Lucio Mayoor Tosi, frammento, tecnica mista, 2022
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Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Ciò che resta al fondo della questione della poesia oggi è il discorso poetico diventato invalido, la narratività desublimata, lo specchio opaco dell’«io» poetico, il calco mimetico che ha adottato il modello narrativo ad icona teologica della procedura poetica.
Ewa Lipska accetta l’io narrante, posiziona i linguaggi allo stato di radura narrativa, e li riposiziona in uno spazio comunicazionale come palestra dell’io narrante; il risultato è che così si ritrova tra le mani una lessicalità opaca. È sufficiente scorrere i titoli dei suoi libri per capire come il discorso poetico sia giunto alla zona grigia dove tutti i titoli appaiono bigi e anodini, insignificanti:
Poesie, 1967
Seconda raccolta di poesie, 1967
Terza raccolta di poesie, 1972
Quarta raccolta di poesie, 1974
Quinta raccolta di poesie, 1978
Qui non si tratta di morte, ma di bianco cordonetto, 1982
Deposito oscurità, 1985
Area di sosta limitata, 1990
Non c’è più alcun canone da mettere in discussione
I titoli delle raccolte di Ewa Lipska non corrispondono più ad alcunché di solido, di strutturato, di referenziato; il medium poetico si nutre di metricità/narratività diffuse, una koiné linguistica che, un tempo lontano nel lontano primo Novecento, a monte e a valle, poteva contare sul retroterra di un linguaggio poetico frutto di una tradizione-convenzione, di un patto, di un concordato, insomma, di un contratto-tregua tra i linguaggi poetici e tra il lettore e l’autore. Nella poesia della Lipska è saltato qualsiasi contratto o convenzione, non c’è più uno spazio comune per immaginare un colloquio tra l’autore e il lettore, l’autore dei versi ormai non si aspetta assolutamente nulla dalla sua scrittura; l’ironia e l’autoironia della Lipska ha questo significato: che non si rivolge più ad alcun interlocutore, per essere più precisi, si rivolge al testo mediante una auto destrutturazione. Mentre la poesia modernista europea degli anni settanta si muoveva nella direzione della provocazione e della messa in discussione dei canoni poetici della tradizione del post-simbolismo, in seguito la poesia ha dovuto prendere atto che non c’era più alcun canone da mettere in discussione, perché tutti i canoni potevano convivere senza collidere, non c’era più attrito tra i registri semantici e lessicali della poesia, che si scopriva mero calco della «comunicazione». La traiettoria lungo la quale si muove Ewa Lipska è volutamente «tradita» dall’autrice la quale marca un punto importante: che accetta la poesia di impianto privatistico per ribaltarne il valore simbolico. Ed è perfino ovvio che, a valle, cioè ai giorni nostri, il discorso poetico della poetessa polacca si trovi a ricalcare la crisi di identità dell’io narrante e la crisi di validità dello statuto di verità del discorso poetico, il quale si scopre posto su un fondamento meta stabile.
La «nuova ontologia estetica» assume in pieno la lezione della poesia europea, la necessità di un discorso poetico che si fondi su un «fondamento meta stabile», è un pensare l’arte poetica in conformità con la caduta del «fondamento», un pensare il pensiero di un’arte poetica che trova in sé la forza che deriva dalla sua intima debolezza e precarietà fondazionale. La poesia lipskiana è indicativa per il suo essere costruita con giunture di discorsi e giustapposizioni, perifrasi, sintagmi estraniati e ultronei, sovrapposizioni, effetti traumatici; la punteggiatura stigmatizza gli stop ma senza i «go», sono stop e basta; la poesia è costipata di interruzioni, come per arrestare e depistare la fluenza musical-pentagrammatica di un tempo.
Il paradosso della non-comunicazione
La Lipska va al fondo della questione: la poesia è diventata «comunicazione», prende congedo dalla «verità» e dal suo involucro museal-musicale; l’esistenza è diventata un valore «posizionale», «prospettico», comunicazionale, una appendice della comunicazione. Ci troviamo nel regime del presentismo, totalitario e pervasivo, una vetrina senza negozio: il nuovo dio è l’immediato, il qui e ora, l’attualità, la comunicazione. E allora, la poesia di Ewa Lipska si assume il compito di presentarsi come un paradosso vivente, un congegno paradossale prodotto della non-comunicazione, la poesia si pone come allestimento di un palcoscenico in cui la «verità» non può più essere chiamata in causa in quanto non c’è un linguaggio della «verità» stabile, pena la coincidenza tra il «nome» e la «cosa». La Lipska prende atto che è possibile soltanto il linguaggio della «comunicazione», e la sua poesia diventa, paradossalmente, sempre più comunicativa, persuasiva, sentenziosa. Paradosso del discorso poetico che si sottrae con tutte le forze al discorso imbonitorio e giornalistico che si vuole panlinguistico e comunicazionale e che crede che il discorso poetico sia libero, che possa presentarsi come atto di gratuità tra il «nome» e la «cosa». La Lipska prende atto che della «verità» non ci restano neanche le tracce, neanche echi, tanto meno orme, impronte, ombre… la verità è un dileguantesi, che si rivela nell’atto del dileguarsi in quanto si svolge nel tempo, è un apparecchio dotato di temporalità, è essa stessa un congegno temporale, posizionale, transizionale. La verità è ciò che transita, il transitante e il sottraentesi. L’arte moderna rappresenta l’oblio della verità e l’oblio della memoria, reca la traccia di ciò che è stato sottratto. La verità poetica scopre il proprio statuto paradossale e aporetico. È questo il suo enigma.
Una riflessione sugli oggetti
L’oggetto è tale grazie alla sua conformazione all’uso, altrimenti cesserebbe di essere oggetto. L’oggetto fonda l’oggettualità, la conformazione di più oggetti è tale per l’uso che noi ne facciamo, ma l’uso è il rapporto che intercorre tra di noi e gli oggetti e, se c’è «uso», c’è linguaggio. È il linguaggio che ci consente di esperire gli oggetti e di avere esperienza del mondo. La «questità degli oggetti» è la forma che chiama in causa il positivo e il negativo, che convoca la possibilità del loro essere e la possibilità del loro non-esserci. Il mondo è un insieme mirabolante di «questità di oggetti» misteriose, misteriose in quanto «ciò che appartiene all’essenza del mondo, il linguaggio non lo può esprimere»,1] proprio in quanto «gli oggetti formano la sostanza del mondo».2]
La percezione che noi abbiamo del mondo, la cosiddetta oggettualità della nostra esperienza, contiene una in-determinatezza implicita in ogni oggetto, anche di quello più semplice. Ogni determinazione predicativa contiene l’in-determinato.
Afferma Wittgenstein:
«A chi veda chiaro è manifesto che una proposizione come “Quest’orologio è posto sul tavolo” contiene una gran quantità d’indeterminatezza, quantunque esteriormente la sua forma appaia affatto costruita».3]
La proposizione che dice la semplicità della propria determinazione (l’oggetto) – è la stessa che dice appunto la semplicità della propria in-determinazione. Può sembrare paradossale quanto andiamo dicendo ma è qui che si innerva, in questo punto, quella particolare conformazione d’uso del linguaggio poetico che ci mostra al più alto quoziente di significazione che ogni determinato è in sé in-determinato.
1 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, 1953, Osservazioni filosofiche, trad. it. M. Rosso, Einaudi, Torino, 1976. p. 41
2 Ibidem p. 39
3 Ibidem, p. 168
Poesie di Ewa Lipska
Il giorno dei Vivi
Nel giorno dei Vivi
i morti giungono alle loro tombe
– accendono le luci al neon
e piantano i crisantemi delle antenne
sui tetti dei multipiani sepolcri
a riscaldamento centralizzato.
Poi
scendono con gli ascensori
verso il quotidiano lavoro:
la morte.
1974
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Non mi ha salvata l’alluvione…
Non mi ha salvata l’alluvione
benché giacessi già sul fondo.
Non mi ha salvata l‘incendio
benché bruciassi per molti anni.
Non mi hanno salvata le disgrazie
benché mi investissero treni e automobili.
Non mi hanno salvata gli aerei
che sono esplosi con me nell’aria.
Si sono abbattute su di me
le mura di grandi città.
Non mi hanno salvata i funghi velenosi
né i precisi tiri dei plotoni d’esecuzione.
Non mi ha salvata la fine del mondo
perché non ne ha avuto il tempo.
Nulla mi ha salvata.
VIVO.
2000
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Nessuno
Sono d’accordo su questo paesaggio
che non esiste.
Mio padre regge nella mano il violino.
I bambini leccano il suono.
La corrente d’aria
investe i petali delle rose.
Poi la guerra. Ci perdiamo di vista.
A frasi intere si celano le parole.
La stanza vuota
parcheggiata nell’oscurità
dell’edificio.
Prego lasciare un biglietto
dice nessuno.
2004
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Natura morta
La natura morta comincia a guastarsi.
Arrugginiscono le viti dei giaggioli. Dalla frutta
di Chardin Courbet Cézanne
si leva un odore nauseante.
La tela perde la vista.
Nel bicchiere una pietra di vino.
Insopportabile il nero.
Profetiche visioni
dei dittatori della moda:
si approssima l’epoca dei lampi.
Piante terrestri anfibi e mammiferi
soffierà via il corno.
Il tempo accadrà sempre più raramente.
Sarà sempre più breve. Sempre di meno.
Dunque togli dalla borsetta il nostro amore.
E affrettati. Un brandello di oltremare
annuncia che faremo in tempo a ridere.
2010
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Amore
L’amore è un indovino.
Prevede se stesso te e me.
E’ del popolo eletto
e usa una lingua
ad alta tensione.
Nella Biblioteca Nazionale
macchia perfino
i libri poco letti.
In una valanga di cori
scopre un’eco
di euforia e di morte.
E quando ti raggiungerà
cerca di essere in casa.
O qualcosa del genere.
Pur di incontrarvi.
2010
La lettera
Quando morirò scrivimi una lettera.
Una lunga lettera – come il mondo smisurato.
Scrivi come in vita muori. Come ai poeti
Le raccolte di versi sono andate quest’anno.
Come apri le vedute dalla finestra.
Ti chiudi il cappotto se c’è vento?
E i fiumi se piove si bagnano ancora
oppure prosciugati scorrono a ritroso?
E se ancora ti stupisci che il poeta W
scrive esattamente come il poeta A.
E che il signore con la camicia rossa ti parla.
E che anche due più due è uguale a due.
Scrivi come cammini adesso:
più prudente? più triste? col berretto?
Scrivi come in vita muori.
Aspetto la tua lettera. Lo sai, no?
E se saprò farlo
ti risponderò e in sogno te la darò.
Oppure vengo io. Oh, come vorrei farlo!
Ma non so che tempo farà.
1967
Perdonatemi…
Non rispondo, alle vostre lettere telefonate.
Ignoro amichevolmente.
Perdonatemi…
Sempre più mi affeziono a me stessa,
Mi ritiro nel profondo.
Non mi stupisce il popolo.
Non mi stupisce la folla.
Vittorie e sconfitte fanno tutt’uno.
Profitti e perdite fanno tutt’uno.
Nelle brughiere ammiro la farfalla.
Di notte nutrisco i pipistrelli.
Dalla cima del monte
osservo
l’ostrica del sole che tramonta.
Perdonatemi…
1986
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E tuttavia l’amore
Invecchiamo
io e la mia vettura.
Si spengono negli occhi le sperdute stelle.
Sorge la frode del sole
quando cerco di accendere il motore.
Ci osserva
la panchina vuota nel parco.
Ride di gusto l’istante.
Una bambina ruggine.
Si estinguono i diritti d’autore
Del tempo corrente.
Ci avviamo infine
Felici amanti.
Andiamo a 50 all’ora.
Comincia a cadere l’amore.
Pioggia sensuale.
2004
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Segreteria telefonica
Il vento si soffoca di foglie.
Tamburello autunnale della pioggia.
L’ultima combinazione
passa dalla mia parte.
Busso al buio.
Con la mano bagnata spingo il portone.
La chiave alleata della sera
gira nella serratura.
Mi aspetta
la segreteria telefonica.
Voce sciolta dal guinzaglio.
2004
Io
Io.
Numerologico uno.
Amica di giardinieri e pittori
che cela i ricordi
nel caricatore di un’arma da fuoco
torno alla via d’uscita.
E’ il 2003.
Dietro la parete un telequiz.
Eccesso di nulla.
Un nevrotico odore di basilico.
Nell’anticamera riappendo
La scialuppa di salvataggio.
Christoph P.
fotografo sensibile alla luce
mi fotografa.
2004
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Centrifuga
Innumerevoli sono i santi
da coprire ormai il cielo.
Compreremo ancora un Cristo di plastica.
L’acqua santa che la velina
del peccato assorbirà.
Ci osservano attentamente
i pensieri miscredenti.
L’amore converte.
La spensierata centrifuga spreme
da noi timide testimonianze.
Sì.
2004
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L’isola deserta
L’isola deserta
si separa dalla solitudine.
Impara le lingue straniere.
Parla pian piano come un uomo.
Comincia a capire la folla.
Robinson Crusoe
si è venduto in borsa.
Il pappagallo Polly
nel governo.
Sul disco rigido dell’erba
si registra
la natura morta
rimasta in vita.
Ringhia
il barbone rosa della réclame.
La coda di razza del marketing.
Il nostro indirizzo brilla nel buio.
Un brillante al dito dell’isola.
2008
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Ogni tanto
Ogni tanto tornano l’amore e
le cieche notti durante le quali
possiamo contare soltanto al tatto.
Ogni tanto lo stesso ristorante d’albergo.
La tavola foderata. Fuggito dall’aldilà
il respiro sul viso del cameriere.
Ogni tanto qualcuno fruga nelle tasche
della nostra morte. Nel timore che
grida come uccello nel turno di guardia.
Ogni tanto qualcuno simile a noi.
Nello stesso ristorante d’albergo.
Con lo stesso pallottoliere che
lo priva della ragione.
E con lo stesso amore
che paga la multa
per il superamento
dei lampi stessi.
2010
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Solitudine
La solitudine non ha corpo.
Neanche quando ci abbraccia.
E’ insidiosamente vuota.
Come scatola svuotata dei pensieri.
Volteggia su di noi
come un aereo da ricognizione.
Uscita salva per miracolo
da sotto le ruote dei morti
è ciò che non dovrebbe essere.
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Solitudine
La mia solitudine ha finito la Scuola dei più Bravi.
E’ puntuale e diligente.
Ha ricevuto medaglie e onorificenze.
La mia solitudine
è frequentata.
L’attraversano migliaia di lettori.
E’ annotata.
Cancellata.
E’ stanca di governare
come Federico il Grande.
Comincia ad avere i suoi allievi.
Timidi schiavi.
La mia solitudine è pubblica.
Giace sul fondo di una gabbia
con le remiganti del silenzio strappate.
(Versione di Paolo Statuti)
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Ewa Lipska, poetessa e pubblicista, è nata a Cracovia il 10 ottobre 1945. Nella stessa città si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti. Dal 1970 al 1980 responsabile del settore poesia della casa editrice Wydawnictwo Literackie. Dal 1995 al 1997 direttrice dell’Istituto Polacco di Vienna. Cofondatrice e redattrice di diverse riviste letterarie, tra cui il mensile “Pismo”. Vicepresidente del PEN Club polacco. Ha ricevuto molti prestigiosi premi nazionali e internazionali per la sua creazione letteraria. Le sue poesie sono state tradotte e pubblicate in quasi 40 lingue. Autrice di numerose raccolte poetiche, tra le ultime: “Ja” (Io, 2004), “Pogłos” (Rimbombo, 2010), per la quale ha ricevuto il premio “Gdynia”, e “Droga pani Schubert…” (Cara signora Schubert…, 2012). Ha scritto inoltre diversi testi poetici di canzoni di successo.
Per il suo anno di nascita e per quello del debutto, avvenuto nel 1967 con il volume “Wiersze” (Poesie), Ewa Lipska, che è indubbiamente una delle più importanti poetesse polacche contemporanee, appartiene al gruppo di poeti della “Nowa Fala”, in polacco “nuova ondata” o “nouvelle vague”, o detta anche “generazione ‘68”, vale a dire gli autori nati intorno alla metà degli anni ’40, come: Stanisław Barańczak, Adam Zagajewski, Ryszard Krynicki, Julian Kornhauser e Krzysztof Karasek (nato nel 1937).
La poetessa tuttavia rifiuta ogni appartenenza a qualsivoglia gruppo e da anni manifesta coerentemente la propria individualità creativa, sempre peculiare, come peculiari ed espressivi sono la sua dizione poetica, le metafore, la densità di significato, il paradosso. Qualcuno a tale proposito ha detto che la creazione di Ewa Lipska è nella poesia polacca contemporanea, quello che l’ablativo assoluto è nella sintassi latina, cioè un sintagma a sé stante.
La sua poesia si concentra sui sentimenti della sofferenza e della paura, sulla fragilità dell’esistenza condannata a morire. Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista scrive: “La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente”.
Principali raccolte di poesie
Poesie, 1967
Seconda raccolta di poesie, 1967
Terza raccolta di poesie, 1972
Quarta raccolta di poesie, 1974
Quinta raccolta di poesie, 1978
Qui non si tratta di morte, ma di bianco cordonetto, 1982
Deposito oscurità, 1985
Area di sosta limitata, 1990
Borsisti del tempo, 1994
Soci del piccolo mulino verde, 1996
Gente per principianti, 1997
Negozi di zoologia, 2001
Attenti al gradino, 2002
Io, 2004
Altrove, 2005
La scheggia, 2006
L’arancia di Newton, 2008
Rimbombo, 2010
Cara signora Schubert…, 2012
Le icone e le intuizioni violentemente irrazionali di Ewa Lipska, come le visioni di Francesca Dono o le scenografie oniriche di Giorgio Linguaglossa, sono canoe di lampi che attraversano l’oceano di tenebra del pensiero convenzionale, rivelandone inconsistenze e mistificazioni. Solo così, con tale profonda e radicale inversione di senso e prospettiva, si potrebbe risanare e rifondare il pensiero, salvando spiritualmente l’umanità ( come decidere di invertire la direzione della produzione, usando scienza e tecnologia per risanare la biomassa, per ripulire l’atmosfera e l’oceano ).
La vera evoluzione, anche in senso extra-letterario, presuppone l’ardua consapevolezza che ” Ciò che è stato compreso non esiste” ( Paul Eluard ), cioè rifondare radicalmente il pensiero, la relazione essere-linguaggio, come finora hanno fatto solo i poeti.
APOCALISSE
( con preghiere inaudite )
“ Il poeta, custode degli infiniti volti di tutto
ciò che vive.”
Renè Char
Credetemi ho visto Gesù era di nuovo in mezzo a noi ma un serpente verde-dollaro gli ha divorato il cuore è caduto ai piedi del Presidente l’ira del Padre ha squarciato il cielo sterminato tutte le anime sono rimasti solo morti viventi che ripetono sempre le stesse parole gli stessi gesti mangiano e copulano siamo noi credetemi ho visto la Madrina che piangeva e si svenava nel talamo violato
Siamo nella strettoia gialla nell’occhio del serpente il Patrigno di marmo ulula alla luna che noi gli apparteniamo
Nessuno vede l’ornitorinco di uranio che divora il Paradiso dobbiamo fermarlo
Ditemi cosa c’è dietro questa cascata di fanciulle quale Dittatore nasconde il sipario celeste perché dobbiamo finire nella scena morta
Il colletto gesuita mi soffoca spegnetelo
Setacciate l’afrore di serpente lì è svenuto l’amore con le dolcezze veneziane le ombre andaluse
Vi prego uccidete questa orribile Pausa il giardino scenderà tornerà la luce d’incanto vedrete il treno di miele turchino ci riporterà a casa
Per quanto riguarda l’impiego in poesia dei «frammenti», così frequenti nella poesia della «nuova ontologia estetica», ecco quanto scrive Mario Praz in ordine all’opera di esordio di Eliot:
«Nel 1922, in The Waste Land, Eliot aveva dato espressione al consapevole disorientamento di un’epoca che, iniziatasi colla prima guerra mondiale, può dirsi duri tuttora e non si saprebbe meglio definire che col titolo di un volume dell’Auden, The Age of Anxiety, l’epoca dell’ansia. The Waste Land chiudeva il suo barbarico edificio con alcuni frammenti di poeti del passato, vestigia di una nobile e secolare tradizione di cultura, e con la dichiarazione: “Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine“. The Waste Land voleva essere insomma un edificio di bassa epoca deliberatamente eretto sull’Ultima Thule del pensiero europeo, proprio al limite della desolazione incombente che minacciava di travolgere ogni traccia d’una cultura secolare».
Nel mondo post-metafisico dell’“organizzazione totale” fondata sulla tecnica, ogni cosa ha un posto definito, coincidente con la funzione strumentale assolta all’interno del sistema. Anche il linguaggio assolve questo compito, tecnicizzandosi. L’uomo interroga gli enti come oggetti esterni da cui determinare il senso dell’essere: il loro e il proprio. Ma la metafisica, così intesa, conduce all’oblio dell’essere, che si nasconde anziché rivelarsi, e all’utilizzo strumentale degli enti nell’orizzonte del mondo tecnicizzato. Anche l’uomo, segue la stessa sorte, diventa “ente”, oggetto, cosa, strumento. Il pensiero si riduce a servizio del sistema: strumento fra gli altri per la soluzione di problemi interni alla “totalità strumentale” in atto nelle società contemporanee. Occorre dunque ripristinare il contatto con le sorgenti dell’essere.
Lettera mai spedita a Ewa Lipska
L’Utopia
Cara Signora Lipska,
ogni Suo verso è una impronta digitale,
noi siamo i lettori delle Sue impronte.
Entrando nella Cripta della Signora Schubert
si udiva la Marcia di Radetzky
dalle finestre aperte della Villa dei Von Trotta.
Ma forse inciampiamo anche noi due
nella cava degli intrecci delle date.
Entriamo nella clinica della folla,
qualcuno vi guarisce, altri vi muoiono,
una Lavendelfrau offre a tutte le coppie
i suoi mazzetti di fiori di lavanda.
Lei chiede:«E l’utopia…?»
Un foulard-arcobaleno si avvolge
intorno al collo di Giorgio Linguaglossa
sotto il ritratto di Adelina Bloch-Bauer*,
la tela 138 per 138, il quadrato della Secessione.
«Già, i due amanti di Vienna fin de siécle,
la liaison arte-vita nei vortici di un valzer
come fra lui e me
parlando di avant-garde, di teorie freudiane,
di tracce antisemite già dalla Finis Austriae…»
*la Musa e amante di Klimt
gr
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Ottima la scelta dei testi di Ewa Lipska, ottime le traduzioni in italiano di Paolo Statuti.
Non avrei nulla da aggiungere alle ineccepibili tue osservazioni, Giorgio, sulle poesia di questa mia amata donna poeta. Personalmente la reputo grandissima , preferendola alla Szymborska . Mi affascina l’uso che sa fare della lingua , con la quale consente al suo pensiero di sdoppiarsi in significazioni ad esso sottostanti o sovrastanti e solo apparentemente lontane ( ben dette da te aporiche ) . E’, quella di Ewa Lipska, una poesia dove l’ambiguità è elemento fondativo, divenendo- in tal modo- concrezione dialettica di un processo di comprensione di ogni datità, che l’occhio della poeta riconosce illusoria . La parola di Ewa Lipska insidia il lettore, quasi lo sfida, con quel suo movimento dal fare ondeggiante , risultato di una sovrapposizione di piani semantici che irrompono in scena e si intersecano o si aggrovigliano, ma domandano a chi legge di essere interpretati e colti nel momento stesso in cui la illogica logicità dell’autrice ci rappresenta il mondo come epifania di un ordinato-disordine. E’ così raro, oggi, imbattersi in una forma-poesia così dinamica e così decisamente dialettica, nella ricerca di una sintesi oggettiva che qui l’autrice , ci spiega quanto sia poi irraggiungibile. Un saluto.
Ecco una mia poesia miracolosamente scampata alla devastazione dell’hacker nel mio computer:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/03/01/ewa-lipska-poesie-a-cura-di-paolo-statuti-con-il-punto-di-vista-di-giorgio-linguaglossanon-ce-piu-alcun-canone-da-mettere-in-discussione-loblio-della-verita-e-loblio-del/comment-page-1/#comment-54001
Dalla finestra entrava il vento del Nord
Un aquilone danzava in cielo con i corvi
i benigni amici dei cadaveri.
Dalla finestra aperta entra il vento del Nord
rimbalza sugli stipiti delle porte spalancate della casa veneziana
e si posa sulle mani di madreperla di mia madre.
Un bambino mette la mano nel primo cassetto
a destra…
il grammofono suona un quartetto di Mozart…
Il profilo di Enceladon mi osserva
dal cavalletto davanti alla finestra
il cammeo con il suo volto sul collo sembra oscillare…
Le legioni di Roma si preparano ad una nuova campagna:
Cartagine o il mare del Nord, fa lo stesso.
Io osservo il pittore fiammingo che dipinge il quadro
di Enceladon mentre ritrae il mio volto
in basso nella bandella di destra.
Devo partire: per il Nord o il Sud fa lo stesso.
Presto sarà inverno. L’esercito passerà i mesi invernali
nei quartieri d’inverno. «Sarmizegetusa è presa», scrivo a mia madre.
Nina Berberova scrive un racconto «Il lacché e la puttana»
io esco dalla vita ed entro nel racconto
e le chiedo: «Maestà, perché sono qui?»,
Kafka va a spasso con Madame Hanska per le vie di Praga,
il Signor Cogito sbatte la porta ed esce di scena
il romanzo della Berberova diventa una coppa di champagne,
Vivaldi è tornato a Venezia, abita con la sua sgualdrina
in un appartamento ammobiliato al fondaco del ponte di Rialto
non dipinge più le sue note sul pentagramma,
adesso gioca con i riccioli della sua amante.
Quando ritornerò, penso, ritroverò il quadro
di Enceladon, sul cavalletto, che mi aspetta,
sarà finito da tempo,
e i corvi saranno ancora là in alto insieme
agli aquiloni.
Ho un solo dubbio: se cambiare il verbo del primo verso dal passato «danzava», al presente «danza», oppure no. Vorrei conoscere il parere dei lettori, grazie.
Danza e non danzava. Eliminarei anche :entra e rimbalza.
Dalla finestra aperta il vento del Nord sugli stipiti delle porte. Una casa veneziana.
Non so se a te piace così.
per me danza l’aquilone. in generale preferisco l’incipit con l’azione al presente.
Un aquilone in cielo con corvi
benigni, amici dei cadaveri.
Decidere se si tratta di una narrazione oppure no; perché la narrazione richiede verbi e sortilegi di varia natura (danza-danzava), mentre l’immagine è immagine.
A mio avviso, il verbo va eliminato, senza porsi il problema : narrazione si o narrazione no. Siamo in poesia e qualche snellimento formale e strutturale ti è concesso.
appunto, dicevo
Perfetto, più o meno siamo tutti convinti, qui, che spesso i verbi sono di troppo, ma poi abbiamo bisogno anche di qualcuno che ce lo ricordi.
Preferisco “danzava”perchè suggerisce una qualche durata nel tempo,una qualunque fuga dall'”hic et nunc”,che ci vuole sempre ancorati a un banale presente.
“Non c’è più alcun canone da mettere in discussione”, nel caso della poetessa polacca Ewa Lipska, questa categorica affermazione non si pone affatto, essendo la sua poesia priva di qualsiasi “canone” e mancando di qualsiasi comparazione con se stessa. Il verso di questa poetessa è di certo singolare, come affermava il grande filosofo ateista e poeta Andrzej Nowicki, c he giustamente relegava la Nobel Szymborska a un posto di secondo piano se non addirittura al terzo piano. Quindi la Binetti non essendo una polonista, e di conseguenza slavista, per intuizione o sensazione femminile (oppure no?) coglie una verità ” singolare” che per Nowicki era una consapevolezza critica essendogli chiarissimo lo svolgersi della poesia polacca, e in più ne affermava l’originalità a causa della critica “comparata” di cui era maestro.
La “discussione” quindi linguaglossiana è quasi priva di senso, perché la poesia della Lipska sfugge per sua natura alla critica radicale polacca del dopoguerra, mentre fa ingresso trionfale affermando l’assenza di qualsiasi canone , ripeto, specificando per canone o canoni la sommatoria (la critica ufficiale) di una poesia inadatta al secolo successivo, e che il verso concettoso : “E che anche due più due è uguale a due” rende attuale, E allora non più “tre”, peggio “quattro”, meglio cinque, meglio ancora un numero indefinito…
Forse è il solo punto di partenza la poesia di questa Lipska, punto post-moderno e segno a cui non si può rinunciare, e che in qualche maniera annulla la mitopoiesi di Milosz e di altri poeti similari e di cui troppo è colmo il sacco del novecento polacco.
a.s.
Ringrazio tutti gli intervenuti per i consigli alla mia poesia, tutti pertinenti e tutti fondati, come è fondato il pensiero di Nunzia Binetti che vuole eliminati tutti i verbi per lasciare solo l’immagine… e ciò in linea con la procedura NOE; eppure condivido il pensiero di Anna Ventura la quale non disdegna il passato prossimo del verbo «danzava»… io sarei dell’opinione di lasciare il verbo al passato del primo verso perché collide con i verbi al presente del resto della poesia (in origine, cinque e più anni fa quando scrissi la poesia, avevo messo tutti i verbi al passato semplice, ma avevo sbagliato).
Condivido anche la notazione di Antonio Sagredo che per quanto riguarda la poesia di Ewa Lipska fa notare come la poetessa polacca scriva in un modo che non corrisponde a nessun modello, o canone o altro che dir si voglia… e questo è un fatto che investe tutta la poesia europea, chi ha del talento è portato naturalmente a saltare di netto i modelli e i mini canoni degli ultimi decenni che qui in Italia qualche sprovveduto sconsiderato piccolo maestro ha tentato di conculcare…
Sia chiaro, e lo scrivo per i lettori esterni che ci seguono da poco, che la nuova ontologia estetica non predica su nessun canone o modello, non esiste un modello di scrittura, esistono i grandi poeti, ed Ewa Lipska è una grande poetessa di certo, che scrive in modo personalissimo… eppure mi conforta l’idea che la Lipska scriva in un modo molto simile a quello che noi stiamo cercando di mettere in essere…
Grazie a tutti, sto riflettendo su tutti i vostri suggerimenti… in effetti il verbo al passato introduce un pendio elegiaco che è da fuggire come il diavolo in persona…
Torno a Ewa Lipska.
Benché la ermeneutica di Giorgio Linguaglossa sulle poesie dell’autrice di Cracovia sia esaustiva, completa, e con una cifra stilistica personale,
ove per cifra stilistica intendo il lessico e il tono che l’amico Linguaglossa adotta nella sua nota critica, lo stesso vorrei tentare di dare un mio contributo alla ricchezza del dibattito in corso.
Perseguo questo fine mettendo a frutto alcune riflessioni di Luigia Sorrentino, di Lorenzo Pompeo, di Marina Ciccarini, di Paolo Statuti e dello stesso Giorgio Linguaglossa nella riproposizione della prosa poetica forse più alta di Ewa Lipska: Il protagonista del romanzo.
Ewa Lipska
Il protagonista del romanzo
Cara signora Schubert, il protagonista del mio romanzo
trascina un baule. Nel baule ci sono la madre, le sorelle, la famiglia,
la guerra, la morte. Io non sono in grado di aiutarlo.
Si tira dietro quel baule per duecentocinquanta pagine.
Non si regge più in piedi. E quando finalmente esce dal romanzo,
viene derubato di tutto. Perde la madre,
le sorelle, la famiglia, la guerra, la morte. In un forum
su internet scrivono che gli sta bene.
Forse è un ebreo o un nano? I testimoni
affermano che taceranno su questo argomento.
(trad. di Marina Ciccarini)
Commento (di gino rago)
(Ewa Lipska, ovvero il trasferimento della memoria)
Direi che in questa prosa poetica si può parlare di una sorta di trasferimento della Memoria da un uomo solo a un intero popolo e dalla prosa alla poesia, introducendo l’idea di prosa poetica.*
Ewa Lipska in Il protagonista del romanzo racconta la storia di un uomo, di un uomo solo.
Quest’uomo trascina in un baule tutta la sua famiglia, la trascina come se fosse un corpo morto.
Dentro il baule la Lipska ha messo tutto l’orrore della Seconda Guerra Mondiale, tutte le catastrofi di interi popoli e anche la Shoah, la Catastrofe senza pari.
Sicché, tramite il dolore di un uomo solo, l’autrice magistralmente ci racconta il dolore di un intero popolo, il popolo polacco che, come fu anche per altri popoli europei, a quella tragedia ha dovuto assistere senza la possibilità reale di poterne concretamente deviare o interrompere il disastroso corso.
Ma proprio in Polonia, come tutti sappiamo dalla storia, negli anni hitleriani della Guerra si trovavano i più terribili campi di sterminio nazisti…
Per questo da grande poeta la Lipska in questa sua prosa poetica
fa ricorso al “trasferimento di memoria”.
Lo compie andando da un uomo solo a un popolo, da un popolo all’altro, da un confine all’altro, ma anche andando dai confini della prosa a quelli della poesia.
Lo fa nella riuscitissima forma epistolare in cui un uomo racconta ad una donna, forse austriaca, di certo la moglie di Schubert il grande musicista, la vicenda umana e la storia di un altro uomo, un ebreo, appunto, deriso su un social network. [ “Forse è un ebreo o un nano? I testimoni/ affermano che taceranno su questo argomento.”].
Dove risiede la grandezza del poeta di Cracovia?
Risiede nel fatto che in appena due versi, e all’interno di una poesia bustrofedica** in forma epistolare, la Lipska cala nel suo testo tutto l’antisemitismo che ancora alberga fra noi con testimoni che si avvalgono della facoltà di non rispondere…
E non voler testimoniare, oggi come allora, significa negare la verità crudele della storia con il rischio permanente di perpetrare il male, nel tempo e nello spazio.
Note
*Prosa poetica e poesia in prosa secondo uno studio di Roland Barthes
Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura, nel quale lo studioso utilizza le lettere A, B e C per rappresentare alcuni attributi del linguaggio, a sua detta decorativi, e che stanno a significare, rispettivamente, A il metro, B il ritmo e C il “rituale delle immagini”, cioè la sonorità e la forza di queste ultime. Costituisce, così, una formula secondo la quale:
poesia = prosa +A+B+C A= metro; B= ritmo; C= ‘rituale delle immagini’
Poesia= Prosa+ metro+ ritmo+ rituale delle immagini
Prosa = Poesia -A-B-C
Al medesimo gioco di rimbalzi tra forma e contenuto, a maggior ragione, sono sottoposte la poesia in prosa e la prosa poetica. Utilizzando lo schema barthesiano si potrebbe tentare di sintetizzare la differenza tra le due categorie nel modo seguente:
poesia in prosa = prosa -A+B+C
prosa poetica = poesia -A-B+C
La poesia in prosa, insomma, come la prosa poetica, non ha metro ma, al contrario di quest’ultima, ha ritmo (B) e una particolare densità (C) che endiadicamente sono in grado di sostenersi a vicenda.
(gino rago)
Caro Gino,
ho acquistato questa mattina l’edizione tradotta da Marina Ciccarini.
Alfonso Berardinelli
LA POESIA ITALIANA TRA GLI ANNI SETTANTA E OTTANTA
[…] Con Franco Fortini sembra concludersi una fase della poesia italiana che va dall’acquisizione delle poetiche simboliste all’autoriflessione politica della lirica come falsa libertà del soggetto.
La categoria di «sperimentalismo», elaborata da Pasolini alla metà degli anni Cinquanta, costituì un momento di sintesi carica di possibilità negli anni che vanno dall’esaurimento dell’engagement neorealistico e del montalismo all’avvento delle nuove avanguardie. Il luogo di elaborazione delle ipotesi «sperimentali» fu la rivista bolognese “Officina“, una piccola rivista artigianale, dal pubblico estremamente limitato, che uscì dal 1935 al 1958 a Bologna, diretta da Roberto Roversi, Franco Leonetti e dallo stesso Pasolini. In questi tre scrittori (anche Leonetti e Roversi, come Pasolini, sono poeti e autori di opere narrative e di assemblaggi autobiografico-saggistici) la scelta definibile come sperimentale corrisponde ad un atteggiamento di opposizione, di aggressività «angry», ma anche ad una situazione di isolamento politico, in parte subìto, e in parte voluto, e fonte di continue oscillazioni.
Della perpetua lotta e rincorsa fra una scrittura poetica disposta a qualsiasi avventura linguistica e funzionale, e una realtà odiata-amata in costante movimento, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) ha fatto il centro surriscaldato di tutta la sua opera. Un’opera che sembrava attentissima alla costruzione di un proprio programma strutturale e strategico, e che poi si è mostrata disposta ad andare letteralmente allo sbaraglio, rischiando tutto e tendenzialmente autodistruggendosi come tale, pur di mantenere la propria «presa diretta» sul presente. Perciò la passione e l’ideologia dello «sperimentare», attraverso la «disperata vitalità» della trascrizione improvvisata, non potevano che portare Pasolini alla fine di ogni «stile» (magari intesa come rinuncia e autospossessamento dell’autore incalzato dai suoi traumi e dalle sue disperazioni personali).
La versatilità creativa e intellettuale di Pasolini (se si considerano i limiti rimasti sostanzialmente inalterati della sua cultura: una cultura quasi esclusivamente, e anche limitatamente, letteraria, molto italiana e in fondo refrattaria alle influenze della maggiore cultura europea del novecento) ha dato vita ad un’opera eccezionalmente vasta: di narratore, di regista, di critico letterario (soprattutto con Passione e ideologia, 1960, e con Descrizioni di descrizioni, 1979, postumo), di poeta. E la poesia di Pasolini, dalle liriche dialettali e mistico-erotiche (La meglio gioventù, 1954); L’usignolo della Chiesa Cattolica, 1958) ai poemetti «civili» degli anni Cinquanta (Le ceneri di Gramsci, 1957; La religione del mio tempo, 1961) fino ai poemi-collages e agli articoli in versi (Poesia in forma di rosa, 1964; Trasumanar e organizzar, 1971) è documento di un trauma personale e storico; dovuto non solo al fallimento fatale di una ipertrofia narcisistica del soggetto-scrittore, ma anche alla involuzione della democrazia italiana, soffocata dalla meschinità conformistica della sua cultura politica e del suo ceto medio.
In Pasolini, del resto, e in toni di violenza nostalgia, parlava un’Italia non ancora «razionalizzata» dallo sviluppo industriale: un’Italia rurale e municipale, frammentata nei suoi localismi regionali, e perciò «umile», legata alle sue origini contadine e preborghesi. Questa aderenza biologica al suolo rurale, inteso come protezione materna e come nutrimento primordiale, è presente, sebbene in forme molto diverse, anche nella poesia di Andrea Zanzotto (1921-2012). Zanzotto ha sperimentato su una base di partenza diversa: ha rinnovato la transizione orfica ed ermetica, spingendo la sua ricerca di laboratorio fino alla dissociazione molecolare delle unità del linguaggio, giocando contemporaneamente sula massima astrazione stilistica (con recuperi petrarcheschi, bucolici, arcadici) e su uno smembramento analitico che risospinge il linguaggio alle soglie dell’afasia, verso le sillabazioni e i balbettamenti infantili. Qui l’atteggiamento «sperimentale» non solo tocca i suoi limiti estremi, ma nel momento in cui, Zanzotto riesce a scrivere una stupenda lirica carnevalesca e apocalittica, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio, mostra anche il rischio che l’esibizione del laboratorio rovesci il meraviglioso spettacolo linguistico nel grigiore del gratuito e dell’inerte.
Un caso a sé, in assoluto fra i più originali degli ultimi decenni, è quello di Giovanni Giudici (1924-2011). Con Giudici si misura la distanza che può separare un autentico scrittore in versi di questi anni da tutto quanto si è discusso, agitato e rimescolato nella cultura poetica italiana di circa mezzo secolo. Galleria ironica, funebre o sentimentale di personaggi in movimento, di situazioni grottesche e senza sbocco, in una inesausta recitazione stilistica, la poesia di Giudici (La vita in versi, 1965; Autobiologia, 1969; O Beatrice, 1972; Il male dei creditori, 1977) scavalca le scuole novecentesche, ritrova levità melodiche e attitudini realistiche settecentesche, attraversando Saba, Gozzano e Pascoli. Ma il suo protagonista è l’uomo medio dell’Italia impiegatizia, aziendale e democristiana…1]
1] A. Berardinelli La cultura del 900 Mondadori, vol. III 1981, pp. 350, 351, 352
Tre poesie di Ewa Lipska pubblicate nel post lette da Karl Esse (Sergio Carlacchiani)
è come il primo piede messo sulla spiaggia di un continente nuovo. La scoperta degli autori proposti da L’Ombra mi ha sconvolto, mi ha mandato in crisi: tutto quello che avevo scritto prima non è stato che povera commiserazione dei miei fallimenti… Invece, bisogna cercare una parola che lampeggi, che mandi un bagliore tremendo e stupefacente, se vogliamo che le splendide città rimbaudiane ci aprano le loro porte…