Giuseppe Gallo, Zona gaming, Poesia in distici, inedito alla maniera della nuova ontologia estetica, con un Appunto dell’Autore e il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Gif Tacchi dorati

Giuseppe Gallo, è nato a San Pietro a Maida (CZ) il 28 luglio 1950, diploma di Liceo classico, laurea in Lettere Moderne, è stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Nel 1983 la sua prima raccolta di poesia, Di fossato in fossato, Lo Faro editore. L’impegno civile sul territorio lo spinge a un rapporto sempre più stretto con la poesia dialettale. Negli anni ‘80, collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi”, a Roma. Delle varie “Egofonie”, “Metropolis”, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, è rappresentata al Teatro “L’orologio”.
Avvicinatosi alla pittura, l’artista si concentra sui volti e gli sguardi, mettendo in luce le piaghe della modernità: consumismo e perdita dello spirito. Negli ultimi lavori ha abolito la rappresentazione naturalistica degli oggetti per approfondire i rapporti tra colore, forma e materiali pittorici. Nel 2016, con la fotografa Marinaro Manduca Giuseppina, pubblica, Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, storia e antropologia del Paese d’origine. Nel 2017 è risultato tra i sei finalisti del “IV Premio Mangiaparole”, sezione poesia, Haiku. Dal 2006 ha esposto a Roma, Mentana, Monterotondo, Brindisi, Lecce.

                                         Un Appunto di Giuseppe Gallo                                     

In queste poesie ho tentato di rintracciare, di mettere in linea e di far rotolare sulla pagina alcuni di quei materiali linguistici, sintagmi, frasi, perifrasi, di origine italiana o inglese, ricavati dalla pseudo comunicazione mediatica.

Forse è l’ora di prendere atto che l’infestazione di spot, promo, pubblicità, face book e letteratura a basso costo, ha varcato la soglia della Poesia. Qualcuno ha detto, ora mi sfugge il nome, che la poesia del futuro ruota intorno alla frase…

Ebbene io credo che solo tra una frase e l’altra, in questi interspazi, ci sia quel vuoto che ha bisogno di essere colmato. Ormai siamo tutti distopici e tutti complici di questo gioco al massacro. Tutti incatenati a questa postazione che è quella del game, della partita e del gioco: Zona  gaming.

Quindi, come allusione al gioco poetico, che è gioco pericoloso, includente una dimensione di rischio e di inganno, ma anche di finzione, come i giochi della play station, di Xbox, ecc., tutti giochi virtuali, allusivi, metaforici, che mimano attraverso le immagini-video storie in cui il giocatore, o il poeta, gioca alla morte, propria ed altrui.

Ebbene,  è solo attraverso questi “riporti linguistici” o in mezzo ad essi, che oggi si rischia una significazione aurorale. Anche perché  tutti questi sintagmi che sono sul punto di morire, non muoiono mai, rinascendo dalle proprie ceneri; e queste perifrasi, ricavate dall’industria e dalla tecnologia contemporanea, che ci inoculano effluvi lisergici e addomesticamenti virtuali e non virtuali, sono in continuo pericolo di diventare significanti o insignificanti, almeno come esperienze individuali e di massa.

Le nostre scelte quotidiane non sono, in parte, determinate dai desideri e dai bisogni indotti da queste immagini-parole?

Forse attraverso il loro recupero è più facile eliminare quanto ancora di retorico c’è nella versificazione abitudinaria dove l’io, ancora dominus, oppone resistenza. Ecco perché, a prima vista, in questi sei componimenti, sembra prevalere un tono gelido, da ghiaccio secco.

E  tutto questo perché?

Perché è un gioco e ogni gioco, in quanto tale va giocato, almeno credo. A meno che non si voglia abitare in un Iperuranio ologrammatico.

Rovistare nel senso, stracciarlo, stirarlo di qua e di là, rovesciandone la consistenza, dimostrandone l’inutilità, per il niente del niente, con qualche schiaffo al bel dire, alla logica riempitiva della struttura poetica, raggiungere il non senso, attraverso il senso comune e mediatico delle frasi, ecc. ecc.

Vorrei che in queste composizioni si avvertissero salti, controsalti, balzi e sobbalzi; emersioni e affondamenti, il tutto all’interno di una pretesa, quella di masticare e digerire l’inganno delle parole e la loro momentanea e brutale pregnanza. È chiaro che c’è anche un intento di ironia. Non si può giocare se si è soltanto seri. Ironia allora, prima di tutto verso me stesso e poi verso ciò che sembra e non è e verso ciò che è ma non sembra.

Gif scarpe nere tacchi

Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

«Rimbalziamo sulla gomma del nulla» dice un personaggio X. Sembra di assistere a un dialogo post-beckettiano, tra Ionesco e Sartre, in bilico tra il testo teatrale e la ex-poesia, sì, giacché siamo entrati, senza accorgercene, nella ex-poesia. Ed è surreale che non ce ne eravamo accorti. La poesia se vuole sopravvivere dovrà necessariamente trovare altre forme, un altro lessico, un altro modo di esistenza, altrimenti, persa nell’universo comunicazionale delle società moderne, è destinata a perire. Giuseppe Gallo, autore di Arringheide, un poema in dialetto calabrese di oltre cinquecento pagine pubblicato quest’anno con Città del Sole costato un ventennio di ricerca, Giuseppe Gallo, dicevo, è approdato alla «gomma del nulla» con i suoi distici in stile nuova ontologia estetica. E si sa che il distico obbliga il poeta alla massima severità, al massimo dell’ordine. Il parallelismo membrorum non ammette, se non rarissimamente, deroghe o eccezioni alla sua struttura binaria. Il distico è come il binario ferroviario sul quale passano i treni, è anch’esso un binario sul quale passa il treno delle parole; se il binario non tiene, il treno rischia di deragliare; così le parole, se il distico non tiene, le parole rischiano di andarsi a schiantare contro qualche muro a centinaia di metri di distanza.

A ciascuno il proprio distico. «A ciascuno il suo», diceva Leonardo Sciascia. Il distico è scuola di severità, di precisione, di distacco dalla materia verbale, di distacco dall’io, a suo modo impone un rigore che il verso libero non ha nel suo DNA. Sostenere a lungo il distico non è affatto facile, non è una maniera, come pensano i suoi ingenui detrattori, è la forma più antica di scrittura poetica e la più difficile da mantenere malgrado le apparenze; una struttura che si perde nella notte dei tempi dell’età della parola dell’homo sapiens. E una ragione ci sarà. Per scrivere in distici bisogna pensare in distici.

Ecco cosa ne dice weschool:

Distico: «Metro della versificazione latina (dal greco dis-, “due volte” e stichos, “verso, fila”), di origine greca, composto da un esametro unito ad un pentametro, è metro caratteristico del genere dell’elegia (tra i cui autori possiamo citare Cornelio Gallo, Tibullo, Properzio, Orazio e Ovidio).

Lo schema è il seguente:

esametro:  _   _   _   _   _   _ _

pentametro:  _   _   _ | _   _   _

Spiegazione ed esempi

Il distico elegiaco viene recuperato nella metrica accentuativa italiana dell’esperimento della metrica barbara di Giosuè Carducci. Il distico elegiaco è sostituito da un doppio settenario, oppure dalla combinazione di quinario, senario o settenario (come nel testo Nella piazza di San Petronio) oppure di settenari, ottonari e novenari (come in Nevicata).»

Esaminiamo adesso un distico di Giuseppe Gallo:

Dalla Spada della Morte solo tre  gocce di fiele

la prima per me

_ _/  _ _/  _ _/  _ _/  _ _/  ‿ _ _/  ‿  /_ _

‿  _ _/ ‿ ‿

Come si può notare, Gallo rimarca la regolarità dei primi cinque piedi del primo verso per poi poter rimarcare lo stacco del piede singolo. L’indebolimento degli accenti nell’italiano moderno apre al distico di oggi grandi possibilità di variazione; l’accentuazione prosastica offre possibilità sconosciute al distico moderno, anche e soprattutto la variatio di piedi diversissimi alternati o paralleli in modo da conseguire un andamento ritmico ricchissimo e acusticamente mai prevedibile.

A questo punto, mi sembra superfluo ogni ulteriore commento, il distico è un formidabile strumento per chi lo sappia impiegare, ma non è ovviamente il solo, un poeta di rango che abbia occhio e un orecchio attento alla acustica sa quando e come impiegarlo e con quale frequenza.

Ecco due versi che contengono una parola dei nostri tempi: il «cellulare».
“Il cellulare di Suresh emise un ping.” (Dan Brown)

Non soltanto in questi testi di Gallo ci sono parole nuove ma, quello che è più importante, come hanno sottolineato Nunzia Binetti e Mauro Pierno, è che il linguaggio viene ridotto non allo stato zero ma allo stato quantico; Gallo impiega le parole nel loro stato di ebollizione quantica, nel puro stato quantico della materia verbale, e il distico ha il compito di mettere in ordine lo stato quantico delle parole che, per eccellenza, è uno stato caotico dove non si più né il tempo né lo spazio.

È ovvio che qui siamo molto distanti dall’impiego surreale o post-surreale del linguaggio poetico come pure è stato fatto (e penso alla poesia di Carlo Livia), qui cogliamo una novità importantissima di come il linguaggio poetico può essere rivitalizzato senza ricorrere alle facoltà auto organizzatorie dell’io. Ad esempio, nelle poesie di Zbigniew Herbert c’è sempre un io che tenta di fronteggiare le forze dirompenti e prepotenti della storia, in lui c’è ancora la salda convinzione di «resistenza», dove l’io è wittgensteinianamente «il limite del mondo»; in questi distici di Gallo invece l’io è stato affondato, si è aperta una gigantesca falla nel sommergibile dell’io che non potrà tornare più a galla. E questo cambia tutto, cambia il concetto del linguaggio poetico e dell’uso che se ne fa, cambia la mappa che mentalmente si ha del linguaggio. Una novità assoluta.

Nei distici di Giuseppe Gallo abbiamo un’altra importatissima conseguenza: che sono scomparsi sia il tempo che lo spazio. E questo aspetto è una novità assoluta, finora in tutti gli esperimenti apparsi sull’Ombra delle Parole, nessuno mai si era spinto tanto avanti da cancellare il tempo e lo spazio. Il risultato è molto semplice, cancellando questi due Fattori, la poesia che ne consegue assume essa stessa una ontologia meta stabile che non contempla alcuna fenomenologia. Il linguaggio poetico di Gallo è sostanzialmente un linguaggio non fenomenologico.
E questa è, a mio avviso, una ulteriore importantissima acquisizione della nuova ontologia estetica.

foto 16 selfie

Giuseppe Gallo

Zona gaming 1

E chi mai si salvò
dalla Babele della Torre?

Ogni peccato ha il proprio cielo.
Ogni sintagma il proprio sepolcro.

Dalla Spada della Morte solo tre gocce di fiele
la prima per me

la seconda è tua
la terza a chi vuoi tu.

 

Zona gaming.
Il silenzio si inginocchia alle radici.

“Perché hai ucciso il cane?”
“Perché i cani abbaiano!” ( Nick Tosches )

Qualcuno ci ha dato l’infinito
e ha fatto evadere il tempo dalla clessidra.

 

Zona gaming
Gli omicidi industriali dei desideri.

Il tran tran del treno che traina la metrica
tra la riva e le pietre.

È sempre l’ora della nostra morte!
Giocando l’azzardo d’un sorriso.

Scollando le costole del senso.
Strisciando sul guscio, sbriciolandone il calco.

Oltre i muri il pigolio, l’allucciolio, il bio
ma il mio è un Voyage privè.

 

Zona gaming
Crea un alert per la verità.

 

Zona gaming 2

Stracci d’erba, cani azzurri per la campagna,
cieli geologici, fossati verticali.

Lilli trasudava deserti,
aveva svaligiato ogni distanza.

Gli correvano incontro le gazzelle.
Gli aveva risposto il leone.

Un ruggito a spezzare la noia,
quella che avvizzisce le donne diventate madri.

 

Zona gaming
“Sarò pure all’antica, ma morire…”

Non c’è un giorno senza cielo e senza terra.
E né un inciampo senza una bestemmia di vergogna.

Sulla pagina scrisse “perché? perché?”
Poi cadde in… nella… nei… dove…

Abbandonò gli occhi sulla stessa domanda
rigurgitando i propri sogni.

.
Zona gaming
Anche gli oleandri sbracciati nei viali.

Fiori a casa mia, a casa tua. Non più esotici.
Dove sei stato tra mezzanotte e le tre del mattino?

Forse lui lo sa! O lei.
Notizie del genere non ci sono sul giornale.

Avrebbe voluto un desiderio di sabbia o di polvere tra le mani.
Un bacio di coltello per aprire la bocca.

,
Zona gaming
Chi lo sa? Lui o lei?

,
Zona gaming 3

Tutti pronti per il mercato.
Mummie impregnate di silenzi contemporanei.

Il drago sorride prima del fuoco.
Non c’erano respiri sui divani!

Il vuoto a rendere delle conchiglie.
Ah! Se la metafora dileguasse!

,
Zona gaming
Per me, per te… che parliamo bluffando.

Gli rispose con un ghigno:
-Sono io che faccio le domande!

Anche la tartaruga diventa centometrista.
Anche l’asino vola. Dove tutto è possibile non ci sono.

-Dunque, ti ascolto.
Aveva la voce dei tramonti più brutti.

Strilli Giuseppe Gallo È inutile che cerchi divagando

Zona gaming
“Montale, sono io che faccio le domande.” (G.C. Izzo)

È il pensiero la radice d’ogni male.
Solo tre gocce di sangue.

La prima per me. La seconda è tua.
La terza per le ferite che ci unirono, ma il lupo non lo sa.

Sull’altra sponda
l’ombra in volo di un attimo.

È chiaro che siamo l’eco di noi stessi.
E il tram s’addentrò nell’architettura dei segni.

,
Zona gaming
Amnesia va cercando

,

Zona gaming 4

Anche marzo è arrivato.
Il sole continua a ingannare le mimose.

Il gatekeeper ha messo le carte in tavola.
Meglio il cappone. E le uova di quaglia.

Sei sicuro che non ci sia altro?
E se la fantasia volesse apparecchiare la tavola?

,
Zona gaming
Parla… ma non dice… rimbalziamo sulla gomma del nulla.

La parete incannucciava l’azzurro.
Il letto di ferro una graticola di noia.

Le dita della nonna sostenevano il lapis,
quelle di mia madre la carta paglia delle sarde.

Tutto presente. Il fuoco e la gramigna.
L’arsura, il solco e il vermicaio.

,
Zona gaming
“Il cellulare di Suresh emise un ping.” (Dan Brown)

La fame d’alba dei colombi.
Solo tre gocce d’acqua.

La prima per me. La seconda è tua.
La terza è quella dove annegammo. Ma i figli non lo sanno.

C’è sempre qualcuno dietro il vetro.
Oggi c’è il merlo che assalta i vermi, violento.

Le scale mobili lungo le piazze.
E le dita a piluccare pillole e pasticche.

,
Zona Gaming
… ping …ping… frullano i cellulari dei passeri.

,

Zona gaming 5

Ci sarebbero ancora “questi quattro sassi”
incastrati sul magma del senso.

Invalicabili eremiti,
vermi al macroscopio.

Colato è il fiele e dunque
oggi per me e per te niente sangue e niente acqua,

solo un catino acrilico d’inchiostro a sciogliere
nel cherosene espressionista.

,
Zona gaming
spezzoni di pellicole mute a cui ridare voce.

Le aiuole indaffarate a trovare il proprio profumo.
Chi è nel dolore ha un occhio di neve e l’altro d’ardesia.

Lilli è annegato lontano da tutte le sere.
Scheletriscono le nuvole.

E qualcuno dice che la Vita, di fronte alla morte,
ha sempre la meglio.

,
Zona gaming
Le nostre “sedie si guardano, sole.” (C. Pavese)

Qualche bacio aiuta a bere il pendio della giornata.
A slittare nell’eternità.

Caro Giorgio,
ho guardato nel secchio degli stracci.

C’era poco! Pochissimo! Qualcuno lo aveva svuotato
senza farmene parola.

Il cervello che ricalcitra, con l’acqua che bolle e ribolle.
E don Chisciotte ad assaltare la cinta muraria.

,
Zona gaming
Marie Richter ti ha mandato un poke…

,
Zona gaming 6

Monoliti contro un cielo blu-nero.
Ghetti verticali.

Macchine a strati di neve ad aspettare.
Betulle di polvere sfarinate dalla nebbia.

-Che cosa stai facendo esattamente?
-Mi ipnotizzo nella notte gelida.

Per rifiorire sull’altro versante.
Prima o poi. Domani. O forse…

,
Zona gaming
Costretto a credere a qualcuno, a qualcosa, a niente.

Schizzano corpi elettrici e immateriali. Lampi.
Dappertutto dopo la morte.

Critica del linguaggio e angoscia del senso:
le ceneri di Wittgestein.

La coscienza? L’anima? L’io?
Montagne a zaino incarnato a spalle curve per il peso.

,
Zona Gaming
-Ok! Ok! Mi farò vivo!

Lilli ha visto sguardi che combattevano tra loro
per non avere più occhi separati.

Qui c’è da impazzire e si impazzisce.
La poesia, però, non è a rimorchio. Anticipa la follia.

Smurato il tempo. Liquidazione totale.
100, 1000 GB e minuti illimitati.

Nello spazio digitale fluttuano Dio e dio
e le schiene calibrate degli angeli.

,
Zona gaming
La Vita nova arrantola.

47 commenti

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47 risposte a “ Giuseppe Gallo, Zona gaming, Poesia in distici, inedito alla maniera della nuova ontologia estetica, con un Appunto dell’Autore e il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa

  1. Incredibile, la fama dell’Ombra delle Parole arriva ovunque, si è diffusa la notizia che ci occupiamo di scarti, rifiuti alimentari, reperti inutili, scorie, scalpi, parrucche in disuso, isotopi radioattivi, rettangoli, triangoli, ratti, escrescenze…
    Mi ha scritto uno spazzacamini. Ecco la sua email :

    Chiara Fabbri
    03:18 (7 ore fa)
    a me

    Buongiorno ,

    Mi chiamo Chiara e sono il responsabile Area Professionisti di ProntoPro, il portale dei professionisti numero uno in Italia. In questo momento stiamo ricevendo numerose richieste per Camini e stufe e cerchiamo nuovi professionisti per soddisfarle.
    Dal vostro profilo online emerge che siete in linea con ciò che i nostri clienti si attendono in termini di qualità e professionalità.
    Per scoprire come aiutiamo i professionisti a trovare nuovi clienti, lasci qualche informazione a questo link.

    Rimango a sua disposizione per eventuali dubbi o domande.

    Buona giornata e buon lavoro,
    Chiara

  2. Giuseppe Gallo

    Gentilissimo Giorgio, la mail che hai ricevuto è una “Chiara” conferma di quanto stiamo verificando negli ultimi tempi, infatti scrivevo nella presentazione di Zona gaming: -Forse è l’ora di prendere atto che l’infestazione di spot, promo, pubblicità, face book e letteratura a basso costo, ha varcato la soglia della Poesia!-
    Tu stesso ce lo confermi: “…sì, giacché siamo entrati, senza accorgercene, nella ex-poesia. Ed è surreale che non ce ne eravamo accorti.”
    Cos’altro ci aspetta? Ormai anche i vari livelli comunicativi si massificano a tal punto che “Dio è uguale a dio”. I codici si confondono in vista del mercato e del profitto, è tutto ProntoPro… Ecco il problema: – Abbiamo un qualche sistema immunitario per resistere a ciò o dobbiamo ancora inventarlo? Cosa può opporre la Nuova ontologia estetica all’impero di questo vuoto che dagli oggetti e dalle parole del mondo quotidiano scivola sulle pagine della nostra esistenza?

  3. La poesia dovrebbe quindi rintanarsi nel privato? Chiedo. Grazie.

    • Rilanciare …
      provo a rispondere
      Trovo più stimoli di scrittura presenziando questo blog. Difendendolo con la nostra presenza, con le incursioni poetiche…Cosa è diventato lo spazio comune? Una pratica ludica…da difendere…una zona gaming: Giuseppe Gallo questo ha condiviso.
      Le scorie della moltitudine sono macerie.
      Sfacelo…Una zona gaming…

      GRAZIE OMBRA.
      (Adesso le rileggo…)

  4. caro Giuseppe Gallo,

    non ti nascondo che spesso, molto spesso abbiamo pubblicato testi di autori che con la «nuova poesia» non avevano nulla a che fare, io nei commenti ho tentato di allargare il discorso quando invece bisognava restringelo al massimo e toccare il punto nevralgico delle cose: che di tutti i libri (a volte ben scritti in italiano) pubblicati da Einaudi, Mondadori, Garzanti e altre case editrici minori, tutta quella roba lì era paccottiglia, merceologia ben presentabile magari, con i puntini sulle i, ma paccottiglia letteraria. Il fatto che nessuno di quegli autori si sia reso conto che siamo entrati in una nuova situazione, quella che tu con grande tempestività e precisione hai denominato «zona gaming», zona del flipper, zona dei giochi… e che il linguaggio poetico di quegli autori era semplicemente il dejà vu, la banalità soprassatura riproposta e condita in mille salse… quando invece quello che un poeta degno di questo nome deve fare è occuparsi dei magazzini dei rifiuti, degli stock di merci avariate e invendute, delle discariche abusive, lì ci sono le parole vere, quelle uniche parole che un poeta degno di questo appellativo può usare senza vergognarsi di metterle su carta.
    Tu acutamente scrivi:

    «Caro Giorgio,
    ho guardato nel secchio degli stracci.

    C’era poco! Pochissimo! Qualcuno lo aveva svuotato
    senza farmene parola.»

    E in effetti è così, qualcuno magari l’Ama qui a Roma, ha maldestramente svuotato i secchioni delle immondizie, e così corriamo anche il rischio di rimanere a mani vuote. Ormai, di fatto, siamo entrati nella ex-poesia. Questo l’ho capito stamattina leggendo i tuoi distici. Dobbiamo mettere da parte la poesia bene educata e anche quella maleducata, dobbiamo metterla nella rigatterie delle robe inutili, inutili anche in quanto «stracci» e «rifiuti».

    E poi il lato molto positivo del tuo periodare è che metti insieme delle frasi che non solo non hanno costrutto ma che non richiedono alcun costrutto d’insieme, frasi assertorie, quasi dotate di senso, quando il senso anche quello è affondato nella discarica maleodorante delle parole marcite e sputtanate…
    Forse questo è l’unico modo con il quale OGGI un poeta dotato di senso della vergogna può ancora mettere parole sulla carta…
    Quasi quasi ci fa sorridere la positura dell’intervistatore al poeta inclito:

    “Montale, sono io che faccio le domande.” (G.C. Izzo)

  5. da alcuni frammenti sopravvissuti alla devastazione dell’hacker avvenuta il 1 gennaio 2019 ho tratto questo componimento. Protagonista il Signor Satanasso… (ancora in fase provvisoria) luogo della vicenda: Venezia…

    Disse che aggiustava le ombre
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/04/03/giuseppe-gallozona-gaming-poesia-in-distici-inedito-alla-maniera-della-nuova-ontologia-estetica-con-un-appunto-dellautore-e-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-55315
    La bellissima Dama attraversa il Ponte di Rialto,
    crinolina, paillette e ventaglio.

    Avenaius si presentò con due doberman, al guinzaglio,
    mi disse che avrebbe patteggiato la pena con il rito abbreviato,

    che trattava con le ombre, del passato
    e del futuro,

    farfugliò qualcosa di indistinto in quella sua lingua di eptaedri,
    disse che aggiustava le ombre, e gli ombrelli.

    «È questo il mio mestiere».
    In quel frangente uno scroscio di tormenta si abbattè sul ponte.

    «La felicità sono i suoi fogli vuoti».

    «Le sue parole, caro Signor poeta, sono ponti interrotti
    i ponti delle parole che nessuno

    sa dove condurranno».

    Poi, per soprammercato, aggiunse delle frasi sconnesse,
    del tipo:

    «Ella accoppia sublime e immondizie
    sigizie di correaltà, apparenta

    Storia ed eoni, platonismi e crudeltà.
    Storialità…»

  6. Poesie di Zbigniew Herbert

    17 VIII 77
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/04/03/giuseppe-gallozona-gaming-poesia-in-distici-inedito-alla-maniera-della-nuova-ontologia-estetica-con-un-appunto-dellautore-e-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-55316
    Dal soffitto pendevano grandi lampade fluorescenti
    Non era una sala da concerto anche se lo stridere degli strumenti
    Ricordava la musica moderna senza armonia e conforto
    Nell’aria si diffondevano i fetori della natura
    Intorno si affaccendavano gli angeli con i volti coperti fino agli occhi
    Il resto era bianco e celeste
    Cercò di ricreare nella memoria un quadro di Vermeer
    Intitolato La lettera d’amore: in primo piano si vede
    Un drappeggio marrone che scende traverso la parete dell’anticamera una sedia con uno spartito
    E poi il cubo della stanza colma di luce
    dove siede una dama con un liuto nella sinistra e una lettera
    non aperta con un sigillo rosso
    sulla parete c’erano due quadri
    uno raffigurava una nave in mare aperto con le vele spiegate
    non riusciva a ricordare cosa raffigurasse l’altro
    nella cornice nera
    gli angeli guardavano obiettivamente così che lui si trasformava a poco a poco in un oggetto
    ma cos’era quell’altro quadro sulla parete della stanza di Vermeer
    forse era uno specchio
    come una tormenta incorniciata
    che non rifletteva nulla
    né una città geometrica ideale senza gente
    né un albero o una nuvola
    né un orologio o una candela né il suo volto
    e vi era in esso un vuoto che calmava privo di colore

    (1969-1980)

    Il tempo

    e io vivo in tempi diversi, come un insetto nell’ambra, immobile, dunque senza tempo, perché immobili sono le mie membra e non getto ombra sulla parete, sono tutto dentro la caverna, immobile come nell’ambra, e dunque inesistente;
    e io vivo in tempi diversi, immobile, ma dotato di ogni movimento, perché vivo nello spazio e vi appartengo e tutto quel che è spazio mi concede la sua forma fugace, e commovente;
    e io vivo in tempi diversi, inesistente, dolorosamente immobile e dolorosamente in movimento, e davvero non so che cosa mi viene dato e che cosa mi viene tolto per sempre.

    Breviario II

    Signore,

    donami l’abilità di comporre lunghe frasi, la cui linea è la linea del respiro, sospesa come i ponti, come l’arcobaleno, come l’alfa e l’omega dell’oceano

    Signore, donami la forza e la destrezza di quelli che costruiscono lunghe frasi, ramificate come una quercia, spaziose come un’ampia valle, perché vi entrino mondi, ossature di mondi, mondi di sogno

    e anche perché le frasi principali dominino sicure sulle subordinate, e controllino la loro corsa complicata, ma espressiva, che persistano impassibili come un basso continuo sugli elementi in moto, che li attirino, come attira gli elementi la forza delle invisibili leggi gravitazionali

    prego allora per frasi lunghe, frasi modellate con fatica, estese così che in ognuna si trovi il riflesso speculare di una cattedrale, un grande oratorio, un trittico

    e anche animali poderosi e piccoli, stazioni ferroviarie, un cuore pieno di rimpianto, abissi rocciosi e il solco dei destini nella mano

    Brewiarz II

    Panie

    obdarz mnie zdolnością układania zdań długich, których linia
    jak zwykle od oddechu do oddechu wydaje się linią rozpiętą jak wiszące mosty, jak tęcza, alfa i omega oceanu

    Panie, obdarz mnie siłą i zręcznością tych, którzy budują zdania długie, rozłożyste jak dąb, pojemne jak wielka dolina, aby mie ściły się w nich światy, cienie światów, światy z marzenia

    a także aby zdanie główne panowało pewnie nad, podrzędnymi kontrolowało ich bieg zawiły, ale wyrazisty, jak basso continuo trwało niewzruszenie nad ruchem elementów, aby przyciągało je, jak jądro przyciąga elektrony siłą niewidoczny praw grawitacj

    o zdanie długie tedy modlę się, zdanie lepione w mozole, rozległe tak, by w każdym z nich znalazło się lustrzane odbicie katedry, wielkie oratorium, tryptyk

    a także zwierzęta potężne i małe, dworce kolejowe, serce przepełnione żalem, przepaście skalne i bruzdę losów w dłoni.

    Zbigniew Herbert (1924-1998) è stato uno dei maggiori poeti polacchi del 900. Numerose sono le sue traduzioni in italiano: Rapporto dalla città assediata: 24 poesie, a cura di Pietro Marchesani, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1985; Elegia per l’addio della penna dell’inchiostro della lampada, traduzione di Pietro Marchesani, prefazione di Maria Corti, Scheiwiller, Milano, 1989; Rapporto dalla città assediata, a cura di Pietro Marchesani, con un saggio di Iosif Brodskij, Adelphi, Milano, 1993;
    L’ epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano, 2016.
    da L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998), a cura di Francesca Fornari, Adelphi 2016 p. 104 e 143

    RISVOLTO di i. Brodskij a Rapporto dalla città assediata

    La crudele Natura, scrive Brodskij nella appassionata Lettera al lettore italiano che apre questo libro, «con un minimo intervallo di tempo ha affibbiato alla Polonia non solo Czesław Miłosz ma anche Zbigniew Herbert. Che cosa ha cercato di fare, che cosa aveva in mente? Preparare la nazione al suo fosco avvenire, in modo che i polacchi potessero reggerlo?». Di fatto, la compresenza di due poeti di tale altezza – un’altezza dove «non c’è più gerarchia» – in una terra devastata sembra accennare a qualcosa. Lo scoprirà il lettore italiano, incontrando in queste pagine per la prima volta l’essenziale dell’opera di Herbert. Ma che specie di poeta è Herbert? Nessuno può rispondere meglio di come ha fatto Brodskij nella sua introduzione: «È un poeta di straordinaria economia. Nei suoi versi non c’è niente di retorico o di esortativo, il loro tessuto è quanto mai funzionale: è brusco piuttosto che “ricco”. La mia impressione complessiva delle sue poesie è sempre stata quella di una nitida figura geometrica (un triangolo? un romboide? un trapezio?) incuneata a forza nella gelatina della mia materia cerebrale. Più che ricordare i suoi versi, il lettore se li ritrova marchiati nella mente con la loro glaciale lucidità. Né gli succederà di recitarli: le cadenze del tuo linguaggio cedono, semplicemente, al timbro piano, quasi neutro, di Herbert, alla tonalità della sua discrezione».

    A MARCO AURELIO

    Al prof. Henryk Elzenberg

    Buonanotte Marco spegni il lume
    e chiudi il libro Già alto si leva
    l’argenteo allarme delle stelle
    il cielo parla con lingua straniera
    è il barbaro grido del terrore
    che il tuo latino non conosce
    è la paura l’eterna oscura paura
    ora batte sulla fragile terra
    umana E vincerà Odi il rombo
    è la marea Distruggerà i tuoi
    libri l’inarrestabile fiumana
    e del mondo crolleranno i muri
    quanto a noi – tremare al vento e
    di nuovo smuovere ceneri aria
    morder le dita dir parole vane
    perciò Marco sospendi la tua quiete
    dammi la mano sopra le tenebre
    lascia che essa tremi quando il cieco
    universo picchia sui cinque sensi
    ci tradiranno universo astronomia
    computo di stelle saggezza d’erbe
    e la tua grandezza troppo immensa
    e il pianto mio impotente o Marco

    Attestato del premio conferito a Zbigniew Herbert: Internationaler Nikolaus Lenau Presi (Vienna 1965) e
    Johann Gottfried von Herder Preis (Vienna 1973)


    RISPOSTA

    Sarà una notte nella neve profonda
    che ha il potere di assordare i passi
    nell’ombra profonda che trasforma
    i corpi in due pozzanghere oscure
    giacciamo tratteniamo il respiro
    e persino il più lieve sussurro del pensiero
    se non ci scoveranno i lupi
    e l’uomo in pelliccia cullerà
    sul petto la morte a tiro rapido
    dobbiamo scattare e correre
    nell’applauso delle secche brevi salve
    verso l’altra riva agognata
    ovunque la stessa terra
    insegna la saggezza ovunque
    l’uomo piange lacrime bianche
    le madri cullano i bambini
    sorge la luna e costruisce
    per noi una bianca casa
    sarà una notte dopo una dura veglia
    questa cospirazione dell’immaginazione
    ha il sapore del pane la leggerezza della vodka
    ma ogni sogno di palme
    conferma la scelta di rimanere qui
    all’improvviso il sogno sarà interrotto da tre
    uomini alti fatti di gomma e ferro
    controlleranno il cognome controlleranno la paura
    ordineranno di scendere le scale
    non permetteranno di portare via nulla
    oltre al compassionevole volto del guardiano
    ellenica romana medievale
    indiana elisabettiana italiana
    francese soprattutto forse
    un po’ Weimar e Versailles
    quante patrie nostre portiamo
    su una sola schiena una sola terra
    ma l’unica che è protetta
    dal numero singolare
    è qui dove ti schiacceranno nella terra
    e scaveranno con la vanga dal suono fiero
    una fossa profonda per la nostalgia

    APOLLO E MARSIA

    Il vero duello fra Apollo
    e Marsia
    (orecchio assoluto
    contro enorme gamma)
    avviene verso sera
    quando come già sappiamo
    i giudici
    avevano assegnato la vittoria al dio
    saldamente legato all’albero
    meticolosamente scorticato
    Marsia
    grida
    prima che il grido giunga
    alle sue alte orecchie
    egli riposa all’ombra di quel grido
    scosso da un fremito di disgusto
    Apollo pulisce il suo strumento
    solo in apparenza
    la voce di Marsia
    è monotona
    ed è formata da una sola vocale
    A
    in realtà
    Marsia
    narra
    l’inesauribile ricchezza
    del suo corpo
    i monti calvi del fegato
    le bianche forre dei cibi
    le selve fruscianti dei polmoni
    le dolci alture dei muscoli
    le giunture la bile il sangue e i fremiti
    il vento invernale delle ossa
    sul sale della memoria
    scosso da un fremito di disgusto
    Apollo pulisce il suo strumento
    adesso al coro
    si unisce la colonna vertebrale di Marsia
    in sostanza quella stessa A
    solo più profonda con l’aggiunta di ruggine
    questo supera ormai la resistenza
    del dio dai nervi di fibre artificiali
    per il viale ghiaioso
    fiancheggiato da bosso
    il vincitore si allontana
    chiedendosi se
    dall’ululo di Marsia
    non sorgerà col tempo
    un nuovo ramo
    di arte – diciamo – concreta
    d’improvviso
    cade ai suoi piedi
    un usignolo pietrificato
    volta la testa
    e vede
    che l’albero al quale era legato Marsia
    è canuto
    completamente

    PERCHÉ I CLASSICI

    a A. H.

    1
    Nel quarto libro della Guerra del Peloponneso
    Tucidide narra la storia della sua sfortunata spedizione
    tra le lunghe arringhe dei capi
    le battaglie gli assedi la peste
    la fitta rete di intrighi
    gli sforzi diplomatici
    quest’episodio è come uno spillo
    in un bosco
    la colonia ateniese di Anfiboli
    cadde nelle mani di Brasida
    perché Tucidide tardò coi soccorsi
    pagò per questo alla sua città natale
    con il bando perpetuo
    gli esuli di tutti i tempi
    sanno quale prezzo esso sia

    2
    i generali delle ultime guerre
    se capita un simile imbroglio
    guaiscono in ginocchio dinanzi alla posterità
    lodano il proprio eroismo
    e innocenza
    accusano i subalterni
    i colleghi invidiosi
    i venti sfavorevoli
    Tucidide si limita a dire
    che aveva sette navi
    era inverno
    e navigava veloce

    3
    se oggetto dell’arte
    sarà una brocca infranta
    una piccola anima infranta
    colma di autocommiserazione
    allora ciò che resterà di noi
    sarà come il pianto di amanti
    in un sudicio alberghetto
    quando albeggia la carta da parati

    NIKE CHE ESITA

    Nike è bellissima nel momento
    in cui esita
    la sua destra bella come un ordine
    si appoggia all’aria
    ma le ali tremano
    vede infatti
    un giovane solitario
    che segue il lungo solco
    d’un carro da guerra
    su una strada grigia in un grigio paesaggio
    di rocce e radi cespugli di ginepro
    quel giovane fra poco morirà
    il piatto della bilancia col suo destino
    sta appunto bruscamente inclinandosi
    verso terra
    Nike ha una voglia enorme
    di avvicinarsi
    e baciarlo sulla fronte
    ma teme
    che lui ignaro
    del dolce sapore delle carezze
    gustatolo
    potrebbe fuggire come gli altri
    durante questa battaglia
    perciò Nike esita
    e alla fine decide
    di rimanere nella posizione
    insegnatale dagli scultori
    vergognandosi molto di quell’attimo di commozione
    capisce bene
    che l’indomani all’alba
    quel ragazzo deve venir trovato
    col petto aperto
    gli occhi chiusi
    e l’obolo acre della patria
    sotto la lingua intorpidita

    RAPPORTO DELLA CITTA ASSEDIATA

    Troppo vecchio per portare armi e lottare come gli altri –

    hanno avuto la bontà di assegnarmi il ruolo minore di cronista
    metto per iscritto – chissà per chi – la storia dell’assedio

    devo essere preciso ma non so quando l’invasione ebbe inizio
    duecent’anni fa in dicembre settembre forse all’alba di ieri
    qui tutti soffrono di perdita del senso del tempo

    ci è rimasto solo il luogo l’attaccamento al luogo
    possediamo ancora rovine di templi spettri di case e giardini
    se perdiamo le rovine non ci resterà nulla

    scrivo come posso al ritmo di settimane senza fine
    lunedì: magazzini vuoti l’unità di conto è ora il topo
    martedì: il sindaco assassinato da mani ignote
    mercoledì: trattative di tregua il nemico ha internato gli inviati
    non sappiamo dove si trovino ossia dove avvenga l’esecuzione
    giovedì: dopo una tempestosa riunione respinta a maggioranza
    la proposta degli spezieri di resa incondizionata
    venerdì: inizio della peste sabato: si è suicidato
    N.N. inflessibile difensore domenica: manca l’acqua abbiamo respinto
    un assalto presso la porta orientale detta Porta dell’Alleanza

    lo so tutto ciò è monotono non riuscirà a commuovere nessuno

    evito i commenti tengo a freno le emozioni
    registro i fatti
    pare che solo questi siano apprezzati sui mercati esteri
    ma con un certo orgoglio desidero comunicare al mondo
    che grazie alla guerra abbiamo allevato una nuova specie di bambini
    i nostri bambini non amano le favole giocano a uccidere
    da svegli e dormendo sognano la minestra il pane l’osso
    esattamente come i cani e i gatti

    la sera mi piace girovagare ai limiti della Città
    lungo i confini della nostra incerta libertà
    guardo dall’alto il brulichio degli eserciti le loro luci
    ascolto il fracasso dei tamburi gli stridii barbari
    è davvero inconcepibile che la Città si difenda ancora
    l’assedio è lungo i nemici devono darsi il cambio
    nulla li unisce tranne la voglia di annientarci
    Goti Tatari Svedesi le schiere dell’Imperatore i reggimenti della Trasfigurazione
    chi potrà contarli
    i colori dei vessilli cambiano come il bosco all’orizzonte
    dal giallo delicato in primavera per il verde il rosso fino al nero invernale

    così la sera libero dai fatti posso pensare
    a cose passate lontane ad esempio ai nostri
    alleati oltre il mare lo so il loro compatimento è sincero
    inviano farina sacchi incoraggiamenti grasso e buoni consigli
    non sanno neppure che sono stati i loro padri a tradirci
    i nostri ex-alleati ai tempi della seconda Apocalisse
    i figli non hanno colpa meritano riconoscenza quindi siamo riconoscenti

    non hanno vissuto un assedio lungo come l’eternità
    chi è stato toccato dalla sventura è sempre solitario
    difensori del Dalai-Lama Curdi montanari afgani

    ora mentre scrivo queste parole i fautori del compromesso
    hanno preso un certo sopravvento sul partito degli intransigenti
    normale oscillazione degli umori la sorte è ancora sospesa

    crescono i cimiteri cala il numero dei difensori
    ma la difesa continua e continuerà fino alla fine

    e se la Città cadrà e se ne salva uno
    lui porterà in sé la Città lungo le vie dell’esilio
    lui sarà la Città

    guardiamo il volto della fame il volto del fuoco il volto della morte
    quello peggiore di tutti – il volto del tradimento

    e solo i nostri sogni non sono stati umiliati

    1982

  7. ‘Il silenzio si inginocchia alle radici’… Quanta forza nella delicatezza di poche parole!

  8. Nunzia Binetti

    Trovo stupendi i versi di Giuseppe Gallo e i suoi voli pindarici che confermano una forte dinamicità creativa insita nell’autore. La struttura in distici aiuta la narrazione e le conferisce una particolare eleganza e naturalezza. È un vero piacere leggere una poesia di questo calibro. È quella che cerco, ma non sempre trovo , nel corso di continue letture, ed è quella a cui aspiro quando io stessa compongo. Un grazie all’ombra delle parole.

  9. L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Vorrei che in queste composizioni si avvertissero salti, controsalti, balzi e sobbalzi; emersioni e affondamenti, il tutto all’interno di una pretesa, quella di masticare e digerire l’inganno delle parole e la loro momentanea e brutale pregnanza. È chiaro che c’è anche un intento di ironia. Non si può giocare se si è soltanto seri. Ironia allora, prima di tutto verso me stesso e poi verso ciò che sembra e non è e verso ciò che è ma non sembra.
    GiuSeppe GaLLo

  10. Dove afferro, colgo poesia, caro Gallo, il fiato sospeso della poesia! La toccata e la fuga.
    Che abisso nelle tue parole. Illuminazioni.

    “La fame d’alba dei colombi.
    Solo tre gocce d’acqua.”

    Questa l’istruzione di Zona gaming.

    Ci metti a tacere caro Gallo. Davvero onorato di ascoltarti.

    N.B.
    Cari frequentatori de L’Ombra questo mio è un invito, invito alla lettura.
    (Mi hanno sempre irritato i proff. ma questo Gallo mi fa incazzare per quanto è forte.)

    Un Abbraccione.😁
    Con Stima, GRAZIE OMBRA.

  11. i miei complimenti a Giuseppe! Questa è POESIA …

  12. Ecco due versi che contengono una parola dei nostri tempi: il «cellulare».
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/04/03/giuseppe-gallozona-gaming-poesia-in-distici-inedito-alla-maniera-della-nuova-ontologia-estetica-con-un-appunto-dellautore-e-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-55334
    … ping …ping… frullano i cellulari dei passeri.
    *
    “Il cellulare di Suresh emise un ping.” (Dan Brown)

    Non soltanto in questi testi di Gallo ci sono parole nuove ma, quello che è più importante, come hanno sottolineato Nunzia Binetti e Mauro Pierno, è che il linguaggio viene ridotto non allo stato zero ma allo stato quantico; Gallo impiega le parole nel loro stato di ebollizione quantica, nel puro stato quantico della materia verbale, e il distico ha il compito di mettere in ordine lo stato quantico delle parole che, per eccellenza, è uno stato caotico dove non si più né il tempo né lo spazio.

    È ovvio che qui siamo molto distanti dall’impiego surreale o post-surreale del linguaggio poetico come pure è stato fatto (e penso alla poesia di Carlo Livia), qui cogliamo una novità importantissima di come il linguaggio poetico può essere rivitalizzato senza ricorrere alle facoltà auto organizzatorie dell’io. Ad esempio, nelle poesie postate qui sopra di Zbigniew Herbert c’è sempre un io che tenta di fronteggiare le forze dirompenti e prepotenti della storia, in lui c’è ancora la salda convinzione di «resistenza», dove l’io è wittgensteinianamente «il limite del mondo»; in questi distici di Gallo invece l’io è stato affondato, si è aperta una gigantesca falla nel sommergibile dell’io che non potrà tornare più a galla. E questo cambia tutto, cambia il concetto del linguaggio poetico e dell’uso che se ne fa, cambia la mappa che mentalmente si ha del linguaggio. Una novità assoluta.

    Nei distici di Giuseppe Gallo abbiamo un’altra importatissima conseguenza: che sono scomparsi sia il tempo che lo spazio. E questo aspetto è una novità assoluta, finora in tutti gli esperimenti apparsi sull’Ombra delle Parole, nessuno mai si era spinto tanto avanti da cancellare il tempo e lo spazio. Il risultato è molto semplice, cancellando questi due Fattori, la poesia che ne consegue assume essa stessa una ontologia meta stabile che non contempla alcuna fenomenologia. Il linguaggio poetico di Gallo è sostanzialmente un linguaggio non fenomenologico.
    E questa è, a mio avviso, una ulteriore importantissima acquisizione della nuova ontologia estetica.

  13. Possiamo far nostre queste parole di Wittgenstein:

    «Per più d’una ragione quello che pubblico qui avrà punti di contatto con quello che altri oggi scrive. – Le mie osservazioni non portano nessun marchio di fabbrica che le contrassegni come mie – così non intendo avanzare alcuna pretesa sulla loro proprietà.

    Le rendo pubbliche con sentimenti dubbiosi. Che a questo lavoro, nella sua
    pochezza, e nell’oscurità del tempo presente, sia dato di gettar luce in questo o in quel cervello, non è impossibile; ma che ciò avvenga non è certo probabile.

    Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé.

    Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andato così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore.»

    (Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino: 1999, pp. 3sgg.)

  14. Leggendo queste poesie di Giuseppe Gallo non ho potuto fare a meno di soffermarmi sui distici chiusi; di frammenti che si bastano eppure procedono, per accostamento, creando inaspettati deragliamenti di senso – frammenti a cui viene dato orizzonte temporale grazie all’invenzione “Zona gaming”, che li rende simili a poesie.
    Eppure poesia è: sotterranea, di ricerca interiore, ontologica; e aggiungo buffa, quel tanto che mi piace.
    Complimenti a Giuseppe, molte sono le cose che abbiamo in comune.

  15. Penso che anche in questo caso, e per buona parte di questi versi del nuovo corso poetico di Giueseppe Gallo, Corrado Alvaro possa darci un frammento di luce:
    «Il poeta non capisce quello che dice ma dice prima di capire, e quella è la verità».
    Ed è la verità dello spirito del tempo che a Peppino Gallo interessa cogliere in una lingua sua e nuova in cui l’atto linguistico è tutto. In questo senso direi che forse l’uscita dai due grandi filoni del tardo Novecento poetico italiano, più volte indicati in Dopo il Novecento da Giorgio Linguaglossa, vale a dire il filone elegiaco-crepuscolare e il filone innico-orfico, cominciano anche nei versi di Peppino Gallo ad essere allontanati da questo nuovo fare poetico.
    E in ciò, concordo con l’amico Linguaglossa, l’adozione dei distici è in grado di dare spinte decisive.
    Esemplari in ciò questi versi di Peppino Gallo

    “Critica del linguaggio e angoscia del senso:
    le ceneri di Wittgestein.

    La coscienza? L’anima? L’io?
    Montagne a zaino incarnato a spalle curve per il peso.”

    nei quali le associazioni nome-aggettivo tanto diffuse in tutto il Novecento poetico e anche in tanta parte della poesia contemporanea, vengono gettate alle ortiche…”

    Se fossi stato per Peppino, avrei buttato a mare anche ‘incarnato’ e ‘curve’
    all’ultimo verso….

    Un ottimo esempio di ‘nuova’ poesia in questa prova di Peppino Gallo.

    (gino rago)

    ,

  16. Giuseppe Gallo

    Gentilissimi amici e lettori de L’Ombra, a questo punto non mi resta che ringraziare tutti per l’attenzione che avete espresso per Zona gaming. Il mio pensiero va, prima di tutto a Giorgio Linguaglossa che ha avuto l’ardire di postare queste poesie “sperimentali”, aiutandomi a capire meglio me stesso.
    Poi Pierno, Binetti, Il mio ex alunno Emiliano, affermato scrittore; Francesca Dono, Tosi, il mio conterraneo Gino Rago e quanti interverranno, magari dopo questa mia breve intromissione. Come concludere? Forse con una domanda: la scrittura, e lo sguardo, al quale sono interessato come pittore dilettante, possono, nonostante la differenza dei loro codici, contribuire a sbrecciare quel divario ontologico messo in atto dalla nostra esistenza materiale? La scrittura è una soluzione?
    La mia risposta è ancora informe. Quello che percepisco è che l’atto di parola, depositato sulla carta, ha bisogno di essere spinto all’assolutezza. Quasi come un morbo. Una indefessa coazione a ripetere. Il che vuol dire un continuo suicidio. Accolgo con gentilezza ciò che ha detto Tosi:
    “Eppure poesia è: sotterranea, di ricerca interiore, ontologica; e aggiungo buffa, quel tanto che mi piace.”
    Poesia “buffa”, autoironica e altro: altrimenti il tentato suicidio, da potenza, dovrebbe trasformarsi in atto. Allora giochiamolo questo game con la scrittura! È tra una frase e l’altra, tra un sintagma e un fonema, tra una virgola e un punto fermo, in questi interspazi, che si edificano vuoti pieni di vita… forse!

  17. giulia rivelli

    “La poesia dovrebbe quindi rintanarsi nel privato? “,
    perché è stata qualche volta pubblica, signor Nanni? Se mai per il pubblico! Ma quale pubblico se non vuole nemmeno faticare a comprendere alcuni poeti e applaude versi soltanto accattivanti, ma privi di sostanza?
    La POESIA si fa nel privato: il poeta a tu per tu con le parole sonda il mondo circostante; Se fa poesia col pubblico non sonda nulla.

    Non condivido l’entusiasmo di per la colomba.
    “La fame d’alba dei colombi.
    Solo tre gocce d’acqua.”
    Si dovrebbero leggere (ma bene, si spera) alcuni poeti spagnoli che si intendo di “paloma”, ve ne suggerisco soltanto uno: Ramon Gomez de la Serna (e ora correte a internet!).
    Ma poi, alcuni dei tanti versi pubblicati in questo post tradiscono una lettura dei versi di Sagredo: colomba e acqua mi ricordano alcuni suoi versi de ” la coloma eretica! – Siamo alla manipolazione?
    ————————
    ‘Il silenzio si inginocchia alle radici’ anche questo verso non è entusiasmante, perché è vuoto e non si riferisce ad alcun interiore; p.e i versi di Silvia Plath “il telefono nero è muto alle radici” dice tantissimo dello stato interiore dell’autrice.
    G. R.

  18. Breve nota esplicativa.
    L’affermazione su cui pur nella sua brevità ho tentato di fondare il mio precedente commento sui nuovi versi di Peppino Gallo, affermazione che qui ripropongo, stralciandola dal resto:
    “[…]
    In questo senso direi che forse l’uscita dai due grandi filoni del tardo Novecento poetico italiano, più volte indicati in Dopo il Novecento da Giorgio Linguaglossa, vale a dire il filone elegiaco-crepuscolare e il filone innico-orfico[…]”
    deriva dallo studio attento e ripetuto nel tempo di un passaggio centrale del saggio del 2013 dell’amico Linguaglossa quando diede la parola ad Agamben, un passaggio decisivo alla comprensione del nostro ‘900 poetico e che per questo qui di seguito ricordo:

    Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14.

    «[…]
    Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia
    […]
    L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini.
    […]
    In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica.

    Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo
    […]
    Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione. »

    Sono parole di Giorgio Agamben (in Categorie italiane, 2011, Laterza p. 114)

    Tra gli stereotipi più persistenti che hanno afflitto i geografi (e i geologi) della poesia italiana del secondo Novecento, c’è quello della ricostruzione dell’asse centrale del secondo Novecento a far luogo dalla poesia di Zanzotto [ «Signore dei significanti» come Montale ebbe a definirlo]…

    Sotto questo preciso aspetto di un Novecento poetico italiano prima lungo la linea elegiaco-esistenziale dominata da Montale poi spinto sulla poesia di
    Zanzotto-Signore-dei-significanti e infine con il tentativo di allungare il ‘900 nel secolo in corso da parte di tutti quelli de Lo Specchio Mondadori in primis ma anche da altri ho desiderato e inteso organizzare i miei colloqui (immaginari), le mie conversazioni (immaginarie), le mie interviste (immaginarie) per tentare di contribuire a una ‘lettura’ consapevole del nostro Novecento poetico, partendo proprio da
    Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) 2013 Società Editrice Fiorentina, pp. 148 € 14
    ( che ho affiancato a certi studi davvero acuti sul nostro Novecento di Alfonso Berardinelli)
    Come ad esempio questa brevissima conversazione che desidero ri-proporre…

    Gino Rago
    Novecento poetico italiano/11
    Brevissima conversazione al Caffè Vergnano in Via Pietro Giordani con la stessa ricercatrice di Italianistica della Sapienza
    (Sanguineti, Pasolini, Gruppo 63, anti-opera)

    Domanda:
    Ci lasciammo alla fine della nostra precedente conversazione al Caffè Sciascia con questi nomi: Pasolini e Sanguineti

    Risposta:
    Potrei in buona sintesi affermare che Pasolini adottò come riferimenti politici e culturali gli scritti di Gramsci e giunse a un suo sperimentalismo “realistico”
    con cui intese correggere la genericità estetica del neorealismo con l’obiettivo dichiarato di mettere in discussione l’idea stessa di realtà e con essa l’idea di una arte poetica basata sul rispecchiamento di quella stessa realtà, benché si trattasse diciamo di “un rispecchiamento dialettico” della realtà stessa;
    mentre, sempre in estrema sintesi, la neoavanguardia (Sanguineti, ma non soltanto lui) esordiva con l’apertura di una polemica di modernizzazione contro il (vero o presunto) provincialismo del cosiddetto “letterato italiano”, con ciò in verità riprendendo la battaglia modernizzatrice del Politecnico di quasi 10 anni prima…

    Domanda:
    Da qui la nascita e l’affermarsi negli anni ’60 di quel laboratorio eclettico di psicologia, sociologia, etno-antropologia, linguistica, filosofia e nuove teorie estetiche, dal respiro internazionale, che approdò al costituirsi a Palermo del gruppo 63

    Risposta:
    Direi che fu così e aggiungerei che il Gruppo 63 riprende la forza degli schieramenti politico-estetici e la combattività direi dell’autopromozione di gruppo (quasi, bisogna dire, come fu per i futuristi e i surrealisti che avevano già praticato la forza auto promozionale del gruppo…)

    Domanda:
    Gruppo 63, teorici militanti come Eco e Sanguineti, il successo di questo gruppo fra anni ’60 e ’70…

    Risposta:
    Sanguineti ed Eco teorici militanti, sì, ma anche scrittori. Tuttavia, da soli non sarebbero bastati al successo e alla diffusione del gruppo 63…

    Domanda:
    Lo comprendo bene, ma lo dica Lei, forte come è dei Suoi studi e delle Sue ricerche

    Risposta:
    Accanto ai due, Sanguineti ed Eco, operarono in una indiscutibile coesione di gruppo altri scrittori e teorici militanti, polemisti ad alta aggressività polemica, autorevoli docenti universitari.

    Così alla forza e all’impatto della coesione di gruppo si aggiunse la loro diffusa presenza sia in ambito giornalistico sia in ambito editoriale e per comprenderne la potenza basterebbero i nomi di Ripellino, di Guglielmi, di Manganelli, di Giuliani,ma anche quelli di Arbasino, Pagliarani, Balestrini…

    Domanda:
    Ma non mancarono le discussioni violente nonostante quella coesione di gruppo…

    Risposta:
    Ha ragione, né bastò ad evitare la violenza delle discussioni la parola quasi magica che iniziò a circolare nel gruppo:
    “anti-opera”, su cui vorrei tornare in una prossima conversazione…

    Domanda:
    E su programmi-realizzazioni o se Lei vuole sul rapporto dichiarazioni critiche-opere letterarie…

    Risposta:
    Fu uno dei punti di massimo dibattito e accese polemiche, ma ne potremo riparlare, alla UNI3 di San Paolo mi attende un Ordinario di Storia della letteratura Italiana per un lavoro comune di ricerca…
    Non posso fare tardi

    (gino rago)

  19. Giuseppe Gallo

    Grazie, Pierno, per l’omaggio musicale. E grazie alla garbatissima Giulia Revelli che ha voluto confrontare un mio verso con quello di Silvia Plath. Mi creda, signora, anch’io preferisco il suo verso, quello della Plath, per intenderci, al mio. Per quanto riguarda le colombe e l’acqua avrei attinto a Ramon Gomez de la Serna e perfino “manipolato” i versi di Sagredo. Per tre parole avrei scomodato due poeti! Poteva aggiungerci anche Dante : “Quali colombe dal disio chiamate”,(ricorda?) e avrei pareggiato i conti. Tre parole, tre poeti! Da uno avrei ricavato “colomba”, da un altro “fame” e da un altro “alba” . Per le “tre gocce d’acqua”, dovrebbe valere lo stesso discorso?Ma non si è accorta che ho citato Pavese, Izzo, Dan Brown e qualche altro? Sarebbe stato gratificante citare anche Ramon Gomez de la Serna, che non conosco, o Sagredo se fosse stato nelle mie intenzioni. Forse il problema è un altro! E lei lo esplicita molto bene quando risponde affermativamente alla domanda del signor Nanni: -La poesia dovrebbe quindi rintanarsi nel privato? Lei ha una concezione diversa di Poesia. Ed è giusto così. E quindi fa bene a rivendicare le sue preferenze e le sue inclinazioni di gusto. Ma si limiti a questo! E qui mi fermo. Per me il discorso è diverso! E bene ha fatto Gino Rago a riproporre, tramite le sue interviste immaginarie, alcune problematiche relative alla nostra letteratura. Se tra i “grandi” c’erano dissensi e pareri diversi e contrapposti, si figuri tra noi “piccoli”. Ma ciò non deve impedire un lavoro di ricerca e di approfondimento. Siamo su questo schermo anche per questo. Vero, signora Revelli?

  20. Giuseppe Talìa

    Gentile Giuseppe Gallo,
    ho letto e riletto con attenzione il poemetto Zona gaming e concordo con la signora Giulia Rivelli, anche se la questione privato-pubblico mi lascia perplesso. Però, ha ragione Rivelli: la poesia è per il pubblico.
    Lei ha molte qualità come critico-studioso, prova ne sono i suoi articoli sulla rivista del Mangiaparole.

    A proposito, dovrei rinnovarne l’abbonamento: socio ordinario o sostenitore?
    Mmmm. Deciderò entro il 14 aprile, domenica delle Palme.

  21. Giuseppe Gallo

    Gent.mo Giuseppe Talìa, la signora Revelli non ha questionato con me sulla poesia in relazione al pubblico o al privato! Se fosse stato così la mia risposta avrebbe avuto altro andamento. Forse le è sfuggito qualcosa… Comunque grazie delle qualità che mi attribuisce. Troppo buono! E lo dico da calabrese! Come lei, giusto?

    • Talìa

      Carissimo Giuseppe, Gallo, ho letto molto bene la risposta di Repelli, e mi interessa poco la questione “citazioni” o presunti plagi. L’arte è patrimonio di tutti e la poesia, soprattutto. Conta lo studio, la bravura, l’impegno, l’ingegno e alcune altre cosette che non tutti possiedono.

      Riguardo al suo testo Zona Gaming, è da alcuni giorni che ricordo un paio di suoi versi e uno in particolare modo, “Il vuoto a rendere delle conchiglie”. A me basta questo, ricordare un verso tra le migliaia che leggo e rileggo.

      Sì, calabro anche io.

      Buon lavoro.

  22. Giuseppe Gallo

    Carissimo Giuseppe, Talìa, se permetti, da calabro, mi libero dell’abbigliamento paludato e passo al tu… Inutile tergiversare! Sapere che qualche mio verso è diventato, anche per qualche istante, carne della tua memoria, è più che un complimento è la felicità…
    Hai ragione! Ciò che conta è lo studio, l’impegno, la sensibilità e altre cosette…
    Buon lavoro anche a te e complimenti per i tuoi versi che Linguaglossa ha postato per l’ultima discussione.

  23. Francesco Gallo

    Premessa
    Mi chiamo Francesco Gallo, professore di Storia e Filosofia in pensione. Sono cugino di Pino Gallo ma soprattutto un amico fraterno verso cui ho grande affetto e grande stima. Non frequento i social e non è mia abitudine partecipare a dibattiti online.
    Pino mi ha invitato a leggere i componimenti di Zona Gaming e di partecipare al dibattito su questa Rivista che ho avuto il piacere di conoscere nel 2018 e di apprezzarne il valore.
    Ho letto con interesse i componimenti di Pino ed i commenti che ne sottolineano il valore, l’originalità e, qualche volta, i limiti. Ho scritto, sia pure in ritardo, le mie considerazioni, forse brutalmente sincere, nella nota di seguito riportata.
    ***
    Caro Pino,
    Ho letto con curiosità, con piacere e con grande interesse Zona gaming e, come ho potuto constatare, la tua non è letteratura a basso costo, le tue parole non sono “povere”ma evidenziano consapevolezza critica, ironia, sensibilità e un grande patrimonio di esperienze umane e culturali. Mi hanno colpito, nella tua premessa e nei commenti, alcune affermazioni, che potrei sintetizzare in alcuni punti:
    a-. Tu scrivi, rivolgendoti a Giorgio Linguaglossa, ….Tu stesso ce lo confermi: “…sì, giacché siamo entrati, senza accorgercene, nella ex-poesia. Ed è surreale che non ce ne eravamo accorti.
    Tra le linee principali su cui si è articolato il secolare dibattito sulla poesia non riesco a capire entro quale specifico quadro si possa collocare questa ex-poesia: – poesia come particolare dimensione emotiva (Platone, Vico e neorealismo contemporaneo: poesia come suprema forma del linguaggio emotivo); – poesia come verità ( Aristotele, Hegel, secondo cui la p. è rappresentazione originaria del vero, Schiller, secondo cui la p. è la verità assoluta, Heidegger, secondo cui è svelamento dell’Essere, la poesia cioè rende possibile il linguaggio;- poesia come modalità privilegiata di espressione linguistica; poesia come libertà, come libero gioco dell’immaginazione (Kant); ricarica di significato del linguaggio consunto dall’uso (Dewey); indipendenza da ogni scopo ( arte per l’arte ), la bellezza è l’obiettivo dell’arte, al di là dell’emozione e del vero (Flaubert, Gaitier, Baudelaire,Allan Poe); la bellezza va costruita (Velery, Poe, etc.); poesia è linguaggio carico di significati al massimo grado (Ezra Pound); – Attualmente, (riprendendo il discorso dell’ontologia ermeneutica: Heidegger, Gadamer e Vattimo), si è fatta chiarezza sul fatto che il linguaggio di per sè non è flatus vocis ma porta con sé consistenza e verità.
    Certamente la poesia oggi, forse, non è più lo sfumato di Verlaine, il miele di Rebora e di Lorca, il fischio, lo scricchiolio di ghiacci soffocati di Pasternak, il negativo del silenzio di Ritsos, l’ombra sul muro della caverna di Platone di Ferlinghetti, il lampo di Scharpf. Forse nemmeno ciò che Ezio Savino dice quando scrive che la poesia è la miccia, non l’esplosivo: questo è dentro di noi.
    Forse ha ragione Linguaglossa quando scrive: “La poesia se vuole sopravvivere dovrà necessariamente trovare altre forme, un altro lessico, un altro modo di esistenza, altrimenti, persa nell’universo comunicazionale delle società moderne, è destinata a perire.” Ma è una dichiarazione di principio. E non credo che si tratti solo di altre forme, altro lessico, o altro modo di esistenza. Il nodo è quello di ritrovarci e ritrovare l’altro nella morte quotidiana che attraversa tutti noi, di abbandonare l’uomo ad una sola dimensione.
    Zona gaming, forse, è solo una sperimentazione apprezzabilissima E’ l’unica spiegazione che riesco a darmi. Dipenderà certamente dalla difficoltà mia di capire la prospettiva e di considerare la tua una ex poesia

    b-. un secondo punto riguarda la possibilità di “affondare” l’io; scrive Linguaglossa: “in questi distici di Gallo invece l’io è stato affondato, si è aperta una gigantesca falla nel sommergibile dell’io che non potrà tornare più a galla”..
    Su ciò mi limito solo ad esprimere una mia convinzione: Non possiamo uscire da noi stessi. Tutta la cultura, espressa nel linguaggio, è un’interpretazione del mondo che è cambiata nei secoli e continuerà a cambiare nel futuro.” La “verità” è una costruzione sociale, anche se l’io oggi, in genere, è affidato a se stesso e non ha riferimenti perché è stato sradicato dalle comunità.
    Ciò da cui bisogna liberarsi è il narcisismo, l’idea che ognuno di noi sia il centro del mondo, la convinzione di essere depositari della “verità”. Se poi si tratta della fuga dalla personalità già E.T.S.Eliot scriveva : La poesia non è libero movimento dell’emozione, ma una fuga dall’emozione; non l’espressione della personalità, ma la fuga dalla personalità. Naturalmente però solo quelli che posseggono personalità ed emozione sanno che cosa s’intende dire accennando alla necessità della fuga da queste cose …l’emozione dell’arte è impersonale. E il poeta non può raggiungere questa impersonalità senza arrendersi interamente all’opera che deve essere fatta”. E su ciò sono perfettamente d’accordo.
    c-. Ho anche dubbi, (sottolineo: solo dubbi) sulla modalità espressiva di questa ex poesia: I tuoi non sono testi, ma ipertesti ( come del resto ogni vera poesia) nei quali al lettore spetta trovare i collegamenti, i nodi, le connessioni . Apertamente, insomma senza infingimenti, un blob poetico. Del resto tu stesso scrivi: “Ebbene io credo che solo tra una frase e l’altra, in questi interspazi, ci sia quel vuoto che ha bisogno di essere colmato.” Al lettore si richiede un lavoro intellettuale capace di rifare a ritroso il percorso del “poeta”, una fredda razionalità che chiude la porta ad ogni emozione e riduce il tutto ad un gioco – come tu dici – intellettuale, anche se lascia aperta la possibilità di un godimento della forma, in fondo, molto ricercata. Quale tipo di lettore pensi che lo possa colmare? La tua è poesia di elite?
    Se la tua intenzione era quella di dare l’idea di un salto nel buio, ove le frasi, da sole, non illuminano un bel nulla, ove la forma sopravanza il contenuto, ove i frammenti si inseguono, ove non c’è niente da dire e non c’è senso e significato, ma solo il nulla e il vuoto, o come tu scrivi “raggiungere il non senso, attraverso il senso comune e mediatico delle frasi, ecc. ecc., il tuo esperimento, e anche la pretesa, quella di masticare e digerire l’inganno delle parole e la loro momentanea e brutale pregnanza) è riuscito perfettamente e il lettore trova la conferma del vuoto che vive.
    Ma se un senso e un significato tu volevi dare, al di là o al di qua del nulla che hai perfettamente espresso, per non cadere in un solipsismo, allora la parola, che non è flatus vocis o solo inganno e momentanea e brutale pregnanza, porta con sé un contenuto, o meglio, la sua storia, il dolore e l’amore degli uomini che hanno attraversato i secoli.
    E di questo significato e senso che io sono andato in cerca nei tuoi versi; e, senza considerare i rapporti che la tua poesia ha con la filosofia, con la letteratura del passato, la psicoanalisi etc. io l’ho trovato: in nota ho tentato di spiegarlo limitandomi ad un possibile schema di lettura e di spiegazione che darei a uno studente liceale che voglia leggere e capire un po’ alcuni componimenti di Zona gaming (cfr. nota finale). A monte dei commenti che ho letto non ci sono tentativi scritti di analisi di qualche tuo componimento. Sarebbe stato molto interessante leggerli.
    d.- Un ulteriore dubbio riguarda un giudizio di Linguaglossa che scrive: “Nei distici di Giuseppe Gallo abbiamo un’altra importantissima conseguenza: che sono scomparsi sia il tempo che lo spazio.” Naturalmente, un dibattito su tempo e spazio ci porterebbe molto lontano: ( per es. Heidegger sostiene che lo spazio è nel soggetto, cioè l’esserci è spaziale nella sua natura). Limitandoci a considerare lo spazio nel senso comune come un recipiente e il tempo come l’ordine misurabile del movimento, nei testi di Zona gaming ci sono molti passi (cfr. nota finale) da cui si può ricavare oltre la dimensione dello spazio e del tempo anche la dimensione spazio/temporale del contesto Il linguaggio stesso rimanda a dimensioni spazio temporali.

    NOTA

    Il testo:
    E chi mai si salvò / dalla Babele della Torre? / Ogni peccato ha il proprio cielo. / Ogni sintagma il proprio sepolcro. /Dalla Spada della Morte solo tre gocce di fiele / la prima per me / la seconda è tua / la terza a chi vuoi tu.
    Una possibile, elementare e schematica lettura può essere la seguente:
    – dal crollo di una lingua… dal cambiamento ….chi mai si salvò … (riferimento al Tempo biblico e alle sue risonanze);
    -Ogni deviazione (peccato: risonanze di miti e religioni) della lingua ufficiale ha un cielo, un modello a cui rivolgersi o con cui confrontarsi;
    -Ogni combinazione di due o più elementi linguistici …. Ogni frase… giudizio … nel tempo scomparirà;
    dalla morte (risonanze e riferimenti complessi ai miti sulla morte) di ciò che scrivo ci sarà l’amaro per me, per te e per chiunque tu voglia.
    Domanda: Il soggetto che scrive è presente…. l’io resiste?
    Giudizio provvisorio:
    L’autore si muove su diversi piani: nel mentre parla della lingua e della poesia, (una poesia sulla poesia) attraverso i riferimenti a Babele, al sepolcro, al cielo, al peccato spinge il lettore a riflettere sulla morte e sulla precarietà del tutto.
    Una scelta perfetta del linguaggio, del tono e del ritmo attraverso l’uso del distico.
    Una ricchezza di contenuti, dunque, che dalla premessa dell’autore a Zona gaming, non sembra emergere. ( qui non c’è un gioco).
    E non emerge( forse non capisco) nemmeno dai commenti, ove si afferma che in Zona gaming siano assenti finanche il tempo e lo spazio, o almeno non si chiarisce in concreto questa assenza. Nel leggere troviamo versi come i seguenti: Qualcuno ci ha dato l’infinito
    e ha fatto evadere il tempo dalla clessidra…/È sempre l’ora della nostra morte!/Oltre i muri il pigolio, l’allucciolio, il bio ma il mio è un Voyage privè./ Stracci d’erba, cani azzurri per la campagna, cieli geologici, fossati verticali./ Non c’è un giorno senza cielo e senza terra./ etc. etc.

    Secondo componimento
    Il silenzio si inginocchia alle radici./“Perché hai ucciso il cane?” / “Perché i cani abbaiano!” ( Nick Tosches ) / Qualcuno ci ha dato l’infinito / e ha fatto evadere il tempo dalla clessidra.
    Elementare traduzione: Il silenzio è alle radici della parola, della storia, e del tutto./ Domanda: Rif. a: Autostrada per l’inferno di Nick Tosches — all’origine c’è il destino o il caso? //Il cuore della vita e della morte è il mistero, l’infinito nel quale il tempo si dissolve facendoci ritornare al silenzio. -Anche in questo componimento io non vedo gioco.
    ……………
    La dimensione del gioco l’ho trovata nel seguente componimento:
    Anche gli oleandri sbracciati nei viali./ Fiori a casa mia, a casa tua. Non più esotici./ Forse lui lo sa! O lei. / Dove sei stato tra mezzanotte e le tre del mattino?/ Notizie del genere non ci sono sul giornale./ Avrebbe voluto un desiderio di sabbia o di polvere tra le mani. / Un bacio di coltello per aprire la bocca.
    Traduzione letterale ( qui c’è un indovinello attraverso l’uso del significato simbolico delle piante e dei fiori): Non c’è più buona fortuna/ (oleandro). A casa mia e tua non c’è più fedeltà ( i fiori blu e quelli azzurri sono sinonimo di pace e fedeltà). Domanda: Dove sei stato tra mezzanotte e le tre del mattino? I traditori della fedeltà coniugale/ E’ un fatto privato / Egli (il tradito) non riusciva a dir parola o, forse, avrebbe voluto un desiderio di uccidere e di gridare……o …
    Francesco Gallo

  24. gentile Francesco Gallo,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/04/03/giuseppe-gallozona-gaming-poesia-in-distici-inedito-alla-maniera-della-nuova-ontologia-estetica-con-un-appunto-dellautore-e-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-55722
    complimenti per la sua riflessione, per risponderLe avrei bisogno di una ventina di pagine almeno, mi limiterò invece a raccontarLe un aneddoto. In una recente intervista Alain Bourdieu dice:

    « l’opera d’arte è un oggetto grezzo per chiunque non abbia categorie di percezione adeguate. Faccio un esempio semplicissimo. Un mio amico, Dario Gamboni, ha fatto una ricerca aneddotica, ma allo stesso tempo rivelatrice. Il fatto è avvenuto in una cittadina della Svizzera, la cui municipalità aveva avuto l’idea di esporre nei giardini pubblici degli oggetti d’arte moderna di avanguardia. Un giorno, degli spazzini hanno portato via un oggetto d’arte moderna prendendolo per un rifiuto, e l’hanno sbattuto nell’immondizia. Gamboni ha analizzato come le cose si sono svolte, ha cercato di individuare chi ha preso posizione pro, chi ha preso posizione contro ecc. Ebbene, questo è evidentemente un caso-limite, ma emblematico dello scarto tra l’oggetto in quanto costruito in un universo dove circolano degli agenti che hanno categorie di percezione capaci di costituire determinati oggetti come oggetti d’arte, e gli universi sociali ordinari, dove ci sono anche persone per le quali, in assenza di categorie di percezione adeguate, quell’oggetto ridiventa un oggetto grezzo, un oggetto qualsiasi.»

    Questo aneddoto mi rinfranca, vorrei anch’io che le mie, le nostre della NOE poesie venissero scambiate per degli scarabocchi incomprensibili e privi di valore, e fossero cestinati senza remore. Sono dell’idea che un poeta degno di questo nome del nostro tempo preferisca occuparsi di cenci, di scarti, di saldi invenduti, di dadi Knorr scaduti, di cianfrusagllie, di quisquilie, di rigatterie, di rifiuti, con preferenza per quelli tossici e inquinanti…
    E infatti noi ci stiamo attrezzando, ci occupiamo di scarti, di rifiuti alimentari, di cialtroni in gondola, di reperti inutili, e scorie, scalpi, parrucche in disuso, isotopi radioattivi, rettangoli, triangoli, ratti, gabbiani morti per aver ingurgitato i rifiuti di Roma, escrescenze varie… pagliacci, voltagabbana, portaborse, arrampicatori, trapezisti del Circo Togni disoccupati…

    La nuova ontologia estetica ha una particolare competenza con queste cose, ha pratica degli scarti alimentari e industriali, degli abiti dismessi, delle parrucche scarmigliate, delle signorine Felicite rimaste zitelle. E ci metto dentro anche tutti i wishful thinking, le buone intenzioni, le immagini poetiche, le poesie di Sandro Penna, le poesie di Sanguineti…
    In una parola: Il secchio della immondizia è la nostra poetica.

    Derrida si chiede chi è chi, si interroga sulla centralità del chi rimette in campo il soggetto-firmante, come auto-grafia che sconvolge la normale intenzionalità fenomenologica: l’auto-grafismo di cui ogni poiesis è ricca e fa cenno, rimanda infatti a una forma paradossalmente auto-intenzionale del soggetto, teso verso un “io” che non si può decostruire. Nel testo «Il gusto del segreto», Derrida si domanda nuovamente: «chi pensa? chi firma? che fare della singolarità in questa esperienza del pensiero?»

    La mia autoeterootobiografia va ad intrecciarsi con l’autoeterootobiografia di Gino Rago, con la transbiografia delle poesie di Marie Laure Colasson! Chissà mai, forse un giorno incontrerò nei miei versi la «bianca geisha» delle poesie della Colasson o i commissari Ingravallo, Montalbano e Belfagor di Gino Rago… è che Oggi tutto sconfina con il tutto e, in fin dei conti, il «chi parla» derridiano ormai ha poca importanza, potrebbe essere tutti e nessuno, che importanza ha?
    Che la nuova fenomenologia del poetico trovi più interessanti gli scarti alimentari e gli scarti tout court non è imputabile alla NOE nelle sue versioni top-pop e pop corn… l’imputazione semmai il prof Gallo dovrebbe rivolgerla alla produzione sociale della nostra epoca capitalistica. La poesia pop-top o pop-corn è decostruttiva nel mentre che è in atto, non vuole costruire niente di niente, non vuole essere ancella o apologia della produzione seriale, non vuole essere né apparire complice della produzione capitalistica. Il capitalismo è una immagine, una immagine di sé, e noi tutti ci stiamo dentro questa immagine… il capitalismo è un sistema immaginario costruito su un atto di fede, il seguente: che domani io abbia più soldi di oggi. Se viene meno questo atto di fede e di costanza, crolla il sistema dell’economia capitalistico.

    • Francesco Gallo

      Gentile Giorgio Linguaglossa,
      E’ la prima volta che intervengo su questa Rivista e da Lei mi aspettavo un commento che entrasse nel merito dei problemi che il mio intervento mette in evidenza, delle osservazioni e delle perplessità che ogni lettore può avere nella lettura, nell’analisi e nella comprensione dei testi pubblicati, sia che si tratti di poesie che di commenti.
      Considerando il mio intervento e riportando l’esempio “degli spazzini che hanno portato via un oggetto d’arte moderna prendendolo per un rifiuto, e l’hanno sbattuto nell’immondizia.” non Le fa onore nè come direttore della Rivista, né come studioso.
      Le auguro buon lavoro

      • Talìa

        Carissimo Francesco Gallo,
        l’arte in generale, e la poesia in particolare, è ormai nostro malgrado ridotta a spazzatura, anzi, e sempre nostro malgrado, la spazzatura ha molto più valore dell’arte in generale e della poesia in particolare. Basti pensare alla mole di denaro che circola sullo smaltimento dei rifiuti ordinari come in quelli speciali.
        In questa rivista, in effetti, ci occupiamo dei rifiuti speciali.

        La sua lunga disamina dei versi di Giuseppe Gallo, lei professore di Storia e Filosofia, di cui ci onora con le innumerevoli citazioni, da Aristotele a Hegel, da Flaubert, Gaitier, Baudelaire, Allan Poe a Heidegger, ci frastorna.
        Non che le sue connessioni non le capiamo, tutt’altro, solo che nel trattamento dei rifiuti “speciali” abbiamo al momento una diversa politica, politica qualche volta in senso aristotelico, ma per lo più in senso di smaltimento aneddotico o come scrive Linguaglossa “di cenci, di scarti, di saldi invenduti, di dadi Knorr scaduti, di cianfrusagllie, di quisquilie, di rigatterie, di rifiuti, con preferenza per quelli tossici e inquinanti…”

        Ne converrà che l’unica scelta consapevole che oggidì si possa fare per gli scarti è come riutilizzarli.

        • Francesco Gallo

          Gentilissimo signor Talia
          Non posso negare che circoli tanta spazzatura che oggi viene scambiata per poesia, che la poesia, anche quella autentica, non abbia più valore sociale, o che sia ridotta a rifiuti speciali. Né posso negare che oggi il problema sia il come trattare questi rifiuti speciali, la modalità, cioè, che possa consentire di far riconquistare loro senso e significato e un ruolo . Quello che non mi convince non è la poesia di Pino Gallo della quale ho espresso giudizi positivi, ma come la teoria estetica ( la nuova ontologia estetica che ha certamente un fondamento teorico: ho già detto nel mio precedente intervento che la “verità” è costruzione sociale) che sta a monte si possa conciliare con l’idea dell’uso dello scarto. E non mi è chiaro quale compito voi attribuite alla poesia o alla ex-poesia.
          Francesco Gallo

  25. caro Francesco Gallo,

    inserisco qui una mia poesia, fatta con gli scampoli e gli scarti di altre mie poesie, frutto di spazzatura della spazzatura, quindi spazzatura di seconda mano. Non ho alcuna pretesa di fare il Bello, come tanti letterati illustri intendono, né di fare il Brutto. Assemblo semplicemente degli scarti in rigorosi distici. Scarti di scarti di altre mie poesie già fatte di scarti. Non voglio apparire né rivoluzionario né conservatore, né innovativo o altro di che… Non intendo provocare né apparire ingegnoso.

    Giocatori di golf impugnano il bastone da golf

    Un prato verde. Persone in tweed fumo di Londra
    camminano in fila,

    si tengono stretti alle spalle di chi precede.
    « …….»

    Avenarius suona il campanello di casa Cogito,
    ha litigato con il Signor Retro.

    Il Signor Google fuma un sigaro di Sesto Empirico
    e il filosofo va su tutte le furie.

    Persone in casacca gialla e pantaloni bleu giocano a golf,
    giocano a golf.

    Una pallina bianca rotola di qua e di là.
    Un valletto percuote il gong.

    Una folla tra la ghiaia, il prato verde e lo specchio.
    Un pappagallo verde. Un orologio giallo.

    Hockey in casacche striate, pantaloni bleu.
    Palline bianche che rotolano sul tappeto verde

    di qua e di là.
    Giocatori di golf impugnano il bastone da golf.

    • Francesco Gallo

      Caro Giuseppe Gallo,
      Non credo che la poesia postata possa essere rivoluzionaria o conservatrice né che sia una provocazione o altro. Già Benjamin sosteneva che si può additare l’eterno attraverso il caduco e Adorno diceva che l’arte non è consolazione ma rifiuto assoluto di venire a patti col mondo. In ogni caso a Lei faccio la stessa domanda che ho fatto a Talia: quale compito crede che debba avere l’arte oggi?
      Un cordiale saluto

  26. caro Francesco Gallo,

    le rispondo con una frase di Adorno: «Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa è spazzatura».

    Ciò posto, penso che anche tutta l’arte dopo Auschwitz, compresa l’arte cosiddetta autocritica, nella quale ricomprendo la NOE come sua punta avanzata, sia spazzatura.

  27. Sul sito dell’Institute for New Economic Thinking appare un articolo di un certo rilievo sul lungo declino dell’economia italiana, che perdura da trent’anni ormai, e sulle cause che ci hanno portato a questo punto. Sono cose ben note da chi segue il dibattito sulla lunga notte italiana, e tuttavia l’articolo ci è parso di un certo impatto e di un certo valore didattico riassuntivo per chi si approccia ora a questi temi. Per quel che riguarda la valutazione delle mosse del nuovo governo italiano, stretto tra le richieste impossibili dei vincoli europei e la necessità di rilanciare il Paese, e le varie proposte di via d’uscita formulate dagli economisti, il dibattito è aperto. Ci ha solo sorpreso, senza nulla togliere agli economisti italiani citati, che l’economista olandese autore dell’articolo ignori completamente quelle che sono state le voci più significative e più seguite che hanno dato vita al dibattito italiano, in primo luogo quella di Alberto Bagnai, autore di due notissimi libri e di varie pubblicazioni su siti accademici, ma anche di altri, ben noti ai nostri lettori.

    [ da vocidall’estero.it di Servaas Storm, 10 Aprile 2019
    Traduzione per Voci dall’Estero di Gilberto Trombetta ]

    La crisi italiana causata dall’austerità è un campanello d’allarme per l’Eurozona

    La terza recessione italiana in 10 anni

    Mentre la Brexit e Trump guadagnavano gli onori della cronaca, l’economia italiana è scivolata in una recessione tecnica (un’altra). Sia l’OCSE che la Banca centrale europea (BCE) hanno abbassato le previsioni di crescita per l’Italia a numeri negativi e, con quella che gli analisti considerano una mossa precauzionale, la BCE sta rilanciando il suo programma di acquisto di titoli di Stato, abbandonato solo cinque mesi fa.

    «Non sottovalutate l’impatto della recessione italiana», ha dichiarato il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire a Bloomberg News (Horobin 2019). «Si parla molto della Brexit, ma non della recessione italiana, che avrà un impatto significativo sulla crescita in Europa e può avere un impatto sulla Francia, poiché si tratta di uno dei nostri più importanti partner commerciali». Più importante del fattore commerciale, tuttavia, cosa che Le Maire si guarda bene dal dire, è che le banche francesi detengono nei loro bilanci circa 385 miliardi di euro di debito italiano, derivati, impegni di credito e garanzie, mentre le banche tedesche detengono 126 miliardi di euro di debito italiano (al terzo trimestre del 2018, secondo la Bank for International Settlements).

    Alla luce di queste esposizioni, non c’è da meravigliarsi che Le Maire, e la Commissione europea con lui, sia preoccupato per la terza recessione italiana in un decennio, per la crescente retorica anti-euro e per l’atteggiamento del governo di coalizione italiano, composto dal Movimento 5 stelle (M5S) e dalla Lega. La consapevolezza che l’Italia sia troppo grande per fallire alimenta l’audacia del governo italiano nel suo tentativo di reclamare un maggiore spazio di manovra in politica fiscale, violando apertamente le regole di bilancio dell’Unione economica e monetaria (UEM) della UE.

    Il risultato è un circolo vizioso. Più la Commissione europea cerca di far rientrare nei ranghi il governo italiano, più rafforzerà il sentimento anti-establishment e anti-euro presenti in Italia. D’altra parte, più la Commissione europea cederà alle richieste del Governo italiano, più perderà la propria credibilità quale custode del Patto di stabilità e crescita dell’UEM. Questa situazione di stallo non può essere superata finché l’economia italiana resta impantanata.

    Una crisi del regime economico italiano post-Maastricht

    È quindi fondamentale comprendere le vere origini della crisi economica dell’Italia al fine di trovare strade di uscita dalla sua stagnazione permanente. In un nuovo studio dimostro empiricamente le cause della crisi italiana, che, a mio avviso, deve essere considerata una conseguenza del nuovo regime economico post-Maastricht, come lo chiama Thomas Fazi (2018). Fino all’inizio degli anni ’90 l’Italia ha goduto di decenni di crescita economica relativamente robusta, durante i quali è riuscita a raggiungere il reddito (pro-capite) delle altre nazioni della zona euro (Figura 1). Nel 1960, il PIL pro capite dell’Italia (a prezzi costanti del 2010) era pari all’85% del PIL pro-capite francese e al 74% (come media ponderata) del PIL pro-capite di Belgio, Francia, Germania e Paesi Bassi (da qui in poi indicati con Euro-4). A metà degli anni ’90 l’Italia aveva quasi raggiunto la Francia (il PIL pro capite italiano era il 97% di quello francese) e anche i Paesi Euro-4 (il PIL pro capite italiano era il 94% di quello dell’Euro-4).

    Poi, però, è iniziato un profondo e costante declino, che ha letteralmente cancellato decenni di convergenza (di reddito). Il divario di reddito tra Italia e Francia è ora (al 2018) di 18 punti percentuali, superiore a quello del 1960; Il PIL pro-capite italiano è pari al 76% del PIL pro-capite nelle economie Euro-4. Nella prima metà degli anni ’90 l’economia italiana ha iniziato ad arrancare e, quindi, a rimanere indietro, poiché tutti i principali indicatori – reddito pro-capite, produttività del lavoro, investimenti, quote di mercato delle esportazioni, ecc. – hanno iniziato un costante declino.

    Non è un caso che l’improvviso rovesciamento delle fortune economiche dell’Italia si sia verificato dopo l’adozione della “sovrastruttura giuridica e politica” imposta dal Trattato di Maastricht del 1992, che ha spianato la strada all’istituzione dell’UME nel 1999 e all’introduzione del moneta comune nel 2002. L’Italia, come mostro nell’articolo, è stata l’allievo modello dell’Eurozona, l’unico Paese che si è davvero impegnato con forza e coerenza nell’austerità fiscale e nelle riforme strutturali che costituiscono l’essenza stessa delle regole macroeconomiche dell’UME (Costantini 2017, 2018). L’Italia è stata più rigorosa anche di Francia e Germania, pagando un costo molto alto: il consolidamento fiscale permanente, la persistente moderazione salariale e il tasso di cambio sopravvalutato hanno ucciso la domanda interna italiana e questa carenza di domanda ha a sua volta asfissiato la crescita della produzione, della produttività, dell’occupazione e dei redditi. La paralisi italiana è una lezione per tutte le economie dell’Eurozona, ma parafrasando G.B. Shaw: come avvertimento, non come esempio.

    L’austerità fiscale permanente

    L’Italia ha fatto più della maggior parte degli altri membri dell’Eurozona in termini di austerità autoimposta e di riforme strutturali per soddisfare le condizioni dell’UEM (Halevi 2019). Questo è chiaro quando si confronta la politica fiscale italiana post ‘92 con quella di Francia e Germania. Diversi governi italiani hanno realizzato continui avanzi primari (quando la differenza tra le entrate e le spese delle amministrazioni pubbliche, escluse le spese per interessi passivi, è positiva), con una media del 3% del PIL all’anno nel periodo 1995-2008. I governi francesi, al contrario, hanno registrato in media disavanzi primari pari allo 0,1% del PIL ogni anno durante lo stesso periodo, mentre i governi tedeschi sono riusciti a generare un avanzo primario dello 0,7% in media all’anno negli stessi 14 anni. Gli avanzi primari permanenti dell’Italia nel periodo 1995-2008 avrebbero potuto ridurre il rapporto debito pubblico/PIL di circa 40 punti percentuali, facendolo passare dal 117% del 1994 al 77% nel 2008 (mantenendo tutti gli altri fattori costanti). Ma la lenta crescita (nominale) rispetto ai tassi di interesse (nominali) elevati ha spinto in alto il rapporto debito/PIL di 23 punti percentuali e ha mandato in fumo oltre la metà della riduzione del debito pubblico/PIL di 40 punti percentuali raggiunta con l’austerità. Non è che l’austerità permanente dell’Italia, intesa a ridurre il rapporto debito/PIL facendo registrare costanti avanzi primari, le si sia ritorta contro perché ha rallentato la crescita economica?

    I governi italiani (inclusa la coalizione di centro-sinistra di Renzi) hanno continuato a realizzare ingenti avanzi primari (di oltre l’1,3% del PIL in media all’anno) durante il periodo di crisi 2008-2018. La disciplina fiscale permanente era una priorità assoluta, come ammise il primo ministro Mario Monti in un’intervista del 2012 con la CNN, anche se ciò significava «distruggere la domanda interna» e spingere l’economia in recessione. L’abnegazione quasi “teutonica” dell’Italia nei confronti della disciplina fiscale è in contrasto con l’atteggiamento francese (“laissez aller”): il governo francese ha fatto deficit primari in media del 2% del PIL nel 2008-2018, lasciando tranquillamente che il suo rapporto debito/PIL salisse a circa il 100% nel 2018. Lo stimolo fiscale cumulativo fornito dallo Stato francese ammontava a 461 miliardi di euro (a prezzi costanti del 2010), mentre il taglio fiscale complessivo sulla domanda interna italiana era di 227 miliardi di euro. I tagli al bilancio italiano si manifestano in contrazioni tutt’altro che banali della spesa pubblica per il welfare pro-capite, che ora (al 2018) è pari a circa il 70% della spesa sociale pro-capite di Germania e Francia. Pensate a come sarebbe stata la protesta dei “Gilets Jaunes” se, dopo la crisi del 2008, il Governo francese avesse attuato un consolidamento fiscale come quello dell’Italia…

    Restrizioni salariali permanenti

    Quando l’Italia firmò il Trattato di Maastricht i suoi alti tassi di inflazione e disoccupazione furono considerati come dei grandi problemi. L’inflazione era attribuita al potere “eccessivo” dei sindacati e a un sistema di contrattazione salariale “eccessivamente” centralizzato. Questo provocava una forte spinta inflazionistica e una contrazione dei profitti, poiché la crescita dei salari tendeva a superare la crescita della produttività del lavoro, riducendo la quota profitti. Vista così, la causa dell’alta disoccupazione italiana potrebbe essere individuata nel suo “rigido” mercato del lavoro e nella ”aristocrazia operaia” troppo protetta. Ridurre l’inflazione e ripristinare la redditività ha richiesto la moderazione salariale, che a sua volta poteva essere raggiunta solo con una deregolamentazione radicale del mercato del lavoro o – come vengono chiamate eufemisticamente – con le “riforme strutturali”.

    L’Italia non ha un salario minimo garantito (a differenza della Francia) e inoltre non ha un generoso sistema di sussidi per la disoccupazione (in termini di tassi di sostituzione e durata delle indennità di disoccupazione e requisiti per accedere ai benefici) rispetto alla media europea. La tutela dell’occupazione dei dipendenti regolari in Italia è all’incirca allo stesso livello di quelle di Francia e Germania. Le riforme strutturali del mercato del lavoro in Italia hanno comportato una drastica riduzione delle tutele per i lavoratori a tempo determinato e, di conseguenza, la quota di lavoratori temporanei nell’occupazione totale in Italia è passata dal 10% del periodo 1991-1993 al 18,5% del 2017. Tra il 1992 e il 2008, l’occupazione totale (netta) in Italia è aumentata di 2,4 milioni di nuovi posti di lavoro, di cui quasi tre quarti (il 73%) erano posti di lavoro a tempo determinato. In Francia, l’occupazione (netta) è aumentata di 3,6 milioni di posti di lavoro nel periodo 1992-2008, di cui l’84% erano posti di lavoro regolari (permanenti) e solo il 16% erano lavori temporanei.

    Inoltre, il potere contrattuale dei sindacati è stato ridotto dall’abbandono dell’obiettivo della piena occupazione a favore della riduzione del debito pubblico (Costantini 2017), da una politica della Banca centrale molto più restrittiva (anti-inflazionistica) e dal tasso di cambio fisso. Di conseguenza la crescita dei salari reali per dipendente, in media del 3,2% all’anno nel periodo 1960-1992, è stata ridotta a un misero 0,1% all’anno nel periodo 1992-1999 e allo 0,6% annuo nel periodo 1999-2008. All’interno della UE l’inversione di tendenza dell’Italia a è stata evidente: dal 1992 al 2008 la crescita dei salari reali italiani per lavoratore (0,35% annuo) è stata solo pari alla metà della crescita dei salari reali dei Paesi Euro-4 (0,7% annuo) e ancora inferiore rispetto alla crescita dei salari reali in Francia (0,9% all’anno). È interessante notare che, dal 1992 al 2008, la crescita dei salari reali per dipendente in Italia è stata leggermente inferiore a quella (già bassa) della crescita dei salari reali tedeschi (0,4% all’anno). Per vedere il quadro di lungo periodo la figura 2 mostra il rapporto tra il salario reale di un lavoratore italiano e il salario reale del lavoratore medio francese, tedesco e dei Paesi Euro-4 dal 1960 al 2018. Agli inizi degli anni ’60, il salario medio dei lavoratori italiani era pari a circa l’85% della retribuzione francese, rapporto salito al 92% nel biennio 1990-1991. A partire dal 1992, il salario reale italiano ha iniziato un costante declino rispetto ai salari medi francesi e, nel 2018, il lavoratore medio italiano ha guadagnato solo il 75% del salario guadagnato dal suo omologo francese. Il divario salariale tra Italia e Francia è più grande oggi di quanto non fosse negli anni ’60. Lo stesso schema vale quando si confrontano gli stipendi italiani con gli stipendi tedeschi ed Euro-4.

    La moderazione salariale dell’Italia si è dimostrata una strategia efficace per prendere tre piccioni (non solo due) con una fava. In primo luogo ha contribuito a ridurre l’inflazione al 3,4% di media all’anno dal 1992 al 1999 (rispetto al 9,6% di media all’anno nel periodo 1960-1992), ulteriormente al 2,5% all’anno dal 1999 al 2008 e all’1,1% dal 2008 al 2018. L’Italia non è più incline, in senso strutturale, a un’inflazione elevata e accelerata. In secondo luogo, la moderazione salariale ha aumentato l’intensità del lavoro nella crescita del PIL dell’Italia, riducendo così la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione dell’Italia ha raggiunto il picco a metà degli anni 90 superando l’11%, ma la deregolamentazione del mercato del lavoro e il contenimento salariale hanno fatto scendere la disoccupazione al 6,1% nel 2007 e al 6,7% nel 2008, inferiore ai tassi di disoccupazione di Francia (pari a 8% nel 2007 e 7,4% nel 2008) e Germania (dove la disoccupazione era dell’8,5% nel 2007 e del 7,4% nel 2008). Infine, come previsto, la deflazione salariale ha comportato un aumento sostanziale della quota profitti del PIL dell’Italia: la quota profitti è aumentata di oltre 5,5 punti percentuali, dal 36% nel 1991 a circa il 41,5% dal 2000 al 2002, dopo di che si è stabilizzata intorno 40% fino al 2008. Negli anni 90, la ripresa della quota degli utili è stata considerevolmente più forte in Italia che in Francia, e paragonabile a quanto accaduto in Germania, nonostante il fatto che la quota profitti dell’Italia fosse già relativamente elevata.

    In altre parole, le riforme strutturali italiane degli anni ’90 hanno dato buoni frutti in termini di una maggiore quota profitti che è rimasta sostanzialmente superiore a quella di Francia e Germania. Con un’inflazione ridotta, un’efficace compressione dei salari, una diminuzione della disoccupazione, l’indebitamento pubblico in declino e la quota profitti considerevolmente aumentata, l’Italia sembrava essere pronta per un lungo periodo di forte crescita. Non è andata così. L’operazione è stata un successo, ma il paziente è morto. Secondo l’autopsia del coroner, la causa della morte è una mancanza strutturale di domanda interna.

    Il soffocamento della domanda interna italiana post ‘92

    Restando fedele alle regole dell’EMU, la politica economica italiana ha creato una cronica carenza di domanda (interna). La crescita della domanda interna pro capite è stata in media dello 0,25% all’anno dal 1992 al 2014 – in forte calo rispetto alla crescita della domanda interna (del 3,3% all’anno) registrata nel trentennio 1960-1992 e molto al di sotto della crescita della domanda interna (dell’1,1% pro capite all’anno) dei Paesi Euro-4. Anche la crescita reale delle esportazioni italiane (pro capite) è diminuita, passando dal 6,6% di media all’anno del periodo 1960-1992 al 3% all’anno del 1992-2018. La crescita media annua delle esportazioni (pro capite) è stata del 4,4% nei Paesi Euro-4 da dal 1992 al 2018. La penuria di domanda cronica dell’Italia ha ridotto l’utilizzo della capacità (soprattutto nel settore manifatturiero) e questo, a sua volta, ha ridotto il tasso di profitti. Secondo le mie stime, l’utilizzo della capacità produttiva italiana è diminuita di ben 30 punti percentuali rispetto all’utilizzo della capacità produttiva francese tra il 1992 e il 2015.

    Il tasso di utilizzo del manifatturiero italiano rispetto alla manifattura tedesca è passato dal 110% del 1995 al 76% del 2008 ed è ulteriormente diminuito al 63% nel 2015, con un calo di ben 47 punti percentuali. Una minore utilizzazione delle capacità ha ridotto il tasso di profitto della produzione italiana di 3-4 punti percentuali rispetto ai tassi di profitto francesi e tedeschi. Ciò ha notevolmente depresso gli investimenti e la crescita della produzione italiana. Permettetemi di sottolineare il fatto che il tasso di profitto dell’Italia è diminuito anche quando la quota profitti rispetto ai redditi è aumentata. Ciò significa che la strategia italiana di austerità fiscale e di contenimento salariale si è rivelata controproducente, perché non ha migliorato il tasso di profitto: il calo della domanda interna e dell’utilizzo della capacità produttiva hanno avuto un impatto (negativo) maggiore sulla redditività dell’azienda rispetto all’aumento della quota profitti.

    Come sostengo nello studio, questa condizione di carenza cronica di domanda interna è stata creata, in particolare, da (a) austerità fiscale perpetua, (b) contenimento permanente dei salari reali e (c) mancanza di competitività tecnologica che, in combinazione con un tasso di cambio sfavorevole (euro), riduce la capacità delle imprese italiane di mantenere le loro quote di mercato delle esportazioni a fronte della crescente concorrenza dei Paesi a basso reddito (Cina in particolare). Questi tre fattori stanno deprimendo la domanda, riducendo l’utilizzo della capacità produttiva e la redditività delle aziende e colpendo gli investimenti, l’innovazione e la crescita della produttività. Stanno quindi bloccando il Paese in uno stato di declino permanente, caratterizzato dall’impoverimento della matrice produttiva dell’economia italiana e della composizione qualitativa dei suoi flussi commerciali (Simonazzi et al., 2013).

    Il settore manifatturiero italiano non è “ad alta intensità tecnologica” e soffre di una stagnazione della produttività. Come mostrano le figure 3 e 4, la competitività di costo dei produttori italiani rispetto ai Paesi Euro-4 dipende dai bassi salari e non dalle prestazioni superiori della produttività. Mentre i lavoratori industriali in Francia e Germania guadagnavano 35 euro all’ora (a prezzi costanti del 2010) nel 2015, e i loro colleghi in Belgio e Olanda guadagnavano ancora di più, i lavoratori italiani nel settore manifatturiero stavano portando a casa solo 23 euro all’ora (in prezzi costanti del 2010) – o un terzo in meno (vedi Figura 3). Ma allo stesso tempo la produttività del lavoro industriale per ora di lavoro è considerevolmente più alta in Francia e Germania (a € 53 all’ora a prezzi costanti 2010) che in Italia, dove è di circa € 33 all’ora (Figura 4). I produttori italiani stanno quindi prendendo una strada sterrata, mentre le imprese dei Paesi Euro-4 viaggiano su un’autostrada. In altre parole, rispetto ai produttori tedeschi e francesi, le aziende italiane soffrono di una mancanza di forza tecnologica, che in Germania si basa su alta produttività, sforzi innovativi e alta qualità del prodotto. È vero che le aziende italiane si distinguono per la loro alta qualità relativa in prodotti di esportazione più tradizionali e a bassa tecnologia come calzature, prodotti tessili e altri prodotti minerali non metallici. Ma hanno costantemente perso terreno nei mercati di esportazione di prodotti più dinamici caratterizzati da livelli più elevati di ReS (ricerca e sviluppo) e intensità tecnologica, come prodotti chimici, farmaceutici e apparecchiature di comunicazione (Bugamelli et al., 2018).

    Bloccati in una posizione di debolezza strutturale

    Per due ragioni questa specializzazione nelle attività a bassa e medio-bassa tecnologia mette il Paese in una posizione quasi permanente di debolezza strutturale. Il primo è che l’elasticità del tasso di cambio della domanda di esportazione è maggiore per le esportazioni tradizionali rispetto alle esportazioni di media e alta tecnologia. Di conseguenza l’apprezzamento dell’euro ha danneggiato gli esportatori italiani di prodotti tradizionali più duramente rispetto alle imprese tedesche e francesi che esportano più beni e servizi “dinamici”. In poche parole un euro sopravvalutato penalizza le esportazioni italiane più che quelle delle economie dei Paesi Euro-4.

    Il secondo fattore è che le imprese italiane operano in mercati globali e quindi maggiormente esposti alla crescente concorrenza dei Paesi a basso reddito, in particolare della Cina. Nel 1999, il 67% delle esportazioni italiane era costituito da prodotti (tradizionali) esposti a una concorrenza medio-alta da parte di imprese cinesi – rispetto a un’esposizione simile alla concorrenza cinese del 45% delle esportazioni in Francia e del 50% delle esportazioni in Germania (Bugamelli et al . 2018). La quota delle esportazioni italiane nelle importazioni mondiali è passata dal 4,5% del 1999 al 2,9% del 2016 e la perdita della quota di mercato è stata fortemente concentrata in segmenti di mercato più tradizionali, caratterizzati da un’elevata esposizione alla concorrenza cinese (Bugamelli et al., 2018). Mano a mano che le imprese cinesi e di altre economie emergenti continuano ad espandere le loro capacità produttive e ad aumentare la loro competitività, le pressioni concorrenziali aumenteranno anche in segmenti a media e medio-alta tecnologia. Le imprese italiane hanno difficoltà ad affrontare la concorrenza dei Paesi a basso reddito: sono generalmente troppo piccole per esercitare qualsiasi potere riguardo al prezzo, troppo spesso si tratta di produttori di singoli prodotti incapaci di diversificare i rischi di mercato e troppo dipendenti dai mercati esteri, poiché il loro mercato interno è in depressione.

    La crisi permanente dell’Italia è un segnale d’allarme per l’Eurozona

    Esistono modi razionali per far uscire l’economia italiana dall’attuale paralisi, nessuno dei quali facile, e tutti fondati su una strategia a lungo termine di “camminare su due gambe”: (a) rilanciare la domanda interna (ed estera) e (b) diversificare e migliorare la struttura produttiva e le capacità innovative e rafforzare la competitività tecnologica delle esportazioni italiane (per allontanarsi dalla concorrenza diretta sui costi salariali con la Cina). Ciò significa che sia l’austerità che la soppressione della crescita dei salari reali devono cessare. Il governo italiano dovrebbe attrezzarsi per fornire un orientamento inequivocabile all’economia attraverso maggiori investimenti pubblici (nelle infrastrutture pubbliche e nella conversione ecologica dei sistemi energetici e di trasporto) e nuove politiche industriali per promuovere l’innovazione, l’imprenditorialità e una maggiore competitività tecnologica .

    Non c’è carenza di proposte da parte degli economisti italiani per portare l’Italia fuori dalla crisi attuale. Tra questi Guarascio e Simonazzi (2016), Lucchese et al. (2016), Pianta et al. (2016), Mazzucato (2013), Dosi (2016) e Celi et al. (2018). Queste proposte sono tutte incentrate sulla creazione di un processo autorinforzante di crescita guidato dagli investimenti e dall’innovazione, orchestrato da uno “stato imprenditoriale” e fondato su rapporti datore di lavoro-dipendenti regolamentati e coordinati, piuttosto che su mercati del lavoro liberalizzati e rapporti di lavoro ultraflessibili. Queste proposte potrebbero funzionare.

    Lo stesso non si può dire, tuttavia, dello stimolo fiscale “a una gamba” proposto dal governo di coalizione M5S-Lega, il cui scopo è una ripresa a breve termine della domanda interna attraverso una maggiore spesa pubblica (consumo). Nessuna delle spese proposte però aiuterà a risolvere i problemi strutturali dell’Italia. Ciò che manca completamente è un orizzonte a lungo termine, o la seconda gamba di una strategia praticabile – che la neoliberale Lega non fornirebbe volentieri e che il cosiddetto progressista M5S sembra incapace di concepire (Fazio 2018). Tutto cambia perché nulla cambi.

    Ancora più importante, qualsiasi strategia di sviluppo razionale “a due gambe” è incompatibile con il rispetto dei vincoli macroeconomici della UE e con la stabilità dei mercati finanziari, che dovrebbero fungere da disciplinatori dei sovranismi dell’Eurozona (Costantini 2018, Halevi 2019). Questo è evidente da quanto accaduto quando il Governo gialloverde se ne uscì con un bozza di bilancio per il 2019. L’impatto totale dello stimolo fiscale a una gamba proposto nel DEF del 2019 era pari a circa l’1,2% del PIL nel 2019, l’1,4% nel 2020 e l’1,3% nel 2021, e anche questa minuscola espansione del bilancio ha scatenato la risposta scomposta della Commissione europea e il conseguente aumento del rendimento dei titoli italiani.

    Blanchard et al. (2018, p.2) formalizzano questo status quo in un modello meccanico di dinamica del debito e concludono che il DEF 2019 rischia di innescare «spread ingestibili e gravi crisi, inclusa l’uscita involontaria dall’Eurozona». Blanchard et al. (2018, pagina 16) sono a favore di un bilancio fiscalmente neutro, che a loro avviso porterebbe a tassi di interesse più bassi e “probabilmente” (secondo loro) a una crescita più elevata e occupazione. Equazioni, grafici e un linguaggio economico-tecnocratico sono usati con destrezza per trasformare ciò che di fatto costituisce una trasgressione estremanente modesta dei vincoli UE in un evento catastrofico a bassa probabilità e che tutti vorrebbero evitare (vedi Costantini 2018). Ciò che è tragico è che il DEF del 2019 non si avvicina nanche lontanamente a ciò che sarebbe necessario per una strategia razionale. Tutto quello strepitare e quella furia sono inutili.

    Peggio ancora è il fatto che il mantenimento dello status quo dell’Italia, che è quello che significherebbe un bilancio fiscalmente neutro, comporta un rischio reale largamente ignorato, a bassa probabilità e ad alto impatto: una rottura della stabilità politica e sociale nel Paese. La stagnazione continua alimenterà il risentimento e le forze anti-establishment e anti-euro in Italia. Questo destabilizzerà non solo l’Italia, ma l’intera Eurozona. La crisi italiana costituisce quindi un campanello d’allarme per l’Eurozona nel suo insieme: austerità continua e moderazione dei salari reali, in combinazione con la de-democratizzazione delle scelte di politica economica, costituiscono un “gioco pericoloso” (Costantini 2018), un gioco che rischia di rafforzare ulteriormente le forze anti-sistema anche negli altri Paesi dell’Eurozona.

    È come aprire il vaso di Pandora. Nessuno può dire come finirà. Gli economisti (compresi quelli italiani) hanno un’enorme responsabilità in tutto questo, sia perché sono corresponabili della situazione, sia perché continuano a non riuscire ad unirsi intorno a soluzioni strategiche razionali per risolvere la crisi italiana. “Forse”, ha scritto John Maynard Keynes, “è storicamente vero che nessun ordine sociale perisce mai se non per sua stessa mano ” (Keynes 1919). Gli economisti razionali devono dimostrare che il verdetto di Keynes è sbagliato, a partire dall’Italia, se non altro perché il pasticcio che è diventata la Brexit sembra ormai essere oltre il recuperabile.

    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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    • Francesco Gallo

      Gentile Giorgio Linguaglossa,
      Lei ha scritto, tra l’altro, nella sua risposta: “Sono cose ben note da chi segue il dibattito sulla lunga notte italiana, e tuttavia l’articolo ci è parso di un certo impatto e di un certo valore didattico riassuntivo per chi si approccia ora a questi temi. Lei non si stanca mai di dare lezioni!
      Potrei risponderLe , con un mio lungo articolo già pubblicato, che la crisi attuale non è sola italiana ma si inserisce in un quadro internazionale, le cui variabili, nella dimensione geopolitica (non so se Lei legge la Rivista Limen) sono molto complesse. E non lo faccio perché, alla mia venerabile età, ho il garbo e l’umiltà di non dare lezioni a nessuno. In genere mi piace fare domande. E alle domande mi piace dare risposte, possibilmente chiare.
      Mi dispiace di aver attribuito la sua poesia a Giuseppe Gallo, per il quale ho grande stima.
      Le auguro ogni bene.

      • caro Francesco Gallo,

        legga bene: la frase da lei citata non è mia ma di un certo Gilberto Trombetta, economista, e tratta argomenti economici della crisi economica italiana. Io non mi occupo di economia se non da semplice dilettante.
        cordiali saluti.

  28. Talìa

    Gentile Francesco Gallo,
    la sua domanda fa tremare i polsi, è una di quelle domande che in pochi, pochissimi, di questo blog, come di altri blog , e soprattutto di coloro che sono nominati “bosco” in luogo dei così detti “sottobosco” (gli sfigati ci appellano) sono in grado di rispondere.
    Lei ci chiede: quale compito “voi” attribuite alla poesia o alla ex-poesia?
    Io sono il meno adatto del gruppo a risponderle secondo i dettami della NOE, sebbene io abbia sposato alcuni principi fondamentali della ontologia estetica che su questa pagine si persegue, in particolare la battaglia verso un potere incancrenito di un pensiero unico, delle major editoriali soporifere che hanno relegato la poesia italiana ad uno status minoritario rispetto a quello europeo o mondiale. E dunque le dico:

    Noi attribuiamo alla poesia l’alto valore che le compete, anche e soprattutto a discapito del mercato delle vacche magre.
    Noi attribuiamo alla poesia la funzione di denuncia sociale e politica. Ogni autore (NOE), indipendentemente e nelle varie forme è impegnato su questo fronte.
    Noi attribuiamo alla poesia la capacità di estrarsi dal contesto politico, oramai diventato così complicato e così ingarbugliato, soprattutto a livello di comunicazione, da essere diventato uno spot, un urlo ammantato di silenzio. La poesia è essenzialmente politica sociale.
    Noi attribuiamo alla poesia la capacità di analisi del passato recente: Ottocento/Novecento. Alcuni di noi si occupano della “Memoria” per gli smemorati, fosforo per la smemoratezza (Sagredo ci insegna con i suoi interventi, quando non è l’alter ego a parlare e quando non azzera tutto con l’equazione sbrigativa già detto/già fatto).
    Iper-presente, iper-realismo, post moderno e post-post moderno. Etichette che hanno data di confezione e di scadenza. I post-post, in realtà prorogano la scadenza del cadavere in putrefazione.
    Tutto è scarto, riciclaggio nella maggior parte dei casi. Dallo scarto di produzione si può inventare un nuovo prodotto. Inventare il nuovo prodotto. Al momento mancano, sia il Dante NOE che il Leopardi (solo un certo, però) NOE. Ma noi lo sappiamo benissimo, per questo ci possiamo permettere di rispondere alla sua domanda.

    La post- poesia non esiste, come non esiste il presente, ce lo insegna Carlo Diano. Esiste il passato in quanto dato confutabile e il futuro previsionale. E Linguaglossa regola, con qualche pecca, umana, umana, ma in linea di principio condivisibile.

    Mi si perdoni se cito solo persone reali e dati concreti in luogo di grandi nomi a corredo bibliografico. Vedrò in futuro di scrivere una tesi. Oppure una poesia, che è quello che in realtà mi interessa.

  29. Francesco Gallo

    Gent.mo Talia,
    Apprezzo molto il suo garbo nella risposta. Lei ha scritto in modo abbastanza chiaro: “Noi attribuiamo alla poesia la funzione di denuncia sociale e politica. Ogni autore (NOE), indipendentemente e nelle varie forme è impegnato su questo fronte.” La sua affermazione rimanda ad una concezione pragmatica , che implica una valorizzazione pratica dell’arte, come utilità politica, sociologica e psicologica. Lukacs sosteneva che l’arte è rispecchiamento della realtà, che universalizza il particolare, mette in luce le contraddizioni per trasformare la società.
    Lei ha scritto anche:” Noi attribuiamo alla poesia la capacità di estrarsi dal contesto politico”…..(Quest’affermazione sembra contraddire quello che lei ha precedentemente scritto. Forse non ho capito).. oramai diventato così complicato e così ingarbugliato, soprattutto a livello di comunicazione, da essere diventato uno spot, un urlo ammantato di silenzio.” E’ chiaro che Lei qui fa riferimento all’incomunicabilità nei rapporti umani odierni.
    Allora ecco la domanda: come crede che la seguente poesia di Linguaglossa ( che rispecchia l’incomunicabilità e che si rivolge a un’elite di lettori ) possa contribuire a cambiare la società?

    Giocatori di golf impugnano il bastone da golf

    Un prato verde. Persone in tweed fumo di Londra
    camminano in fila,

    si tengono stretti alle spalle di chi precede.
    « …….»

    Avenarius suona il campanello di casa Cogito,
    ha litigato con il Signor Retro.

    Il Signor Google fuma un sigaro di Sesto Empirico
    e il filosofo va su tutte le furie.

    Persone in casacca gialla e pantaloni bleu giocano a golf,
    giocano a golf.

    Una pallina bianca rotola di qua e di là.
    Un valletto percuote il gong.

    Una folla tra la ghiaia, il prato verde e lo specchio.
    Un pappagallo verde. Un orologio giallo.

    Hockey in casacche striate, pantaloni bleu.
    Palline bianche che rotolano sul tappeto verde

    di qua e di là.
    Giocatori di golf impugnano il bastone da golf.

    • Talìa

      Caro Gallo,
      nessuna contraddizione leggo nelle mie affermazioni riguardo alla funzione di denuncia sociale e politica che Noi attribuiamo alla poesia e l’estrarsi dal contesto politico attuale, e ribadisco attuale, recente, forse mancava alla mia affermazione l’avverbio di tempo.
      La poesia di Linguaglossa che Lei riporta rientra a diritto nelle mie affermazioni precedenti: un prato verde, golf, Google, Avenarius, un filosofo scettico, una pallina bianca. Mi pare ci sia una quadretto di denuncia sociale completo, basta analizzare.
      Non credo neppure che sia così complicata questa poesia di Giorgio da invocare l’incomunicabilità. Ne ho lette di sue molto più complesse. Ma sa, caro gallo, io amo le sfide ardue e devo confessare che fino ad ora l’unico che ancora mi dà qualche problema nella decifrazione è Sagredo, le sue scatole cinesi mi danno filo da torcere.
      Ricordo ancora che ragazzo fui molto colpito dalla nota foto di Magrelli che scendeva da una scala di una immensa libreria e, nella mia mente giovane e con la fame di conoscenza quella immagine mi colpì profondamente, tranne poi leggere i suoi libri di poesia e scoprire che le sue maggiori preoccupazioni fossero la retinopatia, la Minetti e la mancanza di melanina tanto da inficiare una perfetta abbronzatura estiva.

      Adesso mi scusi ma devo andare. Attendo ospiti per cena. Ho messo sul fuoco delle chiocciole, chiocciole in umido alla Toscana. Io non le mangio, ne colleziono solo i gusci, per via della sezione aurea, Fibonacci e l’impronta di dio nella natura.

      • Francesco Gallo

        Ogni definizione di poesia è sempre provvisoria, come ogni poetica, come tutte le cose del mondo, come noi stessi, qui ed ora nella prospettiva della partenza.
        Qui io, per salutarvi e ringraziarvi dell’occasione che mi avete offerto di comunicarvi i miei pensieri, vi lascio un intervento di Franco Loi sulla poesia. Loi ha il merito, al di là dell’dea che egli ha della poesia, di scrivere con sincerità e grande umanità.
        Il suo messaggio è anche il mio nel rispetto di tutte le idee che ognuno di noi può avere.

        La poesia secondo me –di Franco Loi
        10 agosto 2015
        Ci sono un’infinità di equivoci intorno a cosa sia la poesia. Una volta, circolava l’idea – anche tra i letterati – che l’andare a capo, fare una riga corta, fosse fare una poesia. Altra idea era quella della rima: parole che, in qualche modo, finiscono con un’assonanza fanno una poesia, oppure si pensava bastasse contare le sillabe, o altri fattori tecnici. Se la poesia fosse questo, sarebbe sufficiente fare una cattedra di poesia: si sfornerebbero poeti allo stesso modo in cui si sfornano ingegneri. Non è così. Anzi, la maggior parte dei poeti non ha frequentato le università e, soprattutto, le facoltà di Lettere. È interessante: pensiamo, ad esempio, a Montale, che era ragioniere, a Quasimodo, che era geometra.
        Questo la dice lunga su come non sia possibile “insegnare” la poesia, e come la poesia – al contrario – tema molto il soverchio del troppo, l’eccesso di erudizione, «lo spavento della letteratura». Quante volte ho sentito dire «È già stato detto tutto».
        La poesia è qualcos’altro. È un movimento che attraversa l’uomo: scrivo movimento perché «emozione» nasce da «moto ». Non sempre i moti attraversano la coscienza, a volte qualcosa avviene dentro noi e lo riceviamo attraverso ì sensi, o il «cuore», la percezione che più strettamente chiamiamo emozione. Un mio amico ha detto una bellissima cosa. In un’intervista gli ho chiesto cosa fosse l’amore e ha risposto «L’amore è un movimento. L’odio è il suo contrario, perché è un ostacolo». Questo è importante, perché vuol dire che il movimento, soprattutto quando è d’amore, lo proviamo tutti; tutti – chi più, chi meno – in un certo momento abbiamo bisogno di esprimere questi moti che ci attraversano, e sentiamo questa necessità in modo tanto più forte quanto più questi moti sono inconsci, perché quando riusciamo a farli arrivare alla coscienza e a tradurli attraverso la mente in qualcosa di pratico o di razionale, ecco che allora ci acquietiamo dentro la spiegazione che riusciamo a dare.
        Invece, quando questo moto non arriva alla coscienza, ci inquieta. Non sappiamo perché. Così l’innamoramento è il momento che ci fa vedere più chiaramente. Però ci sono tante cose nel movimento d’amore, non c’è solo l’oggetto o il soggetto del nostro amore. Quando ci innamoriamo portiamo dentro di noi le nostre debolezze, i bisogni di cui non siamo consapevoli, molti elementi che, a volte, non hanno niente a che vedere con l’oggetto d’amore. Tuttavia, in quel momento, tutti sentiamo il bisogno di scrivere, di dire. Una grande poetessa, Marina Cvetaeva, ha detto una cosa decisiva: «la poesia è qualcosa, o qualcuno, che dentro di noi vuole disperatamente essere». Rispetto alle considerazioni precedenti abbiamo già fatto un salto, perché esprimersi ed essere sono due cose diverse. C’è il bisogno di esprimersi da una parte, ma questo presuppone un essere. Qual è quell’essere che vuole esprimersi? Non è il nostro io consapevole, ovvero quello che siamo abituati a considerare il nostro io (ci facciamo un’immagine di noi in rapporto agli altri e a noi stessi e la chiamiamo «io»).
        Freud diceva che l’io è un incidente, che è l’accumularsi abituale di un punto di riferimento dentro di noi e questo punto di riferimento lo scegliamo fra tanti, ma non è detto che sia quello «l’io». Diciamo che l’io sottostà a un essere. Chi siamo noi? Quando si è bambini siamo molto vicini al nostro essere; il bambino agisce, tanto più è piccolo, non con una forte nozione del proprio io, ma del proprio essere. In questo senso la Cvetaeva diceva che «qualcosa dentro di noi vuole disperatamente essere ». Perché dando credito al nostro io finiamo per soffocare il nostro essere, lo mettiamo da parte e facciamo sempre riferimento a questo punto significativo che è poi il nostro modo abituale di fare. Questo lo capiamo quando entriamo davvero in un rapporto profondo con noi stessi, quando le abitudini vengono a mancare, arrivano dolori troppo profondi, viene sconvolto il nostro modo usuale di guardarci e di vederci. Quando si dice «sono in crisi», significa semplicemente che è l’immagine che è in crisi, è il proprio «io» che è in crisi. Nei Vangeli, infatti, gli «io» si modificano, perché sono tanti: sono legione.
        La poesia è quel moto che nasce dal nostro essere. Il mezzo che usa è la parola. Facciamo qui un altro passo, analizziamo la tecnica. La prima tecnica che usiamo è la lingua (se fosse pittura, il mezzo sarebbero i colori, che non sono sette come ci dicono, ma sono infiniti); è nel rapporto dell’essere con il mezzo espressivo che nasce “lo specifico” del mezzo. I grandi poeti, che hanno anche scritto e riflettuto sulla poesia, dicono tutti una cosa: fondamentale è lo stupore che il poeta prova di fronte alla propria espressione. Il poeta non sa quello che scrive. Non bisogna credere di dover imparare a scrivere ciò che si pensa, o quello che la propria coscienza pensa. Ci si deve solo esprimere in relazione al proprio essere e non al proprio abituale io cosciente. Quando il poeta si esprime è il suo essere inconscio, attraverso il mezzo, che rivela ciò che lui non sa,che non cade sotto la sua padronanza, gli rivela quante funzioni si accumulano dentro l’essere senza che ne abbia coscienza. Ecco allora perché si ha lo stupore dell’artista davanti al proprio fare.
        Si parla tanto delle funzioni della poesia, ma la poesia non ha le funzioni che le si attribuiscono – ideologiche, pratiche, eccetera – la poesia ha una funzione forte e importante: rivelare l’essere, e rivelare il rapporto che l’essere ha con il mondo, con gli altri. Perché i Greci chiamavano la poesia il «fare»? Perché è proprio un fare: è un operare su se stessi. Non solo si disvela il nostro essere, ma approfondisce il rapporto fra la nostra coscienza e il nostro essere. La poesia, quindi, è una delle arti che opera sulla materia. Gli alchimisti dicevano che, se si muove una sostanza in un bicchiere, il continuo mescolare modifica le sostanze e, nello stesso tempo, trasforma anche colui che fa. Questo è uno dei grandi effetti del fare artistico. Non solo si porta alla coscienza tanta parte di noi, ma si cambia noi stessi, si cambia il rapporto fra noi e la profondità di noi. È quello che chiamiamo intuizione. Einstein dice che non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione, E l’intuizione non la facciamo noi, ma è possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza. La poesia è dunque uno dei grandi mezzi per raggiungere con la “coscienza” il nostro proprio essere. È un cammino, una strada, sulla quale occorre pazienza e perseveranza. Goethe diceva «il genio è pazienza», e lo diceva anche in questo senso.
        Io sono arrivato a scrivere poesia che avevo già quarant’anni. Nel ’70-71 ho vissuto un’esperienza del fare poesia molto interessante per me, perché l’ho vissuta in maniera molto profonda e l’ho vissuta lavorando tantissimo, circa 14 ore al giorno. Il lavoro è una delle condizioni necessarie all’imparare a scrivere. È come il falegname con la sega, il contadino con la falce, che non sono andati a scuola, ma hanno acquisito quella naturalezza nell’uso dei loro strumenti attraverso la pratica continua, il lavoro – appunto. Bisogna lavorare, sbagliare, lavorare ancora, e più si lavora più si affina il mezzo, non solo la mano che fa, ma anche la nostra interiorità rispetto al mezzo. Tenere il rapporto fra sé e la parola è un lavoro continuo. Non accontentiamoci di una frase qualsiasi, di frasi convenzionali (e quanto più si è intellettuali, tanto più si usano frasi convenzionali). Leopardi assicura che è meglio ascoltare il popolo quando parla, e ciò per due squisite ragioni; una: che la parola del popolo è molto più vicina alla natura; due: che è una parola del tutto illogica, del tutto fuori dalla razionalità, è una parola che nasce dentro le emozioni del vivere. La parola popolare è lontana dalla chiacchiera, anche dalla chiacchiera del popolo, che pure esiste. Il popolo quando è ubriaco, o sotto emozione, dice delle cose straordinarie, inventa anche la lingua, perché, in quel momento, è libero.
        Invece noi usiamo la parola per la pratica della vita e ci pare che, come la usiamo per la pratica, la possiamo usare anche per il fare della poesia. Non è così: la parola pratica della vita esige una convenzione, la poesia esige emozione. Il poeta deve sapere sempre mettere in relazione la propria emozione, il proprio moto, con la parola che usa. E siccome il moto nasce dalla profondità dì noi, deve saper mettere in relazione la propria interiorità con la parola. È questo rapporto stretto che fa il valore dell’espressione, il valore del «dire». Altrimenti entriamo in un altro campo, che non è più quello della creatività e dell’arte, ma è quello della convenzione del vivere la vita pratica. Ci sono delle persone che, fuori dalle convenzioni, non sono neanche più capaci di parlare, sono abituate così, a non andare mai più in là dei luoghi comuni. Questo, alla fine, impedisce loro di capire, anche solo di capire, e di entrare in un rapporto con se stessi e con il mondo che non sia quello delle convenzioni. L’abitudine a stare attenti alle parole ci libera da molti impedimenti, e anche dalla zavorra delle cose morte che sono intorno a noi e delle vite morte che parlano intorno a noi. La parola usata sciattamente fa sciatta la nostra vita. La fa occasionale. E quindi, il lavoro sulla poesia è un lavoro sacrosanto, importantissimo, un lavoro che ogni uomo dovrebbe fare, perché – senza accorgersene – ogni uomo un poco muore.

  30. Talìa

    “Quando il poeta si esprime è il suo essere inconscio, attraverso il mezzo, che rivela ciò che lui non sa,che non cade sotto la sua padronanza, gli rivela quante funzioni si accumulano dentro l’essere senza che ne abbia coscienza.”
    Ma se lo vede Lei Dante che scrive la Commedia in perfetti endecasillabi, ben 100 canti, e che la scrive senza avere padronanza o coscienza?

    • Il ragionamento di Franco Loi dice delle cose piene di buon senso, e anche condivisibili, anche intelligenti, in mezzo però a luoghi comuni duri a morire… però ci parla sempre della poesia dal punto di vista del «soggetto». Ecco, qui sta il punto. Noi invece non parliamo mai della poesia come esperienza salvifica del soggetto. Questo a noi non importa un fico secco. Noi parliamo della poesia dal punto di vista del ….
      E questo cambia tutto.

  31. Giuseppe Gallo

    Gentilissimi lettori de L’Ombra, alla fine di questo lungo e anche “aspro” dialogo, innescato da “Zona gaming” mi corre l’obbligo di ringraziare per la seconda volta chi ha avuto la compiacenza di proporre a tutti noi le proprie riflessioni sulla poesia (o ex poesia) e sulla sua odierna funzione. Soprattutto il Prof. Francesco Gallo che con dovizia di spunti ha infoltito il dialogo ponendo in campo una serie di dilemmi le cui “risoluzioni” non sembrano essere ancora risolte. E poi Giuseppe Talia, che con garbo e gentilezza, ha saputo incanalare nel giusto alveo l’andamento delle domande e delle risposte. Il dialogo è sempre proficuo, non solo perché si acquista consapevolezza che la meta da raggiungere è spesso ostica per tutti, ma anche perché le parole di uno possono essere fonte di ulteriore chiarezza per l’altro. E vorrei concludere con le parole che il nostro Montale elargì nel 1975 all’Accademia di Svezia. Le domande, e le eventuali risposte, sulla poesia, egli afferma, si potrebbero moltiplicare all’infinito perché ” non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati…” Questo è il punto. La poesia è in crisi perché noi, in quanto uomini, siamo la crisi. Sono troppi anni che andiamo in giro, intorno a noi stessi e agli altri, con una lanterna che invece di far luce e chiarezza, crea solo ulteriori ombre e “tragiche contraddizioni”.

  32. Al signor Francesco Gallo, che chiede “quale compito crede che debba avere l’arte oggi”:

    Pensiamo che la poesia così com’è esistita finora, abbia un piede nella fossa. E’ praticamente morta, o morirà se resta ancorata a vecchi schemi. Non sappiamo più cosa è necessario, che cosa è importante. Questa distanza fa parte del nostro processo di cambiamento.

    Il fatto è che noi abbiamo la presunzione di non appartenere ad alcuna tradizione. Scriviamo poesia che si muove, scorre ovunque: tutte le dimensioni, e tutte le direzioni le appartengono. Niente è mai rifiutato. Eppure, in certo senso, la nostra è poesia che non ha dove andare… è poesia senza direzione propria.
    Cerchiamo nella poesia il suo andare e venire, il suo semplice essere.

    “Quale compito crede che debba avere l’arte oggi”, a me sembra una domanda, valida, ma d’altri tempi.
    Bisogna venirne fuori, signor Gallo. La nuova poesia non è lotta; se cerchi un significato, uno scopo, un desiderio, la follia di volere arrivare da qualche parte, sorgeranno problemi. L’esistenza è continua trasformazione, crollo o modifica delle ideologie, cambiamento di sistemi produttivi, di equilibri sociali, esistenziali, cambio di prassi, strumenti e contenuti culturali, ecc.
    Io stesso, le volte che ho scritto poesie, perché sentite, a tema sociale, quelle poesie avrei dovuto leggerle come fece Majakovskij, davanti alla folla; invece le ho viste invecchiare…

    Non abbiamo alcun compito da svolgere. Colui che scriveva è scomparso… o è in via di estinzione. Ovviamente, non tutti, nemmeno qui su L’Ombra lo hanno capito, ma a me sembra questa la strada che abbiamo intrapreso.

    La storia registra ciò che accade nella materia, si occupa della cronaca. E’ importante, ma gli avvenimenti in sé non hanno sostanza se manca il tema ontologico, che è imperituro. Senza fine. Poesia è storia di fenomeni interiori, per questo parliamo di tempo esterno e tempo interno.
    Questo le sembrerà più chiaro se avrà la gentilezza di leggere tra i numerosi articoli pubblicati in questi ultimi anni su L’Ombra delle parole. Le discussioni su questa rivista non hanno fine, servono a preparare il terreno per una nuova poesia.

    Ascoltiamo il silenzio, valorizziamo la pausa, il nulla. Da qui può nascere una nuova certezza, la possibilità di distinguere l’autentico. Realtà indicibile… che si ricava per intuizione, per trasferimento, dislocazione…
    Poesia non è nella folla, è solitaria. E noi, può sembrare che ci occupiamo di critica e filosofia, in realtà siamo calzolai, carpentieri…

  33. Pingback:  Giuseppe Gallo, Zona gaming, Poesia in distici, inedito alla maniera della nuova ontologia estetica, con un Appunto dell’Autore e il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa | RIDONDANZE

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