova che il linguaggio non è ciò che esso afferma, e che non può affermare, benché il linguaggio possa esprimere anche i risultati della scienza… Ne va del pensiero del linguaggio, nella misura in cui esso è il linguaggio del pensiero… Pensare il linguaggio significa prima di tutto aprire il pensiero al proprio linguaggio. Il pensiero del linguaggio mette in atto un linguaggio specifico che è quello del pensiero. È in ciò che risiede il carattere fondamentale della meditazione sul logos. Senza questa meditazione, come possiamo sperare di trovare uno spazio proprio del pensiero, che non lo releghi a forme abusate del linguaggio, e nelle quali esso si perderebbe inevitabilmente? Forme abusate, dunque uso delle forme, le stesse di cui si tratta di render conto e che le analisi contemporanee presuppongono affermando, vietando, contestando.

Ma è possibile procedere altrimenti? Senza il pensiero del linguaggio, il linguaggio del pensiero si dissolve di fatto, se non implicitamente di diritto, in forme e in usi che rendono il pensiero estraneo a se stesso. L’alienazione che inghiotte il pensiero si basa sull’uso di un linguaggio che non è il suo.

La questione del logos è posta come domanda fondamentale del pensiero. Fondamentale, perché non poggia su nessuna risposta preliminare e, per questo, su nessuna domanda più prima ancora. E fondamentale altresì, perché essa si vuole fonte della risposta prima. Fondamentale, dunque filosofica, cioè esente da presupposti e da asserzioni esterne che non discendano dall’interrogazione sul logos…

[…]

Come interrogare il logos senza dover presupporre proprio ciò che occorre mettere nella risposta? Quale domanda è necessario precisamente rivolgere al linguaggio? Come formulare questa domanda senza già orientare la ricerca su di una strada particolare e arbitraria, che ci condannerebbe a errare. Il linguaggio ci sfuggirebbe a causa della particolarizzazione alla quale saremmo abbandonati. Come sapere esattamente la domanda particolare da porre, senza cadere nel tranello dell’anticipazione di una risposta? […] Così, perché la questione del logos sia considerata come tale, occorre non soltanto non presupporre niente oltre ad essa, ma, in più, non è legittimo formularla come se chiedesse questo o quello, questo piuttosto che quello.

[…]

Affermando tutto ciò che abbiamo appena detto sulla questione del logos, sul fatto che essa sola deve e può concludere la ricerca iniziale, noi non siamo più a livello della domanda iniziale. Facciamo agire una discorsività che non è la domanda ma parla di essa. Parlare così della questione del linguaggio è qualcosa che si aggiunge alla semplice posizione della domanda. Così facendo, abbiamo preso atto, nell’atto linguistico che consisteva nel porre e nell’elaborare la questione, del fatto che c’è un’esigenza da rispettare, nella fattispecie quella delle domande e delle risposte. Dalla questione del logos scaturisce una risposta: il logos è fatto di domande e di risposte, e questo è essenziale al logos, ed è anche un’esigenza dal momento che le domande sono considerate in quanto tali. f»1

1 M. Meyer, Problematologia, Parma, Pratiche editrice, 1991 pp. 267 e segg.

Letizia Leone 4 frasi Viola norimberga

Giorgio Linguaglossa

mi trovo un po’ in difficoltà a commentare singolarmente le poesie dei vari autori dei due ultimi post perché il livello molto elevato di introiezione dei segreti della NOE è ormai così consolidato che mi lascia addirittura sorpreso. Non credevo che autori che si sono accostati alla rivista da relativamente poco tempo, come Franco Intini, Giuseppe Gallo, Alfonso Cataldi, Giuseppe Petronelli, Francesco Gallieri e altri abbiano potuto assorbire così rapidamente i principi guida della nuova poesia. Evidentemente, erano già per proprio conto indirizzati in questa direzione, cercavano, magari a tentoni, qualcosa che galvanizzasse la propria scrittura. Questo è senz’altro un buon segno, un segno di vitalità della nuova poesia. Non occorre essere in centinaia, è sufficiente una piccola ma agguerrita (stilisticamente) pattuglia di interpreti. In particolare vorrei dire qualcosa su questa poesia di Giuseppe Gallo.

.

Giuseppe Gallo

 Lilli

Lilli sorrise alle macchie sul muro,
aveva intravisto il colbacco di Lenin.

Elena per scendere scelse i gradini più comodi.
Ormai dipingeva in grigio solo scale in salita.

La primavera era sopraggiunta in treno.
E i papaveri si vergognavano di rosseggiare in città.

– La morte non sa che può fare male,
ha ancora i calzoni corti e la minigonna di Mary Quant!-

Oggi non è più oggi.
…attenda in linea…

Le carpe d’argento assalivano le barche dalle sponde.
Se non hai parole non puoi avere fantasmi.

Si scrive soltanto il passato
per sorreggere la potestas e l’auctoritas.

La voce è un gesto: la bocca mi baciò tutto tremante…
ma dopo, quando si spara…

Intorno alle acacie si agita la luce,
il pappagallo la sfoglia come un libro.

Ha imparato a leggere lungo la traversata.
…è un’inchiesta sulla qualità del servizio…

La morte è una scavezzacollo… deve fare esperienza.
Ha ancora i calzoni corti e la mini gonna di Mary Quant.

Quello che mi sorprende in questa poesia è la sicurezza dell’andamento polifrastico, la scioltezza con cui si muove Gallo, il suo saper muoversi a zig zag ad ogni distico, la rapidità di esecuzione, i cambi di marcia mai banali, mai prevedibili, mai scontati; la capacità che mostra l’autore di sorprendere il lettore ad ogni distico, ad ogni verso, combinando ironia e, soprattutto, auto ironia, serietà e gioco, ma un gioco serissimo, niente affatto giocoso, combinando citazioni culte e rottami delle fraseologie cibernetiche. Ne deriva un paesaggio lessicale e stilistico mobilissimo e extravagante, un timbro nuovissimo, una fragranza lessicale che non leggevamo da così tanti anni… Forse il segreto è che Gallo si è dedicato per più di trenta anni alla ricerca in campo idiomatico nel proprio dialetto calabrese… questo retroterra si è rivelato utilissimo per la sua nuovissima ricerca poetica nell’ambito della nuova ontologia estetica… è che proveniva da una lunghissima e difficilissima maratona nel campo del dialetto…

Edoardo Nannipieri

Trovo veramente non condivisibile il fatto che la poesia si riduca ad un gioco di parole, più o meno esilaranti o divertenti.Dite che èsatira, parodia o altro: non sono d’accordo.

Giorgio Linguaglossa

gentile Edoardo Nannipieri,

evidentemente lei non ha letto bene le mie parole, io ho detto proprio il contrario di quello che lei mi addebita, ho scritto, precisamente che si tratta di «un gioco serissimo, niente affatto giocoso».

Tarkovskij Nostalghia (1)Giorgio Linguaglossa

La Mega Crisi quale causa efficiente della nuova ontologia estetica

Occorre prendere molto sul serio la tesi di fondo di Freud sulla paranoia. Secondo Freud il delirio non è la malattia stessa, ma un tentativo di guarigione. E qual è la “malattia” vera che lo psicotico delirante cerca di medicare? Risponde Freud: “Esperienze primarie di terrore, frammentazione e invasione”. Il delirio, soprattutto se sistematizzato, finisce col dare ordine e senso a un’esperienza di caos insopportabile. È possibile pensare sulla scia di Lacan, che questa reazione accada quando il soggetto si trova di fronte a un evento o a una situazione in cui non può più ignorare il “buco”, quel significante escluso, in significante – la paternità – a cui non corrisponde alcun significato. Ora, questo confronto col “buco” può produrre lo sfaldarsi completo dell’assetto di senso del soggetto.

Questo preambolo per dire che al di sotto dell’esperienza della nuova ontologia estetica c’è una situazione di lacerazione, frammentazione, de-fondamentalizzazione del soggetto, espressioni proto tipiche del nostro tempo di Mega Crisi.

Voglio dire che noi non ci saremmo mai imbattuti nella NOE se non vivessimo in un periodo di grande crisi (economica, politica, sociale e spirituale, e quindi anche stilistica), alla quale dobbiamo in qualche modo rispondere, trovare un senso alla crisi e malgrado la crisi; anche perché l’unico modo di uscire da una crisi devastante come quella che l’umanità sta vivendo nel nostro tempo, è attraversarla, trovare un senso alla crisi. Anche il non-senso sarebbe una risposta plausibile alla crisi che stiamo vivendo. Le bombe deflagrate nello Sri Lanka ci riguardano molto da vicino. La guerra civile della Libia ci riguarda molto da vicino. La guerra civile (strisciante) che da almeno un anno affligge l’Italia è un sintomo evidentissimo di questa Grande Crisi.

Ecco, io sono del parere che questa Mega Crisi sia la causa efficiente della NOE. Noi tutti scriviamo la poesia che scriviamo in preda ad una frantumazione e de-valorizzazione di tutti i valori ai quali facevamo riferimento fino appena a ieri. Ecco, tutti quei valori, improvvisamente, oggi non valgono più, sono andati in disuso, sono stati rottamati. Oggi noi abbiamo di tutti quei valori soltanto delle schegge, dei rottami, dei frammenti, nient’altro ci resta di integro, tutto è stato frantumato e rottamato. La NOE non può che riflettere questa Mega Crisi dei valori e delle parole (che quei valori portano). Non è affatto colpa nostra né forse neanche merito nostro se abbiamo abbracciato una nuova ontologia estetica. Probabilmente, anzi, sicuramente dopo di noi verranno altre ontologie estetiche, il mondo non si ferma certo alla NOE, ma adesso, in questo preciso momento segnato dalle lancette dell’orologio della storia, è il momento della NOE.

Nunzia Binetti

Caro Giorgio, mi identifico con il tuo pensiero e con la lucida e accurata analisi che fai, osservando il nostro tempo. C’è un disorientamento generale a livello globale e individuale, a causa del quale non possiamo che rappresentaci come schegge e attraverso schegge di scrittura. È crisi, crisi dell’organico. È disarmonia che cerca disperatamente l’armonico, ormai inesistente. Trovo i testi,qui pubblicati, tutti davvero eccellenti e non a caso, credo, tu abbia incluso i versi di Franco Intini a quale ho sempre manifestato grande ammirazione per tutto quanto scrive. Trovo che i suoi versi ,franti e spezzati, siano veri ; colmi di una causticità nei confronti del tempo presente e dei suoi ” mali”, che non solo arriva ma pure sgomenta. Grazie per esserci, Giorgio ,e per il lavoro che porti avanti con tanta fede, in cerca di una Nuova e migliore poesia . Un abbraccio.

LD07

Bauhaus, Signora seduta con maschera conversa amabilmente con il silenzio

Gino Rago

Cara Binetti, Caro Nannipieri,

ecco uno spunto sul quale imbastire qualche riflessione: è un pensiero di Roland Barthes tratto da una idea di Diderot

La calza e l’idea
Roland Barthes

[La poesia?
E’ la macchina per fare le calze].

Il testo è redatto da Diderot in persona. Da cosa deriva tutto questo interesse? Innanzitutto, ovviamente, dal fatto che la macchina per calze esprime molto bene il tema progressista della nostra civiltà tecnologica, il quale ha avuto inizio appunto nel XVIII secolo: da un lato i bisogni della vita quotidiana, colti a partire da un umile articolo vestimentario; dall’altro il potere della tecnica, che permette agli uomini di soddisfare questi bisogni, impiegando un minor tempo e un minor lavoro che in precedenza. Così, la nuova macchina per calze simbolizza il rovesciamento della vecchia legge contabile della “fatica”, scotto inevitabile – si pensava – d’ogni esistenza.

Non è tutto. Quel che rende la macchina per calze veramente ammirevole agli occhi di Diderot è il fatto che essa possiede una sorta di perfezione intellettuale.

“Possiamo guardarla – scrive – come un solo e unico ragionamento di cui la realizzazione del prodotto è la conclusione; regna fra le sue parti una così perfetta dipendenza reciproca, che sopprimerne una soltanto, o alterare la forma di un’altra apparentemente inutile, significherebbe danneggiare l’intero meccanismo”.

La macchina per calze illustra in tal modo la perfezione che ci si aspetta da ogni intelligenza: la solidarietà deduttiva delle idee, la necessità delle loro forme. Certo, dopo Diderot l’umanità non ha mai cessato d’inventare macchine nuove, sempre più complesse, che sembrano oltrepassare i limiti dell’intelligenza, di cui pure sono al tempo stesso il modello e la copia. E anche la macchina per calze è molto cambiata. Tuttavia, il simbolo permane, e sussiste il medesimo stupore:

una calza femminile – la cosa più fine, più leggera che esista, liscia come la pelle che protegge ed esalta, simbolo stesso della creazione sovrannaturale perché non ha in sé, come la tunica dei santi, nessuna cucitura – può essere la conclusione (è il termine di Diderot) di un ragionamento la cui complessità, simile alla sorpresa derivante d’un’idea intelligente, si inscrive nel lampo di quei pochi secondi necessari a produrla.

Gino Rago

Un dittico in distici a quattro mani

Gino Rago-Donatella Giancaspero

La foto di una foto di Degas

Vicino a un grande specchio
Nella foto di Degas si vede Mallarmé.

E’ in piedi contro il muro.
Renoir è sul sofà.

Nello specchio (come fantasmi)
Lo stesso Degas ( con la sua camera )

E la moglie di Mallarmé (con sua figlia).
Paul Valery entra dopo lo scatto.

Ora guarda la stampa che Degas gli ha regalato:
“Il prezzo di questa opera d’arte?”

Nove lampade a gas
E un istante di completa immobilità.

Donatella Giancaspero fotagrafa
La foto di Degas.

Pone sulla stessa linea di mira mente,occhi e cuore.
Trattiene il fiato e scatta.

Nella foto della foto di Degas
Donatella ha messo tutto.

I libri. I viaggi. Gli amori.
Gli appuntamenti mancati. Le promesse mantenute.
[…]

Donatella Giancaspero

Nei vapori dei fiati sullo specchio

Nella stanza di Degas:
«Fra tante foto che ho qui, non ricordavo più

Di averne scattata una anche alla “Foto di Degas”.
[…]
O forse sì e l’avevo smarrita. Vai a capire…
Ma vedo che tu l’hai ritrovata.

La metterò insieme alle altre.
Istantanee di istanti.

Frantumi di vita.
Vita in frantumi. Lampi al magnesio.

Une bonne soirée à toi, à Degas, à les amis »

Donatella Giancaspero

A rare movie

In un’affollata via di Parigi, il veloce e casuale passaggio di un anziano signore con la barba bianca. Quel signore è Edgar Degas.

Nel 1915, il pioniere del cinema Sacha Guitry chiese a Degas il permesso di filmarlo e di inserire le sue immagini in un documentario dedicato ai grandi vecchi dell’arte francese, come Monet, Renoir, Rodin… Ma Degas non diede il permesso di essere ripreso e a Guitry non restò altra scelta che tentargli un agguato per strada cogliendolo di sorpresa a passeggio.

Donatella Giancaspero

Edgar Degas (1834 – 1917)
Renoir e Mallarmé
1895, fotografia, 17.8 x 12.7 cm
Parigi, Bibliothèque Doucet.

 

Mallarmé e Renoir sono ripresi in casa di Berthe Morisot. Così descrive la foto Paul Valéry, suo primo proprietario:

“La fotografia mi era stata donata da Degas, di cui si scorgono nello specchio la macchina fotografica e lo spettro. Mallarmé sta in piedi accanto a Renoir, che è seduto sul divano. Degas impose loro quindici minuti di posa alla luce di nove lampade a petrolio. (…) Nello specchio si possono riconoscere le ombre della signora Mallarmé e di sua figlia”.

Per approfondire l’argomento e per capire di che cosa stiamo parlando, vi consiglio un sito in internet: PDF] Semiotiche della pittura – Ec-aiss.it. Troverete un articolo il cui titolo è “Evaporazione e/o centralizzazione. Gli (auto)ritratti di Manet e di Degas” di Victor I. Stoichita.

Buona lettura!!

Gino Rago

L’uomo che non sceglie: Pilato

“Ecce Homo. Lui o Barabba.”
“Barabba”. L’urlo dalla folla di zeloti.

A Ponte sant’Angelo tutto trema.
L’occhio vede ciò che la mente conosce.

Un ragazzo si tuffa nel Tevere.
“Suonava il violino a Porta Portese.

Era triste in questi giorni.
Lo conoscevo. Era il nipote prediletto di Barabba…”
[…]
In ogni contrada:
«Elì, Elì, lemà sabactàni?»

Da allora qualcuno spezza ogni giorno il pane:
«Mangiatene tutti. E’ il mio corpo.»

Offre il vino:«Bevete.
Per tutti è il mio sangue.»

Nelle scritture, nei versi, nelle immagini,
Nelle forme del tempo-illusione

Il canto si fa sangue. Il logos si fa carne.
E la Parola torna ad abitare in mezzo a noi.

Un ex-voto segreto di poeti. Pino Gallo e Pino Talìa.
A piedi nudi. Dalla Certosa di Serra San Bruno

Al Santuario in salita di Polsi. Canti nella polvere.
Francesca Dono è già in cima con il Tenente Drogo.

Il Deserto dei Tartari in Calabria è la fiumara.
Per la prima volta Dino Buzzati vede il mare.

Barabba si finge migrante fra i migranti.
Giorgio Linguaglossa lascia il Paradiso,

Con Mario Gabriele torna a Campobasso.
Nevica sui palazzi di Piazza degli Eroi-senza-lavoro,

Aspettando Godot rubano la pipa a un pupazzo di neve.
Lucio Mayoor Tosi. A Ponte Milvio cerca i colori del pavese.

La Poesia. La nuova alleanza. La Pasqua.
La Festa nell’uomo che sposta le pietre.

Mario M. Gabriele

Esprimere nei nostri tempi il senso della Pasqua nella Storia degli eventi antichi e moderni,con la più significativa onomastica al’interno della Bibbia e della società odierna, è come fare un reportage sulla storia dell’Uomo e del suo cammino verso la Salvezza.

Ora qui non siamo in un convegno su Teodicea e Filosofia analitica,per discutere il senso del Mondo e della Trascendenza,ma ad un percorso dichiaratamente poetico che permette citazioni di personaggi e frasi di natura evangelica,come nella rappresentazione della Cena con Cristo e gli Apostoli. Nel testo di Gino Rago entra un po’ di Ontologia come rapporto con l’essere umano e la tradizionalità delle Fede e laddove qualche pensiero ateo dovesse inserirsi, mi va di ricordare il famoso saggio di Max Planck quando affermava che scienza e religione non sono in contrasto.

Ho molto gradito il tuo testo poetico, caro Gino. Ci sono temporalità diverse.” La Pasqua è la festa dell’uomo che sposta le pietre”: verso avvolto di metafora, ma che comunque è decriptabile dai lettori. Sembra di leggere una pagina di Bereshit. In altre parole, c’è una raffigurazione storica e contemporanea della Passione di Cristo e di quella umana, direi universale.

10 commenti

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10 risposte a “Michel Meyer, La questione del logos è la questione fondamentale, con i Commenti del 24 aprile 2019, Poesie e Commenti di Giuseppe Gallo, Gino Rago, Donatella Giancaspero, Mario M. Gabriele, Nunzia Binetti, Giorgio Linguaglossa, Edoardo Nannipieri, Edgar Degas

  1. Patrizia Conte

    un chiarimento:

    Michel o Henry Meyer ?

  2. donatellacostantina

    Buon 25 Aprile a tutti!
    Viva l’Italia antifascista, antirazzista e libera!!

  3. Il 25 aprile è la festa della Repubblica italiana, che simboleggia la reazione al fascismo e al nazismo e la rinascita del Paese. È la festa della Repubblica, di tutti i repubblicani democratici e di tutti gli italiani. Chi non si riconosce nella Festa del 25 aprile, semplicemente è fuori della tradizione repubblicana e democratica.

    • annaventura36 @hotmail.com

      Mio marito mi diceva spesso:”Per te, il 25 aprile è tutti i giorni”:alludeva alla tenace indipendenza del mio pensiero, sorvolando sulla mia vita sostanzialmente monacale.

  4. Due fazzoletti al 25 aprile

    Rosso-bianco-verde. Due fazzoletti.
    Uno sul collo di Calamandrei

    L’altro su quello di mio padre prigioniero.
    Hanno spaccato le lapidi dei loculi

    Sono alla testa di tutti i cortei.
    Mio padre disse NO al cibo, agli scarponi,

    alla divisa cucita su misura.
    Rimase negli stracci, nella fame,

    nei pidocchi. Partì con altri a venticinque anni.
    Tornò. La giovinezza mai vissuta

    per sempre alle sue spalle.
    […]
    Con Calamandrei
    stasera mio padre senza farsi vedere

    sarà forse a Marzabotto con i fratelli Cervi.
    O forse a Porta san Paolo

    o alle Ardeatine.
    Da anni esce dalla tomba.

    Si fa fiore tra i fiori mai secchi
    sotto le croci di legno

    sui prati, ai bordi dei fiumi, sulle montagne.
    “La libertà. Il meglio fiore… Ma vuole sempre acqua”
    […]
    Calamandrei e mio padre lo dicono sempre:
    “la libertà… E’ di tutti. Anche di quelli

    che la negarono a tutti.”

  5. Alcune Domande di Giorgio Linguaglossa a Vincenzo Vitiello, da
    Topologia del moderno, Marietti, edizione, 1992 pp. 249-251:

    Domanda: Il linguaggio rinvia ad altro o rinvia a se stesso?

    Risposta: «Il segno, si è detto, rinvia ad altro. Le lancette che si muovono sul quadrante dell’orologio indicano il tempo che scorre: Il tempo dell’attesa, o il tempo della memoria; il tempo degli astri: la levata del sole; o del mezzo meccanico: la velocità dell’auto. Sempre un tempo ch’è fuori dell’orologio. Sempre le lancette indicano altro. Il linguaggio, invece, parla di sé, indica sé, presenta se stesso. Può fare ciò che gli altri segni non possono. Certo la parola nomina l’altro, l’altro da sé: il profumo di un fiore, il colore di un tramonto, il sapore di un frutto. Cosa più distante dalla parola – quella della voce e quella della scrittura – che l’olfatto, la vista, il gusto? Pure la parola nomina l’odore, il colore, il sapore: Li nomina e li evoca. Presenta l’altro. Ed insieme presenta se stessa. La parola nomina la parola.

    Se il linguaggio è l’orizzonte dell’altro, questo orizzonte ha poi la particolare caratteristica di includere sé in sé, l’orizzonte nell’orizzonte. È uno spazio più grande di ogni spazio – perché autoinclusivo. Perciò è la condizione del pensiero. Del pensiero vero. Che è tale se ed in quanto è capace di accogliere sé in sé medesimo».

    Domanda: Può fare un esempio?

    Risposta: Faccio un esempio: se dico che essenza della verità è il segno, il rimando ad altro, questa affermazione è vera solo a condizione ch’essa medesima sia tale: rimando ad altro. Se il pensiero che dice la verità, l’essere della verità, non includesse sé in se stesso, sé nell’essere della verità, resterebbe almeno una verità fuori della verità: la verità verità definita non sarebbe, non includerebbe la verità definiente. L’essere della verità sarebbe soltanto una verità parziale, limitata, che, non conoscendo il suo limite (dacché non include il definiente in sé, nulla sa di questo: neppure che “c’è”), non potrebbe che porsi come verità totale: come ciò che non è. Non sarebbe verità, ma errore. Solo il pensiero autoinclusivo è vero. Perciò ha bisogno del linguaggio: perché solo il linguaggio dice di sé. Di sé: dell’identità originaria. Dell’Identità che è all’origine del pensiero vero.

    Il pensiero autoinclusivo è pensiero riflesso. Riflesso-riflettente. Il linguaggio che ad esso conviene è dunque il linguaggio della riflessione.
    Ma si dà tutto questo – o è soltanto un’esigenza? Può ben essere che non ci sia verità se non nel pensiero e nel linguaggio autoincludentesi – ma si dà poi verità?
    L’esigenza del discorso, del logo (pensiero e linguaggio) autoinclusivo cozza contro questo fatto – questo bruto, impuro fatto: che la parola che dice il linguaggio è sempre particolare, limitata. È un frammento del linguaggio, mai tutto il linguaggio. Il logo che parla, che dice, che nomina e definisce – non è mai tutto il logo. Tutto il logo che pur intende dire. L’intenzionato deborda da ogni lato, fuoriesce dall’intenzione. La riflessione spezza l’identità che è alla sua origine. L’orizzonte della riflessione si rivela troppo piccolo per accogliere in sé l’orizzonte riflesso. Il cogito non è pari al sum. Al sum del cogito, al sum cogitans.
    Su questa dis-parità, su questa dis-equazione -la disparità, la disequazione tra linguaggio e parola, logo riflesso o intenzionato e logo riflettente o intenzionante – porta a meditare il pensiero di Heidegger. Il pensiero di Heidegger sull’essenza del linguaggio»

    Domanda: Il linguaggio è il linguaggio del’io? Possiamo dire che tra le due cose c’è equivalenza?

    Risposta: «Il linguaggio parla d’altro – d’altro e di sé. Normalmente d’altro: nomina ed evoca e presenta le cose – le cose del mondo, le cose nel mondo. E con le cose gli uomini – i parlanti. Ma quando parla di sé? Quando e dove?

    Bisogna esser cauti nel rispondere. Non si può dire semplicemente nella poesia. Bisogna dire invece: nella poesia che parla della poesia. Se Heidegger privilegia Hölderlin è perché «Hölderlin ist uns in einem ausgezeineten Sinne der Dichter des Dichters». Hölderlin poeta del poeta in senso eminente: perché? Perché la sua poesia ha per tema l’essenza del poetare.1]

    Il linguaggio – ricorda Heidegger citando Hölderlin – è «der Guter Gefahrlichstes». Il più pericoloso dei beni perché «wo Sprache, da ist Welt». E solo dove è il linguaggio è il mondo: luogo di incontro dell’ente ed insieme di apparizione del non-ente; luogo di memoria dell’essere, e di oblio ed abbandono. Ora, se non è il linguaggio per l’uomo, ma l’uomo per il linguaggio – come accade, come avviene il linguaggio?

    Seit ein Gesprach wir sind
    Und hören können voneinander 2]

    Il linguaggio avviene come dialogo. L’avvento del linguaggio è l’avvento della comunità. Della storia. Già per questo il linguaggio è essenzialmente «ascolto». In uno scritto più tardo, su cui torneremo, Heidegger, rilevando la medesimezza di pensiero e linguaggio, e così la prossimità di Denken e Dichter, scriverà: «Ogni pensare è prima di tutto un ascoltare, un lasciarsi dire e non un interrogare».

    Per ogni lato il linguaggio supera la parola. È un bene – per quanto sia più pericoloso. Un bene, e cioè: un dono. Il linguaggio è donato. Donato a chi compie la più innocente operazione: al poeta. Unschuldigste definisce Hölderlin l’occupazione del poeta: la più innocente, incolpevole dell’uomo. Perché ai poeti non si può far carico di nulla: «Der Dichter ist ausgesetz den Blitzen des Gottes». Esposto ai fulmini del dio, il poeta accoglie quanto a lui è dato accogliere.

    …und Winke sind
    Von Alters her die Sprache del Götter 3]

    Cenni, non parole. Il linguaggio – il linguaggio originario: degli dei – non si dà alla parola, comunica per cenni. Il fulmine di Giove illumina, per un attimo, l’oscurità del Cielo. Ed è per questa illuminazione che l’uomo scopre la sua appartenenza alla Terra. Allora veramente, propriamente dà testimonianza di sé, del suo esser-ci, quando scopre la sua intimità (Innigkeit) alla Terra, al mondo. Alle cose, che in questa intimità si rivelano come sono: in contrasto, im Widerstreit. Unite da ciò che le separa.

    Ma in conflitto, im Widerstreit, non sono soltanto le cose; un più originario conflitto è all’opera nel linguaggio. Heidegger ci mette sulla traccia di questo più originario polemos già quando parla dell’essena della poesia che Hölderlin dichter und neu stiftet. Questa essenza, nuovamente fondata sulla poesia di Hölderlin, non è – dice – zeitlos; al contrario: appartiene al tempo, e ad un determinato tempo. Alla durftige Zeit: un tempo della povertà e del bisogno, degli dei fuggiti e del dio venturo – dell’abbandono e dell’attesa.

    L’appartenenza alla Terra è quindi lontananza dal Cielo. V’è un’amicizia – philìa – tra i divini e i mortali; insieme una profonda inimicizia li separa. E nel linguaggio sono entrambe, Concordia e Discordia: il lampo, Blitz, della parola che illumina e la celeste oscurità del linguaggio che ne è illuminato.

    C’è da chiedersi, però, se sia storico questo conflitto, o non appartenga invece all’essenza dell’uomo e al destino dell’essere.
    Con questa domanda ci inoltriamo nell’altro scritto di Heidegger cui s’è fatto cenno. Lo scritto dal titolo: L’essenza del linguaggio.

    1] Hölderlin und das Wesen der Dichtung, in EH, 33-48 (da questo testo sono tratte le citazioni da Heidegger e da Hölderlin)
    2] «Da quando un dialogo noi siamo / E possiamo ascoltare l’uno dall’altro».
    3] «… e cenni sono/ Dal tempo antico il linguaggio degli dei».

  6. https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/04/25/henry-meyer-la-questione-del-logos-e-la-questione-fondamentale-con-i-commenti-del-24-aprile-2019-poesie-e-commenti-di-giuseppe-gallo-gino-rago-donatella-costantina-giancaspero-mario-m-gabriele/comment-page-1/#comment-56422
    Penso che la «parola» poetica scocchi al e dal «discorso» mediante una scintilla. Una scintilla che subitaneamente diventa incendio. Quello che altri chiama ispirazione, è in realtà una scintilla. Ma qui si pone un problema che è stato sfiorato sia da Michel Meyer che da Vincenzo Vitiello: come fare per giungere alla scintilla? Ecco, direi che la scintilla è un dono degli dei (non di dio, si badi); allora, non resta che propiziarci la benevolenza degli dei. La ricerca filosofica e di poetica ha questo senso, quello di procacciarci la benevolenza delle Muse, che sono delle dee particolarmente bizzose e ritrose; fuggono a gambe levate dove il poeta getta ponti levatoi per catturarle, non sopportano alcuna violenza, alcuna effrazione.

    Però il poeta non può soltanto stare in posizione statica ed estatica di attesa, deve fabbricarle le condizioni affinché l’attesa divenga fruttuosa. Per dirla tutta, il poeta non deve sostare né soltanto sulla «parola», né soltanto sul «discorso», entrambi: parola e discorso sono acerrimi avversari, sono sempre in conflitto, dove c’è l’una non c’è l’altro; infatti sono di genere opposto: femminile (la parola) e maschile (il discorso). Se il poeta cerca la parola nuova senza aver prima fabbricato ponteggi e gru per arrivare alla parola, finisce per impiegare la parola vecchia, quella già consumata dal discorso, e la Musa fuggirà a gambe levate; se invece punterà sul «discorso», sarà la «parola» a sottrarsi in quanto quel «discorso» è il discorso della tradizione, il discorso in posizione di rigor mortis.

    Non c’è dubbio che il poeta si troverà così sballottato e distratto tra la «parola» e il «discorso», prigioniero castigato dall’ostilità e dalla conflittualità tra i due contendenti. Il risultato sarà la parola in rigor mortis, con la conseguenza che userà la parola come succedaneo di una tradizione (di un discorso) già nato consunto.
    E allora, come fare per evitare di diventare prigioniero inerme tra questi duellanti? Dirò che il poeta deve costruirsi una casa, una abitazione che lo protegga dalle intemperie e dalle tensioni che si sprigionano dalla collisione tra la «parola» e il «discorso», dovrà munirsi anche di un buon parafulmine e di un portone blindato per impedire alle parole consunte e consumate di fare ingresso nella sua abitazione, invaderla e ottundere la stessa possibilità di adire ad una parola poetica autentica.

  7. una mia poesia…
    La stanza disadorna di Cogito

    Un pulsante. Un ronzio. L’interruttore della corrente elettrica.
    Una stanza vuota e bianca.

    Dal soffitto, una lampadina, sul tavolo tazzine
    con macchie di caffè, bottiglie vuote, tovaglioli di carta.

    «Egregio Cogito, gli altri cadono nel tempo,
    io invece sono caduto dal tempo, una jattura, mi creda, non da poco.

    Sono disperato, sì, non ho altri che Lei; dopotutto questo tempo
    siamo diventati amici», disse il Signor K.

    Era pensieroso, forse addirittura addolorato…
    Il filosofo non si scompose.

    Era già tardi però, il sole se ne era andato per i fatti suoi,
    aveva deciso di disertare la bacheca del giorno.

    Sull’attaccapanni era steso un asciugamani a quadretti
    e una giacca risalente alla guerra fredda.

    «Ella è il prodotto di coloro che l’hanno preceduta»,
    disse Cogito sottovoce,

    ma scacciò via quel pensiero, per disperazione,
    per distrazione o, semplicemente, per dimenticanza…

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